Viktoria Tolstoy - Letters to Herbie


Viktoria Tolstoy - Letters to Herbie

La brava vocalist svedese Viktoria Tolstoy, pro-pronipote di Lev Tolstoj per linea materna, è giunta, a dispetto della scarsa notorietà internazionale, al nono album. Con questo “Letters to Herbie” propone un'elegante raccolta di brani del repertorio di Herbie Hancock, reinterpretati con un certa personalità. Nell’album traspare una grande (e doverosa) ammirazione per il grande pianista americano. Viktoria è stata una grande fan di Herbie fin dalla sua giovinezza e d il progetto di realizzare un tributo al suo idolo è stata per lei certamente una sfida emozionante. L’idea è nata durante un festival del jazz, nel 2004, quando la cantante ha avuto il privilegio di condividere lo stesso palco sul quale avrebbero suonato anche Hancock e la sua band, con ospite anche il grande Wayne Shorter. Dopo il concerto il grande pianista ha invitato a cena la bella Viktoria che ha così potuto conoscere personalmente sia Herbie che Wayne. E’ chiaro che ciò che più ha colpito la Tolstoy, nella musica del grande maestro, è la storica apertura di Hancock verso il pop, il soul ed il funk, dato che lei stessa ha trovato i maggiori consensi proprio con il suo pop sofisticato e fortemente contaminato dal jazz e dal funk. Con "Letters To Herbie", pubblicato del 2011,  Viktoria Tolstoy ha dovuto affrontare subito una scelta difficile: selezionare 12 brani dall'enorme discografia disponibile. Alla fine ha ascoltato il suo cuore, prendendo l’intelligente decisione di non scegliere banalmente i più grandi successi di Hancock, come "Cantaloupe Island" o "Watermelon Man", già troppo spesso reinterpretati in passato, ma selezionando invece le canzoni che sentiva più vicine alla sua personale sensibilità. Ecco allora che l'attenzione si concentra in gran parte sui brani della fase funky, a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80: ad esempio "I Thought It Was you" o "Give It All The Heart", ma senza tralasciare alcuni classici. Tra questi "Butterfly" o "Naima" di John Coltrane, di cui Hancock regisìtrò un’emozionante versione nel 2002. Sia nelle ballate jazzistiche, come "Chan’s Song", che nei pezzi più carichi di funky groove, tipo la bonus track "Come On, Come Over", le versioni della Tolstoy suonano adeguate, prive di artificialità, moderne ma rispettose dell’originale. La bella voce di Viktoria, dà alla musica un tocco speciale con la sua invidiabile chiarezza. L'effetto complessivo è molto interessante e molto del merito va ascritto anche alla band che appare meravigliosamente in sintonia con la vocalist, in particolare Nils Landgren. Oltre a produrre l'album e suonare il trombone, Landgren ha anche scritto la title track “Letters to Herbie” e la canta insieme alla Tolstoy, raccontando la storia dell'incontro di Viktoria con Hancock. Il pianista di fiducia della cantante, Jacob Karlzon, accetta a sua volta  la sfida di suonare nel solco del maestro e riesce a convincere con raffinati assoli di pianoforte e una varietà di toni e colori anche con le tastiere e il piano elettrico Fender Rhodes. Matthias Svensson al basso e Rasmus Kihlberg alla batteria forniscono il groove che serve ovvero il tappeto ritmico più consono a questo tipo di musica. La chitarra di Krister Johnsson è fortemente influenzata dal soul e di tanto in tanto evoca George Benson (ma senza dimenticarsi mai un uso puntuale del pedale wah-wah, tipico del funk). Una menzione d’onore va fatta anche ai potenti fiati arrangiati da Magnus Lindgren. Per scoprire tutte le sfumature tecniche e le sottigliezze musicali di questo lavoro, come ad esempio proprio la sezione fiati in "Come Running To  Me" e la straordinaria qualità delle singole interpretazioni, bisogna ascoltare i brani più volte. Il tono generale è sofisticato e tende a suonare come un disco piacevole e ben equilibrato, abbordabile anche da coloro che non masticano volentieri il jazz e i suoi derivati. Da ascoltare con le luci soffuse, un buon hi-fi,  magari sorseggiando un bicchiere di buon vino in una piovosa serata autunnale come questa. Atmosfera ideale.

The Groovechaser - Dig A Little Deeper



The Groovechaser - Dig A Little Deeper

Questa volta parliamo di un gruppo quasi amatoriale, diciamo artigianale, come si evince anche dalla veste grafica della copertina, davvero spartana. E' un collettivo musicale formato da musicisti di talento, professionalmente ineccepibili, ma privi di qualsiasi supporto promozionale e di qualsivoglia appoggio commerciale da parte delle etichette discografiche. Inglesi, di stanza nel Kent, sono addirittura a disposizione di chi li vule ingaggiare per serate ed eventi riservabili su richiesta, contesto nel quale eseguono cover di Herbie Hancock, Miles Davis, Crusaders, Average White Band, Cannonball Adderley, Sonny Rollins, e molti altri. La band spazia così dal jazz mainstream al soul, al funky mettendo in scena uno spettacolo musicale trascinante e di grande spessore artistico. Non manca però un massiccio quantitativo di materiale originale, di chiara matrice jazzistica o quanto meno di ispirazione jazz. Come dire: li volete per il vostro matrimonio? O per il vostro compleanno, o magari per una serata particolare in un pub? Basta contattarli. Con le loro forze i componenti della band si sono auto prodotti Dig A Little Deeper, album per il quale non potrebbe esistere un titolo più appropriato. I Groovechasers sono relativamente sconosciuti, ma alla luce dei contenuti musicali di questo lavoro meriterebbero senza dubbio miglior fortuna. Pur essendo il disco permeato di deja vu e richiami più o meno palesi ai grandi maestri, una genuina e schietta passione anima le performance dei Groovechasers, che tenendo fede al proprio nome fanno proprio del groove il loro marchio di fabbrica. Con il suo mix di strumenti acustici ed elettronici e l'uso massiccio di soul, funk e ritmi latini, l'ispirazione sembra essere principalmente il jazz degli anni '70 e '80.  Ma, come suggerisce il titolo, questo album "scava un po 'più in profondità" nella storia del jazz e ritrova molti echi del passato: un sapore di New Orleans in alcuni degli assoli, un accenno di Duke Ellington e Charles Mingus negli accordi e, sempre sullo sfondo, l'immancabile voce del blues. L'album è caratterizzato da quelle qualità, essenziali nel jazz, che sono il calore e la passione. I due sassofonisti, John Elmer e Fred Cogger possiedono entrambi il tipo di sound originale ed il senso dello swing che ci suggerisce una certa affinità con alcuni dei grandi maestri dello strumento e Andy Mura, alle tastiere, si muove senza sforzo tra i vari stili con Joe Sample come riferimento. John Bowles si carica degli oneri e degli onori della chitarra con assoli di grande effetto, sia con l’elettrica che con l’acustica, dettando al contempo gli immancabili groove ritmici.  Nel frattempo nel vero cuore della sala macchine del ritmo, Bryan Chattam e Tony Harlow fanno esattamente ciò che è necessario, Bryan  fornisce la perfetta base di batteria per i groove di basso di Tony, ispirati da Jaco Pastorius. In conclusione Dig A Little Deeper è un lavoro sincero, diretto, senza grosse velleità: semplice con la consapevolezza di esserlo. Alla fine non delude, pur non brillando per originalità. Il buon successo di alcuni brani nelle radio specializzate inglesi e d'oltre oceano testimonia che questi signori non più giovanissimi, in verità, sanno come si fa della buona musica.

Journeys – Different Places


Journeys – Different Places

Che i movimenti musicali noti come fusion  o come  smooth jazz non siano cosa solo americana è ormai un dato di fatto. Da molto tempo in ogni parte del mondo nascono seguaci di queste correnti popolari del jazz. Se non sorprende che possa essere l’Inghilterra, la Scandinavia o la stessa Italia a vedere un fermento crescente di musicisti impegnati nelle forme più contaminate del jazz, può certamente sembrare più curioso che anche nella piccola Svizzera ci siano gruppi orientati verso la fusion. I Journeys ne sono un esempio: con il loro emozionante mix di brani funk groove, belle ballate e smooth jazz profumato di atmosfere latine, questi bravi musicisti svizzeri propongono un viaggio musicale che esplora diversi territori e che cattura l’attenzione sin dal primo ascolto. Se siete amanti delle melodie accattivanti, di brani ricchi di armonia, interessanti groove  e assoli eccitanti, i Journeys con il loro nuovo CD “Different Places" fanno esattamente al caso vostro. Questo nuovo quintetto molto promettente è in grado di trascinare l’ascoltatore in un percorso fatto di continue variazioni di stile. Una piccola perla nel mare delle nuove pubblicazioni che è una scoperta estremamente piacevole. Journeys è il progetto di cinque esperti musicisti di Zurigo, che hanno maturato moltissima esperienza nel campo del jazz negli ultimi venti anni ed infine hanno deciso di metterla a frutto unendosi insieme per dare vita ad una band che appare già perfettamente amalgamata e creativa. Il chitarrista Dennis Roshard che ha suonato con il vincitore del Grammy Award Andreas Vollenweider, (il più famoso musicista svizzero degli ultimi anni) è l’autore della maggior parte delle composizioni. Anche il pianista Angelo Signore, il cui pregevole lavoro alle tastiere arricchisce Different Places, ha contribuito a sua volta con due brani originali. Michael Voss è uno dei sassofonisti più intensamente soul disponibili sulla scena smooth jazz di oggi. Luciano Maranta è un solido bassista dotato di tecnica e groove, mentre Robert Mark pilota la band con la sua ardente batteria e il relativo corollario di percussioni. Il lavoro del 2016 è il felice risultato della collaborazione tra questi talenti svizzeri, tanto atteso dai fan nel paese natale della band, quanto degno di essere scoperto al più presto possibile dagli appassionati di musica di tutto il mondo. Su Different Places non ci sono molti punti deboli o numeri che prestino il fianco a troppe critiche: in particolare si fanno preferire i brani più carichi di funky e quelli in classico stile fusion. Meno interessanti sono forse le canzoni di atmosfera più soft o quasi new age. Nel dettaglio “Looks Bad Feels Good” e “Earl’s Funk” entusiasmano con il loro richiamo diretto agli Spyro Gyra, e incanta la ritmata “Cindy Lee” dal groove irresistibile. Molto intensa, grazie in particolare al bell’assolo di chitarra, “Touch Of Cool”. Il più latino dei brani dell’album è quasi “santaniano” e si intitola “Change Of Season”. “Etè En France”, che apre il cd, è un po’ il compendio di tutta la filosofia musicale dei Journeys: a tratti fa venire in mente i primi Yellowjackets. Il set si chiude con un ultimo breve brano soul funk non a caso intitolato “Give Groove A Chance”. Sulla base delle accattivanti composizioni di Dennis Roshard e Angelo Signore, la band ha creato un’eccitante formula a cavallo tra la miglior fusion e il meno banale degli smooth jazz. Non stupisce che i Journeys lascino il pubblico estremamente appagato anche durante i loro concerti, in fondo si sono creati una fama proprio attraverso le esibizioni live nei jazz club di Zurigo. E’ un vero peccato che per il momento non abbiano ancora varcato i confini della Confederazione Elvetica, ma l’uscita di Different Places rappresenta di sicuro un punto di svolta nella carriera dei Journeys, che appaiono destinati ad un buon successo anche su scala internazionale. Quindi un consiglio: partite con fiducia dalla Svizzera ed intraprendete questo piccolo viaggio in musica insieme ai Journeys che sapranno condurvi verso alcuni di quei “different places” nei quali, dopo, avrete sempre voglia di tornare.

Kenny Barron – The Art Of Conversation (With Dave Holland)


Kenny Barron – The Art Of Conversation (With Dave Holland)

Kenny Barron è nato a Philadelphia nel 1943 ed ha iniziato a suonare il pianoforte all'età di 12 anni, con un piccolo aiuto da parte della sorella del bassista Ray Bryant, che per altro è la madre del chitarrista Kevin Eubanks. Tre anni più tardi, su raccomandazione di suo fratello maggiore, il sassofonista Bill Barron, è entrato nella band rhythm & blues di Mel Melvin. In seguito il pianista si è fatto una buona esperienza lavorando con il batterista Philly Joe Jones, il sassofonista Jimmy Heath, ed il polistrumentista Yusef Lateef. Una curiosità riguarda prprio l’album del 1961 di Lateef  “The Centaur and the Phoenix”, nel quale Barron  non viene coinvolto come pianista (che era Joe Zawinul), ma come compositore e arrangiatore. Di fatto un analisi approfondita di tutto il lavoro di Kenny Barron, che comprende un periodo di tempo di oltre 50 anni, necessiterebbe di una narrazione lunghissima. Questo perché, ad a una brillante carriera come solista e leader, Barron ha affiancato quella di sideman, tra i più affidabili e ricercati di tutta la corrente post-bop del jazz moderno. Sono stati pubblicati a suo nome più di 40 album, inoltre la sua presenza in centinaia di registrazioni di altri musicisti dipinge un quadro preciso di una vita intera dedicata alla musica. Nel 2012, il pianista ed il bassista Dave Holland formarono un duo che li vide coinvolti in numerosi concerti dal vivo in giro per il mondo. The Art Of Conversation, album del 2014, ci offre la testimonianza di questa felice collaborazione. Il sodalizio artistico si concretizza in una sobria e raffinata miscela di standard e composizioni originali dei due grandi musicisti, sospesa in una dimensione incantata tra delicatezza e grande classe. Sia Barron che Holland sono strumentisti virtuosi, ciascuno con un peculiare tratto distintivo, e con un percorso piuttosto diverso all’interno dei vari stili del jazz. Da un lato Kenny Barron,  che con la sua tecnica impeccabile e la sua innata vena melodica, è un influente maestro del jazz mainstream. Dall’altra parte Dave Holland, che ugualmente è baciato da talento e tecnica sopraffina, ma si è avventurato con apparente facilità tra il jazz d'avanguardia e l’hard bop più muscolare. I due hanno in comune un approccio riflessivo, un forte senso della precisione e dell’attenzione al dettaglio, gusto e misura. Due individualità musicali in perfetta empatia che si esprimono in una profonda interazione artistica. Questo è esattamente quello che ritroviamo in questo bellissimo album. Su The Art Of Conversation c'è una palpabile sensazione di grande rispetto per le composizioni originali dell’uno e dell’altro. Ed in aggiunta al contributo personale troviamo anche brani come "In Walked Bud" di  Thelonious Monk  e "Daydream" di Billy Strayhorn che Barron e Holland fanno proprie con garbo e grande partecipazione. Una registrazione di grande equilibrio e classe cristallina che ovviamente è particolarmente evidenziata dalla formula del duo piano / contrabbasso in grado di esaltare le individualità e sottolineare la coesione e la sintonia. L‘interplay si palesa splendidamente ad esempio nella languida, quasi elegiaca  "Rain", firmata da Barron, sulla quale è proprio Dave Holland a gestire la melodia; così come nella onirica ballata di Holland intitolata "In Your Arms" in cui è Kenny Barron che prende il timone giocando sulla partitura. Un album con la formula ristretta del duo non è per tutti: può essere noioso o stucchevole e quindi è sempre un rischio, se non sono due fenomeni come Dave Holland e Kenny Barron ad esserne i protagonisti. Rischio scongiurato davanti a questo tipo di collaborazione solidale, di sinergia creativa e di rispetto reciproco: tutte cose che rendono l’ascolto di The Art Of Conversation una vera delizia per qualsiasi appassionato di musica.

Ahmad Jamal – A Quiet Time


Ahmad Jamal – A Quiet Time

Ahmad Jamal è uno dei più singolari pianisti e compositori della sua generazione, un musicista che ha fatto della tecnica rigorosa e del suo stile unico un segno distintivo della propria carriera artistica. Uno stile ed un approccio musicale che hanno avuto un importante impatto perfino sul grande genio Miles Davis. Non a caso Jamal è spesso accostato alla nascita ed alla crescita della corrente del cool jazz. Pur essendo tecnicamente straordinario e avendo tutte le doti di un vero virtuoso, infatti padroneggia benissimo tutti gli idiomi jazzistici dallo swing al bebop, Jamal ha scelto di suonare con uno stile che non fa sempre e solo sfoggio di protagonismo. Influenzato da pianisti come Errol Garner e Art Tatum, ma anche dal sound delle big-band e dalla musica orchestrale, Jamal ha sviluppato la sua innovativa filosofia musicale dando una scossa al jazz moderno. Il maestro ha sempre mostrato un sapiente utilizzo di pause e tensioni, inaspettati fraseggi e controllo della dinamica e delle armoniche, oltre ad una vena compositiva molto melodica. Con questo album del 2010 intitolato “A Quiet Time" il grande pianista pone un ulteriore tassello nella sua luminosa e lunghissima carriera . Jamal ha ormai raggiunto lo status di leggenda vivente e lo ha fatto grazie alla continua evoluzione ed al perfezionamento del suo sound; il suo unico e innovativo approccio dello strumento pianoforte è stato ed è ancora oggi un punto di riferimento. Per questa ennesima avventura musicale Ahmad Jamal ha coinvolto alcuni dei suoi compagni di vecchia data come il bassista James Cammack e il percussionista Manolo Badrena. La batteria, in precedenza suonata da un elenco formidabile di stelle che iniziano con Vernell Fournier fino al recente Idris Muhammad, è affidata a Kenny Washington. Il quale pur non possedendo ancora il carisma dei suoi predecessori, è un battersita esperto con un profondo senso dello swing. L'album contiene nove canzoni originali di Jamal, per lo più composte dopo il 2000, più una cover dello standard "I Hear A Rhapsody" e una del classico "Hi-Fly" di Randy Weston. Si inizia con la vivace "Paris After Dark", e si viene avvolti dal calore immediatamente familiare di Jamal, il cui groove entra nella melodia interpretandola liberamente, in completo controllo."The Love Is Lost" è una ballata pennellata sobriamente dal drumming leggero di Washington e sottolineata dai toni nervosi del basso di Cammack e dove il piano di Jamal trova spunti ed intime riflessioni ."Flight To Russia" è invece un brano pieno di inaspettati sprazzi di blues, inseguimenti in tensione e scappatelle in curiosi territori, in un caleidoscopio di molteplici transizioni. La presenza di Washington è più funky, e la traccia è caratterizzata dalla tipica firma acustica di Jamal fatta di armoniche e spazialità. "Poetry" inizia come un sogno impressionista, arguto e leggero. Le brillanti percussioni metalliche di Badrena catturano l'attenzione, mentre Jamal si impegna in sensuali scale blues. La melodia si attorciglia in voluttuose spirali intorno ad un centro tonale, fino ad un finale che potrebbe essere un pezzo d'avanguardia. E' un brivido assoluto ascoltare  "Hi Fly", dove l'interpretazione di Jamal del noto tema di Randy Weston mette in comunicazione spirituale le radici comuni dei due pianisti ed esalta un profondo rispetto reciproco. Il delicato "My Inspiration" delicatamente profumato di bossa nova ci mostra un Ahmad a suo agio anche con il linguaggio carioca a dimostrazione di una grande versatilità dell’artista ."After JALC (Jazz at Lincoln Center)" è swingante e mutevole, a tratti funky, a volte quasi statica: il perfetto gioco per il pianismo percussivo di Jamal. Una sorta di mini-suite jazz in onore della Lincoln Center Orchestra con la quale il maestro ha collaborato nel 2008. "The Blooming Flower" è un dipinto dai toni lussureggianti, rilassato seppur costruito su una potente linea di basso, arricchito dai ricami di un ispirato Manolo Badrena e dalla batteria riservata di Washington; su tutto l’elegante e profondo fraseggio di Jamal. "Tranquility" è una dinamica ballata, rivisitata rispetto all’originale del 1968, pubblicato dalla Impulse. Il brano, nella sua apparente rilassatezza suona pulsante come un organismo vivente, e si conclude in bellezza sulle note più acute del piano di Jamal. "I Hear a Rhapsody" viene eseguita in un duetto pianoforte-contrabbasso. Jamal e Cammack sono come anime gemelle su questo numero,  in perfetta simbiosi e straordinaria armonia si pilotano quasi telepaticamente dentro questo standard d’altri tempi. La consistenza e la maestria assoluta di questo fantastico pianista, con alle spalle oltre 60 anni di carriera, album dopo album non fa che aumentare. Capace di una impareggiabile personalità e di una integrità artistica che definirei granitica, Ahmad Jamal continua, su “A Quiet Time”, nella sua costante evoluzione anche oltre gli 80 anni di età, proponendo un album coinvolgente e stimolante e dimostrando ancora una volta che la sua padronanza del pianoforte (e del jazz) è eccezionale.

Steps Ahead - Steps Ahead


Steps Ahead - Steps Ahead


Il collettivo musicale attualmente noto come Steps Ahead, originariamente si chiamava solo Steps. Era il 1979 ed il vibrafonista Mike Mainieri decise di mettere insieme questa super band inizialmente solo per un tour in Giappone. Da quella esperienza (della quale esiste comunque testimonianza discografica) nacquero gli Steps Ahead, un gruppo di grande rilevanza nel jazz contemporaneo, come i cugini “Jellowjackets” e i padri putativi “Weather Report”. Nel corso del tempo tra i suoi membri sono apparsi alcuni dei più bei nomi del panorama musicale moderno: il sassofonista Michael Brecker, i tastieristi Don Grolnick, Eliane Elias e Rachel Z o ancora il chitarrista Mike Stern. Sono passati nelle fila degli Steps Ahead anche i bassisti Eddie Gomez e Darryl Jones  e i batteristi Peter Erskine e Steve Smith. La musica degli Steps riunisce in unico progetto il jazz, il funk, la fusion e qualche sprazzo di rock in un mix originale e diverso da quello prodotto da altri gruppi simili; il loro è un sound caratteristico che non è solo virtuosismo ma riesce spesso ad essere davvero emozionante. Il gruppo è stato decisamente più attivo durante il periodo compreso tra il 1979 ed il 1986, per poi ridurre l’attività discografica ed anche quella live attorno alla metà degli anni '90. I primi tre album furono registrati comunque con il nome breve Steps e pubblicati, come detto, solo sul mercato giapponese: un vero peccato perché quei due live e l’album di studio Step By Step sono davvero molto validi e meriterebbero una diffusione ben superiore. Il debutto discografico fuori dai confini nipponici degli Steps Ahead (finalmente con il nome completo) ci presenta la versione datata 1982 del gruppo: il vibrafonista Mike Mainieri, il sassofonista Michael Brecker, la pianista Eliane Elias (una giovane sconosciuta in quel momento), il bassista Eddie Gomez, e il batterista Peter Erskine. La band produce una musica in qualche misura di difficile definizione e sicura catalogazione ma è senza dubbio di grande qualità, a tratti anche piuttosto accattivante, pur se con forti connotazioni jazzistiche. Questo è un progetto musicale complesso e articolato che raccoglie parte dell’eredità dei Weather Report e crea a sua volta uno scenario nuovo. Si tratta essenzialmente di fusion di pregevolissima fattura, dove il jazz è più di una semplice traccia e  nella quale i musicisti entrano ciascuno con il proprio bagaglio artistico e la propria tecnica individuale, mettendosi al servizio di un’idea comune. Michael Brecker, con il suo meraviglioso sax, impreziosisce qualsiasi cosa e certo non viene meno in questa circostanza. Mike Mainieri porta il suo contributo compositivo e la sua raffinata tecnica vibrafonistica, spesso suonando  il synthivibe, ovvero la versione elettronica del più famoso fratello acustico. La Elias mette in mostra le sue doti di eccellente pianista che più tardi le garantiranno una grande carriera solista. Su Peter Erskine c’è poco da dire, è uno dei più grandi drummer degli ultimi 40 anni e il suo tratto distintivo non fa altro che arricchire il già ricco menù degli Steps Ahead.  Il più eclatanti tra i sette  brani originali proposti sono "Pool"  firmata dal grande Don Grolnick e la carsibica "Islands" di Mike Mainieri: due pezzi di grande jazz contemporaneo che riassumono perfettamente lo spirito della musica del gruppo. “Loxodrome” di Eddie Gomez è un brano di hard bop che è una perfetta vetrina per il dinamico basso dell’autore e vede una Eliane Elias perfettamente a suo agio con il linguaggio del jazz, mentre l’intervento di Brecker al sax è una delizia per intenditori. Molto bella anche “Both Sides of the Coin”  con il suo ritmo in costante cambiamento e il gioco di sax e vibrafono a dettare le linee melodiche. “Skyward Bound” è una stupenda ballata dal sapore blues, dal sapore notturno e affascinante, di grande atmosfera. Si torna all’hard bop con la nervosa e veloce “Northern Cross”, che è il contributo compositivo di Peter Erskine ed infatti lo vede protagonista di un tappeto poliritmico complesso, a dimostrazione della sua innegabile maestria alla batteria. Si chiude con una improvvisazione in trio da parte di Gomez, Mainieri e Brecker: una sorta di brano di jazz da camera inquietante e molto particolare intitolato non a caso “Trio (An Improvisation)”. Il primo omonimo album degli Steps Ahead rappresenta al meglio la modernità dell’idioma jazzistico. Ha giusto un tocco di fusion senza che mai venga persa di vista l’essenza del jazz mainstream: le lunghe improvvisazioni, le complesse armonie gli intrecci ritmici più arditi. Se l’eredità dei Weather Report poteva essere raccolta da qualcuno, di sicuro gli Steps Ahead se ne sono impossessati rielaborandola con originalità e grande personalità, arrivando ad un risultato di assoluto valore, veri "passi avanti" come recita la traduzione del nome stesso della band . Il loro “primo” album è un must per qualsiasi serio appassionato di musica jazz.

Yellowjackets – Club Nocturne


Yellowjackets – Club Nocturne

Gli Yellowjackets sono uno dei gruppi storici più importanti nell’ambito della fusion music. Al pari di un altro gruppo basilare degli anni ’80, gli Steps Ahead, sono senza dubbio i portabandiera di un jazz moderno, contaminato con altre stili, ma fondamentalmente coerente e poco indulgente verso la musica più commerciale. Fondato nel 1981, il gruppo ha avuto come star degli esordi il chitarrista Robben Ford, ma il grande salto di qualità avvenne dopo la partenza dello stesso Ford, nel momento in cui il sassofonista Marc Russo prese il suo posto. A questo punto i membri originali Russell Ferrante alle tastiere, il bassista elettrico Jimmy Haslip, oltre al batterista William Kennedy, trovarono il proprio suono: sofisticato, tecnico, quasi matematico nella sua algida perfezione. A tratti  le composizioni originali degli Jellowjackets suonano vagamente come un più melodico Joe Zawinul, altre volte esprimono una loro peculiarità musicale ben precisa ed una personalità unica. Nel corso del tempo c’è stata un’evoluzione costante nel loro stile che si è sempre più allontanato dalla fusion degli esordi con la Warner Bros. nei primi anni '80, per avvicinarsi di pari passo ad una forma compiuta di jazz contemporaneo. Un ulteriore cambiamento nell’organico della band avvenne negli anni '90, quando Russo scelse di lasciare per una carriera solista e fu sostituito da Bob Mintzer ai sax ed al clarinetto basso. Un’ altra evidente svolta verso il jazz si era concretizzata. Nel 2013 gli Yellowjackets accolsero il nuovo bassista Felix Pastorius (figlio di Jaco). Infine Pastorius è stato sostituito da Dane Alderson nel 2015. Per questo Club Nocturne del 1998, quattordicesimo album della band, gli Yellowjackets mettono in pratica il desiderio di andare in una direzione diversa da tutte le loro uscite precedenti. La differenza su Club Nocturne è l'inserimento di quattro tracce vocali. Fortunatamente, non vi è alcuna differenza nel livello di musicalità e qualità compositiva tradizionalmente associato alla produzione di  questo formidabile quartetto. In realtà, Club Nocturne è una ideale prosecuzione artistica de i suoi immediati predecessori, Dreamland e Blue Hats. "Spirit of the West" e "Stick_to-it-ive-ness" spingono l’album verso un tenore postivo ed ottimista, forse meno cupo che in precedenza. Vengono esaltate le capacità compositive ricche di inventiva di Russell Ferrante e ovviamente la sua agile diteggiatura al piano, coadiuvate dal sempre melodico lavoro al basso di Jimmy Haslip e dalla padronanza del sassofono soprano di Bob Mintzer. Il groove è solido, l’impronta è inconfondibilmente quella tipica degli Yellowjackets. La swingante "Up From New Orleans," è un piccolo diversivo per la band solo perché Kurt Elling è ospite come cantante per questo omaggio scritto da Mintzer alla famosa città della Lousiana. Ma la musica è puro  Yellowjackets / Mintzer style, con i tipici controtempi e gli intrecci sonori sofisticati che siamo abituati ad ascoltare. "The Evening News" si muove in un groove sincopato guidato dal basso di Haslip e dalla batteria di William Kennedy, impegnato qui e in tutto il lavoro nelle sue solite, virtuose, esibizioni poliritmiche. Le due tracce più sorprendenti sono "Even The Pain", con la voce di Jonathan Butler, e "Love And Paris Rain", cantata da Brenda Russell: due canzoni che entrano di diritto nel campo dello smooth jazz, ognuna delle quali ha però abbastanza carattere e personalità per distinguersi dalla massa. La prima, con Butler, ha il sapore del suo nativo Sud Africa, mentre la seconda con la signora Russell si segnala per la sua inaspettata progressione di accordi. "The Village Church" è  un richiamo all’infanzia di Ferrante, il cui padre era un direttore di coro in chiesa, inevitabili gli echi gospel filtrati dal contesto jazz fusion. "Twilight For Nancy" è una bellissima ballata strumentale, in cui il piano è lirico e fluidissimo, mentre "Automat" ricorda da vicino gli album precedenti, con il sax ed il synth che giocano in contrappunto attorno e dentro la melodia. Il pezzo finale, "All Is Quiet" porta di nuovo Elling al microfono, questa volta in un ambiente atipico per una registrazione degli Yellowjackets, il cantante (e pianista a sua volta) confronta la sua voce con il sax di Mintzer, mentre il resto della band agisce in sottofondo. Club Nocturne è bello ed interessante dall'inizio alla fine, un ulteriore passo avanti nel cammino artistico dei mitici Yellowjackets. Se da un lato si percepisce una volontà  di espandere la loro musica ad un pubblico più ampio, è assolutamente apprezzabile che siano al contempo riusciti a evitare di compromettere i loro tradizionali ed elevatissimi standard musicali. Il giudizio complessivo si guadagna quattro stelle abbondanti assolutamente meritate.

Gil Scott Heron – It’s Your World


Gil Scott Heron – It’s Your World

Sono un estimatore di Gil Scott Heron da molto tempo. La sua difficile storia di uomo e di artista mi ha sempre affascinato, alcuni dei suoi album sono certamente opere degne della massima attenzione e spero che il mio piccolo contributo alla sua conoscenza, renda a Gil  almeno un po’ della considerazione che merita. Gil Scott Heron è uno dei più importanti progenitori della musica rap, la sua poetica aggressiva e senza fronzoli ha ispirato intere legioni di rapper, mentre il suo talento nello scrivere, oltre che i testi, anche delle belle canzoni lo ha portato ad essere un musicista di culto (purtroppo) per una ristretta cerchia di estimatori. Nato a Chicago, Scott-Heron trascorse la maggior parte dei suoi anni liceali nel Bronx, dove visse in prima persona molte delle esperienze che più tardi diventarono il materiale di base per la sua scrittura. La letteratura è stato il suo primo grande amore fin da ragazzo: prima la poesia e poi il romanzo sul quale concentrò la sua carriera di scrittore. The Vulture è tuttavia la sua unica pubblicazione. Questo doppio album di Gil Scott-Heron, circa due terzi del quale è stato registrato dal vivo a Boston tra il 2 ed il 4 luglio del 1976, rivisita la maggior parte della sua produzione tra il 1970 ed il 1975. A prescindere da come gli anni abbiano ovviemente sbiadito i temi politici, una volta attuali, come Nixon, Agnew, e  il Watergate bisogna dire che l'album perde poco del suo forte impatto emotivo. Quattro canzoni sono registrate in studio ("It’s Your World", "Possum Slim", "New York City" e "Sharing"), ed anche se sono all'altezza degli standard abituali jazz / blues / pop di Heron, va detto che il disco si fa preferire nei momenti live. Come spiegato nelle note di copertina riscritte del 2000, The Midnight Band era una band molto coinvolgente dal vivo: ascoltare la vivace, elettrizzante, interpretazione di "The Bottle", lunga tredici minuti per uno dei brani più famosi di Heron, è tutto ciò che serve per capire il motivo per cui il termine “conivolgente” venga sottolineato. Ancora più importante, questi brani non hanno perso nulla della loro lirica incisività nel corso degli anni, come vuole la migliore tradizione della musica di protesta. Musicalmente la band risulta coesa e carica, rifinita anche nelle sfumature, ma abbastanza sciolta per aprirsi a delle energetiche ed interessanti jam session. Il piano elettrico del fido collaboratore di Scott Heron, Brian Jackson domina la scena sciorinando assoli di pregevolissima fattura. Il suono che scaturisce da It’s Your World è decisamente caratterizzato dalle ritmiche latineggianti, dal flauto ed appunto dal piano, con una affinità con Santana e Mongo Santamaria. Si respira un’atmosfera fortemente venata di jazz, soprattutto sul tributo a John Coltrane intitolato "Trane", dove è l’ottimo sax tenore di Bilal Sunni-Ali a condurre il gioco. La profonda,  inconfondibile voce di Scott-Heron è di volta in volta rilassante o tagliente, ed infonde la musica con il cuore e l'anima. Il suono resta vivo e stimolante anche durante le improvvisazioni più lunghe. Brani come "Home Is Where the Hatred Is" esplodono in queste estese versioni dal vivo che diventano delle letture definitive di queste canzoni impegnate. Rimasterizzato in occasione della sua ristampa, It’s Your World scoppietta di energia, presentando una band al suo picco creativo e musicale, mettendo l'ascoltatore praticamente sul palco, in primo piano, immerso in un’esibizione straordinaria di un grande artista, purtroppo troppo spesso dimenticato. Questo è senza dubbio uno dei migliori album di Gil Scott-Heron, una sorta di capsula del tempo che ci proietta nel cuore degli anni ‘70, sia musicalmente, sia culturalmente. It’s Your World è una valida prova dell’intelligenza musicale e dell’arguzia lirica dell'artista: un esperienza di ascolto in costante movimento.

Jamiroquai – Emergency On Planet Earth


Jamiroquai – Emergency On Planet Earth

Negli ormai lontani giorni in cui il grunge teneva banco sul mercato discografico ed otteneva consensi di pubblico in ogni parte del mondo, anche l’acid jazz (soprattutto in Europa) riusciva a ritagliarsi un suo piccolo spazio. Fu quindi certamente una piacevole novità trovare una band in totale contrasto con le tendenze del momento. Quella band erano i Jamiroquai. Anche se per qualcuno potevano essere visti come una sorta di imitazione di Stevie Wonder (per via della vocalità affine del loro leader), gli Jamiroqaui ed il suo front man di grande talento Jay Kay erano invece sufficientemente innovativi per esprimersi in modo originale in una miscela di funk acido, psichedelia e house/disco music che si discostava significativamente da tutto ciò che si era ascoltato. Gli Jamiroquai nel breve volgere di una stagione  sono diventati un gruppo universalmente popolare, scalando le classifiche di quegli anni così come anche quelle di oggi. Il materiale degli inizi è probabilmente la migliore rappresentazione dell’ unicità del loro suono, anche alla luce di quanto l’evoluzione successiva degli Jamiroquai abbia mostrato prendendo una direzione più pop. Il loro album di debutto “Emergency On Planet Earth” è un diamante grezzo, ruvido ed essenziale, ma pur sempre una gemma. Il suo valore non è celato, è palese, risulta evidente: si percepisce fin dalle prime note. Selvaggio, ribelle, vivo. Va dalle profonde vibrazioni ancestrali del didgeridoo alle impennate melodiche sottolineate da un uso sapiente e caratteristico degli archi e dei fiati. Nel corso degli anni Jamiroquai ha creato un marchio di fabbrica inconfondibile e particolare, immediatamente riconoscibile. Per coloro che hanno familiarità con le ultime uscite della band, la produzione più recente li ha visti preferire canzoni più orientate alla dance rispetto ai primissimi lavori. Emergency On Planet Earth però, è un album focalizzato esclusivamente sul puro sound Jamiroquai e tutta la sua architettura musicale non indulge a scelte commerciali o a compromessi. Nel 1993 Jay Kay e i suoi Jamiroquai erano effettivamente un gruppo collettivamente al lavoro su un progetto di musica, su un’idea ben precisa, dove tutti i musicisti avevano uno spazio creativo. Tra questi quello che merita una menzione particolare è l’ex membro e bassista Stuart Zender che ha dato un’impronta significativa al suono originale del gruppo. Quello che si ascolta in questo folgorante debutto è il gruppo al suo meglio, raramente succede che una band raggiunga il suo top con il primo lavoro, ma probabilmente nell’esplosione creativa di Emergency On Planet Earth è racchiusa la vera essenza di Jay Kay e dei suoi compagni. La prima canzone When You Gonna Learn (Digeridoo), ci presenta immediatamente la sostanza e la sintesi di tutta la filosofia musicale di Jamiroquai: è una fusione funk creata da complesse linee di basso e intricate figure percussive, condite e rifinite con una melodia irresistibile. Too Young To die è il brano che ha portato la band alla ribalta internazionale: pur se sono evidenti le citazioni del miglior Stevie Wonder questo è un pezzo fantastico sia dal punto vista melodico che per l’arrangiamento. Articolato, vario, inframmezzato da fiati potenti e da quei contrappunti di archi che Jay Kay riesce ad inserire con perfetta scelta di tempi e grande misura. Hooked Up rimane nel campo del funk più genuino, batteria e percussioni creano il tappeto ritmico sul quale la sezione fiati imbastice i suoi riff e consente al potente basso di Zender e alle tastiere di ricamare le giuste armonie. Più rilassata, almeno all’inizio If I like It, I Do It , appare più canonicamente in formato canzone anche se poi arriva l’immancabile esplosione ritmica. Ma la cosa che incanta è la qualità della scrittura musicale di quello che all’epoca era davvero un ragazzino. Il piccolo, magrolino Jay Kay mostra invece la sua travolgente energia e tutto il suo talento innato di artista e musicista unito a delle doti vocali non comuni e lo fa al suo debutto discografico, una cosa davvero rara. Music Of The Mind è uno strumentale dove a farla da padrone è il basso elettrico di Zender suonato in modo quasi fisico e tenuto in primissimo piano. Il brano suona in perfetto stile acid jazz, pescando nella tradizione black degli anni ’70 con un favoloso piano elettrico, i  suoni di synth vintage e la melodia dettata dagli archi e dai fiati. La title track ci consegna la filosofia ecologista, ribelle ed anti sistema nelle parole della canzone riassumendo al contempo nella musica stessa una sorta di compendio estetico del funk e della disco.  Whatever It Is, I Just Can’t Stop si ritrova perfettamente nell’immaginario di quello che dovrebbe essere un brano funk in piena regola: ritmi sincopati, basso muscolare, clavinet e Rhodes a dettare l’armonia e su tutto la vocalità strabordante di Jason.  Blow Your Mind è semplicemente straordinaria: ha un ottimo inciso strumentale, il ritmo coinvolgente che trasmette facilmente movimento al corpo ed una melodia che inevitabilmente resta in testa, come gran parte dell’album, del resto. Tutto completato dalla solita sezione ritmica, sempre gagliarda, e dagli interventi delle tastiere tesi a creare strane ed evocative atmosfere quasi spaziali, in particolare nel finale. Revolution 1993 con i suoi oltre 10 minuti è certamente uno dei momenti migliori in assoluto della storia della band. Dopo un inizio molto particolare, quasi declamato da parte di JK, con la batteria in sottofondo a ribadire i concetti “rivoluzionari” e i fiati a ripetere ossessivamente un martellante riff, a partire dal minuto 3:21, ecco il primo cambio di passo. Si entra in un’atmosfera psichedelica, e subito un flauto molto “jazz” ci porta in pieni anni ’70. Ma il brano è mutevole ed in costante movimento e dopo un altro momento cantato e i soliti fiati, ecco che arriva l’assolo, questa volta di tromba, dhe ci riporta in pieno funk jazz. Favoloso. Ci sono tanti momenti di puro genio su Emergency On Planet Earth: questo è uno dei più grandi album di funk della storia. Funk è comunque un termine riduttivo in questo caso, perché si tratta di musica che taglia in due le definizioni si stile. E’ varia, intelligente e fresca come raramente capita di ascoltare. Ancora oggi a ventiquattro anni dalla sua pubblicazione suona attuale e prepotentemente innovativo. Insieme al suo sequel The Return Of The Space Cowboy, che forse aggiunge ancora qualcosa alla bellezza di questo debutto, gli Jamiroquai ci hanno regalato momenti di grandissima musica. Emergency On Planet Earth è un album caldamente raccomandato, è essenziale per i fan di Jason Kay e della band ma è consigliato anche per coloro che fossero scettici. E’ un dato di fatto: in questo trentennio non c’è stato molto di meglio dei Jamiroquai.

Bobby Lyle – The Way I Feel


Bobby Lyle – The Way I Feel

Il pianista e tastierista Bobby Lyle ebbe il suo primo incontro con il grande suonatore di organo Hammond B-3 Jimmy Smith in un night club di Minneapolis chiamato Big Al, dove Lyle allora ragazzino, si esibiva come "talento locale" sul palco minore della location. Al piano superiore, sul palco principale, Smith stava suonando come stella della serata ed il giovane Bobby, dopo aver terminato il suo set corse il più rapidamente possibile per ascoltare Smith e magari, chissà, stringergli la mano. "Jimmy era una cintura nera di karate," ricorda Lyle di quel primo incontro, "così, quando mi strinse la mano, quasi stritolò le mie piccole dita!" Lyle continuò a esercitarsi con l’organo jazz, suonando occasionalmente ogni volta che si imbatteva in un Hammond nei locali notturni Minneapolis e cercando così di affinare la sua tecnica. Nonostante gli studi musicali di alto livello, ci sono alcune cose del jazz che non si possono imparare in un conservatorio. The Way I Feel, è il tributo di Bobby Lyle a Jimmy Smith, il quale dopo il memorabile incontro, divenne un mentore ed un amico del giovane tastierista. Questa registrazione del 2013, che è la prima di Lyle dal lontano 2006, può sembrare sorprendente per chi lo conosce solo per i suoi album di jazz funk e fusion arrangiati e prodotti in modo raffinato. Di fatto questo è il primo album in cui Lyle suona l’organo Hammond B-3 su ogni traccia ed anche quello nel quale si esprime finalmente senza remore nell’idioma più tradizionale del jazz. Il talento e la tecnica non sono mai mancati a Bobby Lyle, semmai è la ricerca della strada più difficile che col tempo è venuta a mancare in questo grande tastierista:  The Way I Feel colma la lacuna. Il CD è anche un omaggio al grande chitarrista Wes Montgomery, che ha registrato con Smith diversi album popolari negli anni sessanta. Per riprodurre le partiture di Wes, Lyle ha chiamato il chitarrista Brennen Nase ed il suo modo di suonare è un vero piacere per l’ascoltatore. Il suono di Montgomery e la sua tecnica, erano veramente unici nel suo genere. Nase però naviga a suo agio attraverso diversi decenni di storia della chitarra, emulando Montgomery in tutta la registrazione, come ad esempio sullo standard "Baby It's Cold Outside" ed anche sul brano "Feelin 'Wes" dedicato dallo stesso Lyle al grande chitarrista, dove inserisce anche un po' del funk tanto caro al tastierista. Su tutto domina però il sound inconfondibile dell’Hammond magistralmente suonato da Bobby Lyle con abbondanza di accenti swing e fughe solistiche di alto livello. "Hard Workin 'Man" è il brano con l’atmosfera più funkeggiante dell’album ma ci consente di ascoltare un Lyle ispiratissimo impegnarsi in un magnifico fraseggio sulla base ritmica scandita dal batterista Patrick Williams. Non contento di aver ricreato una sessione di registrazione in tipico stile Verve degli anni ’60, Bobby Lyle fa molto di più e porta il mito dell’organo Hammond B-3 nel 21° secolo, con un set di brani che comprende anche echi della musica di New Orleans, il gospel, il funk e ovviamente molta della tradizione degli anni d’oro dell’organo jazz. I contenuti musicali su The Way I Feel sono significativi ed ispirati e l’organo di Lyle brilla di luce propria, liquido e scattante come meglio non si potrebbe. Se Jimmy Smith è di sicuro responsabile di aver consacrato l’Hammond B-3 come uno strumento di vitale importanza nel jazz, Bobby Lyle porta, con grande rispetto, questa pesante eredità dritta in un futuro indubbiamente più funky ma certamente molto attuale. A mio parere questo è il miglior album di Lyle dai tempi di The Genie e New Warrior ed è inoltre un vero, imperdibile “must” per tutti gli appassionati di organo jazz.

Gene Ammons - Bad! Bossa Nova


Gene Ammons - Bad! Bossa Nova

Uomo dalla vita difficile e controversa, inficiata dalla tossicodipendenza come spesso accadeva ai musicisti jazz degli anni a cavallo tra i 50 e i 60, Gene Ammons è tuttavia un personaggio di un certo rilievo musicalmente parlando. La sua voce strumentale potente ed espressiva, fortemente influenzata da Lester Young e Ben Webster (due giganti del sax), gli garantì una grande popolarità tra gli appassionati del sax tenore ed è da considerare a tutti gli effetti uno dei fondatori della scuola di Chicago per quanto riguarda il suo strumento. Una scuola, quella della metropoli dell’Illinois, a tutt’oggi un riferimento importante. Questa è stata l’ultima registrazione di Ammons prima di vedersi infliggere una seconda lunga condanna per possesso di eroina (la prima gli fu comminata 4 anni prima per lo stesso motivo). Inutile dire che questi stop forzati rappresentarono un severo impedimento ad una carriera musicale potenzialmente molto più felice. Il suo disco successivo sarebbe stato registrato più di sette anni dopo. La musica è sorprendentemente ottimista, upbeat con il nostro Gene affiancato da due chitarre (Bucky Pizzarelli e Kenny Burrell), una bella sezione ritmica (il pianista Hank Jones, il bassista Norman Edge e il batterista Oliver Jackson), ed in più alle percussioni Al Hayes. Un combo ben assortito per una serie di sei brani dal sapore latin jazz, in qualche misura mascherati da bossa nova, da cui il titolo dell’album. La musica è insolita, anche se non tutta memorabile, e qua e la affiorano quegli echi di quel blues per cui la città di Chicago è giustamente famosa. Il sax tenore di Gene Ammons è, ad ogni buon conto, sempre intenso, profondo ed in qualche misura sensuale. La selezione dei brani ha certamente qualche pecca. Per gli appassionati puristi della bossa nova forse potrebbe rivelarsi una parziale delusione poichè Ammons da una lettura molto sui generis del popolare genere brasiliano. E’ un lavoro dignitoso ma non essenziale, ma in virtù delle indubbie capacità espressive di Gene Ammons merita un ascolto ed una citazione.

Gil Scott-Heron - Spirits


Gil Scott-Heron - Spirits

Il più impegnato, il più politico, il più arrabbiato tra i cantautori soul afro-americani. Gil Scott-Heron, scomparso prematuramente il 27 Maggio del 2011 a New York è senza dubbio un artista da rivalutare.Dotato di una stupenda, profondissima voce inconfondibilmente black, ha scritto pagine memorabili nell'ambito della musica soul a partire dalla fine degli anni '60, restando attivo fino al 1998. Il suo essere non solo contro il sistema, ma chiaramente schierato politicamente a sinistra, non favorì mai il rapporto con le case discografiche. Anche per questo motivo smise di registrare materiale molto tempo prima che i  ripetuti problemi con la giustizia e dopo anche una grave malattia ne bloccassero l'attività. Il suo più grande successo fu una canzone diventata famosa: "The bottle" del 1978. Il caratteristico riff di flauto è stato campionato numerose volte in brani più recenti di altri artisti, e diverse sono state anche le covers. Confinare Gil Scott-Heron all'interno di uno stile definito non si addice alla multiforme personalità di questo straordinario e sfortunato musicista. Lui poteva spaziare dal jazz, al funky, al reggae, alla soul o l'r&b, e spesso i risultati erano eccellenti. La sua vena poetica come autore di "spoken words" cioè di poesia recitata su basi musicali fanno di lui una sorta di padre putativo del rap moderno. In questo album, il penultimo prima del suo stop definitivo in veste di autore di materiale originale, spicca il brano Give her a call, illuminato da una interpretazione piena di passionalità e dagli splendidi contrappunti di piano acustico, suonato dall'inseparabile Brian Jackson, che ne caratterizzano l'arrangiamento. Da non dimenticare poi la lunga, intensa Siprits, fortemente jazzata e ricca di assoli del sax di Ron Holloway e di piano del già citato Jackson. In conclusione resta da citare la fantastica e variegata suite in tre parti "The other side" dove oltre alla sua voce, spesso quasi narrante, figurano alcuni assoli notevolissimi di chitarra, piano e basso con echi quasi jazz-rock. Gil Scott-Heron era un grande artista ed è stato sfortunato e sottovalutato. Io lo reputo degno invece di una grande (ri)scoperta e spero che queste righe vi spingeranno ad ascoltarlo e di conseguenza ad apprezzarlo. "The revolution will not be televised" diceva Gil tanti anni fa in una sua canzone; oggi questo slogan non potrebbe essere più sbagliato, con l'evoluzione dei media si potrebbe dire esattamente il contrario, ma negli anni '80 chi avrebbe immaginato l'avvento delle nuove tecnologie di comunicazione ?

Michael Franks - The Art of Tea


Michael Franks - The Art of Tea

Michael Franks è un cantautore americano, californiano di San Diego per l'esattezza, classe 1944. Sostanzialmente un autodidatta in musica, ha però alla spalle studi universitari ed un laurea in letteratura che certamente hanno contribuito alla sua vena poetica nei testi. Accreditato di 18 album fino ad oggi, questo The Art of Tea è il suo secondo lavoro, primo con la Warner, dopo un debutto in stile folk/country di non particolare rilevanza. Parliamo di un album risalente a 40 anni fa, che a dispetto delle mode, delle tendenze e del tempo trascorso resta un piccolo capolavoro. Accompagnato dai Crusaders (anche loro all'epoca sotto contratto Warner) il disco è certamente uno dei suoi più riusciti e raccoglie alcuni brani particolarmente ispirati quali Popsicle toes, Mr. Blue, Jive e St.Elmos fire. Senza dubbio un manifesto di quello che sarà il suo stile, il suo marchio di fabbrica. La svolta jazzistica è palese, la struttura di canzone qui è sublimata in una sintesi tra l'esperienza più strettamente cantautoriale e quella del brano jazz, con assoli e parti strumentali sempre ben presenti. Le influenze della musica brasiliana, più avanti fortissime in Michael, sono qui soltanto accennate. La mistura che ne esce è di rara bellezza. Le melodie sono accattivanti, restano immediatamente in testa, Conquistano al primo ascolto. La sua voce "pigra", lazy, come dicono gli americani, è suadente, anche se di sicuro non è particolarmente potente, anzi, forse è persino timida, talvolta piatta. Tuttavia si sposa perfettamente con le composizioni, creando atmosfere magiche e sognanti, romanticamente intrise di poesia, ma ricche anche di swing. Negli album successivi tutto questo seguirà un percorso evolutivo, soprattutto negli arrangiamenti che si adegueranno ai tempi, mantenendo però una rigorosa fedeltà al suo modo di comporre. E questo anche grazie ad una scelta spesso felice del produttore e dei musicisti impiegati, sempre al top. Una coerenza che è senza dubbio un pregio ma alla lunga si rivelerà forse, al contempo, come il suo maggior difetto. Michael Franks si ama o si odia. Per molti il suo stile risulta insopportabile, personalmente l'ho sempre apprezzato, fin dal primo ascolto, e non mi stanco di seguirne le proposte.  The Art of Tea è comunque un disco storico, un punto di riferimento dello smooth jazz, un tassello importante della corrente West Coast, che qui si sublima nella sua forma più pregiata e sofisticata. Una serata in casa, magari fuori un pò di pioggia...freddo, dentro luci soffuse, atmosfera calda... un buon impianto hi-fi: mettetevi comodi,  la colonna sonora ideale potrebbe certamente arrivare da queste canzoni. Take it easy man, it's Michael Franks, after all.

Incognito - Amplified Soul


Incognito - Amplified Soul

Nel 2013, Jean-Paul "Bluey" Maunick uscì con il suo primo album solista, Leap of Faith, un insieme stilisticamente variegato in cui si è esibito, per la prima volta, in qualità di voce principale. Ma ben presto cominciò a lavorare su del materiale fresco con il suo gruppo Incognito, la creatura prediletta che ha condotto per oltre quattro decenni e che ancora guida. Leap of Faith evidentemente non soddisfava la sua creatività, dato che Amplified Soul è venuto alla luce come un altro album di 70 minuti di durata. Anche se non è accompagnato dalla classica voce di Maysa Leak o di altri collaboratori del livello di alcuni precedenti lavori, come Chaka Khan, Leon Ware e Al McKay o Mario Biondi, certamente anche Amplified Soul non è a corto di potenti ed esaltanti interventi vocali. Maunick collabora con alcuni nomi noti ai fan di Incognito e continua a mantenere fresco ed attuale il progetto con nuovi personaggi. In particolare, segnalo la brava Deborah Bond su "I See the Sun", un numero nel pieno spirito della band che conduce magnificamente verso la fine del disco ma che potrebbe altrettanto facilmente figurare come introduzione dell'album. Melonie Crosdale canta in "Rapture", un altro smagliante groove che si erge forse come il miglior brano di Amlified Soul. Parte invece da un recupero vintage un po' più distante rispetto alle loro tipiche sonorità di metà degli anni '70, primi anni '80, l'inusuale "Hats (Makes Me Wanna Holler)", che però non può non richiamare alla hit dell'anno “Happy” di Pharrell Williams. (A quando un'apparizione come guest star in un disco di Incognito?). "Wind Sorceress" è un brano strumentale che riporta tutto nei binari stilistici più canonici per la band, soddisfando anche coloro che ne apprezzano le grandi doti tecniche, qui evidenziate e sviluppate al meglio. Una certa somiglianza (voluta) con le sonorità del periodo acid jazz di Donald Byrd si percepisce, ma è pienamente godibile, così piena di quei piccoli dettagli che lo rendono più di un semplice tributo. E d'altronde come potrebbe essere diversamente per quelli che, a ragione, sono considerati come i paladini del genere Acid Jazz? Strumentale è anche "Amplify my soul, part 2", sinuoso e jazzato brano in mid-tempo, creato apposta per esaltare i fiati, tradizionale marchio di fabbrica della band, e con il sax di Nigel Hitchcok in bella evidenza. Come al solito, Maunick ha scritto o scritto in collaborazione con altri membri della band tutto il materiale originale, ma c'è anche una cover, una gioiosa versione del singolo del 1985 "Silver Shadow", di Atlantic Starr cantata dalla brava Vanessa Haynes. Una menzione va fatta anche per Tony Momrelle, voce maschile del gruppo, che già precedentemente aveva collaborato con Bluey e che non manca di dare il suo contributo anche qui. Carleen Anderson, amica di vecchia data di Incognito regala la sua personalissima e inconfondibile voce nella bella Another Way: una presenza sempre gradita, quella della vocalist americana di nascita ma inglese d'adozione. In conclusione ci troviamo di fronte ad un ennesimo gran disco di Incognito, forse non corredato da quella ricerca dell'innovazione e dalle iniezioni di coraggio che potrebbero anche risultare graditi, ma certamente solido, stupendamente arrangiato e come sempre ricco di belle canzoni soul dal respiro fresco e godibile. Ripetitivi ? Forse sì. Banali o noiosi ? Questo mai. La band funky-soul n°1 al mondo si conferma tale. Una garanzia, lunga vita agli Incognito.

Bluey - Leap Of Faith


Bluey - Leap Of Faith


Leader del gruppo funky soul acid jazz degli Incognito, nonchè principale compositore, arrangiatore e produttore della famosa band inglese, questo è il primo album solista di Jean-Paul 'Bluey' Maunick. Si intitola "Leap of faith" ed è la sua prima prova da solista dopo ben 15 album pubblicati con il suo mitico ensemble. 10 tracce: la caratteristica qui è la sua voce che diventa protagonista a differenza di quanto fatto fino ad oggi, con un programma ben variato di canzoni che spaziano tra i generi che il chitarrista di origine mauriziana ama di più. Penso tutto il bene possibile di questo personaggio, di questo grande artista. Più volte ho avuto modo di dire che se fossi in grado di scrivere musica vorrei farlo con la qualità, la sensibilità e la maestria di Bluey. Il suo lavoro con Incognito è un punto di riferimento che si staglia ben sopra la mediocrità del panorama musicale internazionale. L'album è una co-produzione con Richard Bull, suo collaboratore di lunga data e va detto che la parentela con quanto fatto con gli Incognito è chiara, ma non così palese come si potrebbe immaginare. E' evidente lo sforzo qui tentato da Bluey per affrancarsi in parte dal suo retaggio personale e cercare anche altre strade, in passato esplorate solo con le sue produzioni per conto di altri artisti. Un'eco del George Benson anni 80, un richiamo alla migliore house dell'epoca d'oro, un legame sempre forte con l'r&b ed il soul. Fra cose più riuscite e altre un pò più banali, Maunick ci propone un cd di buona qualità, che scorre fluido e interessante alla scoperta della sua voce che tanto gelosamente aveva celato al pubblico fino ad ora e che invece si rivela all'altezza. Tutto inizia con una canzone sinuosa ed intrigante intitolata "Shanachie". Il brano ha tutti gli ingredienti del soul, il basso pulsante, la melodia accattivante, l'arrangiamento come sempre perfetto. Subito dopo arriva quello che è il primo singolo dal titolo "Got To Let My Feelings Show". Il ritmo funky ci delizia su tutto, senza dimenticare un arrangiamento ricco di archi e un synth dal retro gusto vintage che conquista. Potrebbe essere una hit ! Un altro brano è "Take A Chance On Me" che, come dicevo, fa pensare a George Benson e ed è estremamente piacevole e d'atmosfera.. Il brano soul "Live Like A Millionaire" è ispirato alla canzone "Express Yourself" di Charles Wright & the Watts 103 Rhythm Band Street, non uno dei miei preferiti in verità. Un mondo pieno di sole si apre nella brasilianeggiante "Sky" bella canzone che ricorda anche certe atmosfere degli Incognito strumentali. Bluey è ovviamente un maestro di musica dance e questo si noterà in "Why Did I Let You Go", gioiosa e ritmata come ci si aspetta da un brano adatto alle piste da ballo. Nel pezzo "Leap of Faith" Bluey rende onore a due grandi personaggi come Nelson Mandela e Martin Luther King. Lo fa con un brano molto parlato, su un tappeto funky mid-tempo, dove il basso è protagonista. Tutto sommato Leap of faith mi è piaciuto. Non sarà un capolavoro assoluto, ma è un album gradevole, allegro, scorrevole. E' ben suonato, molto ben prodotto, vario. La voce di Bluey è una piacevole sorpresa. In attesa di un prossimo capitolo della storia infinita (si spera) chiamata Incognito, possiamo accontentarci e goderci la freschezza del talento di un uomo che è una garanzia. We're one nation under the groove...vero Bluey ?

Everette Harp - First love


 Everette Harp - First Love


Se un bambino, come Everette, viene piazzato davanti al pianoforte all'età di due anni, e comincia suonare il sax a quattro, coltivando un talento ed una sensibilità musicale evidentemente innata, ci sono buone probabilità che ne venga fuori come minimo un buon musicista. Queste aspettative sono state mantenute da questo splendido artista di Huston, Texas. Nove sono gli album registrati fino ad oggi. E sia pur con luci ed ombre (lo ammetto: non ho mai troppo apprezzato la sua sopratutto iniziale predilezione per il jazz più leggero, troppo smooth e quasi da sottofondo) la sua è una carriera che si può certamente definire di successo e in ultima analisi ricca di ottime proposte.
Nella sua ultima fatica, First love, il sassofonista e compositore di jazz contemporaneo Everette Harp si sposta più in profondità in quello spazio esplorato nel 2007 con l'eccellente My inspiration. Prodotto da George Duke, già di per se una garanzia di qualità e classe, la fusione di strumenti acustici ed elettrici è qui perfettamente bilanciata. Le strutture melodiche e armoniche sono molto più complesse e la pur presente vena smooth jazz non prende mai realmente il sopravvento. Basta ascoltare l'esordio del cd con quel suo originale "The council of Nicea", certamente una delle cose più riuscite dell'intero album, e già si delinea un quadro di indubbio valore. Il tenore di Harp è accompagnato dal basso di James Genus e dalla perfetta batteria della bravissima Terri Lyne Carrington in un bel blues, impreziosito da un fantastico assolo hard bop della tromba di Michael "Patches" Stewart, Lenny Castro aggiunge le sue percussioni a completare il tutto. A dirigere la band è un George Duke molto ispirato, prevalentemente al Fender Rhodes e con in più l'aiuto dello squisito, anche se spesso sottovalutato, lavoro di chitarra elettrica assicurato da Dwight Sills. La ballata "Before you go" continua il cd con la Carrington che dispensa pennellate eleganti con il suo drumming preciso e mai banale. Un inizio tutto sommato piuttosto mainstream, che tuttavia  non vuol dire che non ci sia del sano e potente funky anche qui. Ad esempio troviamo il brano di Duke "Soul Fries" con l'ottimo Genus al basso elettrico, e dove il sound groovy del Rhodes è pulsante e ricco, mentre il sound bluseggiante di Harp e Stewart sono perfettamente funzionali ad un arrangiamento molto sofisticato. George Duke, inutile dirlo, con il suo talento immenso, contribuisce a dare un tocco in più, aggiungendo ove possibile una ulteriore zampata latin funk, così da rendere la band un insieme davvero molto efficace. La sorpresa più grande del cd, tuttavia, è nella lettura splendidamente sobria ma intensamente soul del bellissimo brano di John Coltrane "Central Park West". Qui è dove la padronanza di Harp al sax tenore è pienamente espressa, con un'abbondanza di sfumature contagiosa per calore e profondità. Si tratta di una lettura assolutamente fantastica del classico coltraniano. "Departure" ci trasporta verso echi alla Weather Report e lo fa tuttavia con un sound originale e ancora una volta un Everette Harp meraviglioso nel suo fraseggio ora serrato ora più rilassato, sempre in perfetto controllo. Con una suddivisione paritaria tra elettrico e acustico e magistralmente interpretato dal migliore Everette Harp ascoltato fino ad ora, abbiamo qui un album sofisticato e compiuto, intimo e potente. Perfetto e bilanciato negli arrangiamenti, stupendamente suonato da tutti i musicisti coinvolti. Tutto ciò rende questa la sua migliore registrazione in assoluto. Del suo talento di sassofonista virtuoso e tecnicamente ineccepibile ero certo fin dall'esordio nel lontano 1992, sulla qualità delle sue registrazioni c'è stato in me in passato qualche dubbio più che altro per l'eccessiva indulgenza dimostrata da Everette verso il lato più commerciale del jazz. Con First love ritengo che il cinquantaduenne texano abbia raggiunto la piena maturità artistica e creativa. Questo è un album che potrà segnare una linea di confine, così come fu, per Grover Washington. Jr, l'indimenticabile Winelight. Consigliatissimo.

Wynton Kelly - Kelly Blue



Wynton Kelly - Kelly Blue

Originariamente registrata per la Riverside, questa session vede esibirsi da solista l'influente pianista Wynton Kelly in un trio con i suoi compagni della sezione ritmica dalla band di Miles Davis: il bassista Paul Chambers e il batterista Jimmy Cobb. Cui si aggiungono, in alcuni brani il cornettista Nat Adderley, il flautista Bobby Jaspar e il sax tenore di Benny Golson. Nel cd (rimasterizzato) il programma è arricchito, rispetto al vinile originale, con un inedito "Do Nothin 'Till You Hear from Me" e la versione alternativa di "Keep It Moving". Kelly era noto ed apprezzato come accompagnatore, ma qui si dimostra anche un solista dalle solide basi be-bop. Un ottimo esempio del suo talento, non solo di esecutore ma anche di compositore originale. Fluido, liquido e lucidissimo improvvisatore, Wynton Kelly esprime un pianismo gioioso, cristallino e sempre positivo, permeato di swing e di blues. Tecnicamente molto valido, mai banale, il suo lavoro è stato forse sottovalutato e certamente la sua prematura scomparsa a soli 41 anni non gli ha consentito di evolvere la sua carriera solistica verso quelle vette che il suo valore gli avrebbero consentito. La vicinanza artistica con il genio di Miles Davis, protrattasi per ben 4 anni, non ha fatto altro che arricchire un bagaglio tecnico e umano già ricco. Al punto che quando, nel 1963, abbandonò Miles, Wynton Kelly portò con se la mitica sezione ritmica di quella band a testimonianza di un interplay così radicato ed efficace da desiderarne fortemente la prosecuzione anche nella nuova avventura musicale. Da solista abbiamo solo 14 album a suo nome, a riprova di un percorso davvero troppo breve. Ripeto che questo è un gran peccato perchè sicuramente il tempo avrebbe dato ragione al talento di uno straordinario artista.
Kelly Blue è di fatto il suo quarto album, ed è un'opera godibile, scorrevole eppure ugualmente ricca e sfaccettata. Una curiosità: Marcus Miller, che diverrà il bassista prediletto dell'ultimissimo Miles Davis, è il cugino di secondo grado di Wynton. Un'altro cugino è il pianista Randy Weston.
Tra i pianisti delle nuove generazioni che citano Kelly tra gli artisti che più hanno fatto sentire la loro influenza su loro stile va citato il talento di Brad Mehldau.

Stanley Clarke - 1,2, To The Bass


Stanley Clarke - 1,2, To The Bass

Stanley Clarke è senza dubbio un bassista fenomenale dal talento cristallino. E' anche, certamente, uno dei musicisti più influenti del panorama mondiale, un artista che vanta decine di seguaci tra i colleghi e migliaia di fan accaniti e devoti. Tuttavia non ha fatto molto per mostrare queste capacità nelle sue registrazioni a partire dalla fine degli anni '70. Da allora in avanti è chiara una propensione di Clarke per materiale spesso banale, molto pop-oriented, cosa che fa, di conseguenza, ben poco per illuminare a dovere la sua grande padronanza tecnica dello strumento o di coinvolgere l'ascoltatore sia melodicamente che liricamente. 1, 2, to the Bass è un passo nella giusta direzione, con più di un tocco jazz-oriented e alcune collaborazioni interessanti. Insieme al rapper Q-Tip ad esempio abbiamo subito un buon inizio per il cd, la title track reinventa in chiave modern hip hop jazz un tema molto in voga qualche anno indietro, ai tempi dell'esplosione dell'acid jazz. "Simply Said" vira più verso la fusion classica ma lo fa con il flautista Hubert Laws ed un bel riff melodico. Vi è anche una rielaborazione piuttosto ispirata del classico R & B  "Where Is The Love", di Glenn Lewis e Amel Larrieux. In seguito, "Los Caballos" suona un pò troppo melodicamente romantica, e la successiva lettura da parte di Oprah Winfrey della poesia di Maya Angelou "I Shall Not Be Moved" sembra un po' fuori luogo in un album come questo. "Bout Bass" suona electro-funky-disco con una sua connotazione energica e potente. Notevole la cover di "Hair" con un bellissimo assolo di un ispirato Joe Satriani. Complessivamente forse non è la svolta esaltante che ci si poteva aspettare da un grande come Stanley Clarke, ma 1, 2, to the bass è comunque un ritorno molto eccitante, che si ascolta con grande piacere e che non manca di riservare molte piacevoli sorprese, unitamente, va detto, a momenti non particolarmente azzecati. Da uno come Stanley ci si aspetta sempre molto d'altra parte, perfino, perchè no, un ritorno al jazz più puro, ambito nel quale potrebbe esprimersi ai più alti livelli sia come compositore che come esecutore.

Isotope - Perception Of The Beholder


Isotope - Perception Of The Beholder

Questa non è la stessa band degli anni settanta guidata dal chitarrista Gary Boyle,  ma è comunque un gruppo jazz-fusion, con un suono molto differente dai loro predecessori. Non posso nascondere che li ho scovati per caso, proprio cercando informazioni su quella omonima, mitica band inglese. Questi Isotope provengono dunque dai Paesi Bassi, e hanno una formazione completa anche di una gagliarda sezione fiati. La musica è certamente di stampo contemporaneo, con un forte accento jazz, e sprazzi di sound da big band, inoltre qua e la appaiono tracce ed echi di matrice Zappiana.
I Brecker Brothers sono certamente il punto di riferimento nell'ascolto di questo bel cd, il sassofonista infatti suona un pò come un acerbo Michael Brecker (e questo è un complimento, sia chiaro), e la band tutta si esprime con quel caratteristico fusion sound tipico dei fratelli Brecker e del loro popolare gruppo. Forse gli amanti della variante più leggera del genere non troveranno grossa soddisfazione in questo sound, in quanto gli Isotope sono decisamente più radicati in un moderno jazz elettrico, a tratti colorato di accenti be-bop. Gli assoli sono gli assoluti protagonisti, con un ruolo predominante assegnato al bravo pianista Rob Van Bavel, quasi sempre al Rhodes. Musicalmente il gruppo è indubbiamente solido, tendente ad usare ritmi uptempo, cosa che contribuisce a mantenere viva l'attenzione e l'interesse dell'ascoltatore. Detto che la jazz-fusion ha molte facce e si esprime in modi molto variegati, questi Isotope olandesi propendono per una corrente che mette in evidenza il pianoforte e i fiati come caratteristiche principali, cosa che indubbiamente li distingue in modo netto dagli Isotope inglesi degli anni '70. D'altra parte non posso non dire che il drumming di Sebastiaan Cornelissen è uno dei punti salienti del cd, cosa che sospinge tutta la band con grande energia. Questo gruppo sconosciuto non mette in vetrina grandi star internazionali o musicisti di chiara fama, tuttavia offre un sound così coinvolgente e completo da non far rimpiangere affatto l'assenza di nomi altisonanti. Un cd fresco, veloce, ricco di talento e virtuosismo ma al contempo genuino ed efficace. Gran bella scoperta.

Stanley Turrentine - Ballads


Stanley Turrentine - Ballads

Sax tenore dal suono tra i più esuberanti, potenti e pieni del panorama jazzistico, Stanley Turrentine ci fa capire con questo bellissimo disco che forse è addirittura più impressionante quando si esibisce nel repertorio classico delle ballate. Tema, questo delle ballads, che nel jazz è stato scritto da molti mostri sacri, molto spesso con risultati notevoli. Un banco di prova ed una sfida che il nostro amico Stanley supera brillantemente, nonostante la sua fama sia associata probabilmente a sonorità più funky, in particolare nella seconda parte della sua carriera da solista. La sua capacità di elaborare, riscrivere, reinterpretare gli stati d'animo e le emozioni è l'ideale per le immortali e romantiche melodie contenute in questa stupenda selezione. Si va da "Willow weep for me" a "Since i fell for you", passando per "Somebody to watch over me", tutte magistralmente interpretate dalla voce profonda del tenore di Turrentine, fino alle bluesy "God bless the child" e "Child is born", dove emerge prepotente il forte animo soul dell'artista di Pittsburgh.
Affiancato e sostenuto da numerosi top player dell'epoca, che delicatamente accompagnano ed assecondano il solista nella sua carrellata di splendidi standards del jazz, Stanley Turrentine disegna con il suo sax ipnotico un meraviglioso quadro d'autore. E dimostra come forse la sua figura di musicista sia stata, forse, un pò sottovalutata ed anche troppo presto dimenticata. Tra gli ospiti degli studi Blue Note di Rudy Van Gelder nel New Jersey figurano:  Tommy Turrentine (tromba), Gene Harris, Horace Parlan, McCoy Tyner, Tommy Flanagan (piano); Shirley Scott, Jimmy Smith (organo), Grant Green, George Benson (chitarra); Simpkins Andrew , George Tucker, Bob Cranshaw, Paul Chambers, Holley major, Gene Taylor, Ron Carter (basso), Bill Dowdy, Al Harewood, Mickey Roker, Art Taylor, Clarence Johnston, Billy Cobham, Jimmy Madison (batteria). Una vera parata di stelle a far da sfondo ad un vero grande del sax tenore.

Djavan - Lilàs


Djavan - Lilàs

La musica brasiliana è una corrente molto particolare nel panorama internazionale. Per molti versi è un universo a parte, spesso anche piuttosto sconosciuto al grande pubblico. Inoltre ha il potere di dividere in modo molto netto chi la ama da chi invece non la sopporta. Appartengo alla prima categoria. Certo non posso affermare che mi piaccia tutta, ma ad esempio la bossa-nova jazz o il funky made in Brasil non li disdegno affatto. E poi c'è Djavan. Djavan è un cantautore, e nel contesto della musica brasiliana è anche un fenomeno del tutto anomalo e particolare. Intanto va detto che tra i musicisti, a livello mondiale, è molto stimato. E infatti le sue collaborazioni fuori dal Brasile sono prestigiose: David Foster, Stevie Wonder, Lee Ritenour, Al Jarreau, Manhattan Transfer e mi fermo qui ma potrei continuare. Una curiosità: in Italia ha lavorato con Loredana Bertè (un album intero, Savoir Faire) e recentemente Fiorella Mannoia. Insomma il personaggio è di quelli dotati di talento vero e caratura internazionale. Partendo dalla tradizione musicale brasiliana Djavan ha sviluppato presto le contaminazioni con alcune sue passioni come il funky che spesso echeggia nelle sue canzoni, il pop sofisticato ed elegante, perfettamente tagliato per il suo modo di comporre ed infine la musica africana. Da questo crogiolo di stili solidamente costruito sulle radici "brasileire" Djavan ha tirato fuori questo Lilàs, certamente il suo lavoro più significativo insieme al precedente Luz. L'album, molto bello, elegantemente arrangiato e prodotto in maniera sontuosa da David Foster è una gemma nascosta e vale la pena di assaporarlo. Preferibilmente vicino al mare, su una spiaggia, comunque nella natura, sorseggiando una caipirinha ed immaginandosi a Rio. Interamente cantato in portoghese è pervaso di atmosfere funky/pop per tutta la sua durata, con due valide eccezioni: la ballata Esquinas, molto dolce e romantica ed il classico samba Obi, allegro e solare come ti aspetti dalla proverbiale esuberanza sudamericana. Per il resto non ci sono punti deboli, da citare Lilàs, la title track che è un brano che resta in testa al primo ascolto e Infinito che parimenti è una canzone godibilissima. Musica brasiliana d'autore, dunque, ma secondo me fruibile da un pubblico più vasto di quello che solitamente ama il genere. Suggestioni che aprono orizzonti molto più universali ed offrono al contempo, all'ascoltatore più curioso, l'occasione per indagare meglio sul fenomeno musicale chiamato Brasile, dove certamente non mancano le sorprese interessanti ed inaspettate. Ventidue sono gli album di Djavan ad oggi, ma numerosissimi sono tutti gli altri artisti che al pari suo offrono un'alternativa alla "solita" musica. Provare per credere...

Gino Vannelli - Powerful People


Gino Vannelli - Powerful People

Uno splendido cantante Gino Vannelli. Nativo di Montreal, di origini italiane, è anche un compositore e già dopo il liceo firmò il suo primo contratto discografico. L'aggettivo che meglio lo può descrivere è "eclettico" poichè la sua musica, nel corso della lunga carriera, ha abbracciato molti generi e stili. Il soul certamente, ma anche il jazz, il jazz-rock passando per il pop e l'aor. Su tutto però si staglia la sua stupenda voce, capace di spaziare dalle tonalità più basse al falsetto più estremo con uno straordinario controllo ed una intonazione perfetta. Powerful people è il suo secondo album dopo Crazy life dell'anno prima. L'allora ventiduenne Gino sforna il suo primo capolavoro con un disco bellissimo e solare. Coadiuvato dal fratello Joe tastierista e arrangiatore ecco nove brani intrisi di passionalità e grandissimo feeling. Si apre con il classico People gotta move, uno dei suoi grandi successi, dove un piano elettrico molto presente fa da tappeto alla vocalità del leader insieme ad una ritmica latineggiante. Poi è un susseguirsi di canzoni una più bella dell'altra: la ballad Lady, lo shuffle Son of a New York gun, le sonorità jazz-rock di Jack miracolous sottolineate dalla batteria di Graham Lear. Si va avanti con un'altra ballata romantica come Jo Jo che ci conduce alla stupenda Powerful people, brano che da il titolo a questo album e che ci consente ancora una volta di apprezzare sia le doti canore di Gino Vannelli sia quelle di compositore, anche qui capace di una melodia davvero accattivante. La sinuosa Felicia è un brano molto soul, non lascia indifferenti. The work verse è un'altro "lento" che per quasi metà è solo piano elettrico e voce. Il disco si chiude con un tributo molto toccante al cantautore Jim Croce: Poor happy Jimmy. Una curiosità sulla registrazione di Powerful people è che manca un bassista perchè le parti di basso furono eseguite dalle tastiere. La luminosa carriera di Vannelli di fatto cominciò qui e non si è ancora conclusa. Di lì a poco usciranno altri dischi interessanti e nel 1978 quello che probabilmente resta il suo capolavoro assoluto Brother to brother. Non ho mai avuto la fortuna di assistere ad un suo concerto. Ho visto dei filmati e posseggo il suo notevolissimo disco Live in Montreal. Un'idea però me la sono fatta e la mia opinione è che di cantanti in grado di competere con Gino Vannelli ce ne siano pochi. Lui è una sorta di Frank Sinatra moderno che in più ha delle doti di cantautore non indifferenti. In due parole: un grande. Chi non lo conosce farebbe bene ad ascoltare al più presto qualcosa.

John Coltrane - My Favourite Things



John Coltrane - My Favourite Things

Quando penso al jazz penso a questo disco. Quando penso ad un genio musicale mi viene in mente subito John Coltrane. Possiedo una copia in vinile di My favourite things, su di essa ci sono gli autografi di Elvin Jones e McCoy Tyner cioè il batterista ed il pianista che parteciparono a questa storica sessione di registrazione insieme a Steve Davis al contrabbasso. Questo è un disco storico, importante, bellissimo. Non ci sono brani originali di Coltrane qui, solo la reinterpretazione in chiave modale di alcuni standard già famosi ed usati da moltissimi musicisti. Solo quattro brani, lunghissimi, articolati, vari ed a tratti sconvolti dalla furia creativa di un John Coltrane in stato di grazia ed alle prese per la prima volta con il sax soprano (strumento che in seguito userà molte altre volte apprenzzandone le possibilità espressive e la timbrica particolare). La title track è di Richard Rodgers, poi Everytime we say goodbye di Cole Porter, ed infine Summertime di Gershwin e But not for me sempre di Gershwin. « Cerco di scegliere... una canzone che abbia un bel sound, che sia orecchiabile... e poi provo a metterci sezioni in cui possiamo suonare parti solistiche... così finiamo per improvvisare all'interno di una melodia nota. » questa dichiarazione rilasciata dal grande John in un'intervista riassume in poche parole la filosofia e lo spirito innovatore che animavano il neo formato quartetto all'inizio degli anni 60. Coltrane l'uomo che, partito dal jazz più tradizionale arriverà a leggere tra i primi il linguaggio del free, è infatti un anello di passaggio e congiunzione fondamentale tra il be-bop e l'avanguardia. Con My favourite things tocca probabilmente uno dei suoi picchi creativi, regalando un capolavoro alla storia della musica e momenti memorabili di grande jazz a tutti gli appassionati. La continua scomposizione delle melodie originali che tuttavia ricompaiono più volte nel corso dei brani, la ricerca dell'improvvisazione, spesso intricata e complessa non appesantiscono mai la musica, che scorre fluida, liquida, sgusciante. L'interplay tra i membri della band è favoloso, con un McCoy Tyner che usa il suo piano in modo molto percussivo, quasi a non voler ricercare la melodia per forza ed una sezione ritmica che si delinea una perfetta base per i sinuosi assoli di sax soprano del leader, che alla fine risultano sublimi. John Coltrane ha veramente segnato una linea di confine tra il jazz degli anni 50 e tutto ciò che è venuto dopo. Ascoltare My favourite things oggi, nel 2016, a 55 anni dalla sua pubblicazione è ancora un'esperienza irripetibile, nulla è andato perso della freschezza delle esecuzioni o della creatività e del valore dei musicisti coinvolti. Per me questo è uno dei dischi più belli che siano mai stati realizzati. Per questo motivo consiglio a tutti di ascoltarlo, non resterete delusi.

Jimmy Smith - Midnight Special


Jimmy Smith - Midnight Special

Spesso uno strumento specifico si identifica con un preciso musicista e viceversa. Questa regola è valida in particolare per Jimmy Smith e per il suo organo Hammond B3. Jimmy è l'organo jazz per definizione. Le sue contaminazioni lo vedono interessato in egual misura al blues, al gospel e dalla fine degli anni 60 anche al funk. La sua tecnica mirabolante gli è valsa l'appellattivo di "the incredible" ed il suo stile è considerato giustamente seminale per tutta una serie di musicisti venuti dopo di lui anche al di fuori del contesto jazz. Suonava le linee di basso sia con la pedaliera (principalmente nelle ballads) sia con la mano sinistra sulla tastiera inferiore dell'Hammond. Le tecniche di emulazione del contrabbasso furono ideate e perfezionate da Jimmy Smith che ne fece un vero marchio di fabbrica ed un maestro insuperato. Midnight Special è un album del 1960, uno dei tanti della sua grande produzione, registrato nella stessa sessione di un altro disco importante quale Back At The Chicken Shack, mentre è ancora sotto contratto dell'etichetta Blue Note. Nel 1963 passerà alla Verve e con essa registrerà numerosi altri capolavori e collaborerà per due volte con Wes Montgomery. Questo Midnight Special vede la patecipazione di Stanley Turrentine al sax. Kenny Burrell alla chitarra e Donald Bailey alla batteria. I brani sono tutti composti da Jimmy stesso ad eccezzione di uno standard come When i was born di Kern & Hammerstein ed un originale molto interessante di Turrentine: A subtle one. Come spesso accade nei dischi di questo funambolico organista originario della Pennsylvania tutto scorre con un senso di estrema fluidità. Gli assoli sono equamente distribuiti tra i membri del gruppo, anche se ovviamente Smith domina la scena, sciorinando il suo repertorio di velocissime scale e dando libero sfogo alla sua tecnica così caratteristica e riconoscibile. Ma una citazione va fatta sia per Stanley Turrentine che con il suo ricco sax illumina molti passaggi, sia per un grande e forse sottovalutato chitarrista come Kenny Burrell, che ugualmente fa sentire il suo timbro personale  ogni volta che viene chiamato all'assolo. Se si dice organo nel jazz si dice Jimmy Smith, senza dubbio.
Un altro musicista che, nel corso della sua lunga carriera, ha segnato profondamente non solo la sua epoca ma anche quelle successive. Il funk e l'acid jazz gli devono moltissimo. Ed anche il mondo del rock e del blues gli sono debitori. Chiunque si avvicini ad un organo Hammond deve fare i conti con questo straordinario talento afro-americano.

Jorge Dalto - Chevere


Jorge Dalto - Chevere

Torniamo alla metà degli anni 70 con questo misconosciuto artista e un altrettanto oscuro album. Jorge Dalto  è un tastierista argentino ed è noto principalmente per le sue collaborazioni con alcuni grandi nomi quali ad esempio Tito Puente, Grover Washington, Fuse One, Gato Barbieri, Willie Colon, Spyro Gyra ma soprattutto per essere stato il coordinatore musicale di George Benson dal 1976 al 1979. Della band del grande Benson è stato anche uno dei tastieristi fissi sia in studio che nelle esibizioni dal vivo e questo già ci dice qualcosa dello spessore artistico del nostro Jorge. Chevere è un album interessante, intriso delle sonorità tipiche del periodo, dove il piano elettrico Rhodes la fa da padrone, ma dove Jorge Dalto si cimenta anche con i synth polifonici tipo Oberheim e naturalmente con il piano acustico. Chi conosce ad esempio i suoni caratteristici di Weekend in L.A. e Livin' inside your world di George Benson non faticherà a ritrovarli qui. Percorso da una vena melodica molto gradevole, il disco scorre leggero e solare, ed a volte un cantato senza parole, sullo stile delle colonne sonore delle nostrane commedie di Riz Ortolani o Piero Umiliani, completa l'arrangiamento dei brani. Come nel latineggiante Time for some changes o nella cover quasi disco del classico Stella by starlight. Molto bella la versione di Dolphin Dance di Herbie Hancock, eseguita al Rhodes ed anche in questo caso segnata dalla voce di Adele Dalto e da un bell'assolo di sax di Sheldon Powell. Il disco chiude con un'altra cover: Love for sale, classico di Cole Porter, anche questa con un'atmosfera vagamente disco. Gli arrangiamenti sono indovinati e mai invasivi ed è ovviamente lo stesso Dalto a farsene carico. Un filo conduttore è certamente il funk ma fortemente influenzato da ritmiche latino-americane le quali tuttavia non prendono mai il sopravvento risultando così anche piacevoli. Jorge Dalto è mancato a soli 39 anni, nel 1987, lasciando sei album solisti, di cui due usciti postumi e l'ultimo del 1992 addirittura di solo piano. Personaggio singolare, musicalmente molto interessante, è senza dubbio un artista da scoprire e con un pò di pazienza e qualche ricerca è possibile apprezzarne le doti anche 35 anni dopo la sua prematura scomparsa.

Pivio & Aldo De Scalzi - L'Ispettore Coliandro O.S.T


Pivio & Aldo De Scalzi - L'Ispettore Coliandro O.S.T

Non sono un amante della musica nostrana, anche se devo ammettere che è proprio nel jazz, nel funk e nella lounge music che noi italiani, probabilmente, riusciamo ad esprimere qualcosa di valido. Con questa colonna sonora, tratta dalla miniserie tv omonima, che occhieggia alla musica dei film blaxploitation anni '70, Pivio & Aldo De Scalzi proseguono la collaborazione con i Manetti Bros. (a mio parere tra i più interessanti registi di casa nostra) e devo dire che il risultato è davvero notevole. Originale e particolarmente brillante, questa colonna sonora rappresenta una vera e propria sorpresa. Intelligente e lungimirante, la musica di Pivio & Aldo De Scalzi trascende l'omaggio per diventare una vera e propria contaminazione di passato e presente riletto in chiave postmoderna e urbana con spazio al lounge, ma anche ad atmosfere più intimiste. Insomma il serial tv nato dalla penna di Carlo Lucarelli e messo in scena dai Manetti Bros. non è solo un buon prodotto televisivo, ben al di sopra della media dell'offerta oggi disponibile sul piccolo schermo nostrano, ma dispone anche di un background musicale così valido da poter essere ascoltato e goduto come un'opera a se stante. La produzione si distingue per una qualità e un'intelligenza realizzativa così elevata da lasciar intuire immediatamente come gli autori (ed esecutori) abbiano saputo interiorizzare e rielaborare quel linguaggio un pò kitsch, ma certo originale, delle colonne sonore dei film anni '70. I brani sono belli, ben arrangiati e mettono in evidenza un sapiente utilizzo di tutte le risorse a disposizione, anche degli elementi normalmente più deboli nell'insieme in questo tipo di produzioni (campionamenti e suoni sintetici). Ma il disco è suonato, e molto bene anche. Per la gioia di chi vuole riassaporare il gusto ed il sound dei film "poliziotteschi" di quegli anni, questa colonna sonora è un inaspettato tuffo negli anni dei pantaloni a zampa d'elefante e dei colletti di camicia improbabili. In realtà questo non è l'unico linguaggio presente in una collezione di brani che somma elementi ed arrangiamenti vintage ad altri più freschi, più urbani e contemporanei come il rap o l'hip-hop. A me è piaciuto l'Ispettore Coliandro come prodotto televisivo, e già l'ascolto della title track mi aveva colpito favorevolmente anche relativamente alla musica. Prestando poi attenzione a tutto il tappeto sonoro che accompagna le immagini e le situazioni mi sono reso conto che c'era qualcosa di più e di meglio. Qualcosa che andava approfondito e che alla fine mi ha convinto ed entusiasmato. Un plauso quindi alla bravura di Pivio e Vittorio De Scalzi (fondatori dei New Trolls, proprio loro...) e alla scelta di proporre un modo nuovo e intelligente di scrivere e suonare musica per una tv più moderna, dinamica e meno provinciale.