Donald Byrd – Black Byrd


Donald Byrd – Black Byrd

Donald Byrd era considerato a ragione uno dei più bravi tra i trombettisti hard bop dell’era post Clifford Brown, un solido stilista dal tono limpido, dall’articolazione musicale eccellente, dotato inoltre di un fraseggio e di una melodicità fuori dal comune. Anche per questo i puristi gridarono allo scandalo quando Donald Byrd, nel 1973, pubblicò Black Byrd. Era una manifesta e sacrilega incursione nel soul jazz da parte di uno dei più stimati trombettisti dell’ambiente. Byrd fu bollato come un traditore viste le sue credenziali hard bop, e di più, come un musicista finito perché svendutosi alle strategie commerciali a discapito del suo indubbio talento. Di fatto Black Byrd è diventato l’album più venduto della storia dell’etichetta Blu Note, ma va detto che l’avvicinamento del trombettista ad un genere più “contaminato” non ha scalfito affatto  le sue doti artistiche. Inoltre la ricerca di strade “diverse” non è certo un caso isolato e sporadico tra i musicisti del jazz mainstream. In realtà Black Byrd marca il momento in cui Byrd esce dal cono d’influenza (ingombrante per la verità) del suo maestro Miles Davis per trovare una propria voce nel campo della fusion. Mai prima di allora un musicista jazz aveva abbracciato il suono e lo stile del funk contemporaneo in un modo più completo di quanto lo abbia fatto Byrd con questo album. Nemmeno Davis stesso, il cui oscuro, complicato e cerebrale approccio al funk era in netto contrasto (si intenda “in contrasto” come opposto, differente e non come migliore o peggiore) con quello luminoso e ballabile proposto su Black Byrd. Per operare una tale rivoluzione nel suo modo di produrre musica, Donald Byrd dà libero sfogo alle direttive del produttore/arrangiatore/compositore Larry Mizell, affidandosi quasi completamente a lui, che confeziona di conseguenza una serie di pezzi ben focalizzati su uno stile melodico, spesso influenzato dalle orchestrazioni estese tipiche di Isaac Hayes e Curtis Mayfield. Se da un lato questo approccio annacqua ogni vicinanza residua con il jazz classico, quanto meno dal punto di vista ritmico, non si può nemmeno sostenere che questo sia davvero completamente assente. Di base le tracce sono costruite sui ritmi funk più semplici che Byrd abbia mai affrontato, e se le strutture musicali non sono così complesse come era il suo precedente materiale fusion, c’è da dire che sono così pervase di genuino e solare funky groove da risultare irresistibilmente gradevoli e trascinanti. Da qui probabilmente parte il successo di questo disco. Gli assoli di Byrd, spesso bellissimi, sono per lo più di stampo melodico e quasi cantabile, in modo che sia il soul jazz stesso a prendere il centro della scena. Certo l’onnipresente piano elettrico, o il flauto di Roger Glenn, o anche l’arrangiamento orchestrale uniformano l’impatto musicale su schemi molto diffusi in quel periodo, ma tutto questo è davvero anche parte del suo stesso fascino. Era una caratteristica peculiare di grande parte della musica degli anni ’70 ed in ultima analisi l’essere calati nella realtà del proprio tempo non può essere una colpa. Nel 1973 Black Byrd era lo stato dell’arte nel campo della fusion, ed ha fissato un nuovo standard per tutte le future generazioni di musicisti che hanno sperimentato il crossover tra il jazz, il soul, l’r&b, ed il pop. Donald Byrd continuerà a perfezionare il suo sound con altri album ugualmente essenziali come Street Lady ed il fantastico Places And Spaces, ma Black Byrd resta senza dubbio il suo più importante manifesto artistico e la sua firma  musicale più distintiva.