Al Jarreau – We Got By


Al Jarreau – We Got By

Al Jarreau possiede uno stile vocale unico: è da considerare uno dei tesori più preziosi del jazz. Le sue innovative acrobazie musicali fanno di lui uno degli artisti più interessanti ed acclamati dalla critica e dal pubblico del nostro tempo. Cinque Grammy Awards, decine di premi musicali internazionali e riconoscimenti in tutto il mondo oltre ad una serie impressionante di successi discografici lo hanno reso assai popolare. Non è sorprendente che Al abbia via via perfezionato la sua tecnica fino a  raggiungere quello stato dell’arte che è per tutti un punto di riferimento inimitabile. Un uomo abituato a primeggiare in nostro Al: nella scuola, nello sport e poi nell’arte. L'album We Got By è l’essenza della vera anima di Jarreau. Qui c’è  l'artista, ci sono le sue canzoni e c’è, nuda e cruda, la sua magica voce. La sua voce, appunto: non ancora influenzata dal successo, non già limitata dalle pressioni delle etichette discografiche pop e r&b, per il momento nemmeno caricata di grandiosi arrangiamenti, un vero strumento tra gli strumenti. We Got By è infatti il meno strutturato, il più diretto, il più melodicamente vario e  quello mediamente più orientato al jazz tra tutti i suoi lavori E’ forse il suo album che preferisco (escludendo quell’autentico capolavoro che è Jarreau del 1983). Poichè nasce meno commerciale di altre proposte di Al, il suono di We Got By rientra in una dimensione quasi “senza tempo” rispetto agli album successivi. Questo è un disco che potrebbe essere stato registrato da poco tempo (ma è del 1975) e se così fosse, sarebbe stato ben accolto dalla critica come un ritorno alle radici jazz / blues / gospel. Autentico, sincero e pieno di sentimento. Se qualcuno pensa che Al Jarreau sia solo  una meravigliosa voce dietro a tanti successi oppure la ciliegina sulla torta per le produzioni urban jazz-pop del pur bravissimo Jay Graydon, We Got By è un buon punto di partenza per farsi una opinione diversa. Al ha scritto tutte le canzoni di questo album e presentato delle storie che raccontano genuinamente l'amore e la quotidianità della vita. I testi sono a volte struggenti, a volte divertenti e abbastanza spesso non dipendono solo dalla scelta delle parole, ma anche dalle stesse intonazioni vocali di Al. Ogni occasione viene sfruttata per mostrare le sue impressionanti doti di cantante: a tratti è tradizionale, in altre circostanze mostra il suo personale ed unico stile. “Spirit”, "You Don’t See Me", "Letter Perfect", il fantastico "Sweet Potato Pie" e "Raggedy Ann" sono la vetrina del perfetto lavoro svolto da Al in ambito jazz-funk: brani con potenti linee di basso, piano elettrico e fiati che potrebbero essere quelli di James Brown o Sly Stone. Il funk è solo una parte di questa eterogenea raccolta di canzoni, ma va detto che quello che di questo stile emerge qui è assolutamente degno di nota. Canzoni come “We Got By”, "Lock All The Gates", "Susan’s Song" e "Alladin’s Lamp" mostrano invece l’altra faccia della medaglia dell’artista di Milwaukee: quella di un Al Jarreau molto più intimista, sostenuto garbatamente dalle note di un pianoforte e con un tono inaspettatamente cupo e spirituale. Su tutto si staglia la sua incredibile voce, un sorprendente otto volante fatto di bassi profondi che in un attimo possono arrivare agli acuti estremi con grande naturalezza; a questo si unisce una espressività ed una intonazione di rara bellezza. Anche se in seguito la sua musica è diventata molto più morbida e sicuramente più commerciale, ciò che Al Jarreau ha registrato da questo punto fino a metà degli anni '80 è stato sicuramente di grande impatto ed ha lasciato un segno importante nella musica. Su We Got By tutto scorre meravigliosamente fluido e vitale e alla fine lascia un messaggio positivo utile per arricchire ed illuminare di ottimismo chiunque lo ascolti.  Di sicuro è un’imperdibile testimonianza del grande talento di quel fantastico personaggio che risponde al nome di Al Jarreau.

Patrice Rushen – Prelusion / Before The Dawn


Patrice Rushen – Prelusion / Before The Dawn

Considerata una delle migliori pianiste jazz del mondo, Patrice Rushen ha suonato e prodotto musica per moltissimi artisti di fama mondiale come Stevie Wonder, Herbie Hancock, Prince, George Benson, Dianne Reeves solo per citarne alcuni. Ha partecipato ai più prestigiosi festival jazz in giro per il mondo ed ha inoltre organizzato e diretto eventi musicali di ogni tipo, oltre ad aver raccolto un’impressionante numero di riconoscimenti e premi. Patrice si è formata attraverso lo studio della musica classica, ma giovanissima è rimasta folgorata dal jazz che è diventato il suo vero riferimento e la sua grande passione per almeno parte (la prima) della sua lunga carriera. La Rushen ha debuttato discograficamente all'età di vent’anni per l’etichetta Prestige, lavorando con il  grande sassofonista Joe Henderson. Nonostante il primo amore fosse il jazz, analogamente ai suoi contemporanei George Duke e George Benson, Patrice Rushen ha compiuto però, ad un certo punto del suo cammino artistico, un importante passaggio dal serio e rispettato jazz ad un approccio diretto alla fusion prima, per poi addirittura abbracciare l’r&b e la disco. Ed ecco che, una tastierista incredibilmente talentuosa, con una voce un po’ limitata ma dolce e gradevole, nel giro di pochi anni, è riuscita a piazzare i suoi spensierati e sofisticati singoli di successo in cima a tutte le classifiche internazionali. Il più famoso di questi è stato “Forget Me Nots” che nel 1982 è diventato una delle hit più suonate dalle radio. Patrice Rushen ha continuato a pubblicare album r&b anche in seguito, in qualche caso con un maggiore tasso di impegno ed una maggiore vicinanza con la funk più impegnato in altre situazioni restando ben ancorata alla musica più facile. In realtà non ha mai completamente dimenticato il mondo del jazz, collaborando a più riprese con grandi esponenti di questo genere o creando piccoli gruppi come ad esempio “The Meeting” che pur, suonando musica parzialmente contaminata, restavano impegnati. Questo cd riunisce in un unico album le prime due registrazioni di Patrice Rushen come leader. Prelusion uscì nel 1974 e Before The Dawn nel 1975. I due lavori ci rivelano che la Rushen aveva effettivamente un grande potenziale per il futuro, una promessa che fu purtroppo disattesa, almeno per quello che riguarda il mondo del jazz, dato che la ragazza come detto si lanciò ben presto nel prosperoso mare della musica commerciale. I due dischi dell’esordio sono molto belli: la musica è essenzialmente un avanzato hard bop elettrico con dei sapienti tocchi di fusion, non c’è quasi alcuna indulgenza verso il soul o il pop, poiché evidentemente, a metà degli anni ’70, la ragazza era ancora lontana dalle tentazioni da hit parade. Infatti le composizioni sono piuttosto complesse ed articolate, mediamente molto lunghe, sorprendentemente mature per una musicista di soli vent’anni. La pianista si esibisce indifferentemente sia al piano elettrico sia su quello acustico. Certamente Patrice suona ispirandosi al maestro Herbie Hancock ma lo fa mettendo in mostra una grande personalità ed anche una certa dose di originalità. Su Prelusion, il più jazzistico dei due album, ad accompagnare la Rushen è un settetto che comprende il sassofonista Joe Henderson (il solista più importante), il trombettista Oscar Brashear, il trombonista George Bohanon e il flautista Hadley Caliman, oltre alla sezione ritmica composta da Leon "Ndugu" Chancler alla batteria e Tony Dumas al basso. Qui appare forte l’ispirazione agli ensemble estesi di Oliver Nelson o a talune produzioni della CTI dello stesso periodo. Before The Dawn ammicca più palesemente al fusion jazz e si avvale di un gruppo quasi identico (senza Henderson) con ospiti prestigiosi quali il flautista Hubert Laws, il chitarrista Lee Ritenour e anche Harvey Mason alla batteria. L’atmosfera richiama vagamente agli Headhunters di Hancock, con il funk che scorre copiosamente tra le tracce. La cantante Josie James compare su "What’s The Story" che è una sorta di anticipazione della direzione che Patrice Rushen avrebbe preso in futuro: cioè dritta verso l’r&b ed il soul, per quanto il brano sia ancora tutt’altro che orecchiabile.Nel complesso questi due lavori di debutto, che avrebbero dovuto rappresentare solo un brillante viatico per la carriera della giovane tastierista, sono di fatto l’inizio ed il punto più alto della sua carriera artistica. Nel 1976 uscirà Shout It Out e la svolta commerciale per quanto sofisticata, sarà sotto gli occhi di tutti; non ancora sfacciatamente disco-oriented, ma di sicuro tendenzialmente molto più easy. La transizione definitiva della Rushen a cantante soul e r&b avverrà con i successivi quattro album, registrati per la Elektra Records: il vasto successo di pubblico che otterranno sancirà in modo inequivocabile la sua consacrazione a star internazionale e l’affievolirsi progressivo ed inesorabile dell’impegno nel jazz.

Bobby Hutcherson - Happenings


Bobby Hutcherson - Happenings

Bobby Hutcherson può senza dubbio essere considerato uno dei più grandi vibrafonisti della storia del jazz. Egli ha interpretato il suo strumento in stretta relazione con il periodo in cui è emerso come musicista, nello stesso modo in cui Lionel Hampton ha fatto con lo swing o Milt Jackson con il be bop. Tuttavia Hutcherson non è noto come i suoi due citati predecessori, forse perché quando venne alla ribalta, agli inizi degli anni ’60, si dedicò all’esplorazione dei territori più cerebrali e meno accessibili del jazz, quelli che per intenderci spesso rasentarono l'avanguardia ed il free jazz. Insieme con Gary Burton, l'altra fondamentale figura del vibrafono degli anni '60, ha contribuito a modernizzare il suo strumento, ridefinendo il concetto stesso di cosa si può fare con esso, aprendo ancora di più le porte dell’espressività di una percussione che in fatto di sonorità è davvero unica. Lo ha fatto dal punto di vista sonoro ed anche tecnicamente, melodicamente, ed emotivamente. In questo lungo, laborioso e rivoluzionario processo, è diventato una delle voci fondamentali nel glorioso “roster” della magnifica etichetta Blue Note. Hutcherson a poco a poco convertì il suo stile in un più tradizionale post-bop modale che, anche se non avventuroso come suoi primi approcci, ha conservato intatta la sua reputazione di essere uno più avanzati maestri del vibrafono. Happenings fu registrato nel 1966, con il presupposto di elaborare un nuovo stile meno strutturalmente audace e avanguardista. Per questo motivo viene piuttosto ingiustamente considerato meno importante rispetto al lavoro che è venuto immediatamente prima (intitolato Components). A mio parere è invece un’opera di grande spessore sia dal punto di vista compositivo che per le singole prestazioni  dei musicisti coinvolti, che sono eccezionali. Happenings è anche il primo album a presentare Hutcherson come un classico solista che fronteggia una sezione ritmica jazz convenzionale. Nel dettaglio: Herbie Hancock al pianoforte, Bob Cranshaw al contrabbasso e Joe Chambers alla batteria. Tutti i brani dell’album sono dello stesso Bobby Hutcherson ad eccezione dello stupendo "Maiden Voyage" del pianista Herbie Hancock, e sono da inserire nel contesto di un moderno hard bop: sono combinati con sapienza in un indovinato mix di ballate, sapori latini, qualche spruzzata di avanguardia e classici e veloci up tempo. “Aquarian Moon” è l’apertura del disco e anche il punto culminante della musica espressa dal quartetto: Hutcherson fa viaggiare il suo vibrafono al top della tecnica e così fa anche il divino Hancock con il pianoforte nel suo scattante e suggestivo assolo. La resa di “Maiden Voyage”, che già di per se è un capolavoro a livello compositivo, è a dir poco sensazionale, il vibrafonista mette tutta la sua maestria operando di concerto con la proverbiale bravura di Herbie Hancock in un connubio tra i due strumenti che suona etereo ma al tempo stesso evocativo e pieno di passione. Da sottolineare il lavoro di batteria di Joe Chambers, metronomico ma così magicamente propulsivo, pur se giocato principalmente sui piatti. "When You Are Near Me" è una ballata di grande classe ed è senza dubbio il più forte tra gli originali di Hutcherson su Happenings, peccato duri meno di quattro minuti che è quasi una perversa beffa dato che la si vorrebbe di ben altra lunghezza per goderne appieno. “The Omen” ha invece velleità da musica d’avanguardia ed è senza dubbio l’esperimento meno riuscito di tutto l’album che invece è molto ben completato dalle altre tre tracce “Bouquet”, “Rojo” e “Head Start”. Brani che spaziano dalla lenta ballata al ritmo latino fino al tradizionale bop.  Raramente la storia del jazz può essere interpretata come una linea completamente diritta. Dopo gli iniziali e forse incompresi sforzi nel free jazz, Bobby Hutcherson, con il suo vibrafono, ha cambiato direzione e si è rivelato come un musicista straordinario ed un formidabile compositore proprio nel campo delle correnti più tradizionali della musica afro americana. Happenings e in seguito anche il favoloso “Oblique” sono delle testimonianze imperdibili di uno dei più sottovalutati talenti del jazz e meritano un ascolto attento ed una profonda rivalutazione complessiva.

Michael Brecker - Nearness of You: The Ballad Book


Michael Brecker - Nearness of You: The Ballad Book

Il fratello minore della famiglia Brecker, Michael con il suo sax tenore, ha dimostrato fin da giovanissimo di padroneggiare una notevolissima  capacità tecnica e di possedere una sonorità davvero unica. Non a caso in seguito diventerà uno dei musicisti più influenti del suo strumento dai tempi di Wayne Shorter. Nonostante il suo strabordante talento Michael Brecker ha però trascorso gran parte della sua carriera facendo il session man di alto livello per artisti pop, soul o r&b, inducendo così molti ascoltatori e parte della critica a trascurare le sue doti di jazzista e le sue capacità di improvvisazione. In realtà aveva un suono robusto e intenso, e alcune delle sue frasi alludevano a Coltrane. La sua lunga consuetudine con la musica pop, dove gli assoli devono essere concisi e incisivi, faceva sì che Brecker fosse soprattutto inimitabile nel concentrare le emozioni in spazi ristretti. Riusciva a dispiegare l'intera estensione dello strumento in unico assolo, dalle note più basse ai sovracuti, e a collegare concetti rarefatti a fraseggi ricchi e pieni di soul. Il suo stile musicale fu dunque influenzato anche dalle sue frequentazioni pop. Brecker, seguendo la lezione di Miles Davis e dei primi Weather Report, era un jazzista che vedeva il rock come una possibilità in più. Nulla di più lontano tuttavia dal suo ottavo album da solista, intitolato Nearness of You: The Ballad Book. Michael Brecker decise in questo caso di dare vita ad un progetto di jazz classico, privo di contaminazioni, tutto dedicato alle ballads. Per allestire l’album  mise insieme una band di all star composta da Herbie Hancock al pianoforte, Pat Metheny alla chitarra, Charlie Haden al basso, Jack DeJohnette alla batteria, e un ospite speciale come James Taylor, impiegato come cantante nella sua hit "Don’t Let Me Be Lonely Tonight" e nel classico  standard "Nearness of You". Brecker ha aggiornato queste grandi canzoni con una rilettura personale e l'aggiunta dell’ottima produzione di Pat Metheny, come ad esempio in "Midnight Mood" di Joe Zawinul e "My Ship" di Kurt Weill e Ira Gershwin. "Midnight Mood" è sensuale e seducente, con un fantastico assolo di pianoforte di Herbie Hancock nella sezione centrale. Hancock esalta la bellezza della melodia portata magnificamente dal tenore di Brecker. James Taylor si esibisce in una delle migliori interpretazioni della sua "Don’t Let Me Be Lonely Tonight", e questo è chiaramente dovuto all’accompagnamento degli eccellenti musicisti di questo cd. Pat Metheny eccelle come chitarrista di jazz con il suo arrangiamento di "Nascente", ispirato dal classico del 1948 ideato da Gil Evans per Miles Ahead di Miles Davis. “Chan’s Song” è suonata in modo dolcissimo e appassionato sia da Michael Brecker che da Pat Metheny. Brecker si propone come compositore nella bella “Incandescence” dimostrando di essere ben di più di un semplice per quanto bravissimo esecutore: c’è tutta l’essenza del jazz più genuino nel richiamo diretto alla tradizione ed alle sonorità di John Coltrane. “Something I See”, composta da Metheny prosegue sulla stessa direttrice, dispensando atmosfere da sofisticato night club ed esaltando il timbro pieno e scuro di un Michael in stato di grazia. Emozionante come sempre l’intervento dello stesso Pat con la sua magica chitarra. Su “My Ship” lascia senza parole il pianoforte di Herbie Hancock, ma non è da meno il sax del leader, capace ancora una volta di interpretare con grande trasporto un classico standard come questo. Irving Berlin è l’autore di una bellissima canzone come “Always” in cui la melodia immortale è terreno fertile per le improvvisazioni di tutta la band. Si chiude in bellezza con due brani scritti dai principali protagonisti di questa incisione: Michael Brecker e Pat Metheny. Sia “Seven Days” che “I Can See Your Dreams” sono due ballads contemporanee in grado di appagare pienamente l’orecchio dell’ascoltatore attento, riproponendo in chiave moderna i canoni estetici e le melodie tipiche degli standards degli anni 40.  E’ straordinaria la somiglianza, pur con le evidenti diversità, che questo progetto del 2001 riesce ad avere con il Coltraniano “Ballads” registrato circa 40 anni prima. Qui Michael Brecker ha chiaramente riconfermato il suo status di geniale interprete aggiungendo una notevole ispirazione in veste di autore. E’ stato uno dei migliori sassofonisti della scena jazz e questo suo “libro delle ballate” entra alla grande nel campionario della sua personale storia di eccellenza musicale ma anche in quella più vasta della tradizione jazzistica di tutti i tempi. La sua prematura scomparsa avvenuta nel 2007 ha lasciato un enorme vuoto e oltre alle sue purtroppo non numerose incisioni ci resta il rammarico di non poterlo mai più ascoltare dal vivo, ne il piacere di scoprire cosa avrebbe potuto proporci negli anni a venire. Dobbiamo necessariamente accontentarci della grande bellezza di album come questo Nearness of You: The Ballad Book.

Randy Brecker – Randy In Brasil


Randy Brecker – Randy In Brasil

Randy Brecker, insieme al fratello sassofonista Michael, è considerato uno dei migliori trombettisti/flicornisti sulla piazza da moltissimi anni. Talento indiscusso, tecnica sopraffina, una grande versatilità unita ad una continua ricerca nel campo di ogni genere di musica (ma soprattutto nel jazz) lo hanno consacrato come uno dei mostri sacri del suo strumento. Esplorando ogni corrente artistica inclusa la fusion, l’r&b, il rock ed il pop non poteva farsi sfuggire l’occasione di accostare la sua tromba anche al Brasile ed alla bossa nova. Ecco allora che nel 2006 è volato in Brasile e, in una settimana, ha registrato Randy  in Brasil, un album interamente dedicato ai colori della musica brasiliana che è stato prodotto da Ruriá Duprat. Ne è uscito un bellissimo disco, tra i migliori della vasta produzione di Randy realizzato con la collaborazione di artisti locali di ottima reputazione come Robertinho Silva, Paulo Calazans, André Mehmari, Teco Cardoso, Gilson Penranzzetta, Sizão Machado, Ricardo Silveira, João Parahyba, Rogerio  e Edú Ribeiro. Per quanto sia fortemente influenzato dal jazz contemporaneo, è pur sempre intriso dell’intenso sapore carioca, dove samba e bossa nova sono le strade maestre che percorrono tutto il lavoro. Un album che fonde l’etnica esuberanza brasileira con un vena di funk mai troppo intrusivo. Tutto questo attraverso una spiccata liricità,  degli arrangiamenti contemporanei, e una serie di brani molto belli. Il samba si presenta subito con il brano di apertura, "Pedro Brasil": la chitarra acustica pizzicata di Silveira detta con insistenza il ritmo, su cui vari strumenti a percussione via via si manifestano e la tromba di Brecker espone magnificamente il tema. L'effetto è in qualche modo simile a certe escursioni brasilianeggianti di Pat Metheny. Altri punti forti sono "Me Leve": dall’atmosfera funk latineggiante, con le tastiere, il sax soprano e l’immancabile tromba sugli scudi, più un bell’intervento di chitarra elettrica. Strano, insolitamente complesso è invece "Malasia", caratterizzato da un bel lavoro al flauto di Cardoso e dall’assolo di Brecker davvero atmosferico e sognante. "Sambop" è esattamente quello che pretende di essere, dato il titolo, con un tempo sbarazzino, una struttura armonica post-bop, ma soprattutto spirito carioca sparato a profusione nelle orecchie dell’ascoltatore. “Olhos Puxados” sembra il manifesto della bossa nova, e qui il magico flicorno di Brecker regala momenti di rotondità e morbidezza incomparabili. La splendida e enigmatica "Fazenda Hora" con la sua melodia spagnola, viene interpretata con il giusto calore da Randy che si concede un momento intimo e riflessivo. Ma c'è un'eccezione che inopinatamente chiude l’album, un brano che semplicemente non ha quasi nessun legame con il resto del lavoro. Il jazz viene lasciato ai margini su "Aiaiai di Ivan Lins   e così manca la bella sezione ritmica brasiliana presente in tutti gli altri brani. Sostituita da batteria programmata, percussioni elettroniche e basso synth. Una scelta sbagliata che potrebbe lasciare una falsa impressione di un disco che invece è di fatto estremamente lucido e coerente. Detto questo, nulla di Randy In Brasil suona innaturale, tutto è perfettamente calibrato, tutto suona caldo e sincero. E’ un album che si rivolge al mercato del jazz contemporaneo, ma è molto appagante su molti altri livelli. Potranno apprezzarlo gli amanti del sound brasiliano, sarà gradito agli appassionati di fusion, non sarà disdegnato nemmeno da chi lo volesse utilizzare come piacevole sottofondo. C’è da essere molto soddisfatti di questa sorprendente aggiunta al vasto catalogo di Randy Brecker, una discografia variegata ed  in continua espansione quella del trombettista di Cheltenham, che ci ha spesso regalato momenti di grande emozione e qualità.

The Brecker Brothers - The Brecker Bros.


The Brecker Brothers - The Brecker Bros.

Prendete due fratelli, uno trombettista e l’altro sassofonista, entrambe dotati di un talento non comune, di una incredibile quanto poliedrica tecnica e di una curiosità musicale spiccatissima. Ora immaginateli come due dei session man più richiesti dai colleghi jazzisti ma anche da moltissime star del pop. E per finire pensate a cosa potrebbe essere un duo fusion jazz prodotto, arrangiato e suonato da due tali fenomeni. Avete davanti a voi i Brecker Brothers: Randy e Michael Brecker. The Brecker Bros. (Arista Records, 1975) è il loro debutto discografico, un album che  potrebbe essere un esordio quasi perfetto per qualsiasi band, a prescindere dal genere suonato. Buona parte, se non tutti i segni distintivi del sound del duo di fratelli più famoso del jazz contemporaneo sono qui già ben delineati. Ad esempio il fortissimo impatto dei fiati (a tre voci con l’aggiunta del sax alto di David Sanborn), la chitarra e le tastiere a sostegno in grado di fornire con creatività ulteriori contrappunti ed un incrollabile, gagliardo groove sviluppato dal bassista e batterista uniti in un sodalizio efficacissimo. Questa è musica fusion d.o.c. ma una tale perfezione non poteva che provenire da un collettivo con una solida preparazione nella tradizione jazz. E quando si tratta di assoli, al di là del virtuosismo intrinseco di tutti i soggetti coinvolti, ci troviamo al cospetto di una band veramente elettrica ed esaltante che compie un’inebriante viaggio nell’esplorazione della melodia e del suono. Già con le prime note appare chiara la personalità di Michael Brecker: lui è già una forza con cui fare i conti (qui aveva 26 anni); un musicista che influenzerà schiere di future generazioni di specialisti del sax. Il fratello “piccolo” dimostra subito una straordinaria capacità di navigare dentro ogni forma espressiva con un incredibile aplomb in un crescendo di maturazione artistica che non conoscerà più soste. E se Michael, in ultima analisi, è emerso come il più carismatico dei fratelli, è giusto sottolineare quanto il maggiore, Randy Brecker, con la sua tromba, abbia nei decenni successivi dimostrato di essere un artista a tutto tondo dal tratto altrettanto distintivo e forse ancor più diversificato. Inoltre è proprio Randy che ha prodotto il disco e ha contribuito alla  composizione della maggior parte della musica su The Brecker Bros, un plusvalore che non va assolutamente sottovalutato. L’album è potente e molto solido: non ci sono punti deboli nelle nove tracce che lo compongono. "Some Skunk Funk" e “Sponge” sono i due brani d’apertura e raccontano da subito la storia di un lavoro di purissimo jazz funk coinvolgente e pieno di energia positiva. Un vero paradigma di come dovrebbe essere la fusion di alto livello. Ma non è da meno il programma che segue: “A Creature Of Many Faces” ad esempio consente ai due fratelli di confrontarsi con i rispettivi assoli con risultati di assoluto valore, allo stesso modo del conclusivo e trascinante D.B.B. Il resto della band è di una categoria che non esiterei “fuori serie”: Don Grolnick alle tastiere, Harvey Mason alla batteria, Will Lee al basso, Ralph McDonald alle percussioni, Bob Mann alla chitarra e David Sanborn a completare il trio dei fiati. Tutti dispensano a piene mani talento ed esperienza al servizio dell’ottimo risultato finale. I fratelli Brecker hanno pubblicato altri otto album nel corso degli anni, con alterni risultati e probabilmente non sono più riusciti ad eguagliare il livello raggiunto con il loro formidabile debutto. Le carriere dei due leader sono andate avanti anche come solisti portando ad entrambe la fama di essere tra i migliori strumentisti al mondo per molti anni consecutivi. Il sodalizio famigliare è stato invece interrotto dalla scomparsa del sassofonista Michael avvenuta nel 2007 in seguito alla leucemia. Una perdita che ha lasciato un vuoto incolmabile nella comunità del jazz e della musica tutta. Randy continua la sua attività di solista ed ha anzi recentemente organizzato una riunione per rendere il giusto tributo alla musica dei Brecker Bros. Forse la sua creatura più amata.

Tarika Blue – The Very Best Of Tarika Blue


Tarika Blue – The Very Best Of Tarika Blue

Tarika Blue: un nome enigmatico e sconosciuto (e nemmeno troppo indovinato...). Erano un gruppo jazz fusion che ha avuto un piccolo seguito (per lo più sulla costa orientale degli USA) a metà degli anni '70. Guidati dal session man newyorkese Phil Clendeninn, i Tarika Blue hanno sviluppato uno stile musicale ricco di  richiami jazz e soul, funk e pop ma anche cosmico e mistico. Clendeninn era affascinato  dai mostri sacri della composizione modale post-bop come John Coltrane, McCoy Tyner, Pharoah Sanders, Charles Lloyd e Yusef Lateef. Una passione che in qualche misura accomuna il suono dei Tarika Blue a quello di Lonnie Liston Smith & The Cosmic Echoes, e non a caso infatti, Smith e Clendeninn sono entrambi pianisti/tastieristi che sono stati influenzati dal modo di suonare di McCoy Tyner. Tuttavia sia l’uno che l’altro non erano dei puristi del jazz ed entrambi scelsero di utilizzare prevalentemente strumenti elettrici e di dare libero sfogo alle contaminazioni tra generi diversi. I Tarika Blue, ben consapevoli delle strade che anche il jazz stesso aveva intrapreso in quel contesto storico, scelsero la strada di proporre dei brani strumentali jazz fusion articolati e complessi ma certo anche piuttosto accessibili. L'album in oggetto non è altro che la combinazione delle sole due testimonianze discografiche che il gruppo ha lasciato: Tarika Blue e The Blue Path. Il primo era completamente strumentale, il secondo introdusse alcuni brani cantati; non registrarono mai un terzo lavoro e dopo poco tempo si sciolsero. L’atmosfera generale è brillante e funky, un po’ sul genere dei Crusaders e naturalmente affine a quella proposta da Lonnie Liston Smith. Per tutti gli appassionati di piano elettrico è importante sapere che il mitico Fender Rhodes è protagonista in molte tracce, così come altre tastiere. La chitarra elettrica stridente di Ryo Kawasaki dona un tocco di aggressività, ma sa essere anche leggera e raffinata, ed i sax incisivi di Marvin Blackman e Justo Almario garantiscono il giusto sapore jazz a questo interessante gruppo. La contaminazione tra jazz e funk è evidente, ma non è affatto banalmente commerciale cosicchè le tredici tracce suonano ricche di interessanti suggestioni e di momenti estremamente godibili di pura vintage fusion. Ad esempio “Blue Neptune” è un brano figlio della sua epoca, caratterizzato da sonorità cosmiche e molto evocative. “Charlie” ha un tono più funky disco suggerito dalla batteria scandita e dalla melodia che a tratti ricorda i pezzi dei giapponesi Casiopea (i quali devono aver ascoltato ed essersi ispirati ai Tarika Blue). Si prosegue con “Downtown Sound” che invece appare colorato da una sfumata atmosfera latina e dove si mette in luce il chitarrista di origine giapponese Ryo Kawasaki con un bell’assolo. “Dreamflower” è probabilmente il pezzo più significativo dell’album: morbida e suadente ballata dall’andamento rilassato, si avvale ancora una volta di un sofisticato assolo di sax e di un sinuoso basso che disegna linee potenti lungo tutta la lunghezza del brano. “Jimi” nasce tra le dita della chiatarra elettrica di Kawasaki, con un andamento da progressive rock che intriga subito. Il primo degli interventi vocali si trova su “Love It”,  canzone che probabilmente sarebbe stata meglio se lasciata solo strumentale e dove è il piano elettrico a mostrarsi ancora protagonista. La replica viene data subito dopo in “My Love Is So Fine” che non fa che confermare la sensazione precedente e cioè che le parti strumentali sono molto meglio di quelle cantate. Inusuale per i Tarika Blue l’uso, per una volta, del piano acustico. Jazz rock classico e di ottimo livello quello offerto in “Revelation” che anzi a tratti lascia intendere quasi un ammiccamento ad una specie di hard bop elettrico, fantastico l’assolo di rhodes e notevole l’intervento al sax tenore di Justo Almario. L’andamento decisamente jazzistico è ripetuto nella successiva “Sun Thru Winter” che è pezzo dalla ritmica intricatissima e caratterizzato dal positivo protagonismo di sax e chitarra. Si torna in tema cosmic funk con “Sunshower”, tra echi dei “Return to Forever”, il Santana più jazzistico e Lonnie Liston Smith. Un energico brano come "Things Spring" suona divertente e scanzonato, con il suo bel sax soprano in evidenza ed una bella ritmica vivace. Fino all’avvento del rhodes che s’impone all’attenzione per la qualità dell’assolo del leader Phil Clendeninn. La raccolta si chiude con altri due numeri cantati, sui quali valgono le considerazioni fatte precedentemente e cioè che i Tarika Blue danno decisamente il meglio di loro stessi nei numeri strumentali e comunque all’interno dei brani vocali sono le sezioni suonate quelle che pesano positivamente sul giudizio. Una curiosità riguardo a questo misterioso gruppo è che la cantante Eryka Badu nel 2001 ha utilizzato il brano "Dreamflower", (di cui parlo sopra)tratto proprio dal debutto discografico della band di New York, per confezionare "Didn't Cha Know" che divenne una hit e fu nominata ai Grammy Awards come miglior canzone r&b dell’anno. In conclusione i Tarika Blue e i loro due album sono una positiva e piacevole sorpresa, la musica espressa dalla band di Phil Clendeninn è complessa ed affascinante ma resta pienamente godibile. Si avverte un profondo legame tra la loro proposta e l’epoca nella quale fu composta e suonata (la metà degli anni ’70). Forse non è necessario conoscere tutta la storia per godere di questo piacevole tuffo nel passato, ma di sicuro aggiunge un po’ di colore a tutta l'esperienza di ascolto.

Freddie Hubbard – Red Clay


Freddie Hubbard – Red Clay

Uno dei più grandi trombettisti jazz di tutti i tempi, Freddie Hubbard.  Il musicista di Indianpolis ha forgiato il suo suono nella scia della tradizione di maestri come Clifford Brown e Lee Morgan, e dai primi anni '70, è stato indubbiamente uno dei battistrada più significativi del jazz. Tuttavia, una serie di album palesemente commerciali pubblicati più avanti nel decennio hanno danneggiato la sua reputazione e proprio quando Hubbard, nei primi anni '90, (con la morte di Dizzy Gillespie e Miles Davis), sembrava potersi definitivamente prendere il ruolo di maestro veterano della tromba, la salute ha cominciato a dargli gravi problemi. Fu praticamente obbligato ad abbandonare il suo amato strumento per dedicarsi, con molta parsimonia, al solo flicorno. Questo importante album del 1972, Red Clay, può essere considerato il momento più bello di Freddie Hubbard come leader, in quanto incarna perfettamente la sua dirompente personalità artistica  e mette in risalto tutti i suoi punti di forza come compositore, solista e frontman. Su Red Clay Hubbard combina il glorioso passato hard bop con le innovazioni degli anni ‘60, e rilegge il tutto attraverso la modernità dell’elettro fusion funk dei '70s. Questa sessione vede il trombettista in compagnia di autentici giganti come il sassofonista Joe Henderson, il pianista Herbie Hancock, il bassista Ron Carter e il batterista Lenny White: praticamente un super gruppo. Le cinque composizioni di Hubbard provengono tutte dal territorio della cultura blues, sono splendidi retaggi che si innestano su delle moderne strutture funky hard bop degne della migliore tradizione jazzistica. Su di essa si stratificano avvalendosi anche delle nuove e calde tendenze del soul jazz. La title track “Red Clay” è un brano di oltre 12 minuti introdotta da un lacerante urlo di sax e tromba che di seguito prende un ritmo 4/4 sul quale Hubbard prima, Hancock ed il suo rhodes dopo ed infine Henderson con il suo sax inanellano una splendida e suggestiva sequenza di assoli. Una sorta di vero e proprio manifesto programmatico. "Delphia" inizia come una ballata dalle lente e morbide linee di flicorno per poi aprirsi in un mid-tempo, con un inusuale organo hammond a sostegno, ed infine si snoda nei meandri tenebrosi del blues. Il brano forse più rappresentativo di questo album però è "The Intrepid Fox" con la sua apertura alla maniera di Miles Davis  e un Freddie Hubbard che nuota perfettamente a suo agio nel mare magnum delle muscolari e complesse architetture dell’hard bop. Suona splendente il lavoro in background del divino Herbie Hancock al piano elettrico così come straordinario è il suo assolo. Iconici infine Hubbard e Henderson nel loro gioco di sfida tra tromba e sax nel quale su tutto vincono il talento ed il cuore. La ristampa del cd prevede un brano aggiuntivo che è la versione live della title track: un ottimo modo per comprendere quanto i musicisti di questo quintetto di star fossero al loro meglio anche dal vivo. In alcuni passaggi non mancano echi al limite del free jazz, a testimonianza di una grande libertà espressiva e dell’ambiziosa integrità musicale di Freddie Hubbard, che qui nulla concede alle tentazioni commerciali. Attenzione: sarà anche elettrico, contaminato, fusion quanto si vuole, ma questo è un classico del jazz, giù il cappello. Red clay è un grande album. E Freddie Hubbard è stato un grandissimo maestro della tromba e del flicorno, impossibile negare l’evidenza.

Donald Byrd – Black Byrd


Donald Byrd – Black Byrd

Donald Byrd era considerato a ragione uno dei più bravi tra i trombettisti hard bop dell’era post Clifford Brown, un solido stilista dal tono limpido, dall’articolazione musicale eccellente, dotato inoltre di un fraseggio e di una melodicità fuori dal comune. Anche per questo i puristi gridarono allo scandalo quando Donald Byrd, nel 1973, pubblicò Black Byrd. Era una manifesta e sacrilega incursione nel soul jazz da parte di uno dei più stimati trombettisti dell’ambiente. Byrd fu bollato come un traditore viste le sue credenziali hard bop, e di più, come un musicista finito perché svendutosi alle strategie commerciali a discapito del suo indubbio talento. Di fatto Black Byrd è diventato l’album più venduto della storia dell’etichetta Blu Note, ma va detto che l’avvicinamento del trombettista ad un genere più “contaminato” non ha scalfito affatto  le sue doti artistiche. Inoltre la ricerca di strade “diverse” non è certo un caso isolato e sporadico tra i musicisti del jazz mainstream. In realtà Black Byrd marca il momento in cui Byrd esce dal cono d’influenza (ingombrante per la verità) del suo maestro Miles Davis per trovare una propria voce nel campo della fusion. Mai prima di allora un musicista jazz aveva abbracciato il suono e lo stile del funk contemporaneo in un modo più completo di quanto lo abbia fatto Byrd con questo album. Nemmeno Davis stesso, il cui oscuro, complicato e cerebrale approccio al funk era in netto contrasto (si intenda “in contrasto” come opposto, differente e non come migliore o peggiore) con quello luminoso e ballabile proposto su Black Byrd. Per operare una tale rivoluzione nel suo modo di produrre musica, Donald Byrd dà libero sfogo alle direttive del produttore/arrangiatore/compositore Larry Mizell, affidandosi quasi completamente a lui, che confeziona di conseguenza una serie di pezzi ben focalizzati su uno stile melodico, spesso influenzato dalle orchestrazioni estese tipiche di Isaac Hayes e Curtis Mayfield. Se da un lato questo approccio annacqua ogni vicinanza residua con il jazz classico, quanto meno dal punto di vista ritmico, non si può nemmeno sostenere che questo sia davvero completamente assente. Di base le tracce sono costruite sui ritmi funk più semplici che Byrd abbia mai affrontato, e se le strutture musicali non sono così complesse come era il suo precedente materiale fusion, c’è da dire che sono così pervase di genuino e solare funky groove da risultare irresistibilmente gradevoli e trascinanti. Da qui probabilmente parte il successo di questo disco. Gli assoli di Byrd, spesso bellissimi, sono per lo più di stampo melodico e quasi cantabile, in modo che sia il soul jazz stesso a prendere il centro della scena. Certo l’onnipresente piano elettrico, o il flauto di Roger Glenn, o anche l’arrangiamento orchestrale uniformano l’impatto musicale su schemi molto diffusi in quel periodo, ma tutto questo è davvero anche parte del suo stesso fascino. Era una caratteristica peculiare di grande parte della musica degli anni ’70 ed in ultima analisi l’essere calati nella realtà del proprio tempo non può essere una colpa. Nel 1973 Black Byrd era lo stato dell’arte nel campo della fusion, ed ha fissato un nuovo standard per tutte le future generazioni di musicisti che hanno sperimentato il crossover tra il jazz, il soul, l’r&b, ed il pop. Donald Byrd continuerà a perfezionare il suo sound con altri album ugualmente essenziali come Street Lady ed il fantastico Places And Spaces, ma Black Byrd resta senza dubbio il suo più importante manifesto artistico e la sua firma  musicale più distintiva.

Eumir Deodato – Deodato 2


Eumir Deodato – Deodato 2

Eumir Deodato de Almeida è nato a Rio de Janeiro il 22 giugno del 1942 ed è un pianista, compositore, arrangiatore e produttore discografico brasiliano di origini italiane. Premiato con il Grammy Award, è principalmente impegnato nel genere jazz ma è storicamente conosciuto per le eclettiche fusioni tra big band e gruppi jazz oltre a quelle con diversi esponenti della scena pop, rock, R&B/funk, latina e brasiliana. Fondamentalmente la sua musica può essere considerata una sorta di pop/jazz o crossover. Deodato, dopo una lunga gavetta in Brasile, si guadagnò un’ottima reputazione lavorando come arrangiatore per conto di grandi artisti locali come Antonio Carlo Jobim e internazionali quali Frank Sinatra o Wes Montgomery. Approdato negli States in pianta stabile all’inizio degli anni ’70, fu ingaggiato da Creed Taylor per la sua scuderia CTI. Questo fu il vero inizio della sua notorietà internazionale, che conobbe l’apice con l’uscita dei primi 2 album: Prelude e Deodato 2. Il debutto per la CTI,  Prelude, ha decretato il successo quasi immediato dell’artista di Rio, rendendolo repentinamente non solo un vero e proprio guru della musica funky fusion, ma anche una star internazionale.  Il motivo principale fu una particolare e spiazzante cover  in versione funky groove di "Così parlò Zarathustra", il celeberrimo tema classico usato da Stanley Kubrick per lo storico film 2001: Odissea nello spazio. Il brano, a dispetto del fatto di non essere esattamente una canzoncina di facile ascolto, finì in tutte le classifiche mondiali, compresa la hit parade italiana, tra un Battisti e un Baglioni, tra Mia Martini e Elton John… Qualcosa di inimmaginabile al giorno d’oggi.  In Deodato 2, il compositore e arrangiatore brasiliano si immerge ancora nella formula della fusion, questa volta più riccamente condita di funk. Ne esce con un disco più completo e consistente rispetto al suo predecessore. Arrangiato, diretto, e suonato da Deodato stesso e non dagli specialisti tradizionali di casa CTI, Don Sebesky o Bob James, il maestro ha prima di tutto messo insieme un orchestra di musicisti esperti nel campo del jazz rock tra cui il batterista Billy Cobham, il bassista Stanley Clarke, e il flautista Hubert Laws, senza dimenticare l’eclettico John Tropea alla chitarra. È presente inoltre un vera e propria orchestra allargata che comprende ottoni, legni, ed archi. Tra questi il trombettista Jon Faddis ed il corno francese di Jim Buffington. L’album prende il via con "Super Strut", ed è un grande inizio. Sono subito gli accordi di piano elettrico di Deodato ad aprire le danze. La sua caratteristica percussività delinea il groove, dove la chitarra ritmica, il basso e la batteria sincopata di Cobham trasformano questo quattro quarti in un’incredibile ed esplosiva orgia jazz funky. Il prolungato assolo di Deodato è un pezzo di bravura che farà scuola.  Dopo un inizio tanto roboante segue una rilettura molto personale ma comunque meravigliosa della "Rhapsody in Blue" di Gershwin. E’ interessante il lavoro fatto sull’arrangiamento: da un brano quasi classico riesce ad estrarre un fantastico funky groove . Ancora una volta il lavoro di Rhodes di Deodato non perde colpi ed anzi si tira dietro la sezione ritmica per il fraseggio dei fiati e degli archi. La rilettura di "Nights in White Satin" dei Moody Blues è un po’ meno felice delle altre cover di Deodato, forse un po’ troppo sopra le righe. "Pavane for a Dead Princess” è un brano di musica classica di Ravel, ma è francamente un filo noiosa. Sono questi due i pezzi meno riusciti dell’album. Album che si chiude ufficialmente con "Skyscrapers", bellissimo, uno dei capolavori del pianista brasiliano: un altro gioiello di jazz-rock dal caratteristico andamento up-beat introdotto dal pulsante basso di Stanley Clarke e poi meravigliosamente completato da Deodato con la sue tastiere in costante duello con la chitarra di Tropea. Ricchissimo di straripante e contagiosa energia mette in risalto anche l’orchestrazione satura di fiati ed archi. Dicevo che il disco originale finiva con Skycrapers, ma la versione rimasterizzata su cd include tre tracce bonus che migliorano la qualità assoluta e portano la durata ad un livello accettabile. Sono un pezzo latin-bossa, "Latin Flute" piuttosto interessante soprattutto per l’assolo di piano elettrico. Quindi troviamo “Venus” che è invece stucchevole e priva di ritmo.  Il terzo brano aggiuntivo è una cover di "Do It Again” degli "Steely Dan caratterizzata dalla chitarra wah wah suonata in controtempo da John Tropea che poi piazza la sua zampata con un suo personale e bellissimo assolo. Si tratta di una riproposizione del celeberrimo classico del duo Fagen/Becker che risulta particolarmente riuscita; perché questo numero non sia stato inserito direttamente nell'album originale è un vero mistero. Anzi mi permetto di dire che se un disco come Deodato 2 fosse uscito con al suo interno anche due famosi estratti da Prelude, (il primo lavoro di Deodato) e cioè Also Spracht Zarathustra e lo stupendo September 13, ci troveremmo di fronte ad un vero e proprio capolavoro del jazz rock. La storia racconta un’altra storia, ovviamente, ma resta il fatto che agli inizi degli anni ’70  Eumir Deodato mise in atto una piccola rivoluzione e con la pubblicazione dei suoi primi dischi segnò un svolta molto importante per il jazz. Per la prima volta questa musica mai del tutto popolare entrò nelle classifiche, venne proposta a grandi masse di ascoltatori ed ottenne una visibilità ed una risonanza mai conosciute prima. Al di là di qualche modesta caduta di tono, (da leggersi come eccessiva indulgenza alla melodia e/o attenzione per dei contenuti non del tutto coerenti) Deodato 2 e il suo predecessore Prelude sono album molto belli, soprattutto il secondo. A distanza di oltre quarant’anni dalla pubblicazione sono ancora pienamente godibili da un vasto pubblico e se esaminati con attenzione appaiono ricchi di spunti, di idee e di anticipazioni del futuro.

Exodus Quartet – Way Out There


Exodus Quartet – Way Out There

Exodus Quartet è una sorta di non gruppo, di loro esiste un solo album. È il frutto della volontà e della passione di un ex dj e musicista di nome Eric Hilton (ora Thievery Corporation). Attorno al 1991 Hilton mieteva successi a Washington D.C. organizzando delle serate a base di acid jazz nel suo club Exodus. Un appuntamento musicale fisso che per anni ha stupito tutti i frequentatori della movida della capitale americana, che non perdevano l’occasione per assistere agli infuocati set di Eric e del socio Farid Ali. Durante quel periodo l’Exodus ha attirato grandi folle di appassionati ogni Venerdì sera. Jan Kinkaid dei Brand New Heavies  presenziando ad una di queste serate durante il primo tour negli Stati Uniti  disse: "Non ho mai pensato che qualcosa di simile esistesse al di fuori di Londra. O forse dovrei dire non credo che questo esista nemmeno a Londra". Hilton decise dopo qualche anno di registrare un disco che rendesse omaggio alla musica e all'atmosfera che si respirava nel leggendario club ed così che Exodus Quartet ha avuto inizio. L’ispirazione di Way Out There oltre che dall’acid jazz,  trae le sue fonti dalle passioni musicali dell’ex dj: le colonne sonore dei polizieschi degli anni ’70, il funk, la bossa nova, il latin jazz, la fusion. È percepibile una certa familiarità con il sound di un altro musicista americano di matrice acid jazz di nome Fishbelly Black (al secolo George Mitchell) che non a caso figura tra i collaboratori di questo album. La maggior parte delle tracce sono state scritte, prodotte e suonate da Eric Hilton stesso, con il grande contributo di David Yilvisaker che compare in veste di tastierista e vibrafonista in numerosi brani e di alcuni è anche co-autore e co-produttore. Ai due si aggiunge poi una folta schiera di ulteriori musicisti a completare la sessione: Topaz (sax), Butch Jackson (congas), Kaze (voce), David Hanbury (chitarre), Rene Ibanez (percussioni), Al Williams (flauto), Ray Gaskins (sax), Jim Sivard (flauto), Greg Grainger (batteria), David Bach (vibrafono), David Jernigan (basso), Pamela Bricker (voce), Wayne Wilentz (Rhodes piano), Jesse Rodefer (percussioni). Il focus dell’album si concentra sulla matrice acid jazz, in particolare quella dei primi periodi dell’esplosione inglese del fenomeno. E quindi l’atmosfera che si respira è decisamente minimalista, caratterizzata dai classici groove di basso e batteria (spesso elettronica o campionata) sui quali si innestano, di volta in volta, gli assoli di piano elettrico, vibrafono, organo, sax, flauto o chitarra. Tutto piuttosto grezzo ed in qualche misura quasi artigianale, che non è necessariamente un difetto se i musicisti sono di buon livello come in questo caso. Certo resta sempre la sensazione che una produzione più sontuosa e raffinata avrebbe garantito a Way Out There ben altri risultati. Tuttavia non si può non apprezzare la sincera passione e anche l’ecletticità  profusa dall’Exodus Quartet nel mettere insieme un programma di quattordici brani piuttosto eterogenei. Le varianti dell’acid jazz ci sono tutte: si va dal jazz di ispirazione latina tipo “Los Gatos” o “Our Man In Havana”, alla più classica delle bossa nova come “Corcovado” (unico brano cantato). C’è il funk Hammond-drived alla James Taylor Quartet di “18th Street” e un brano come “Perfect Vibe” che suona molto alla maniera di Fishbelly Black. Il pezzo forse più stimolante è “Groove Gumbo”, un lungo loop ossessivo sul quale si alternano a turno i solisti. Non manca una traccia di stampo smooth come “Orbit”. Il limite più grosso di questo album risiede probabilmente nella sensazione di ripetitività della parte ritmica, dovuta all’eccessivo uso dei campionamenti e dei loop. Per contro gli assoli sono abbastanza convincenti, in particolare quelli di piano elettrico ad opera di David Yilvisaker. Way Out There uscì nel 1996 cioè circa dieci anni dopo la nascita ufficialmente ritenuta l’inizio del movimento acid jazz. E' encomiabile lo sforzo compositivo, ed è suonato discretamente bene, con attenzione al sound caratteristico del genere. D'altro canto non aggiunse nulla che non si fosse già ascoltato e rappresenta una curiosità più per il fatto di essere americano (cosa rara nell’acid jazz) che per i suoi reali contenuti. Penalizzato forse da una produzione davvero elementare e troppo asciutta è un disco consigliato agli appassionati più devoti del genere acid jazz, che con Exodus Quartet completeranno la loro collezione con una rarità. Gli inguaribili curiosi alla ricerca di qualcosa di sconosciuto (o quasi) possono tentare un ascolto, non troveranno nulla di troppo impegnativo. Tutti gli altri musicofili possono tranquillamente rivolgersi altrove.

Crimson Jazz Trio - The King Crimson Songbook, Vol. 1


Crimson Jazz Trio - The King Crimson Songbook, Vol. 1

Un trio jazz composto da pianoforte, basso e batteria che reinterpreta ed esegue in puro linguaggio jazzistico  le canzoni del gruppo progressive rock King Crimson? È possibile? Qualcuno ha davvero tentato? E con quali risultati? Al giorno d’oggi molti musicisti jazz provano a rileggere la musica degli artisti pop, così forse era inevitabile che prima o poi qualcuno avrebbe deciso di dare un'occhiata da vicino al meglio del progressive rock. Se un pianista come Brad Mehldau può rimodellare i Radiohead, allora perché non riesaminare i King Crimson che sono un gruppo fondamentale della storia della musica? Le legittime domande che ci si può porre davanti ad una simile possibilità hanno dal 2005 una risposta: questo è esattamente ciò che il Crimson Jazz Trio è riuscito a fare con questo intrigante e bellissimo album: The King Crimson Songbook, Vol. 1 (cui seguirà nel 2009 il Vol. 2). Spesso il jazz riserva delle sorprese, ma tra le tante possibili questa è forse la più inattesa ed incredibile. Con un’opera di riarmonizzazione della particolare e complessa struttura musicale di Fripp e compagni, gli arrangiamenti sofisticati ma essenziali tipici di un trio ed una encomiabile dedizione verso gli originali,  i tre musicisti inglesi sono riusciti letteralmente a trasformare i brani scelti. Così, da inni prog rock, le celebri mini opere dei King Crimson diventano qualcosa di totalmente nuovo. Rinascono come veicoli ideali per le improvvisazioni tipiche del jazz, quasi si colorano delle tonalità pastello dei quadri impressionisti per quanto la musica diventa suggestiva. Tim Landers con il suo basso elettrico divide lo spazio solista con il pianista Jody Nardone. Il trio comprende anche il batterista Ian Wallace che fu un membro dei Crimson ai tempi dell’album “Island” e dunque conosce molto bene la materia. I tre collaborano in stretta sinergia creando una coesione formidabile che si rispecchia non solo nell’interpretazione di nuove ed inaspettate versioni del materiale originale, ma mostrano di aver sviluppato un proprio validissimo sound di gruppo. Nel dettaglio dei brani troviamo i toni vivaci e swinganti di "Ladies OF The Road". L'intensità “industrial” di "21st Century Schizoid Man", da In The Court Of The Crimson King, che viene reinventata prima come una sorta di sofisticato lounge contemporaneo, poi declinata in un lungo, onirico ed infuocato assolo di piano. "I Talk To The Wind" originariamente sullo stesso album, conserva tutta la sua bellezza pastorale, acquisendo i connotati di un’autentica ballad jazzistica.  È il blues il protagonista di "Catfood" tratta da In the Wake of Poseidon, sulla quale Nardone evoca molto bene l’intricato gioco pianistico di Keith Tippet. Landers con il suo basso prende il comando delle operazioni su "Matte Kudesai," da Discipline, dando alla melodia un'interpretazione in stile “Pastorius”. Red, dall’album omonimo,  fa riferimento in modo chiaro agli elementi che definiscono l'originale, scremati dello spirito metal ma con una maggiore attenzione ai dettagli. Una riproposizione stile funky della originaria sezione orchestrale centrale fa brillare un potente assolo di batteria di Ian Wallace. Infine Starless, in cui è il basso di Landers ad introdurre l’arrivo del piano che ricalca fedelmente le struggenti note di una melodia che nel brano originale è una delle più suggestive della storia del rock. Fino alla enigmatica parte seconda che, rispettando lo schema Crimsoniano, diventa improvvisamente nervosa e drammaticamente caotica. The King Crimson Songbook, Volume One, non solo è sorprendentemente fedele all'essenza delle otto canzoni che copre, ma riesce nella non facile impresa di ricollocare delle composizioni prettamente rock nel contesto del jazz e di farlo talmente bene da non far minimamente trasparire quale sia la reale genesi di quei brani. Questo album del 2005 è caldamente consigliato, in particolare per gli ascoltatori che hanno familiarità con le registrazioni dei King Crimson, ma bisogna sottolineare che il lavoro è in assoluto davvero stupendo. Di fatto The King Crimson Songbook Vol. 1 è decisamente in grado di soddisfare appieno anche i puristi del jazz. Si tratta di una delle più riuscite operazioni di recupero di alcuni dei più belli tra i classici immortali del progressive rock. La base era indubbiamente valida ma il rischio di rovinare un’idea eccellente con un pasticcio privo di gusto era dietro l’angolo. Il trio inglese non solo ha centrato l’obiettivo ma ha scritto con sapienza e tecnica sopraffina un nuovo ed esaltante capitolo dell'infinita e sempre mutevole storia del jazz.

Citrus Sun – Another Time Another Space


Citrus Sun – Another Time Another Space

Prendete una parte di musica fusion, una parte di solido funk e due parti di fluido acid jazz, mescolate in un immaginario frullatore e verrà fuori il buon cocktail aromatizzato di jazz di un gruppo chiamato Citrus Sun. Questo particolare insieme musicale è stato creato da Jean Paul Maunick, il padre degli Incognito, come un vero e proprio progetto parallelo (ad oggi sono due gli album pubblicati). Tra i suoi membri c’è anche Jim Mullen, ex componente della Average White Band, la cui chitarra gioca un ruolo importante nel caratterizzare questa registrazione. Anche se “smooth jazz” è il termine che i produttori dell'album hanno usato per classificare questa nuova proposta musicale, bisogna dire che il suono è più jazzato di quanto ci si aspetti. Another Time Another Space si differenzia da molti altri  prodotti di questo genere e lo fa sotto diversi aspetti importanti. La musica ha qui un carattere ed una sostanza inusuali. Non è solo un flusso indefinito di bei suoni senza dinamica e corpo, come invece capita di sentire in alcuni album di smooth jazz. Gli arrangiamenti danno molto più spazio ai fiati di quanto non sia comunemente in uso, fornendo un sound potente e dinamico, un pò come si faceva nella musica degli anni ‘70. C'è ritmo, c’è passione e di tanto in tanto l'ascoltatore si scopre anche a battere il tempo con il piede. Il lavoro non eccede in inutile raffinatezza, ma anzi risulta diretto e sincero. Jean Paul Maunick ha infatti scelto un approccio più “live” per le registrazioni dei Citrus Sun rispetto a quello molto elaborato degli Incognito o della stessa Maysa, lasciando inoltre ampio spazio ai singoli musicisti affinchè tutti potessero dare il loro personale contributo. Ascoltando l’album si scopre che "Where The Wind Blows" è un brano assolutamente jazzy con una melodica tromba suonata da Dominic Glover che dialoga con le trascinanti tastiere di Graham Harvey. "What It Is" ha un favoloso ritmo sostenuto dalla batteria precisa di Richard Bailey che cattura l’orecchio ed è la base propulsiva per un grande interplay tra fiati e tastiere. L'album non è del tutto privo di colori smooth jazz, li troviamo in "Budapest" uno strumentale dove è il sassofono soprano a prendere l'iniziativa. Il pezzo suona in vero stile Grover Washington, Jr. interpretato in modo sublime da Ed Jones. Non manca una traccia come "Mellowed" che mette in campo tutte gli ausili elettronici musicali possibili, ma nei suoi oltre otto minuti, lascia spazio ad un magnifico assolo di Rhodes di Graham Harvey. L’incipit di “Make Me Smile” ricorda subito gli Incognito, tuttavia in luogo della classica voce femminile o maschile, è la chitarra di Jim Mullen a dettare la melodia. Bellissima “Tanya’s Song” canzone in bilico tra acid e smooth jazz guidata ancora dalla morbida e dolce chitarra elettrica di Mullen. Resta da sottolineare il bellissimo lavoro di Julian Crampton al basso che per tutto l’album cesella delle linee estremamente varie e fantasiose. Allo stesso modo una menzione va fatta per il drumming di alto livello del grande Richard Bailey, il batterista di lungo corso degli Incognito, che è sempre una garanzia del miglior groove. La sezione fiati composta da Ed Jones (sax), Fayazz Virgi (trombone) e Dominic Glover (tromba) è quanto di meglio si possa trovare sulla piazza e davvero si può affermare che non sbagli un colpo. Bluey ha scritto personalmente sei delle undici tracce tutte strumentali dell’album, a riprova della sua fama di compositore instancabile e creativo. I Citrus Sun, hanno un sound generale più jazzato della media, e sono senza dubbio una proposta coraggiosa in un mercato dominato da generi musicali molto più commerciali. Non sarà certo una pietra miliare, tuttavia il materiale è sufficientemente interessante e convincente da farmi collocare  il debutto discografico di questo gruppo nella categoria dei consigliati. Per i fan degli Incognito (sono tra questi…) rappresenta un’uscita imperdibile, per tutti gli altri può essere una valida alternativa a tutto quello smooth jazz contemporaneo così piatto e standardizzato del quale il mercato è saturo da tempo.

Cedar Walton – Animation / Soundscape


Cedar Walton – Animation / Soundscape

Cedar Walton si è guadagnato un’ottima reputazione come pianista soprattutto suonando per tre anni nel gruppo hard bop di Art Blakey, i famosi Jazz Messengers. Ciò accadeva nei primi anni ‘60 ma, come molti musicisti jazz, con l’arrivo del decennio successivo, Walton abbandonò il jazz tradizionale alla ricerca di un percorso più fusion che fosse maggiormente consono ai tempi e ad un nuovo e più vasto pubblico. Dopo una serie di album per alcune piccole etichette, nel 1978 Walton è approdato in una grande casa discografica, la Columbia. Con la famosa major è rimasto sotto contratto per due anni e durante la sua permanenza ha registrato due album, “Animation” e “Soundscapes”, che ora sono stati meritoriamente ristampati su un singolo CD dall’etichetta Soul Brother. (I vinili originali erano piuttosto brevi ed è dunque un’ottima idea quella di accoppiarne due per pubblicare un singolo disco di durata consistente) In gran parte trascurati, anche dai più irriducibili fan della fusion, i due album di Cedar Walton per la Columbia sono gemme perdute di questo genere spesso bistrattato dai puristi del jazz. Sono inoltre un perfetto veicolo per l’ascolto del sempre amato piano elettrico Rhodes, del quale il pianista texano si dimostra un interprete assai efficace.  Stilisticamente, hanno entrambe molto in comune con il lavoro del Bob James del periodo con la CTI e la Tappan Zee. “Animation” del 1978 è probabilmente il più forte dei due album, dove spicca “Jacob’s Ladder”, elegantemente arrangiata per valorizzare al massimo il fantastico interplay che il sassofonista Bob Berg e il trombonista Steve Turre forniscono in veste di sezione fiati. Il piano Fender Rhodes di Walton è tremendamente funky ed il suo assolo è da brividi. Molto bella anche la resa strumentale di “Another Star” di Stevie Wonder, allegramente latineggiante, seppur sempre funky grazie alla combinazione della batteria molto propulsiva di Al Foster, del basso slap di Tony Dumas e delle percussioni del grande Paulinho da Costa. Un’atmosfera latina pervade anche la sinuosa “It Could Happen” brano molto orecchiabile con un favoloso tocco di piano elettrico di Cedar Walton. Piena di sano funk groove anche “Ala Eduardo”, dive ancora una volta è da sottolineare quanto Walton abbia confidenza con il suo Rhodes e sappia valorizzarne al massimo le potenzialità espressive. L’altro album si intitola "Soundscapes" ed è invece del 1980, quando fu registrato con una formazione di musicisti quasi identica a quella del gemello Animation. Una sessione che viene arricchita dalla potente presenza di Freddie Hubbard sul brano “The Early Generation” e da quella del cantante Leon Thomas, che aggiunge i suoi caratteristici e morbidi toni vocali nella canzone “Warm To The Touch”. Altre tracce degne di nota sono certamente “Latin America” nel cui titolo sono sintetizzati lo stile e l’atmosfera sudamericana di cui è totalmente intrisa. Notevole è anche la sensuale ed avvolgente “Sixth Avenue”, tra l’altro arrangiata benissimo. Cedar Walton è stato un grande pianista in ambito jazzistico, nel contesto del quale ha scritto ed interpretato pagine memorabili. Ma ha saputo essere creativo e misurato anche nella sua fase più commerciale, mantenendo un livello di produzione musicale decisamente alto. Tutto sommato, questo cd è un’ottima “doppietta” che non dovrebbe mancare nelle collezioni degli appassionati del piano elettrico Rhodes, ma potrebbe risultare di gradimento anche per un più vasto pubblico di seguaci della fusion o dello smooth jazz, compreso quello contemporaneo.

Larry Willis - Inner Crisis


Larry Willis - Inner Crisis

Lawrence Elliott "Larry" Willis è un pianista jazz e compositore afro americano. In carriera ha esplorato una vasta gamma di stili, tra cui la jazz fusion, il rock, il bebop e l’avanguardia. Willis è nato a New York City e dopo il suo primo anno di teoria alla Manhattan School of Music ha iniziato ad esibirsi regolarmente con il sassofonista Jackie McLean. Dopo essersi diplomato ha deciso di concentrarsi sul jazz a causa delle difficoltà che i musicisti di colore avevano nel trovare lavoro nel campo della musica classica. Nel corso della sua carriera ha suonato con un ampio ventaglio di artisti, compreso un periodo di sette anni come tastierista dei Blood, Sweat & Tears (a partire dal 1972). Ha inoltre trascorso diversi anni come pianista per la band di Nat Adderley, così come per quella di Roy Hargrove. Inner Crisis è il secondo album di Larry Willis che fu pubblicato nel 1974 ed è uno dei migliori esempi di jazz-funk elettrico della metà degli anni '70. Una vera delizia per tutti gli amanti del piano elettrico che qui viene copiosamente usato. Con al fianco alcuni eccellenti musicisti, tra i quali il chitarrista Roland Prince, il batterista Al Foster, il sax tenore Harold Vick, il trombonista Dave Bargeron e i bassisti Eddie Gomez (acustico) e Roderick Gaskin (elettrico), Willis registra una sessione profondamente concentrata sulle composizioni e ricchissima di groove. L’accento viene posto sulle cadenze blues e soul quali tratti distintivi di una musica che cammina in perfetto equilibrio su un’ideale linea di confine tra il ritmo pulsante del funk  e le radici del jazz. Larry dimostra anche una grande disponibilità come pianista nel suonare come parte di un insieme piuttosto che come unico solista. Tracce come "153rd Street Theme", offrono una prospettiva più profonda sul funk, con le melodie del sassofono in contrapposizione alle potenti e fantasiose linee di basso. La title track “Inner Crisis” mette in luce la scintillante complessità della scrittura modale di Willis ispirata da "In a Silent Way" di Miles Davis. "Journey's End" mostra un lirismo impregnato di soul, una cosa che fu spesso trascurata nel jazz elettrico di quel periodo. Il richiamo a Sonny Rollins è tutto nell’introduzione e nel finale del brano “Bahamian Street Dance”, mentre la sezione centrale ci offre la possibilità di ascoltare Larry Willis in un magnifico assolo di Rhodes. Come detto, il piano elettrico è il protagonista assoluto di questo album e ne scandisce tempi e ritmi sia che venga usato come accompagnamento per gli assoli di sax o di trombone, sia che si prenda tutta la scena sotto la mutevole forma degli ipnotici e lunghissimi interventi del leader. La sola eccezione è la bella ballata “For A Friend” dove Willis si propone al piano acustico. Tutte le tracce di Inner Crisis offrono una lettura molto ben concepita ed estremamente articolata del genere fusion. Il jazz è presente e non manca di far sentire il suo verbo musicale, concedendo alla contaminazione il solo uso degli strumenti elettrici in luogo dei più tradizionali acustici. L’album è stato tristemente trascurato dalla maggior parte della critica e merita senza dubbio un’attenta rilettura e una doverosa rivalutazione in virtù di una notevole carica espressiva, della modernità delle composizioni e, non ultima, di un’esecuzione assolutamente degna di nota.

Ben Sidran - The Cat And The Hat


Ben Sidran - The Cat And The Hat

Ben Sidran è stato definito, dal Chicago Sun Times, come un "uomo del Rinascimento alla deriva in un mondo moderno" e dal The Times come "il primo rapper jazz esistenziale", tutto in riferimento al suo modo di suonare i moderni grooves mescolati al bebop teso a crerare una sorta di miscela di sapiente umorismo ed colta erudizione. Di certo è un personaggio singolare, un uomo preparato, professore universitario, saggista, scrittore, critico musicale e naturalmente pianista e cantautore jazz. E singolare è anche il suo modo di cantare, non esattamente conforme agli standard che tutti conosciamo, ma quasi una di via di mezzo tra un "parlato intonato ed un cantare raccontato". Come pianista la sua tecnica e il suo approccio sono invece piuttosto canonici, con un’ispirazione che arriva direttamente dai grandi specialisti jazz dello strumento. (Va ricordato comunque che Sidran suona anche l'organo ed i sintetizzatori). The Cat And The Hat, vede la luce proprio all’inizio degli anni ’80, ma risente ancora fortemente dell’influenza del decennio appena concluso. Naturale evoluzione di un lungo periodo di crescita musicale da parte di Sidran, il disco è certamente uno dei migliori della sua vasta produzione e rappresenta anche un riferimento importante per tutto quel movimento jazzistico di crossover sempre in bilico tra tradizione, funk e pop. Un progetto ambizioso ma anche non privo di incognite e difficoltà. L’obiettivo è quello di cercare di amalgamare in modo coerente il jazz e la fusion con dei testi impegnati, senza finire per creare un ibrido senza corpo ne anima. Ciò che consente a Sidran di riuscire nell’intento di concepire qualcosa di originale, senza sbavature o cadute di stile è la sua solida cultura ed il background di profondo e competente conoscitore del jazz. La qualità elevata e costante dei suoi dischi è la prova di un talento indiscutibile e di una curiosità intellettuale che gli permette di varcare i confini dei generi senza snaturarne i contenuti ed anzi proponendo un messaggio artistico nuovo e di assoluto valore. The Cat And The Hat altro non è se non la sublimazione della collaudata formula di riproporre gli standard del jazz arricchiti con le parole, non importa che siano solo aggiunte o  magari ritoccate. Il risultato è che i suoi adattamenti musicali sono così sofisticati che si ha quasi l’impressione di ascoltare delle splendide canzoni nate già come Sidran le propone: due esempi assai virtuosi sono “Ask Me Now” di Thelonius Monk e “Girl Talk” di Neal Hefti. La registrazione è fondata su un manipolo di talentuose star del jazz (Michael Brecker, Joe Henderson, Tom Harrell, Mike Mainieri, Buzz Feiten, Steve Gadd, Abraham Laboriel e Lee Ritenour per citarne alcuni), a garanzia di un'eccellente produzione. Il pianista / cantautore di Chicago manipola e rende suo il materiale con una grande confidenza e con una palpabile creatività, inserendo assoli a piacimento nel contesto favorevole degli ampi spazi insiti nella struttura jazzistica dei brani stessi. “Seven Steps To Heaven”, il capolavoro scritto da Victor Feldman per Miles Davis, è caratterizzato dagli scoppiettanti colpi di batteria di un grande Steve Gadd, che sembra voler dimostrare quanto questo strumento possa essere molto di più di una semplice percussione. La ricerca ed il recupero dei classici prosegue con “Like Sonny”, un brano firmato da Coltrane su suggerimento di Sonny Rollins: qui ci troviamo davanti ad una divertente escursione nel funk colorata da un tema esotico, esempio lampante di grande modernità. “Hi-Fly” e “Give It To The Kids” sono due canzoni ispirate dalle atmosfere degli anni ’70, la prima delle quali è una cover di una famosa composizione di Randy Weston, mentre la seconda è un originale di Mike Mainieri al quale Ben Sidran ha dato il testo. “Blue Daniel” è invece una ballata nel classico stile Sidran dove Randy Brecker piazza un assolo di tromba coi fiocchi. In un campionario di abbondanti spruzzate di jazz, onnipresenti accenni di funk, atmosfere californiane di scuola West Coast e la sua inconfondibile voce, con The Cat In The Hat, Ben Sidran mette in scena un piccolo campionario di gemme tanto sofisticate quanto moderne. Davanti c'è tutto l’ottimismo degli anni ’80, alle spalle un passato forse mai così ricco di grandi sconvolgimenti come i settanta. Il cantautore di Chicago appare lucido e determinato nel perseguire il suo particolare progetto, anticipando il futuro e rendendo omaggio ai grandi musicisti che lo hanno preceduto. Nel farlo ci mette molto talento e tanta passione, regalandoci uno degli album più interessanti del decennio.

Raul De Souza – Sweet Lucy


Raul De Souza – Sweet Lucy

Raul de Souza (nato il 23 Agosto 1934, a Rio de Janeiro in Brasile) è un trombonista che in carriera ha registrato con Sérgio Mendes, Flora Purim, Airto Moreira, Milton Nascimento, Sonny Rollins, Cal Tjader e la band jazz fusion Caldera (di cui ho parlato precedentemente in un post dedicato). Dopo il suo trasferimento negli U.S.A., il compositore, pianista e produttore americano George Duke, da sempre affascinato dalle sonorità brasiliane ed incantato dal suono caldo e corposo di Raul, decise di produrre, a metà degli anni 1970 per la Capitol Records, il primo album di Souza. Il lavoro si intitolava Sweet Lucy ed a questo sono seguiti altri due dischi che però erano quasi completamente privi di contenuti jazzistici. Erano album molto commerciali che probabilmente furono pubblicati per cercare di accodarsi alla tendenza disco soul degli anni ’80, ormai dilagante. Raul De Souza è uno dei grandi misteri del mondo del jazz. All’inizio degli anni ‘70, dopo una gavetta lunga un decennio, era palese che il trombonista brasiliano avesse un sacco di frecce al suo arco. Possedeva un suono caratteristico e accattivante, un grande timbro strumentale, una versatilità fuori dal comune, ed infine moltissimo calore ed una bella sensibilità. Ed allora per quale motivo, negli anni ’80 e '90, è quasi sparito dalla scena? In un mondo ideale, De Souza avrebbe costruito sul suo talento una grandissima carriera ed un catalogo consistente. Purtroppo, la sua storia discografica fu invece di breve durata, e riprese vigore solo dal 2000 in avanti dopo il suo ritorno in Brasile. Una spiegazione potrebbe stare proprio nella natura stessa del suo strumento, il trombone, non esattamente il più popolare tra quelli in uso. Un’altra motivazione potrebbe forse risiedere nelle scelte poco felici a livello di produzione, dove la chimera di un facile successo produsse più danni che benefici. Verosimilmente fu la combinazione delle due cose. Ad ogni modo Sweet Lucy è un album interessante, nel quale si sente la mano di George Duke, ma l’orientamento verso uno stile più commerciale è ancora piuttosto sfumato, e la componente jazzistica è invece ancora molto presente. Non mancano i brani leggeri ed orecchiabili, molto funk vocal oriented come "Wires" e la title track stessa (entrambi scritti da Duke). Ma sono i pezzi strumentali fusion e pop-jazz quelli dove De Souza brilla davvero. Ad esempio quando si distende su  un grande brano come "Bottom Heat", o quando mette in mostra tutto il suo lirismo pieno di feeling sulla ballata "Wild And Shy". In altri pezzi da lui stesso scritti come “Banana Tree”, “At Will” o “A Song Of Love” De Souza mostra un grande potenziale come solista e come compositore. Egli riesce ad infondere di colore brasiliano anche il più moderno schema funk jazz delle sue canzoni, con ottimi risultati. La traccia più debole di Sweet Lucy è un riadattamento della ballata brasiliana Canção do Nosso Amor, che diventa qui "New Love” e dove Raul tenta inopinatamente di cantare. La canzone è bellissima, ma De Souza non gli rende giustizia perché, in tutta onestà, lui semplicemente non può cantare. Sottolineo che oltre tutto non ha bisogno di usare le sue corde vocali perché è in grado di far "cantare" magnificamente il suo trombone, come pochi riescono a fare. Il suo controllo dello strumento, la sua maestria ed il suo caratteristico sound fanno sì che Sweet Lucy sia (quasi tutto) un eccellente e gradevole album. Oltre che per la scoperta di un musicista poco noto è un'ottima occasione per familiarizzare con il trombone e apprezzarne i toni caldi ed avvolgenti.

Sixun – Nomad’s Land


Sixun – Nomad’s Land

I francesi Sixun si sono formati nel 1984 e vantano quindi più di trent’anni di attività. Il nome Sixun è l’unione di due vocaboli che si riferiscono al numero dei membri della band (sei, six in francese) provenienti da varie parti del mondo, che suonano insieme come un'unità (uno, un in francese). Il nucleo del gruppo è costituito da Paco Sery (batteria, percussioni), Jean-Pierre Como (tastiere), Alain Debiossat (sassofono), Louis Winsberg (chitarra) e Michel Alibo (basso) ed infine Jaco Largent (percussioni). Questa formazione è rimasta praticamente invariata nel corso degli anni. I Sixun hanno iniziato la loro vera carriera discografica nel 1985 con l’uscita di un primo album intitolato “Nuit Blanche”, arrivando a pubblicarne fino ad oggi ben dodici.  Il genere di riferimento è senza dubbio la jazz fusion, ma sono fortemente avvertibili delle significative influenze dettate dalle origini multiculturali dei musicisti della band, in particolare quelle caraibiche e africane. Di fatto le costruzioni poliritmiche e le complesse melodie costruite dai Sixun sono molto importanti e ne determinano in larga misura il sound. I Sixun sono spesso paragonati, a ragione,  ai Weather Report, la cui grande influenza pare davvero aver ispirato profondamente questi musicisti francesi. Va detto anche, ad onor del vero, che i membri della band sono tutti indistintamente dotati di una grandissima tecnica individuale e le composizioni non sono affatto prive di una loro originalità e di grande fascino, al punto da rendere i Sixun piuttosto riconoscibili e caratteristici. Un orecchio attento percepirà qua e là gli echi di Zawinul, Pastorius, Shorter e compagni, echi che a volte diventano quasi dei richiami espliciti e diretti, attuati con le tipiche sonorità ben note ai fan dei Weather Report. Non mancano accenni alla musica etnica che attingono sia alla tradizione gitana sia a quella più genericamente mediterranea. Nomad’s Land è il sesto album per il gruppo francese, ed è composto da undici tracce piuttosto omogenee. Il lavoro del 1993 sposta decisamente il baricentro della musica verso un’area più jazz fusion, lasciando  sullo sfondo le influenze afro caraibiche e/o etniche, molto marcate negli album precedenti. Dal mio punto di vista trovo questa scelta azzeccata e vincente dato che Nomad’s Land mi pare un gran bel disco, molto diretto e corposo. Complessivamente risulta ricco, variegato ed interessante, nella consapevolezza che il territorio è quello di una sofisticata architettura musicale di matrice jazz rock, in cui la sezione ritmica lavora in perfetta simbiosi per creare il corretto tappeto sul quale poggiano i virtuosi interventi dei solisti. In questo senso non si può non notare la bravura sia del bassista della Martinica Michel Alibo che del batterista ivoriano Paco Sery. Highlights dell’album sono la super-funky e sincopata “Ali Gogo”, l’atmosferica e rilassata “Parakali”, la veloce e nervosa “James Machine” ed una pirotecnica “Tooklao” che riassume tutti i tratti salienti della band. Ovvero padronanza assoluta a livello tecnico, grandi assoli, buon gusto e bel suono collettivo. Forse non occorre sempre essere americani o inglesi per suonare della buona fusion, anche noi europei (continentali) possiamo farlo in modo egregio: i francesi Sixun ne sono la dimostrazione tangibile.

Vibraphonic – On A Roll


Vibraphonic – On A Roll

I Vibraphonic sono nati nel 1990 per volontà del vibrafonista Roger Beaujolais, Sulla scia del successo piuttosto casuale ottenuto da due brani intitolati “Believe In Me e “I SeeYou”, che vennero pubblicati per la Acid Jazz Records su altrettante di  quelle compilation che erano così popolari all’epoca (Totally Wired). Successivamente hanno prodotto cinque album, tutti con buoni risultati di vendita, soprattutto negli USA. La band, che potrei definire post acid jazz, è caratterizzata da uno stile funky soul che non è altro che l’estensione ideale di quella corrente portata alla ribalta da gruppi molto più famosi, come gli Incognito, i Brand New Havies, Jamiroquai o i Groove Collective. Con un elemento particolare ed inedito: lo strumento principale è proprio il vibrafono del leader. Da notare inoltre che i brani dei Vibraphonic sono per la maggior parte strumentali. Roger Beaujolais è un musicista di formazione jazzistica ed è anche insegnante di vibrafono presso il Trinity College di Londra. Uno dei pochi portabandiera contemporanei di questa affascinante percussione, che nel jazz ha avuto stelle di prima grandezza come Lionel Hampton e Milt Jackson o più recentemente Gary Burton e Dave Samuels. La line up della band è cambiata poco dall'inizio dell’attività e comprende Tony Remy alla chitarra, Nick Cohen al basso, Alison Limerick & Lennox Cameron alla voce, Pete Lewinson o Frank Tontoh alla batteria e Mark Lockheart al sax tenore e soprano. "On A Roll" (del 1997) è il quarto album di Vibraphonic, ed è forse quello dotato del miglior groove complessivo, con il conseguente risultato di essere il loro titolo più funky, quello più raffinato,  in ultima analisi il lavoro più valido fino ad oggi.  Se da un lato le loro inclinazioni jazzistiche qui vengono indubbiamente minimizzate, per contro emerge una sensibilità verso il soul funk aumentata rispetto al passato, così come appare generalmente migliorata l’abilità nel comporre le canzoni e orchestrare gli arrangiamenti. Il disco si distingue in particolare sui brani strumentali come "Chance Meeting" dove è in bella evidenza il vibrafono e l’arrangiamento è ricco e corposo, oppure "Know What I Mean" dal ritmo funky, bei fiati e un gran assolo di Beaujolais. Molto bello anche “Broken Promises”, probabilmente il numero più jazzy dell’intero album, che scorre fluido su un medio tempo mettendo in bella evidenza Mark Lockheart al sax soprano e l’onnipresente vibrafono di Roger.  In generale i pezzi strumentali sono sempre piuttosto brillanti, segno di una buona coesione e della qualità degli interpreti. I pochi interventi cantati si fanno notare su "It Isn’t Magic" con protagonista la brava Alison Limerick e “Be Careful”, nella quale troviamo l’originale voce maschile di Lennox Cameron. Entrambe sono tipiche canzoni soul molto orecchiabili, immancabili in questo genere musicale. Ma è Roger Beaujolais il vero deus ex machina di tutto il progetto ed lui che guida la creatura Vibraphonic attraverso il sapiente uso del suo vibrafono; spesso in veste di solista, talvolta in qualità di comprimario al servizio della band. Così trovano il giusto spazio anche gli interventi dei sax di Mark Lockheart e della chitarra di Tony Remy, senza dimenticare, come abbiamo visto, i due validi cantanti. On The Roll è indubbiamente un disco molto gradevole, dai toni sofisticati senza essere complesso o noioso. Immediato e orecchiabile, strizza l’occhio alla dance ma lo fa con molta discrezione ed è perfetto come colonna sonora di una bella passeggiata in automobile o come piacevole sottofondo di una serata fra amici. Non ha velleità di essere un capolavoro, non c’è alcuna ambizione in questo gruppo inglese di acid jazz. Per una volta si tratta solamente di cinquanta minuti di buon funky soul che coinvolge senza impegnare: non è cosa da poco.

The Eleventh House - Introducing The Eleventh House with Larry Coryell


The Eleventh House  - Introducing The Eleventh House with Larry Coryell

Una solida e pionieristica band di jazz fusion: questo era The Eleventh House. Fondata dal virtuoso chitarrista Larry Coryell all’inizio degli anni '70, si è distinta per il suo suono tagliente, duro e vigoroso. Un perfetto vettore per la chitarra magica di Coryell e di tutti gli altri notevoli musicisti aggregati. The Eleventh House è stato uno dei gruppi più vitali nello sviluppo del jazz rock, guidato da uno degli eroi (purtroppo non abbastanza celebrato) del linguaggio della fusione tra il mondo del jazz e quello del rock.  Insieme al trombettista Randy Brecker (che in seguito sarebbe stato sostituito da Mike Lawrence) e al tastierista Mike Mandel, Coryell aveva messo insieme un collettivo di grande spessore. A completare l’organico c’erano il bassista Danny Trifan e il batterista Alphonse Mouzon. L'influenza dei “soliti” Miles Davis, Weather Report e Herbie Hancock è evidente, ma gli Eleventh House hanno anche saputo elaborare una proposta tutta loro. Gli assoli di tromba di Brecker sono al contempo lirici e scattanti. Coryell e Mandel fondono alla perfezione chitarre e tastiere esponendo sempre le loro spiccate e distintive personalità. Sono i loro primi tre album quelli che hanno mostrato al pubblico ed alla critica il maggior potenziale e quello di cui mi occupo è il debutto assoluto della band: “Introducing The Eleventh House” (1974). L’apertura pirotecnica si intitola “Birdfingers”  ed è uno dei punti salienti del disco, l'interazione tra Larry Coryell e Randy Brecker è pura magia, con i due che si scambiano frasi e sfide sonore. Mike Mandel sullo sfondo delinea con il rhodes un tappeto funky stile Herbie Hancock mentre la sezione ritmica del bassista Danny Trifan e del batterista Alphonse Mouzon spinge il groove a livelli grandiosi. “Funky Waltz” non può non ricordare il Miles Davis elettrico di In a Silent Way, ma si dipana poi su un sound funky rock, dove la chitarra di Coryell fa sentire la sua ruvida voce. “Low-Le-Tah”  ha un andamento ipnotico, basato su un arpeggio di chitarra molto psichedelico sul quale Randy Brecker piazza il suo assolo lucido e pulito. Smaccatamente funky “Adam Smasher” ci regala un Mike Mandel scatenato al piano elettrico ed al clavinet mentre Brecker innesta il wah wah caratterizzando in modo inusuale la sua tromba. Il leader ancora una volta ci mostra quanto originale e diverso possa essere il suo modo di interpretare la chitarra elettrica. Il tastierista Mandel introduce “Joy Ride” che è forse il brano più rock del disco per poi concluderlo con un trascianante solo di synth. “Yin” vede un Alphonse Mouzon forsennato alla batteria coadiuvato dalle linee velocissime del basso di Danny Trifan: difficile star dietro a tale furia se non sei fenomenale come gli altri componenti del gruppo.  L’introspettivo “Theme For A Dream” è un grande cambiamento di ritmo ed atmosfera, molto più rilassato ma pur sempre enigmatico ed affascinante, quasi un oasi di pace in mezzo a tanta foga. Lo stesso vale per “Gratitudine-A-So-Low”, anzi qui siamo in pieno relax poichè il brano è in effetti un assolo misterioso e tagliente di chitarra elettrica senza alcun accompagnamento. “Right On Y’All” è di gran lunga il pezzo più funky di tutto l’album, con un lungo assolo di synth di Mike Mandel. A rendere più interessante il tutto, nella riedizione su cd ci sono alcune  tracce extra, come la minacciosa e intricata “Cover Girl” (che era un pezzo suonato di solito dal vivo), Rocks di Randy Brecker (che venne riproposta nel primo album dei Brecker Bros.) ed un ulteriore saggio di bravura con la chitarra solista di Larry Coryell: “The Eyes Of Love”. Nel momento dell’implosione del progetto Mahavishnu Orchestra ecco che compare questa nuova ed esaltante proposta a perpetuare quello stesso sogno di riuscire a coniugare il jazz con il rock in modo creativo e originale. Meno spiritualizzata della creatura di McLaughlin, certamente più concreta e forse musicale di quella, ma ugualmente pilotata da un chitarrista di grande valore, The Eleventh House ha comunque avuto un suo ruolo importante ed attivo nel contesto storico della metà degli anni ’70. Questo primo album è un debutto lucido e interessante, un chiaro esempio di come si possa prendere il meglio da mondi apparentemente lontani come il jazz, il rock ed il funk e tirarne fuori qualcosa di musicalmente bello e originale.

Caldera - Dreamer


Caldera - Dreamer

Uno dei più innovativi e particolari gruppi di jazz fusion comparsi tra la metà e la fine degli anni '70 risponde al nome, sconosciuto ai più, di Caldera. Combinando jazz, funk e progressive rock con le musiche ed i ritmi di matrice latina crearono un mix molto interessante e suggestivo, oggi si direbbe multi-etnico. I Caldera sono stati influenzati dai grandi pionieri delle contaminazioni tra generi diversi come i Return to Forever e i Weather Report, ma i membri di questa band si sono ispirati anche al funk-soul degli Earth, Wind & Fire, e per l’appunto, alla salsa afro-cubana, al samba brasiliano e perfino alla musica andina/peruviana, senza dimenticare Carlos Santana. Guidati dal tastierista argentino Eduardo del Barrio e dal chitarrista portoricano Jorge Strunz, i Caldera avevano membri provenienti da tutta l'America Latina oltre che dagli Stati Uniti paese natale del bassista Dean Cortez e del sassofonista Steve Tavaglione. Il batterista Carlos Vega proveniva da Cuba mentre il percussionista Mike "Baiano" Azevedo dal Brasile. L’album Dreamer risale al 1979 ed è l’ultima registrazione del gruppo prima dello scioglimento. I pochi fan dei Caldera speravano che fosse proprio questo (il quarto…) il disco in grado di rendere famosa la band lanciandola nel gotha della musica mondiale, ma questo purtroppo non successe mai. I Caldera hanno continuato ad essere un oggetto oscuro, nonostante proponessero la loro avventurosa e affascinante miscela con una scrittura musicale di eccellente qualità, senza banalità.  Ne sono un esempio i contenuti di Dreamer, come il brano di influenza sudamericana "Rain Forest", o "Celebration" dai forti accenti brasiliani.  Non manca il richiamo al flamenco con "Brujerías" così come è facile pensare a Santana ascoltando "To Capture The Moon." Per “Himalaya” l’accostamento ai Return To Forever non è azzardato, così come evocare i Weather Report ascoltando “Dreamer”, però la loro proposta restava davvero unica ed originale. Per i Caldera il termine "musica latina" significava attingere a numerose fonti di ispirazione ed altrettante soluzioni ritmiche e melodiche. Su Dreamer tutta questa contaminazione la vediamo interagire con successo con il jazz, il funk, e soprattutto il progressive in un modo affatto scontato, creando qualcosa di speciale e difficilmente ripetibile. In un mondo ideale una bella realtà come i Caldera avrebbe avuto una lunga vita, ma nessuno dei loro quattro album ha venduto abbastanza per farli sopravvivere all’arrivo degli anni ’80. Il loro suono sofisticato, le loro architetture musicali così particolari avrebbero, in verità, meritato una maggior fortuna, ma le leggi di mercato spesso possono molto di più del talento.

The Crusaders – Chain Reaction


The Crusaders – Chain Reaction

I Crusaders sono uno dei gruppi più popolari dell’intero panorama musicale della musica fusion, della quale possono a pieno titolo essere considerati tra i padri fondatori. Dopo un inizio (con il nome Jazz Crusaders) negli anni ’60 ancorato ad un jazz tradizionale dalle forti tinte blues e soul, è a partire dal decennio successivo che la band svolta decisamente verso uno stile più ellettrico. La loro discografia è piuttosto vasta, tuttavia il periodo nel quale uscirono le cose migliori è quello compreso tra il 1972 ed il 1979. Uno dei più gustosi tra questi album è Chain Reaction del 1976, che trova i Crusaders al top della loro forma. Le composizioni sono tanto memorabili quanto accessibili,  così che l’album risulta essere uniformemente eccellente. Il chitarrista Larry Carlton offre alcune dei suoi più begli interventi “funkyzzando” (se mi è concesso il termine) al punto giusto gli arrangiamenti. Wayne Henderson dimostra che anche per il trombone c'è un posto nella fusion. Wilton Felder incarna un doppio ruolo, offrendo favolose esecuzioni di sassofono e poderosi riff di basso funky. Di Joe Sample non si finisce mai di parlare bene, il suo piano Fender Rhodes fornisce una base fantasiosa e grandissimi assoli. Da non dimenticare in ultimo Stix Hooper che regala un solido groove di batteria. La band sfoggia una interessante capacità di gestire diversi tipi di ritmi e di tempi, ed ogni membro ha molto spazio per mostrare il meglio sia a livello individuale che collettivo. "Collettivo" è la parola chiave di Chain Reaction, testimoniata dal suono da vera band che scaturisce da questi solchi, un suono che resterà un vero marchio di fabbrica, unico ed immediatamente riconoscibile. Si inizia con il sensuale blues di “Soul Caravan” introdotta dalle note della chitarra di Carlton, che andrà poi a chiudere in bellezza il brano. Nella parte centrale la proverbiale esplosione sonora data dalla combinazione tra il sax di Felder e il trombone di Henderson. “Creole” scorre su un tappeto ritmico sincopato, molto originale, il sax tenore è il primo degli strumenti solisti, per lasciare spazio ad una conclusione corale. “Chain Reaction” incanta da subito con il suo accattivante e vivace ritmo e ci offre l’occasione di ammirare Wayne Henderson ed il caldo suono del suo trombone. Carlton torna protagonista, mentre Joe Sample, con il  suo magico piano elettrico, non manca di ricordarci quali siano le solide basi sulle quali debba poggiare un bel pezzo. “I Felt The Love” è una ballata fatta apposta per valorizzare il sound profondo e molto soul del sax di Felder. Stile texano invece per “Mellow Out” allegra e ritmata come vuole la scuola sudista. Il brano probabilmente più bello dell’intero disco è la magnifica “Rainbow Visions”, una canzone dal medio tempo, ideale trampolino per gli assoli di Joe Sample al piano elettrico e nuovamente di Wilton Felder al sax. Suona diversa “Hallucinate” forse per la strana combinazione ritmica e l’atmosfera piuttosto inusuale, ma il rhodes di Sample è come sempre magico. Un insolito synth introduce “Hot’s It” subito seguito dal fluidissimo piano elettrico di Joe Sample che guida i giochi fino all’arrivo dell’immancabile sax. “Sugar Cone” è la classica canzone in stile Crusaders, riff di chitarra ritmica, ritmo rilassato, e melodia suonata all’unisono da fiati e tastiera. Si chiude con l’uptempo di “Give It Up” che ancora una volta suona come un brano d'insieme dove la partecipazione di tutta la band è equamente condivisa. Chain Reaction è stato uno degli album che più hanno contribuito ad attirare i giovani appassionati di rock,  soul e pop ad esplorare anche il più difficile mondo del jazz, un merito che già di per se avrebbe un’immensa valenza culturale. Se a questo sommiamo i contenuti di indubbio spessore dati dalle belle tracce contenute nell’album, insieme ad una fantastica coesione tra i membri stessi dei Crusaders, non è azzardato dire che questo disco appartiene alla ristretta cerchia degli imperdibili. Se poi riuscisse ad innescare la vostra personale “reazione a catena”  a quel punto non potreste fare a meno di andare a cercare anche gli altri bellissimi lavori del periodo dei Crusaders: Free as the Wind, Those Southern Knights, Images o Street Life. Ne varrebbe senza dubbio la pena.