Braun Whalum Brown – B.W.B.


Braun Whalum Brown – B.W.B.

Esistono ancora i super-gruppi? La risposta è sì, nell’ambito dello smooth jazz periodicamente si assiste al sodalizio artistico tra esponenti di primo piano di questo particolare stile musicale. Ci sono sicuramente degli interessi commerciali delle major discografiche dietro a questi progetti, tuttavia non si può negare che l’unione di molti talenti sotto un unico “marchio” abbia sempre un fascino considerevole. B.W.B. è un esempio lampante di questo tipo di approccio: mette insieme tre stelle dello smooth jazz quali il chitarrista Norman Brown, il sassofonista Kirk Whalum, e il trombettista Rick Braun. La creazione del trio BWB sembrava una mossa di buon senso ai dirigenti della Warner Bros: le tre star erano compagni di etichetta ed amici, l’idea di farli suonare assieme apparve stimolante un po’ a tutti e non ci volle molto per imbastire il progetto. Così nel 2002 arrivò il loro album di debutto, intitolato Groovin', poi, dopo un lungo silenzio. nel 2013, eccoli tornare con il loro secondo album Human Nature,  che raccoglie le rielaborazioni delle canzoni di Michael Jackson in versione jazz strumentale. Indubbiamente gli impegni e le carriere da solisti dei tre musicisti devono aver influito moltissimo sulla lunga attesa intercorsa tra il primo ed il secondo lavoro. Il terzo album di studio dei BWB è uscito nel 2016 con la produzione di Rick Braun, e include la partecipazione del percussionista Lenny Castro, del tastierista Hamilton Hardin, del bassista Nathaniel Kearney, Jr. e altri. Poche note e subito si sente che non è stato necessario molto sforzo a questo trio per ristabilire una connessione musicale di alto livello anche dopo un periodo di sosta. Le esperienze maturate attraverso le numerose collaborazioni anche in contesti esterni a quello jazzistico e tutta la produzione a titolo personale dei tre artisti non hanno fatto altro che migliorare il bagaglio di tutti e la somma creativa che ne deriva non poteva che essere eccellente. Whalum è un sassofonista dalle qualità indiscutibili, certificate dalla militanza alla corte di Bob James. Braun oltre ad essere stato in tour con Juan Luis Guerra e Sade, ha registrato diversi buoni album a suo nome. Norman Brown è stato addirittura paragonato a George Benson ed anche nel suo caso la produzione discografica ha avuto un grande successo. BWB è la dimostrazione tangibile che la facilità con cui i tre comunicano ed improvvisano in veste di artisti jazz, si fonde perfettamente con la loro dimestichezza nello spaziare nel mondo del funky groove  e dell’R&B. BWB è un album tutto strumentale, e la voce utilizzata sporadicamente su tracce come "Bolly Bop",  "Bust A Move"  o “Turn Up” è solo un contorno. Quest’ultimo è un brano ultra-funky che farà felici alcuni ascoltatori, a cui ricorderà il George Duke della fine degli anni ‘80. I fan del jazz contemporaneo e strumentale venato di soul apprezzeranno moltissimo il tipico up tempo di “Memphis Steppin", il funky blues di "Lemonade" oppure lo shuffle jazz della title track. Su questo album ci sono tre artisti che hanno sviluppato una semplice ma efficace interazione musicale l’uno con l'altro, vivendo contemporaneamente in modo totale la loro stessa natura di grandi ed innovativi solisti. BWB, portando all'interno del trio le matrici culturali e artistiche dei singoli, unisce la grinta e la solidità del jazz di Kansas City, il soul passionale di Memphis e il groove del funk di Philadelphia. Queste dieci tracce seducono con spavalderia e raffinatezza ed un brillante tocco di classe, riconciliandoci con il linguaggio dello snooth jazz.

City Of Sounds – Beneath The Smooth Surface


City Of Sounds – Beneath The Smooth Surface

A volte un progetto artistico che sulla carta potrebbe apparire un’operazione commerciale come tante altre, può invece rivelarsi una bellissima sorpresa. Per fortuna c’è ancora qualcuno che è musicalmente disposto a rischiare qualcosa in più pur di spingersi al di fuori degli schemi ormai piuttosto ristretti e stereotipati di quello che viene comunemente definito smooth jazz. City Of Sound è una sorta di collettivo musicale che nel 2002 diede alla luce un album intitolato “Beneath The Smooth Surface”, il cui titolo, già da solo, voleva testimoniare la volontà di andare oltre la patinata veste dello smooth jazz per tornare ad una fusion più profonda, meno superficiale, più vicina allo spirito del jazz, sia pure di quello contemporaneo. Questa sorta di big band formata da un mix di affermati musicisti quali Jimmy Haslip, Bob Mintzer, Mike Stern e Mike Cunningham e molti altri strumentisti meno noti, è stata in grado di raggiungere questo obiettivo, ed  è un peccato che, alla luce del risultato finale, il successo di pubblico e di critica siano stati complessivamente modesti. Beneath The Smooth Surface comprende undici belle tracce che si muovono nel territorio della fusion di classe, intensa e priva di cadute di stile. Ovviamente il suono è per molti versi comunque legato anche al linguaggio orecchiabile dello smooth jazz, tuttavia le composizioni sono più sofisticate della media e ricche di una propria distintiva personalità. Merito anche degli arrangiamenti che sfruttano pienamente sia la completezza di colori musicali della grande orchestra sia le peculiarità artistiche dei protagonisti principali. Bob Mintzer e Jimmy Haslip, forti della loro lunga militanza con gli Yellowjakets  portano dentro questo progetto l’esperienza di un collettivo senza un leader, nel quale ogni membro è chiamato in egual misura a comporre, arrangiare, suonare e prendere decisioni. Anche lo stesso Mike Stern, nonostante il suo status di stella del jazz contemporaneo, contribuisce con misura ed equilibrio alla buona riuscita di questo singolare album, così come l’arrangiatore e tastierista Mike Cunnignham. Il quale, pur non godendo di grande popolarità presso il grande pubblico, è un artista di talento e grande sensibilità, in grado di spaziare dalla musica classica, alla brasiliana alla fusion con apparente semplicità. I City Of Sound si dimostrano inoltre piuttosto vari ed eclettici, riuscendo a proporre una selezione di brani che toccano con uguale qualità diversi sotto generi del jazz contemporaneo: dalla fusion classica allo smooth jazz, passando per la latina e alcuni richiami new age. Ad aprire il cd c’è subito un pezzo fusion: “Techno” innesta il sax di Mintzer, il piano elettrico di Cunningham e le chitarra di Stern su di un ritmo ossessivo, fino all’esplosione controllata dei fiati. Sound rilassato su “Kegon Falls” brano che vede ancora Bob Mintzer assoluto e solitario protagonista nel disegnare una bella linea melodica e quindi un intenso assolo. Veloce e ritmata “City Of Sound”, è la prima traccia che ha il fulcro in Mike Stern e nella sua chitarra ; questo è uno dei momenti più ispirati dal sound degli Yellowjackets di tutto il cd. “From The Underground” ci porta in piena atmosfera smooth jazz, con la bella linea di basso di Haslip in evidenza e un’affascinante tromba con sordina a dettare la melodia principale, mentre Mike Cunningham fa sentire quello che sa fare con il pianoforte. Salto nella musica latina dai toni molto contemporanei con il cha cha  di “That Look” e un Mike Stern che non perde occasione per dimostrare tutta la sua versatilità. Si torna di seguito in pieno contemporary jazz con “Streetlevel”, una canzone che potrebbe essere inserita nel repertorio degli Spyro Gyra. Quando l’atmosfera si fa più rarefatta e sognante è il momento di un numero alla Pat Metheny, ed infatti è Mike Stern a caratterizzare la suggestiva “Across The Years”, ma bisogna sottolineare lo stupendo intervento di piano acustico di Cunningham. Ancora fusion della migliore in “Against The Grain” con il suo up-tempo profumato di blues. “Turn In The Road” è proposta in perfetta solitudine da Mike Cunningham al pianoforte : un romantico intermezzo di purissima new age. I colori tipici degli Acoustic Alchemy sono richiamati prepotentemente dalla morbida, chitarristica “Step By Step”, quasi mediterranea nel suo sereno andamento. Ancora gli Yellowjackets tornano a fare capolino dietro la rarefatta e sofisticata “Higher Ground” che è forse il  brano più jazzistico dell’intero album. City Of Sounds propone una sua via al jazz contemporaneo, fatta di ottimi musicisti, composizioni belle ed originali (sia pure ispirate dai mostri sacri della fusion degli ultimi anni) ed una grande concretezza. Beneath The Smooth Surface non è album che si perde in sterili dimostrazioni di virtuosismo, ne in un’eccessiva e ridondante ricerca estetica. Bada al sodo, appaga l’appassionato e diverte senza tediare. È indubbiamente una piacevole alternativa ai “soliti” nomi e in ultimi analisi è certamente un cd che vale più di un ascolto.

James Taylor Quartet - A Few Useful Tips About Living Underground


James Taylor Quartet - A Few Useful Tips About Living Underground

Il James Taylor Quartet è, secondo alcune autorevoli voci giornalistiche, la band la cui musica ha determinato la creazione del termine “acid jazz”; al di là dell’annosa discussione su come, quando e dove il genere abbia avuto inizio è innegabile che Taylor e il suo mitico quartetto siano senza dubbio tra i capostipiti di quel mitico movimento. Nel corso della sua ormai lunga carriera, iniziata a metà degli anni ’80, JTQ ha esplorato con successo e determinazione il soul-jazz, il funk, le colonne sonore dei film e delle serie tv e la dance. James Taylor originariamente suonava l'organo Hammond B-3 nella banda mod revival inglese The Prisoners ma nel 1985 formò il suo quartetto jazz iniziando a suonare un genere molto specifico, ispirato ai rare grooves del jazz-funk, allora molto in voga a Londra. Quello della scena underground londinese degli anni ’80 era un movimento musicale in pieno fermento ed estremamente vitale che di fatto  aveva generato l’acid jazz, ponendo il James Taylor Quartet in prima linea tra gli esponenti di queste nuove tendenze. Gli album del tastierista britannico sono tradizionalmente in gran parte strumentali e sono tra di loro tanto diversi quanto mirabilmente compiuti, spaziando con grande naturalezza in uno spettro che va dagli anni '60 al  jazz contemporaneo. “A Few Useful Tips About Living Underground” va a colpire un genere di nicchia un po’ nostalgico ma particolarmente gratificante per i cultori dello stile fusion: un jazz-rock che rievoca le colonne sonore dei classici programmi televisivi polizieschi degli anni '70 ma anche gli elevati standard musicali di band come la Mahavishnu Orchestra, i Weather Report, o gli Headhunters di Herbie Hancock e altri mostri sacri  del genere. Su A Few Useful Tips About Living Underground, James Taylor è letteralmente scatenato con il suo organo Hammond, e impazza in lungo e in largo deliziando l’ascoltatore con i suoi assoli funambolici e l’esposizione sempre attenta e precisa dei temi. "Selectivity" è da subito una chiara dichiarazione d’intenti: dagli altoparlanti sgorga potente l’arrangiamento dei fiati, conditi dalla chitarra wah wah in puro funky style accompagnata da un ritmo vertiginoso. "Creation (Fanfare For The Third Millennuim)" ha un’energia pazzesca, e l’Hammond del leader è assolutamente irresistibile. "Staying Active"  non fa che aggiungere benzina sul fuoco del groove, e fluttuando in piena blaxploitation, ci porta tra le strade buie di New York in pieno clima poliziesco, con un sound che non potrebbe essere più “acid”.  Solo di poco più rilassata è invece "It’s Your World" il cui tema suona maggiormente cantabile ma il cui groove non può essere messo in discussione. "Theme from  Dirty Harry" trasforma la partitura originale di Lalo Schifrin in un inseguimento implacabile tra l’organo e il flauto mentre un martellante jazz funk latino scorre attraverso le vene: sembra di vedere Clint Eastwood in piena azione. Una linea di synth vintage guida la bella "Summer Fantasy" verso un’atmosfera ancora una volta cinematografica, sempre sottolineata da un basso pulsante e dalla ritmica in perenne tensione. "Check It Out" è come una celebrazione degli stereotipi dei b-movie degli anni ’70: lo spirito di Bootsy Collins e dei suoi Funkadelic si è impossessato di James Taylor,  per un flash musicale a base di Cadillac piene di afroamericani carichi di catene d’oro, pellicce, belle donne, camicie colorate e colletti a punta. A Few Useful Tips About Living Underground continua così, senza cadute di tono, conducendo l’ascoltatore in un bellissimo viaggio a ritroso fino al cuore del periodo d’oro del funk.  Per tutta la durata dell’album Taylor e la sua band sono effervescenti e badano al sodo senza fronzoli ma senza mai essere troppo asciutti. Colpisce il perfetto equilibrio tra l’energia dell’improvvisazione e la lucidità, per non parlare della coerenza dei contenuti musicali. Il James Taylor Quartet offre una solida musicalità e un impegno costante per raggiungere l'eccellenza.  Questo album è deliziosamente retrò, senza mai scadere nel ridicolo. È potente ed energico ma mai volgare.  In poche parole è un bagno integrale nel passato glorioso del jazz funk perpetuato con devozione filologica ma con i piedi ben piantati nel presente.

Grover Washington, Jr. – Grover Live


Grover Washington, Jr. – Grover Live

Grover Washington, Jr. è uno dei sassofonisti più popolari di tutti i tempi, ed è stato certamente uno dei battistrada della fusion fin dai suoi inizi. Le sue radici sono da ricercare nell’ R&B e nel soul-jazz, ma ha dimostrato di cavarsela molto bene anche nelle rare occasioni nelle quali si è approcciato al jazz tradizionale. Washington è stato un musicista molto influente, che si è sempre espresso con spontaneità, coraggio ed una grande carica comunicativa. Nonostante abbia al suo attivo un gran numero di album, molti dei quali di grande successo e di altissima qualità, quelli registrati dal vivo sono soltanto due: “Live At The Bijou” che risale al 1977 e questo “Grover Live” che è uscito nel 2010, quasi in concomitanza con il decimo anniversario della prematura scomparsa della leggenda del sassofono.  L’album dal vivo appare come uno splendido omaggio al musicista ed alla sua eredità, un esaustivo e vivace viaggio attraverso le sue canzoni più amate  ed un caldo, entusiasmante sguardo sul musicista catturato nel pieno dell’azione. Nel dettaglio si tratta di uno spettacolo presso il Paramount Center For The Arts a Peekskill, NY, registrato nel 1997. La passione per l’improvvisazione di Grover Washington, così poeticamente melodica e sempre riccamente intrisa di groove, recuperata in quella magica notte grazie agli sforzi del tastierista e produttore Jason Miles, è diventata un meraviglioso documento da consegnare ai suoi fan del presente e del futuro. In verità, nessun altro esponente del jazz contemporaneo ha fatto più di Miles per mantenere viva la gioiosa eredità musicale di Washington, non solo per questa pubblicazione ma soprattutto per gli eventi, i tributi e gli album che nel corso degli anni il tastierista non ha mai fatto mancare. In poche parole Grover Live è un ricco set di 80 minuti che, semplicemente e senza filtri, presenta un meraviglioso e vario spettacolo di un Washington al suo picco creativo, registrato mentre esegue proprio le canzoni che tutti gli appassionati non si stancano mai di sentire. La serata parte con una brillante esecuzione dell’indimenticabile "Winelight," che culmina, come dubitarne, con il suo funambolico assolo di sax. La cover di "Take Five" è il veicolo per il divertimento di tutta la band che viene introdotta dal leader musicista dopo musicista, senza dimenticare la bellezza senza tempo del brano di Dave Brubeck.  Fantastica poi la danza del sax su "Soulful Strut" con la sua melodia subito familiare e l’arrangiamento in perfetto stile smooth jazz. Il concerto continua con l’atmosfera tropicale e sognante di "Mystical Force" ed  il soul jazz venato di hip hop della strana "Uptown". “Sassy Stew” mette i sax di Grover in piena evidenza, per la delizia di una platea letteralmente ammaliata da tutto il suo repertorio di finezze tecniche ed il suo inconfondibile sound, tra cambi di ritmo e impossibili fughe improvvisative. Per fare in modo che quella notte nessuno rimanesse insoddisfatto (come se fosse possibile al cospetto di Grover Washington), nel bel mezzo del concerto ecco arrivare un medley di otto brani che altro non sono se non frammenti di tutte le canzoni di Washington che nel corso degli anni sono diventate molto popolari, non solo in ambito jazzistico. Da "Just the Two of Us" a " Jamaica" da “inner City Blues” a “Strawberry Moon”. E ancora “Inside Moves”, “East River Dive” e Sausalito, tutte suonate senza soluzione di continuità, di seguito, a comporre una ininterrotta, ipnotica e magica compilation. Tutto questo prima di chiudere la serata con la favolosa dedica a Doctor J (Julius Erwing) che Washington firmò quando scrisse uno dei suoi pezzi più belli di sempre: "Let It Flow" qui eseguita in una versione di quasi dodici minuti! In un live che si rispetti non può mancare di sicuro il bis ed infatti puntuale arriva il brano che è stato per anni il suo marchio di fabbrica e cioè "Mister Magic": altri nove minuti di pura libidine sassofonistica. E’ innegabile che più si ascolta Grover Washington e più se ne vorrebbe, e la sua musica a distanza di molti anni è ancora fresca e godibile come il primo giorno. Il produttore Jason Miles ci racconta, nelle sue note di copertina, la storia che c’è dietro alla scoperta delle registrazioni di questo spettacolo. Ha chiamato la vedova di Washington, Christine, nel 2008 per comunicarle i dettagli del concerto/evento che stava organizzando per ricordare Grover, allora lei ha invitato Miles e la moglie Kathy a Philadelphia per ascoltare le registrazioni che erano disponibili di numerosi spettacoli archiviati su nastro digitale. Così è nato un lavoro meticoloso e certosino per trovare quelle giuste da pubblicare, e quindi, superando tutti gli ostacoli relativi alle licenze ed ai vincoli contrattuali, ne è venuta fuori la scelta per il perfetto ricordo del magnifico Grover Washington (e con lui del jazz contemporaneo) da consegnare ai fan di tutto il mondo. Una bellissima istantanea che ci regala il saxman dal vivo poco prima di mancare mentre non solo si esprime al massimo della sua forma ma anche mentre interagisce con il pubblico con i suoi monologhi e le sue introduzioni ai brani ed ai membri della band. Grover Live è davvero uno sguardo attento e accorato sull'artista e sul suo repertorio migliore, una dedica d’amore e di passione per uno dei più grandi artisti che la fusion abbia mai conosciuto. Grover Washington, Jr. ha lasciato un vuoto incolmabile nei cuori di tutti gli appassionati e dischi come questo contribuiscono ad alleviare il rimpianto per la sua assenza dal panorama musicale odierno.

L.A. Transit – De Novo


L.A. Transit – De Novo

De Novo è un disco quasi impossibile da reperire di una band praticamente sconosciuta, denominata L.A. Transit, che di fatto ha registrato solamente questo album. I musicisti coinvolti nel progetto sono una parata di stelle di livello internazionale: Tom Scott al sax, Oscar Castro Neves e Paul Jackson, Jr. alle chitarre, Abraham Laboriel al basso e Alex Acuna alla batteria più Paulinho Da Costa alle percussioni. Il disco è stato prodotto in Giappone dal duo Kojima e Yoshida e vede la partecipazione anche del famoso tastierista nipponico Yutaka Yokukura oltre che di un terzetto di cantanti. Nonostante sia sconosciuto ai più De Novo è un album particolarmente apprezzato sia dagli appassionati di musica brasiliana che da quelli di smooth jazz. Le canzoni inserite nel cd sono infatti interpretate con un piglio fusion e contemporaneo e questo sicuramente grazie alla presenza dei jazzisti che ho citato, ma riscuote interesse anche per la scaletta dei brani che è un vero compendio della migliore tradizione carioca. Fu registrato nel 1986 e pubblicato solo in Giappone, dopodiche’ il gruppo, messo insieme evidentemente al solo scopo di dare vita a queste dieci tracce, è completamente sparito. La cosa interessante è che l’album suona in modo analogo a come ricordiamo i migliori tra i lavori di Sergio Mendes, senza di lui, certo, ma con molti musicisti che hanno interagito  con il signor Mendes in passato. La carrellata di successi brasiliani, divenuti hits internazionali, comincia con la celeberrima “Mas Que Nada” eseguita con i classici suoni anni ’80 ma fondamentalmente nel rispetto della tradizione e l’aggiunta di una spruzzata di funk. La meravigliosa “Wave” diventa una ballata solo profumata di bossa, e tuttavia è sempre accattivante. Nel solco del samba carioca invece “Zazueira” il cui ritornello è stato reso famoso dalla mitica canzoncina “Meu Amigo Charlie Brown” ma che in realtà è un bel brano di Jorge Ben e ci permette di ascoltare un notevole assolo di chitarra di Oscar Castro Neves. Il classico di Jobim “How Insensitive” non poteva mancare e viene infatti proposto nella classica veste di bossa nova, resa leggermente più moderna dall’uso massiccio di synth. Ed infatti è bellissimo il solo di sintetizzatore di Yutaka nella sezione centrale. “Agua De Beber” è un altro grande successo, che ha visto innumerevoli cover nel corso degli anni. Qui la ascoltiamo potentemente scandita dalla ritmica e arricchita da un magnifico assolo di sax di Tom Scott. A completare il quadro ci sono anche tre ballate in stile pop-soul piuttosto anonime e stranamente fuori dal contesto sudamericano che caratterizza tutto il resto dei brani. De Novo è un album che non fa dell’originalità il suo punto di forza. Piuttosto il suo valore sta tutto nella qualità dei musicisti del progetto "L.A. Transit" e nell’incredibile selezione di brani brasiliani che è stata fatta, oltre che nel modo in cui sono stati rivisitati. A livello artistico non aggiunge e non toglie nulla alla musica fusion di quegli anni, tuttavia resta un operazione per certi versi singolare e una testimonianza di come i giapponesi abbiamo a cuore ogni genere di forma artistica, nell’approcciarsi alla quale mettono sempre il massimo impegno ed una grandissima professionalità. Un altro grande “plus” (noto a chi ha ascoltato gruppi come i Casiopea nel corso degli anni), è il fatto che questo cd è stato registrato digitalmente, cosa molto comune in Giappone, ragione per la quale trent’anni dopo il suono è ancora così nitido e al top della qualità.

Oli Silk – Where I Left Off


Oli Silk – Where I Left Off

Ho già parlato di Oli Silk in termini molto positivi in una precedente recensione, riferita al suo debutto del 2006. Oli, nel frattempo, oltre ad essere diventato ormai un affermato musicista solista, è di frequente in tour negli Stati Uniti con la sua band, e come tastierista suona per molti altri artisti jazz tra i quali The Sax Pack, Jackiem Joyner, Cindy Bradley, Peter White, Marc Antoine e Chuck Loeb. E’ inoltre il tastierista fisso nella band di Anastacia, quando la popolare cantante è in tournèe in Europa. Silk attualmente presenta anche un programma radiofonico settimanale il lunedì su SmoothJazz24. Ora, a 10 anni esatti da “So Many Ways”, ed in occasione della nuova uscita discografica torno volentieri ad occuparmi di questo trentacinquenne pianista inglese. Oli Silk pubblica infatti in questi giorni l’atteso “Where I Left Off”, titolo che è un chiaro riferimento al precedente album “Razor Sharp Brit” del 2013. Il pianista, per la sua nuova avventura musicale, imbarca nel suo cast alcuni mega talenti, tra questi l’icona inglese della chitarra smooth jazz Peter White, un altro chitarrista di fama mondiale come Nick Colionne, la cantante Katie Leone, il gigante della tromba Rick Braun, la bella flautista Althea Rene , e i due virtuosi del sax Steve Cole e Phil Denny. E’ in gran forma Oli Silk e mette in mostra la solita verve spalmata su una variegata gamma di stati d'animo e di atmosfere, come ad esempio il caldo funky di "Ohh baby" oppure il rilassato mid tempo della title track. E ancora la pulita e accattivante "Take Me Away" che lascia poi spazio alla bella voce di Katie Leone per una bellissima "Burning Up Carnival". La cover sembra fatta apposta per condurci esattamente là dove vorremmo essere: a Rio su una spiaggia, o dovunque si faccia festa. Tra l’altro il brano è un omaggio ad uno degli idoli di Silk, vale a dire Joe Sample. Come già precedentemente, Silk incanta con il suo stile fluido ed il suo tocco misurato ma incisivo, il suo sound è sempre solare e positivo. Un vero marchio di fabbrica che lascia trasparire Il suo amore per questo tipo di musica: uno smooth jazz sincero e genuino che nasce semplicemente dalla punta delle sue dita e dal suo cuore. Forse è anche questo uno dei  motivi per cui Oli gode di un’ottima reputazione tra i jazzisti e di un buon consenso di pubblico. Se conoscete anche solo un po’ la musica di Oli Silk, saprete che c’è molto materiale in mezzo al quale scegliere (e trovare) le proprie canzoni preferite. Nel mio caso, oltre alla citata “Ohh Baby” e "Burning Up Carnival", ricordo "Cluster Funk" (che, naturalmente, è piena di funky groove), la dolce e sentimentale "Rest Assured", con protagonista assoluto il carezzevole flauto di Althea Rene. Degno di nota è anche un altro bel funk ballabile come “Music Without the Sound”, ancora una volta cantato  da Katie Leone. Molto carina e movimentata la traccia conclusiva “Suits You, Sir!” che a tratti ricorda gli Incognito. E’ da sottolineare come l'album sia abilmente predisposto per il passaggio  da un mood allegro e vivace ad uno dolce e riflessivo, in un alternanza di atmosfere molto gradevole. Where I Left Off  è ben prodotto, arrangiato con cura ed infine eseguito con maestria e talento. Se vi piace lo smooth jazz dove il piano e le tastiere sono in evidenza e se apprezzate i musicisti che suonano con passione e una buona dose di inventiva, Oli Silk è una garanzia. Anche questa volta il giovane pianista inglese mette la sua firma su un album davvero godibile e di facile ascolto che non delude le aspettative.

Marc Johnson – Bass Desires


Marc Johnson – Bass Desires

Marc Johnson si è guadagnato un'ottima reputazione come contrabbassista dell’ultima sezione ritmica del pianista Bill Evans, ma la sua carriera non si limita certo a questa pur fondamentale militanza. Ad esempio nel suo periodo presso la North Texas State University, Johnson ha suonato im un gruppo che comprendeva il tastierista di Pat Metheney, Lyle Mays. Ha avuto anche esperienze con l'orchestra di Woody Herman (1977), con Stan Getz (1981-1982) e con John Abercrombie (1983) prima di formare il quartetto Bass Desires nel 1985. E’ proprio con questo gruppo caratterizzato dalla insolita presenza di due chitarristi elettrici come Bill Frisell e John Scofield, Marc Johnson ha mostrato appieno tutta la sua versatilità ed il suo talento. L'abbinamento di Bill Frisell e John Scofield è apparso fin da subito come una combinazione di stelle dalle grandi potenzialità, come non si vedeva dalla joint venture tra John McLaughlin e Carlos Santana. La sorprendente e geniale decisione di Johnson (che è un musicista prevalentemente acustico, bisogna sottolinearlo) di mettere i due insieme ha generato un suono particolarissimo, moderno e molto audace. Bass Desires  è una dimostrazione tangibile della compatibilità tra due chitarristi per nulla facili che riescono a mantenere il loro carattere distintivo anche se abbinati insieme. Aggiungete a questo il  grande batterista Peter Erskine e naturalmente il contrabbasso di Marc Johnson stesso e otterrete un vero super-gruppo jazz. In questa registrazione i solisti Frisell e Scofield hanno rivelato una perfetta simmetria ed una incredibile condivisione di sensibilità anche grazie alla complicità della perfetta sezione ritmica, formidabile nel sostenere un’architettura così fragile e rarefatta. Tutto ciò è udibile immediatamente sulla prima traccia, "Samurai Hee-Haw", che è relativamente orecchiabile, ma certamente è memorabile per la sua originalità: qualcosa di mai sentito, un suono d’avanguardia molto peculiare. Chitarre risonanti, note pungenti, due colpi di funk da parte del basso del leader e della potente batteria di Erskine e il quadro è completo. La title track è un brano dove i solisti suonano quasi gemellati, per poi ampliare i loro timbri chitarristici individualmente, governati alla perfezione da basso e batteria. Atipico il reggaeggiante e un pò funk "Mojo Highway" che suona più colloquiale e in stile jam session, mentre "Thanks Again" ci conduce in un ambiente più morbido, una sorta di jazz valzer rilassato ed inquietante al tempo stesso. "A Doll Wishing" è eterea, quasi impalpabile, grazie soprattutto alla chitarra synth di Bill Frisell, come sempre stralunato e affascianante. "Resolution" è tratta dal secondo movimento dalla suite di A Love Supreme di John Coltrane, ma qui la melodia viene eseguita una sola volta, dopodichè gli assoli prendono il largo per una brillante cavalcata di chitarre.  In ultimo lo standard "Black Is The Color Of My True Love's Hair" fluttuante ed irriconoscibile, quasi cesellato su un’architettura musicale rarefatta. Marc Johnson è senza dubbio un fenomenale contrabbassista: dotato di una tecnica sopraffina ed una grande misura. Il quartetto Bass Desires ha registrato in tutto due album, questo omonimo debutto ha resistito alla prova del tempo ed oltre ad essere un lavoro coraggioso è ancora lontano dall'essere datato. Bass Desires è un disco interessante, non per tutti, ma vale certamente un ascolto.

Gary Burton - Times Like These



Gary Burton -  Times Like These

Uno dei due grandi vibrafonisti ad emergere negli anni ‘60 (insieme a Bobby Hutcherson), il fenomeno Gary Burton ha perfezionato la notevole e difficilissima tecnica vibrafonistica a quattro bacchette (esemplificata al meglio su una versione non accompagnata di "No More Blues" del 1971 e rintracciabile su youtube, video in b/n). Questa metodologia strumentale può farlo suonare all’orecchio al pari di due o anche tre musicisti contemporaneamente e risulta particolarmente impressionante in considerazione delle peculiarità del suo strumento. Burton ha avuto l’opportunità di esibirsi e registrare in una vasta gamma di generi e con moltissimi artisti mantenendo sempre una propria e distintiva firma musicale. Per il suo debutto con l’etichetta GRP, il vibrafonista si è riunito con il suo ex allievo, il chitarrista John Scofield, ha ingaggiato  il bassista Marc Johnson ed il batterista Peter Erskine, e ha ospitato il sax tenore di Michael Brecker in due delle otto tracce dell’album. Times Like These, va detto subito è un lavoro bellissimo: intenso, tecnicamente perfetto ed emozionante. Gary brilla di luce propria grazie alla sua tecnica mirabolante e ad una capacità interpretativa carica di sensibilità. Magia e atmosfere rarefatte, condite da un innato senso della melodia accompagnano ogni tocco del suo vibrafono come meglio non si potrebbe. La band è al suo livello ed asseconda il leader in tutto, addirittura stimolandolo ad esprimere ogni sfaccettatura della sua arte. Burton ha optato, su Times Like These, per un set di composizioni varie, ritagliandosi il suo spazio d’autore con la sola "Was It So long Ago". Gli altri originali sono di Makoto Ozone, Vince Mendoza, Jay Leonhart ("Robert Frost"), Chick Corea e John Scofield. A proposito del chitarrista John Scofield c’è da aggiungere che, poiché più di un decennio prima non aveva avuto l'opportunità di registrare nel quartetto di Burton durante il suo anno di militanza, con questa registrazione va finalmente a colmare questa lacuna. L’album si apre con la title track e le caratteristiche armoniche di chitarra di Scofield, a cui si aggiunge il profondo sax di Brecker che dolcemente introducono l’arrivo del vibrafono di Gary Burton in un crescendo sonoro di grande impatto. L’assolo del leader è suadente e fresco mentre la ritmica di Erskine e Johnson fornisce una connotazione molto contemporanea al brano. Appare evidente come Burton utilizzi il suo strumento al pari di un pianoforte, ora dettando le armonie altre volte lanciandosi in assoli mozzafiato. “Or Else” vira su atmosfere fusion di altissimo livello, e John Scofield da un saggio della sua bravura con un intervento dai tratti inconfondibili come sempre. Etereo ed ancora una volta delizioso Burton. Il blues diventa il protagonista della bella “Robert Frost” e a rubarsi la scena sono nuovamente Scofield e Burton che si alternano nel ruolo di solisti.  Affascinante nel suo andamento rilassato “Why’d You Do It” che ha a sua volta una base blues e vede lo straordinario Marc Johnson piazzare un assolo di contrabbasso da brividi. I continui cambi di ritmo e la velocità sono invece la firma sonora di “P.M.”. Il numero firmato da Burton stesso è una ballata, stile tango, con ospite ancora Michael Brecker, il quale suona da par suo, ma quello che incanta è la liquida poesia che il leader riesce a proporre. L’hard-bop regna sovrano sulla stupenda “Bento Box”, brano che farà felici sia gli appassionati di jazz mainstream che tutti coloro che amano il vibrafono: Gary Burton è un concentrato di fluidità e scorrevolezza unite ad un’incomparabile originalità improvvisativa. L’album si chiude con un ultimo brano intitolato “Do Tell”  che, auspicabilmente, si mantiene in territorio hard bop. Gary Burton si distingue ancora una volta per essere un vibrafonista molto originale e per l’innovativo contributo che ha dato al jazz con il suo suono e la sua tecnica strumentale. Non c’è da stupirsi se questo artista è stato ampiamente imitato. Times like These è un album moderno, non rivoluzionario ma certamente molto interessante. Inoltre, cosa non da poco, è magnificamente suonato da una band perfettamente amalgamata e diretta in modo magistrale da un Gary Burton che qui troviamo nel pieno della sua vena creativa. Una nota infine per la qualità della registrazione, che come da tradizione dell’etichetta GRP, raggiunge e supera gli standard più elevati.

Sarah Vaughan – Brazilian Romance


Sarah Vaughan – Brazilian Romance

Sarah Vaughan: ovvero una delle voci più meravigliose del 20° secolo, insieme a Ella Fitzgerald e Billie Holiday rientra nel novero delle cantanti di jazz che davvero hanno avuto una marcia in più. Con la sua vasta gamma tonale, il suo vibrato perfettamente controllato, e non ultime le sue incredibili capacità espressive la Divina Sarah ha sempre dato l'impressione di poter fare tutto quello che voleva con la sua voce. I più integralisti tra gli appassionati di jazz non sono molto propensi a citare Brazilian Romance come l’album ideale per iniziare ad esplorare il lavoro di Sarah Vaughan. Se questo può avere un fondamento considerando quarant’anni di carriera nel jazz, è anche frutto di un eccessivo pregiudizio verso le varianti jazzistiche più recenti e contaminate. L'album è stato registrato nel 1987, cioè verso la fine della carriera discografica della grande cantante, ed è chiaramente un prodotto di quel tempo, influenzato dallo smooth jazz e dunque è suonato con dovizia di tastiere e sintetizzatori unitamente al fatto di essere arrangiato in modo contemporaneo. Come in molte delle sue opere più tarde, un filo di sentimentalismo è da subito perfettamente percepibile. Di più, le canzoni non sono proprio i classici standard del jazz che ci si potrebbe aspettare, bensì dei ben più aticipi brani post-bossa-nova scritti da Milton Nascimento, Dori Caymmi, Sergio Mendes e altri. Ma al talento unico di Sarah Vaughan bastano circa 30 secondi della prima canzone, "Make This City Ours Tonight", per demolire una ad una tali argomentazioni. Magicamente, come solo la classe più pura sa fare, lei conquista l’attenzione e si insinua nell’anima, scivolando sopra qualsiasi tipo di musica ed ogni eventuale spigolosità con il solo calore  della sua meravigliosa ed iconica voce. Sarah è ben consapevole di ogni cadenza ritmica della melodia, tuttavia la sua alchimia sta anche nel fatto che lei non sempre banalmente la segue: dopo aver cantato abbastanza semplicemente la prima strofa, magari allunga le battute della seconda, dipingendo pigramente le sue frasi  musicali senza alcuno sforzo, così…naturalmente. Questa particolare abilità, evidente su "Nothing Will Be As It Was", è da sempre una delle cose che i musicisti hanno apprezzato di più di Sarah. Senza necessariamente ricorrere allo scat (che pure è una sua specialità) la Vaughan appare libera di fluttuare, di sviluppare quei fraseggi audaci che consentono di trasformare la forma e il tono di una qualsiasi canzone. Questo album è dunque una testimonianza dell’arte dell’ultima Sarah Vaughan ed è, come sottolineato dal titolo, dedicato al Brasile ed ai suoi compositori contemporanei. Vaughan è stata tra le più importanti interpreti di musica brasiliana della storia del jazz. La sua discografia comprende molti album dal vivo con i successi di Antonio Carlos Jobim e altri, così come un paio di raccolte di brani a tema dedicati in esclusiva a materiale brasiliano più moderno. Brazilian Romance è tra i più interessanti e coerenti dischi del secondo gruppo: registrato tre anni prima di mancare, è il suo equivalente di American Recordings di Johnny Cash,  pieno di spirito contemporaneo e sospinto da una voce senza tempo.

Airto Moreira – Touching You...Touching Me


Airto Moreira – Touching You...Touching Me

Classificabile come il più alto profilo di percussionista degli anni ‘70 e senza dubbio uno tra i più famosi,  Airto Moreira (spesso semplicemente conosciuto con il solo nome di battesimo) ha contribuito a rendere le percussioni una parte essenziale di molti gruppi di jazz moderno. I suoi  accompagnamenti ritmici e i suoi assoli possono tranquillamente essere definiti spesso come straordinari. Airto ha originariamente studiato la chitarra e  il pianoforte, prima di diventare un percussionista professionista, dando corpo a quel senso del ritmo innato nel popolo brasiliano ed inserendo i colori della sua cultura nei più svariati contesti. Ha suonato a livello locale in Brasile. Ha raccolto e imparato a suonare più di 120 diversi strumenti a percussione, e poi, nel 1968, si è trasferito negli Stati Uniti con la moglie, la cantante Flora Purim. Airto suonato con Miles Davis durante il periodo 1969-1970, comparendo su diverse incisioni del genio della tromba. Sebbene non tutta la sua musica da leader possa essere definita jazz, Airto Moreira resta un musicista davvero impressionante. Molti dei suoi dischi della fine degli anni ‘70 e dei primi '80 hanno maturato una cattiva (e immeritata) reputazione a causa del loro evidente e voluto appeal commerciale. Tuttavia Moreira è un artista che ha cercato di sposare i suoni delle tradizioni popolari della sua nazione con vari tipi di generi musicali oltre al jazz ed al funk, e questa non è certo un’operazione dai connotati per forza negativi. “Touching You...Touching Me” è stato registrato nel 1979, durante il suo periodo presso l’etichetta Warner, ed è probabilmente il suo disco più lucido. L’album è stato prodotto dallo stesso Airto, il quale ha imparato molto bene i segreti delle registrazioni dai best-seller del tempo. Inoltre un grande cast è qui coinvolto: George Duke, Flora Purim, Joe Farrell, Herb Alpert, Alphonso Johnson, Peter Bunetta, Al Ciner, Bayete (Todd Cochrane), e Marcos Valle (che non solo ha suonato le tastiere, ma ha anche aiutato Moreira con gli arrangiamenti). Si comincia con il vivace jazz ballabile venato di sapori caraibici di "Amajour" (con le Sweet Inspirations come coriste), seguito dal bellissimo brano "Partido Alto" che già gli Azymuth avevano precedentemente registrato. Flora Purim partecipa con un la sua voce in questo che è probabilmente il più jazzato tra i pezzi del disco. Atmosfera carioca nel ritmatissimo “Open Space”, mentre "Heartbeat" è una vetrina per il basso di Johnson, il pianista Michel Colombier, e il sintetizzatore di Hugo Fattoruso. "Toque de Cuica" è un classico funk brasilian-style, nel quale Airto può dare libero sfogo ai suoi set di percussioni. Sorprendente "Move It On Up" che si apre come brano di rock prima di trasformarsi in un tipico reggae. Si può sentire l'influenza di Marcos Valle sul funkeggiante "Tempos Atras"  e non si può non notare lo stile inconfondibile e cristallino del pianista sul suo Rhodes, coadiuvato dall’eccellente lavoro di clavinet da parte di George Duke e dal basso pulsante di Alphonso Johnson. E’ il numero migliore dell’album. Strana e inquietante "It's Not a Ballad" che inserisce l’intervento vocale di Flora Purim all'interno di una cornice fornita dalle molteplici percussioni di Moreira, il piano elettrico di Jose Bertrami, ed un lirico sassofono soprano suonato da Nivaldo Ornellas. Un brano che richiama l'atmosfera dei primi Return to Forever. Chiude i giochi un pezzo di bravura di Airto in prima persona intitolato “Introduction To The End”, nel quale il maestro si esibisce con le sue mirabolanti percussioni in un classico ritmo di samba. Touching You...Touching Me non è un album perfetto, ma è molto piacevole e a tratti anche più di questo. I suoi punti di forza superano di gran lunga le sue debolezze al punto che molti dei suoi brani potrebbero essere facilmente inseriti in una ideale compilation del meglio di Airto Moreira, che rimane un vero guru delle percussioni da più di quarant’anni.

Alphonso Johnson - Moonshadows


Alphonso Johnson - Moonshadows

In queste pagine ho parlato spesso degli anni ’70, dei rare grooves e di tutto quel movimento trasversale che mise in contatto la realtà del jazz con i suoni e le atmosfere del funk e anche del rock. Fu un periodo di grande fermento creativo e di ottima musica, non sempre e non solo prodotta dalle stelle incontrastate di quegli anni come Herbie Hancock, Chick Corea, i Weather Report o ovviamente Miles Davis. Un grande contributo lo diedero anche i vari musicisti che facevano parte di quei gruppi e spesso ne caratterizzavano il suono con la loro abilità tecnica ed il loro talento. Uno di questi artisti un po’ misconosciuti è senza dubbio il bassista elettrico Alphonso Johnson. Dopo un breve periodo dedicato a suonare il trombone, nel 1968 Alphonso Johnson ha eletto il basso elettrico come suo strumento. I suoi primi concerti furono con Horace Silver, Woody Herman, Chuck Mangione e Chet Baker. La fama di Johnson come specialista del basso è tuttavia cresciuta dopo la registrazione dei tre album con i Weather Report (1974-1976) e naturalmente durante i vari tour in giro per il mondo. Fu da quel momento che Johnson diventò molto richiesto negli studi di registrazione degli artisti di fusion e di funk jazz. Alphonso Johnson è considerato uno dei più rappresentativi bassisti della scena internazionale, uno di quelli che con il suo esempio ha contribuito alla crescita della tecnica strumentale bassistica nei primi anni settanta. Da un certo punto di vista, il suo stile lo pone a fianco di musicisti del calibro di Stanley Clarke e Steve Swallow. “Moonshadows” è un buon album di jazz-funk-fusion di Alphonso, che fu il primo bassista dei mitici Weather Report. E' sempre bello ascoltare il lavoro di un artista di un particolare strumento in cui il musicista stesso così come il suo strumento giochino un ruolo di primo piano. E questo è esattamente il caso di Alphonso Johnson e del suo debutto discografico del 1975, nel pieno della sua militanza alla corte di Joe Zawinul e Wayne Shorter. Questa registrazione è ricchissima dei riff prodotti del muscolare basso di Johnson, che non manca di farsi sentire sia come solista che come finissimo accompagnatore. I brani spaziano dal funk ballabile del numero d’apertura “Stump” che è quasi un paradigma musicale del genere, al jazz rock purissimo di “Involuntary Bliss”, che vede uno scatenato Gary Bartz esibirsi in uno stupendo assolo di sax soprano. “Cosmoba Place” risente dell’influenza del progressive rock più sofisticato e propone un’atmosfera diversa e inquietante. Ancora più strana “Pandora’s Box” che è cosmica e suggestiva con il basso perentorio di Johnson e il clarinetto basso di Bennie Maupin a sostenere tutta la struttura del pezzo. Funky groove per la divertente “Up On The Cellar” cadenzata dal clavinet e dal piano elettrico dell’ospite Patrice Rushen su un tappeto ritmico tessuto da Leon Chancler. La blueseggiante “On The Case” vede la partecipazione di Lee Ritenour che ci delizia con un assolo ruvido e coinvolgente. Ancora pennellate di progressive nella conclusiva “Unto Thine Own Self Be True” che sfociano in un epico finale di synth scandito dalla maestosa batteria di Narada Michael Walden. La presenza massiccia di un gran numero di stelle della fusion è garanzia di esecuzioni di livello elevato e di grande professionalità. Moonshadows esce dal magico cilindro musicale della metà degli anni ’70 e a quel preciso periodo storico è artisticamente e culturalmente legato a doppio filo.  Figlio degli Head Hunters e dei Weather Report, dei Return To Forever ma anche degli Earth, Wind & Fire o dei Crusaders, si fa piacevolmente ascoltare senza mai diventare cervellotico o pesante, ma purtroppo, pur mantenendo uno standard musicale piuttosto elevato  non riesce a coinvolgere fino in fondo l’ascoltatore.

Randy Weston – Blue Moses


Randy Weston – Blue Moses

Costringere la figura di Randy Weston dentro la ristretta categoria degli eredi del be bop racconta solo una parte della storia di questo musicista inquieto. Partendo effettivamente dal linguaggio del bop, Weston ha gradualmente assorbito l’influenza e lo spirito dei ritmi e delle melodie africane e caraibiche riuscendo a saldare tutto insieme attraverso una ricerca continua ed uno spirito avventuroso davvero straordinario. Il suo lavoro al pianoforte spazia tra diversi stili, dal boogie-woogie al bop, dal free al funk, con una firma distintiva che se da una lato ricorda quella di Thelonious Monk non ne è tuttavia del tutto diretta discendente. Registrato nel 1972, Blu Moses, è l'album di maggior successo commerciale nel catalogo di Weston ma rimane uno dei suoi più controversi a causa dei suoi stessi sentimenti conflittuali sul prodotto finale, che a suo giudizio suonava troppo pulito e preciso e quindi forse un pò lontano dall’intento originale dell’artista. E’ innegabile che la registrazione sia fortemente influenzata dall’impronta dell’etichetta CTI di Creed Taylor, che era effettivamente una garanzia certa di una produzione patinata, ma in realtà Blue Moses appare ugualmente originale e rivoluzionario. Randy Weston suona sia il pianoforte acustico che il Rhodes; la band è quella formata da alcune delle star stabilmente sotto contratto con la CTI: il trombettista Freddie Hubbard, il sassofonista Grover Washington, i flautisti Hubert Laws e Romeo Penque, il batterista Billy Cobham, i bassisti Ron Carter e Bill Wood, e i percussionisti Phil Kraus, Airto Moreira, e il figlio di Weston, Azzedin. A questo si aggiunge una incisiva sezione fiati orchestrata da Don Sebesky. Blue Moses, è composto da soli quattro brani ed è un progetto particolare di Weston che mirava a mostrare quanto l'influenza della musica "Ganawa" del Marocco avesse avuto un impatto importante su di lui in veste di compositore. "Ganawa (Blues Moses)" spinge l'ascoltatore in un nuovo esotico spazio, qualcosa che si colloca al di fuori dei soliti schemi del jazz, pur mantenendo intatto il legame con esso. Ci sono le sue frenetiche linee di pianoforte, ma sono innestate in un contesto sonoro Medio Orientale, dove scorrono ritmi nordafricani e i fiati sono aggressivi, pieni di dinamica, giustamente aperti e freschi. Sebesky sapeva perfettamente quello che aveva in mente Randy Weston, e governa i suoi musicisti quel tanto che basta per valorizzare gli arrangiamenti senza sminuire la sostanza delle composizioni. "Marrakesh Blues" è un blues modale orientaleggiante nel quale la sezione fiati viene usata per aumentare la drammaticità ed il pathos. Bellissima la tromba di Hubbard gemellata con il flauto,  e splendidi sono gli assoli di piano elettrico così come il profondo e ipnotico giro di basso. Il brano forse più astratto e labirintico è "Night In Medina" che sa essere assolutamente suggestivo e colorato, grazie all’emozionante interazione tra i sublimi accordi di Weston e il fluido sax di Washington, per quello che sembra quasi un agile groove jazz “spirituale”. In ultima analisi poco importa quello che lo stesso Randy Weston pensa realmente di Blue Moses: questo è un album di successo e di valore a tutti i livelli. La creazione di un’opera commercialmente possibile che non perdesse di vista gli elementi importanti proposti dal suo compositore non deve essere stata facile, ma Creed Taylor ha messo il massimo impegno ed una grande cura per consegnarci tutta la bellezza di questo disco senza minimamente compromettere il genio di Weston.

Mark Adams – Feel The Groove (A Souljazz Experience)


Mark Adams – Feel The Groove (A Souljazz Experience)

"Vivi la vita con passione" è il motto personale di Mark Adams. Nativo di Baltimora, figlio di musicisti professionisti e pianista jazz e soul di classe mondiale ha iniziato la formazione musicale addirittura a soli cinque anni. Adams è un fine compositore e direttore d’orchestra e si esibisce regolarmente con la leggenda del jazz e suo mentore Roy Ayers. Le collaborazioni con molti altri grandi artisti sono innumerevoli e tutte di grande livello. Mark Adams è considerato l'iniziatore di una sorta di transfer artistico tra lo smooth jazz ed una rinascita del movimento souljazz. Lo spirito di divulgazione e l’attenzione per i giovani hanno ispirato Adams a scrivere nel 2010 un libro didattico riguardante un nuovo approccio globale per l'apprendimento dei concetti di base della teoria musicale, delle tecniche di pianoforte, di armonia, ed anche delle tecniche di jazz e d’improvvisazione. “Feel The Groove – A Souljazz Experience” è di fatto il suo manifesto musicale, un vero e proprio campionario della visione che Mark Adams ha del nuovo corso intrapreso dal jazz contemporaneo. In questo suo secondo album, il pianista mette in luce come per lui questa non sia più la ruvida musica degli anni '60 ma piuttosto un più dolce e contemporaneo modo di interpretare la fusione tra il jazz ed il soul. I dodici brani di cui otto originali riflettono uno stile elegante, sul quale Adams innesta la sua modalità jazz. Lo fa suonando il bebop sopra dei groove di funk, e mettendoci il suo tocco di R&B e Hip-Hop senza mai perdere il legame con la tradizione. In ogni caso, su tutto Adams si distingue per una grandissima tecnica pianistica ed una incredibile fluidità. “Silent Cry” è l’esempio perfetto di questo suo approccio artistico e musicale, con il suo andamento da bossa nova e il pianoforte a disegnare una morbida melodia per poi scatenarsi in un assolo di altissimo livello. Lo stile souljazz viene fuori magistralmente nella bella “In Your Own Sweet Way” una ritmata canzone sulla quale Adams piazza un intervento pianistico folgorante per velocità e lucidità. L’interpretazione di una ballata di contemporary jazz ci viene offerta in modo intenso e passionale dalla suadente “Penumbra” nella quale, inutile sottolinearlo, Mark splende di luce propria volando letteralmente sui tasti del suo pianoforte. “Ordinary People” mette in evidenza anche le doti compositive del talento di Baltimora con il suo ritornello accattivante e più spazio per gli altri musicisti e un coro soul contagioso. Per dare un saggio della sua versatilità, Adams non manca di inserire un numero jazzistico in piena regola come “Lullaby For Marleigh” eseguito in duo con il solo supporto di un contrabbasso. “Check Your Soul” riporta la bussola su canoni più affini allo smooth jazz, senza tuttavia scadere nella banalità e negli stereotipi del genere. Romantica infine “Life Is”, brano molto strutturato ma dalla grande immediatezza. Mark Adams è un grande artista, con un approccio musicale unico e fresco, perfettamente modellato per coniugare il jazz e il soul. Diceva Heinrich Neuhaus: “Non ci sono segreti tecnici per diventare grandi pianisti. L'unica via consiste nel saper affinare le doti naturali con pazienza, intelligenza e tenacia”. A quanto pare Mark Adams ha seguito questa strada, ottenendo gli splendidi risultati che possiamo ascoltare nelle sue registrazioni, Feel The Groove non fa eccezione.

Neil Larsen - Forlana


Neil Larsen - Forlana

Neil Larsen è uno straordinario specialista di tutti i tipi di strumenti a tastiera, prevalentemente quelli elettronici e nello specifico un vero maestro dell’organo. Spostatosi giovanissimo dalla nativa Cleveland alla musicalmente fertile California degli inizi degli anni ’70, Neil ha suonato in studio con moltissimi artisti della West Coast. Ma Larsen era soprattutto un grande appassionato di jazz-rock  e fusion e perciò mise insieme una band con il chitarrista Buzz Feiten con il quale instaurò un'amicizia che dura ancora oggi, quel gruppo si chiamava Full Moon. In seguito lo stesso complesso prese semplicemente il nome di Larsen – Feiten Band e la musica che questo duo produsse in quegli anni è tanto sconosciuta quanto memorabile. Anche se il suo oscuro lavoro di turnista per conto di alcune tra le più grandi star internazionali è rimasto il suo principale impegno, Larsen ha avuto modo di pubblicare ugualmente dei lavori da solista, cinque album per la precisione, tutti di notevole livello e tutti purtroppo accomunati da una scarsa notorietà, tranne che presso i suoi fan più appassionati. “Forlana” è la sua sesta fatica discografica e la prima registrazione di Neil da otto anni a questa parte. Dieci nuove tracce, scritte durante i tour con Leonard Cohen, che lo vedono assoluto protagonista dato che qui Larsen si diverte a suonare praticamente tutto: organo, pianoforte e tastiere varie ma anche tromba, sax, oboe, trombone ed altri. Si tratta di un progetto unico e molto particolare che spazia tra jazz, fusion e world music, e che si aggiunge alle altre perle della sua discografia. Si comincia subito bene con “Flying By” che, con toni rilassatamente smooth, fa da veicolo per le tastiere di Larsen ed il loro caratteristico suono, mentre l'arrangiamento sottolinea il tutto con una certa sontuosità. Il tango moderno di “Brother Joe” ci conduce verso un altro tipo di atmosfera, ma le divagazione melodiche di Neil sono quelle inconfondibili del suo stile così peculiare, molto bello l’assolo di piano acustico, che in questo album il tastierista di Cleveland sembra inserire con maggior convinzione nei suoi set. Sapore latino e organo a gogò per il cha cha di “Mere LaRue”, molto allegra e solare e al contempo trampolino perfetto per bizzarri suoni vintage. “Winter Glow” riporta tutto nei canoni di una stupenda ballata jazzistica, dove Larsen ci sorprende con un intervento di tromba molto passionale, dimostrando una notevole padronanza dello strumento. Ancora profumi di tropici e spiagge con “Islamorada” e nuova inaspettata prova di eclettismo musicale da parte del bravo Neil Larsen, che questa volta si esibisce anche al sax. “Forlana” è uno strano numero di musica etnica, malinconico e quasi mediterraneo, in cui il tema musicale è esposto dal più dimenticato degli strumenti, ovvero la fisarmonica. Un esperimento molto riuscito di world music fortemente contaminata dal jazz. La fusion torna in campo prepotentemente con “Satellite Beach”, che ci riporta indietro, alla metà degli anni’70 e agli strumentali che ci deliziarono sui dischi dei Full Moon e del duo Larsen-Feiten. Locale fumoso, luci basse e atmosfera retrò per il blues di “City Blue” e di nuovo Larsen si propone in veste di sassofonista e trombettista. Ruoli che il buon Neil sa davvero come interpretare non facendo rimpiangere la presenza di musicisti specializzati in quegli strumenti. “At The Sunset Royale” è di nuovo un salto indietro all’epoca dei mitici Full Moon, e dunque un bellissimo brano di fusion e al solito una dimostrazione di versatilità e bravura da parte di Larsen che qui si diverte con le sue tipiche tastiere, piano elettrico compreso. Chiude la raccolta di pezzi la bucolica e particolare “Pastoral” che è anche un ulteriore divagazione nel territorio della “world music” cosa che la colloca’ fuori dagli schemi tipici della fusion. Forlana è un album molto vario ed interessante, che Neil Larsen ha concepito come un progetto da vero "one man band", registrando tutti gli strumenti in perfetta solitudine e dimostrando così una grandissima versatilità e un polistrumentismo eccezionale. Il risultato è, di fatto, più che soddisfacente sia dal punto di vista compositivo che da quello più strettamente tecnico e conferma una volta di più il valore ed il talento di questo straordinario tastierista, che è a mio parere uno dei più sottovalutati musicisti della storia della fusion. Forlana è un album di grande spessore ed è destinato a diventare anch’esso una pietra miliare nella carriera di Neil Larsen.

Paul Jackson – Black Octopus


Paul Jackson – Black Octopus

Paul Jackson è nato nel 1947 a Oakland, California, ha iniziato a suonare il basso all'età di nove anni ed inoltre ha studiato al Conservatorio di San Francisco. Oltre che contrabbassista è anche un interessante compositore. Ha suonato con molti dei grandi artisti del jazz, in particolare è stato parte attiva su alcuni degli album seminali degli Head Hunters di Herbie Hancock, come Thrust, e molti altri. Black Octopus è una sorta di misteriosa leggenda del funk, da ascriversi al novero di quei dischi dimenticati per lungo tempo e poi ritrovati in tempi recenti. L’album è stato registrato da Paul Jackson durante il tour in Giappone con  gli Headhunters di Herbie Hancock, nel 1978, ma non ha visto la pubblicazione per più di due decenni. Arricchito al momento della ristampa con quattro graditissime bonus tracks, questo lavoro si è guadagnato una positiva reputazione e un’aurea leggendaria  proprio a causa della sua scarsa reperibilità. La sua miscela di fusion, dance, R&B, e funk jazz guidata dalle possenti linee di basso di Jackson lo colloca di diritto nel nirvana dei rare grooves. Sorprendentemente, la maggior parte dei brani originali di Black Octopus presenta il bassista californiano anche nella veste di cantante, con una marcata somiglianza con Steve Arrington. Paul Jackson si presenta dunque come un  vero  funky frontman, ad esempio cantando alla sua maniera un numero disco come "Burning in the Heat (Of Your Love)". O anche declamando qualche frase sul primo pezzo "Many Directions" che tuttavia suona profondamente funk. Ma il punto forte di Black Octopus sono i coinvolgenti vintage grooves di cui è pieno l’album,  interpretati al meglio da molti veterani del gruppo di Herbie Hancock, tra cui lo stesso tastierista star.  Una formula che prevede gli immancabili e magici tocchi di Rhodes, i graffianti fiati in stile James Brown, e la ritmica come sempre più che gagliarda.  Validi esempi di questa interpretazione calata del sound anni’70 sono “Funk Times Three”e “Tiptoe Thru The Ghetto”. Delle quattro aggiunte, che quasi raddoppiano la durata dell'album, la strumentale "T-Bolt" è probabilmente quella più vicina all’idea che ci si sarebbe potuti fare di un album da solista di Jackson. Suona come la diretta discendente della fusion tipica del lavoro degli anni '70 di Hancock. "Umi Bozu" è più avventurosa, le sue spruzzate di synth sono sostenute da una chitarra ritmica propulsiva, ed è singolare nel suo andamento complessivo. Non essenziale "Bow Tie Dress" che è davvero strana, un piano elettrico sbarazzino sostiene tutto il brano, puntellato da una sorta di borbottio parlato da parte di Jackson. Infine “A Little Love’ll Help” chiude il quartetto di pezzi aggiuntivi con un iconica canzone funk che racchiude al suo interno tutti gli elementi tipici del genere: il clavinet percussivo, la ritmica up-tempo, il basso ossessivo e i fiati roboanti. Paul Jackson è un musicista molto dotato, il suo basso propone un accompagnamento vigoroso e originale, oltre che calato profondamente nella musica black del periodo. Se forse, da un lato, i tentacoli musicali di questo “Black Octopus”  si allungano un po’ troppo lontano dal solco della tradizione jazz funk, dall’altro si può riscontrare come il risultato complessivo sia ancora qualcosa di estremamente valido ed essenziale per qualsiasi appassionato di fusion e rare grooves.

Chris Geith – Timeless World


Chris Geith – Timeless World

Nell’epoca della musica liquida, degli mp3 e del download sembra che ci siano alcuni artisti che riescono a trarre il massimo beneficio da questa silenziosa ma sostanziale rivoluzione. Questo tipo di consuetudine così diversa dal classico acquisto del vinile o del cd ha coinvolto moltissimo il genere musicale dello smooth jazz / contemporary jazz, come testimoniato dal grande successo ottenuto ad esempio dal sassofonista Euge Groove o dal pianista, tastierista e compositore Chris Geith, che è emerso dall’anonimato all’alba del nuovo millennio proprio con l’esplosione della musica digitale. Geith si è infatti inizialmente guadagnato una positiva valutazione da parte del New York Times proprio per essere stato uno degli artisti, esclusivamente strumentali, più scaricati nella breve storia degli mp3. Ma Chris è pur sempre un pianista di sostanza e di valore, il suo successo è fondato sulle solide basi di una buona tecnica e sulla capacità di creare un sound accattivante e mai banale. Già il suo primo album, Prime Time, aveva avuto un buon riscontro e l’uscita del seguito “Timeless World” non fa che confermare le note positive dell’esordio. La canzone " Waves Of Life " e soprattutto il brano di apertura della registrazione "Groove Detective" sono il biglietto da visita giusto per farsi subito un’idea di quale sia la cifra stilistica di questo musicista americano. Non a caso detengono quasi un record per numero di streaming e download sulla rete. Si tratta di smooth jazz, è chiaro, e le velleità non sono certo da capolavoro, tuttavia la freschezza e l’immediatezza delle quattordici tracce di Timeless World, ne fanno una raccolta molto piacevole. Il punto di forza del pianista, diplomato alla Manhattan School of Music, è un pianismo melodico innestato su una struttura ritmata, molto “smooth”. Il sound di Geith è orchestrato in modo analogo allo spirito musicale proposto da Gregg Karukas e Brian Simpson. E' uno stile leggero e morbido in superficie, ma sotto si riesce a cogliere una più profonda sensibilità jazz e soul. Ad esempio la citata "Groove Detective", la title track e "Zero Gravity" sono riflessi immediatamente riconoscibili di questa attitudine jazz-popolare di Chris Geith. Date le caratteristiche completamente diverse rispetto a qualsiasi altra traccia, deve esserci stata senza dubbio una specifica volontà nello scegliere la lunatica "Waves Of Life" come primo singolo: è energica ma anche atmosferica, melodica ma stravagante, insomma con il suo andamento alla Pat Metheny vuole dare un messaggio alternativo. “Morning Starlight” sta tutta nel pianoforte  di Geith, che ispira una sensazione di serenità ed è in grado di accompagnarci con semplicità ed eleganza. “Restless Heart” è il classico brano da radio fm, qualche somiglianza con i Rippingtons è giustificata, ma l’immediatezza della melodia e il bell’arrangiamento la rendono pienamente godibile. La bravura di Geith nell’affrontare le ballads la si può cogliere nella cover della stupenda canzone d'amore “Have I Told You Lately?” di Van Morrison, interpretata con passione e trasporto. “Zero Gravity” mette ancora in evidenza la brillantezza mozzafiato del pianoforte del leader, che ricorda a tratti i maestri Bob James o Joe Sample, il tutto supportato da un ritmo che fa battere il tempo. La band di Chris Geith è composta da Matt Marshak (chitarre), Fred Scerbo (sassofono), Mark Muller (basso), Donny D (batteria, percussioni), Dean Kosh (batteria solo su Restless Heart) e Al Davis (tromba, trombone). Questo gruppo di musicisti, denominato Chris Geith Group (da menzionare in particolare il chitarrista Matt Marshak) sostierne e asseconda al meglio l’estro e le positive vibrazioni trasmesse da Chris Geith. Timeless World è un album concepito per il divertimento dell’ascoltatore, immediato, diretto e senza fronzoli. Se vi piace lo smooth jazz, ovvero quella combinazione equilibrata di atmosfere di vari generi con il comune denominatore del jazz, fermatevi ad ascoltare anche questo pianista americano, farete una piacevole scoperta.

Earth Wind & Fire - All 'n all


Earth Wind & Fire - All 'n all

Se esiste un'icona senza tempo della musica black e del funk nella storia della musica questa risponde al mitico nome di Earth, Wind & Fire. Un gruppo seminale, importantissimo e di grande successo a livello planetario che ha lasciato una traccia straordinariamente chiara e profonda in tutto il panorama musicale spaziando attraverso diversi generi quali R&B, Soul, Funk, Jazz e Disco. La loro discografia è ricchissima, partendo dal 1970 ed arrivando fino ai giorni nostri. Qualche volta gli EWF indugiano in alcuni degli eccessi più pretenziosi della musica nera. Come in altri album, All 'n all è pieno di luoghi comuni sulla fratellanza, di un pò di sci-fi grossolanamente cosmica, e delle immancabili canzoni d'amore romantiche che hanno reso celebre la band. Tutto questo suona un pò ridondante e magari ingenuo (e forse lo è). Ma al di là di tutto devo dire che a me piacciono moltissimo gli Earth Wind & Fire e altrettanto mi piace questo disco che risale al 1977 ! Sono 35 anni di anzianità che però magicamente non si sentono. Come per molta altra black music, questo lavoro provoca una risposta in ultima analisi schizofrenica. Se da un lato l'album rappresenta alcuni stereotipi, dall'altro ne esalta anche le migliori caratteristiche. Maurice White, il leader, è un batterista, e il suo senso ritmico è una delle peculiarità del gruppo. Il ritmo dei brani su All 'n all  è coinvolgente al punto da farci sorvolare sugli eccessi dei testi un pò troppo complicati e difficili. "Serpentine Fire" ad esempio è una canzone che parla della vita, in un visione filosofica comune a molte religioni orientali, ma è caratterizzata da una base funk leggiadra, accompagnata da altre, variegate, soluzioni ritmiche, e scorre via come un ruscello d'acqua fresca. Altre canzoni incorporano echi di James Brown con flessuose linee di basso, ritmi latini e un funk insistente, ipnotico e intrigante a sottolineare il tutto. Le virtù della produzione di White non finiscono qui, però. Il testo di "Fantasy" ("Vieni a vedere, la vittoria, nella terra chiamata fantasia"), può essere difficile da digerire, ma la musica è elegante e fluida come raramente si trova nel funk . Voci bellissime, con un leggero tocco di accordi improvvisamente appaiono su un tappeto propulsivo sempre vivido, si dilatano e si impennano, per poi sparire poco dopo al subentrare di veloci assoli e concludersi in finali potenti ed eccitanti. EW&F utilizzano uno strano mix strumentale che dà parimenti enfasi a percussioni, basso, chitarre ritmiche ed esplosioni di stupendi fiati. Il risultato è leggero ma sostanziosissimo, ed è diventato un modello per molte altre band. Evasione dalla realtà e fantasia sono una costante nella poetica di questo importante ensemble. Le ballate, un punto di forza della produzione degli Earth Wind & Fire, sanno offrire atmosfera e calore: su All 'n all ne abbiamo un esempio con "I write a song for you", dove il romanticismo è spinto all'estremo ed il falsetto di Philip Bailey può esprimere tutto il suo potenziale. E' facile essere sedotti dalla grazia artificiosa degli Earth, Wind and Fire,  dalla potente complessità delle loro canzoni. Non si resiste al ritmo pulsante ed agli arrangiamenti delle loro composizioni che ci hanno regalato spesso melodie indimenticabili. Si ha anche sempre la sensazione che potrebbero dare molto di più, che potrebbero forse orientarsi verso sentieri musicali più seri ed impegnati e farlo anche con ottimi risultati. Ma non sarebbero più gli EWF che conosciamo ed amiamo. E allora non resta che accettarli così come sono: per la loro ascoltabilità, per il loro sofisticato artigianato musicale, per quel genuino entusiasmo che trasmettono e, perchè no, anche per quel pò di trash che ogni tanto emerge nella loro produzione.

Chet Baker - She was too good to me


Chet Baker - She was too good to me

Chet Baker, ovvero un grande talento del jazz tanto dotato quanto controverso e "maledetto". La sua vita dissipata tra tossicodipendenze, conoscenze pericolose, problemi legali, sempre sull'orlo del baratro è un vero paradigma di come sia possibile per un essere umano e per un artista toccare le vette della creatività e cadere nel buio dell'oblio in un battito di ciglia. Sprofondare e rialzarsi, sparire e poi ritornare sono stati il leit motiv della vita di Chet Baker. La sua musica non è altro che lo specchio della sua stessa esistenza e delle sue (spesso sbagliate) scelte, forse per questo molto spesso riesce a toccarti l'anima. She was too good to me oltre ad essere un buon disco è da molti riconosciuto come l'album del ritorno del grande trombettista ai livelli superiori che ne avevano caratterizzato la produzione jazzistica prima della sua lunga fase oscura dovuta alle note difficoltà a causa della droga. Benchè avesse registrato numerosi dischi alla fine degli anni 60 ed anche agli inizi dei 70, questi erano album commerciali e di scarso valore artistico che servivano a Chet solo per incassare soldi e risolvere così i problemi legati ai debiti ed alla tossicodipendenza. Questo è anche l'inizio di una proficua collaborazione con Creed Taylor e l'etichetta CTI per la quale anche in seguito registrerà alcuni lavori molto interessanti. Al piano elettrico abbiamo un giovane Bob James, ma partecipano alla registrazione anche altre stars come Ron Carter al basso, Jack Dejohnette e Steve Gadd alla batteria, Paul Desmond al sax alto, Dave Friedmann al vibrafono, e Hubert Laws al flauto. Una spruzzata di archi mai troppo invadenti danno al tutto un sapore unico. Chet Baker si esibisce anche come cantante, come d'abitudine, mostrando una voce in cambiamento, sempre morbida e confidenziale ma più bassa, forse ormai provata dal fumo e dalle droghe. Resta smagliante il suo fraseggio, il suo timbro così lirico e intimista, profondamente cool come il movimento di cui è giustamente considerato uno dei principali esponenti. E' un piacere sentirlo sciorinare melodie e contrappunti in ottima forma, senza esitazioni, con l'espressività e la sensibilità che nessuno può negare siano le sue caratteristiche peculiari. L'eccezionale band che lo accompagna svolge splendidamente il suo compito ed in particolare alcuni assoli di Bob James, Paul Desmond e Hubert Laws sono degni di attenzione. Il magico tocco nella produzione offerto dal grande Creed Taylor fa il resto. Fa sempre impressione guardare le foto di Chet Baker con la sua faccia scavata, quasi corrosa, la sua magrezza esagerata ed un aspetto spesso al limite del trasandato, frutto della sua tormentata e sfortunata condotta di vita. Ma fa ancora più sensazione ascoltare di quanto talento e di quanta bravura fosse dotato questo musicista che, nonostante tutto, occupa un posto di rilievo nella storia del jazz. Per questo la sua tromba non verrà mai dimenticata.

Azymuth - Aurora


Azymuth - Aurora

Nuovo album su etichetta Far Out per gli Azymuth, il leggendario gruppo jazz-funk brasiliano formatosi negli anni settanta. La formazione è quella originale che vede Josè Roberto Bertrami alle tastiere, Alex Malheiros al basso e Ivan Conti alla batteria e il sound come loro stessi lo hanno definito è “samba doido” - ovvero "folle samba": un mix di disco, jazz, funk, psichedelia e samba suonato con tecnica ineccepibile e lo stile di musicisti che nella loro lunga carriera hanno condiviso il palco con artisti del calibro di Chick Corea, Joe Henderson, Deodato e Stevie Wonder per citarne alcuni. La formula è dunque sempre quella, con il Fender Rhodes di Bertrami e tutte le sue altre tastiere, spesso vintage, a farla da padrone dettando melodie e armonie costantemente impregnate di Brasile. Alla sezione ritmica il compito di sostenere il tutto con potenza e grande energia. Non è certo un album che si distingue per originalità e inventiva, bisogna ammetterlo. Per questi ormai non più giovanissimi signori brasiliani (tutti e tre del 1946) il tempo sembra essersi fermato alla metà degli anni settanta. Per molti questo è un grande pregio, per altri forse questa stessa peculiarità può risultare insopportabile. Di sicuro deve piacere la musica contaminata con samba, bossa e in generale il Brasile. Questo è il presupposto, se questo aspetto non è nella vostre corde meglio girare al largo. Se invece amate (come il sottoscritto) le scorribande solistiche al piano elettrico su un ritmo, spesso vivace, di samba e di bossa, con abbondanti contaminazioni funky ed un generale richiamo jazzistico, allora gli Azymuth sono il gruppo che fa per voi. E partendo da questo che è il loro ultimo lavoro potrete certamente spendere un pò di tempo per andare a scoprire i loro numerosi capolavori del passato. Ne vale la pena.

D'Angelo - Interpretations Remakes


D'Angelo - Interpretations Remakes

Michael Eugene Archer, meglio noto come D'Angelo, mi da l'opportunità di parlare di r&b e neo-soul e di farlo al cospetto di un vero talento. Dotato di una notevole capacità vocale ma anche valente polistrumentista, D'Angelo è stato spesso accostato ai grandi del passato e del presente come Marvin Gaye (di cui ha raccolto l'eredità, a mio parere), Prince ed altri. Ed è a ragione considerato uno dei più influenti artisti contemporanei nonchè uno dei restauratori della soul music. Talento cristallino, dicevo, che questo album non fa che confermare. Sono 15 tributi ai maestri di questa corrente musicale registrati in vari momenti tra il 1995 e il 2000 dopo l'uscita del meraviglioso Brown sugar e prima di Voodoo. La sua classe ed il suo gusto minimalista, ma ricchissimo di passione e di anima (soul in inglese...) sono qui rappresentati al meglio. E la scelta dei brani non poteva essere migliore, sia in termini di valore assoluto delle canzoni, sia per come le stesse vengono adattate e rese proprie da D'Angelo, colme di groove e spirito black.
Ohio Players, Roberta Flack, Marvin Gaye, Al Green, Curtis Mayfield, Bill Withers, Roy Ayers, Earth Wind & Fire sono solo alcuni tra gli artisti a cui d'Angelo rende un accorato e devoto tributo. E già questi nomi ci dicono che la scelta è caduta sulla crema del funky, del soul e del r&b. In ogni reinterpretazione c'è però un tocco personale ed un motivo di interesse per l'ascolto.
Un bel disco, a mio parere, un'ottima colonna sonora per l'estate ma non solo. Una compilation ricca di nostalgia ma al contempo un album moderno, ben suonato e proiettato nel futuro. D'Angelo è una garanzia.

Donald Fagen - The Nightfly


Donald Fagen - The Nightfly

Trent'anni e non sentirli. Ovvero quando un disco nasce perfetto. Quando, cominciando dalla copertina, e arrivando all'ultimo accordo dell'ultima canzone, una tale meraviglia vede la luce, l'età non ha alcuna valenza. Semplicemente è immortale. Ho un grandissimo rispetto per Donald Fagen, sia come leader degli Steely Dan, sia come solista. E questo The nightfly rappresenta certamente il top della sua carriera. Tra l'altro è stata la prima incisione pop ad essere registrata interamente in digitale. E il suono è così cristallino e perfetto che allora come oggi viene utilizzato per testare gli impianti hi-fi. Gli otto brani che compongono l'album sono uno stupefancente viaggio musicale tra i grattacieli e le città, tra l'ottimismo per un futuro tecnologico e il retrò degli anni '50. Un volo sopra le pianure della grande America e le suggestioni del Caribe. Tra ballate demodè ma sensualissime e un soul-funky sempre in bilico tra sconfinamenti jazzy e un felpatissimo pop. Una finestra ideale su remote stazioni radiofoniche che trasmettono nella notte standard del jazz amati da sempre sia dai d.j che dagli ascoltatori. Ricordi, sogni e fantasie... Tutto in una notte. O una notte lunga una vita. "Tonight the night is mine late line till the sun comes through the skyline"... canta Donald, e immediatamente ci lasciamo trasportare nel suo volo notturno sotto il cielo illuminato dalle stelle del jazz. Fantastica alchimia !
Un album tutto giocato sull'equilibrio, leggero ma mai superficiale, raffinato senza essere lezioso, romantico ma mai melenso. In realtà Donald Fagen riesce qui in quello che può essere considerato a tutti gli effetti come un miracolo: consegnare ai posteri la perfezione musicale di un capolavoro senza tempo. Sopra le mode, al di là delle tendenze, trasversale e universale come solo pochi grandi artisti sono riusciti a fare.
Fresco e immediato come il giorno che è uscito The nightfly ha trovato subito un posto privilegiato nella mia personale discoteca e nel mio cuore. Auspico che siano in molti a pensarla come me.

Reza Khan – Wind Dance


Reza Khan – Wind Dance

Reza Kahn, compositore e chitarrista, nato e cresciuto in Bangladesh, ma residente a New York,  incarna la versatilità musicale con una variegata combinazione di generi: dal pop, al jazz, dal rock alla fusion, senza dimenticare la world music e la new age.  Khan torna con il suo quarto album intitolato Wind Dance, un lavoro che conferma quanto di buono proposto nei dischi precedenti e arricchito dalla presenza in studio di una band di stelle dello smooth jazz tutta nuova. Ma il chitarrista orientale non è solo un altro musicista con un’ottima visione artistica. La sua musica è un'estensione della sua personalità, dato che ricopre il ruolo di program manager per le Nazioni Unite, dove contribuisce alle operazioni di pace in Africa, in Asia e nel Medio Oriente. Inoltre, il suo impegno umanitario lo ha portato in varie parti dell'America Latina. In ognuno di questi continenti Reza ha conosciuto in prima persona la povertà e le violazioni dei diritti umani, cosa che lo ha profondamente segnato, ma viaggiare lo ha anche avvicinato a svariate culture musicali. E’ dunque evidente come Khan abbia proiettato le sue esperienza sulla musica, e conduca poi anche una vita impegnata ed interessante al di fuori dell’ambito artistico, cosa che ne fa un personaggio alquanto singolare. Come detto, per il suo ultimo album Reza Khan ha chiamato alcuni pesi massimi del contemporary jazz, vale a dire il trombettista Rick Braun, i sassofonisti Andy Snitzer e Nelson Rangell (anche se Rangell viene utilizzato come flautista), il chitarrista degli Acoustic Alchemy Miles Gilderdale, il chitarrista Marc Antoine, il tastierista Philippe Saisse, ed infine il bassista Mark Egan. Il risultato di una tale riunione di talenti è una variopinta cornucopia musicale piena di delicata e raffinata bellezza. Per avere un’idea chiara dei contenuti di Wind Dance, si devono semplicemente ascoltare le diverse trame che si intrecciano nei quattordici brani che compongono il disco. La formula è quella consolidata dai tre album precedenti: ad esempio il titolo d’apertura, "Ride" che inizia leggera come una tiepida brezza caraibica per aprirsi al calore dell’intensità espressiva del sax  di Snitzer. Lo smooth jazz “canonico”  sostiene il bel feeling melodico della title track “Wind Dance”, nella quale Reza Khan si esibisce sia con la chitarra elettrica che con quella acustica. "Overdrive" ha invece una bella grinta funky e un ritmo contagioso ma anche aperture sonore molto accattivanti. Diversa e fascinosa la world music al confine della new age di "The Other Side". In un continuo alternarsi di atmosfere e sapori variegati ecco il pop-jazz in salsa Sud Americana di "Sunset Highway". "Villa Rosa” prosegue sulla stessa falsa riga, facendoci restare ancora in un contesto latino, sia pur profumato di contemporary music. "Bridges Of Angels" esce dagli schemi, ed è di difficile catalogazione poichè all’interno del pezzo ci sono echi spagnoli, ma c’è pure una spruzzata di progressive e di world. L’intero album è l’espressione di un grande eclettismo, di una grande curiosità intellettuale e di apertura verso ogni sorta di genere musicale. Reza Khan è sicuramente un chitarrista molto sensibile che porta con se il suo vissuto di cittadino del mondo e Newyorkese d’adozione, mostrandoci con discrezione e misura lo scrigno della sua arte e della sua cultura. Wind Dance è soprattutto un album suonato in modo splendido da tutti i musicisti coinvolti. Indubbiamente Khan non fa del jazz la sua unica matrice, così come anche il termine fusion potrebbe non essere il più corretto per definire il suo stile, analogamente ad alcune uscite del Pat Metheny Group. Come il maestro Pat anche Khan immette nei suoi brani la giusta dose di ricerca ed innovazione ma anche molta poesia e vibrazioni etniche. Se cercate un progetto che abbia un approccio concettualmente jazzistico, ma che di fatto sia poi, musicalmente parlando, tutt’altra cosa, Wind Dance dovrebbe fare al caso vostro.

Randy Crawford & Joe Sample – Feeling Good


Randy Crawford & Joe Sample – Feeling Good

Randy Crawford è una delle voci più facilmente identificabili nel panorama musicale contemporaneo. Una gran bella voce in realtà, la cui rivelazione al mondo è arrivata grazie alla sua intensa interpretazione di "Street Life", una bellissima e famosa  canzone del 1979 contenuta nell’omonimo album dei Crusaders. La Crawford è nata a Macon, Georgia, ma è cresciuta a Cincinnati, Ohio. Fin da adolescente ha cantato in un jazz club, accompagnata dal padre, in un gruppo che comprendeva anche il bassista Bootsy Collins. Dopo aver firmato un contratto per la Warner Bros. e dopo la scintillante performance di "Street Life"  ha girato l'Europa in tour con gli stessi Crusaders. Con la major è rimasta per tutti gli anni '80 e i primi anni '90 e in questo lungo periodo ha registrato numerosi album, alcuni di successo e si è inoltre creata un forte seguito di fan in Europa e in Gran Bretagna. Nel nuovo millennio, pur non pubblicando molti dischi, Randy Crawford è rimasta molto attiva, fino alla riunione con il pianista Joe Sample che le ha consentito,  nel 2006, l’uscita dell’album “Feeling Good”, nel 2008 di “No Regrets” e infine di un bellissimo live nel 2012. Feeling Good arriva dopo cinque anni senza nessun lavoro discografico, ma Randy Crawford, forte della ritrovata unione con il tastierista Joe Sample, riparte come meglio non si potrebbe. Il  vecchio leader dei Crusaders per l’occasione ha messo insieme una sezione ritmica veramente eccezionale formata  dal valente bassista Christian McBride e dal formidabile batterista Steve Gadd. A completare il quadro ha chiamato il mitico ed infallibile Tommy LiPuma che si è occupato di produrre da par suo questo disco. Questa combinazione di talenti è una vera garanzia di qualità e competenze e dirò subito che Feeling Good non delude le aspettative, mantenendosi sempre ad  un livello elevatissimo. I due compagni d’avventura Crawford e Sample propongono un affresco musicale fantastico, che sembra sgorgare facilmente dai due artisti, spontaneo e naturale come raramente capita. Dietro c’è una produzione raffinata ma essenziale, in grado di valorizzare la splendida vocalità della Crawford e l’immenso talento di quell’eccellente pianista che è Joe Sample. Si parte  benissimo con la title track dove i preziosi colpi di spazzola della batteria di Gadd danno uno sviluppo propulsivo eccezionale ad una già bella canzone, mentre Sample piazza subito uno dei suoi proverbiali assoli di pianoforte. Il lavoro di Steve Gadd su "See Line Woman" e "Last Night At Danceland" genera qualcosa di molto simile al groove irresistibile ed indimenticabile dei Crusaders, dando a Joe Sample la base per deliziarci con leggerezza ed un bellissimo soul feeling. Al maestro Sample viene tutto facile, le note escono dal suo pianoforte con quella fluidità e quella naturalezza che ne fanno della sua diteggiatura un’icona di stile senza tempo. Ogni traccia sembra cambiare stile con una grande versatilità, ma su tutto emerge la stupenda e inconfondibile voce di Randy Crawford, che con l’età appare addirittura migliorata per profondità e potenza, senza aver perso nulla del cristallino timbro degli inizi. "Lovetown" ha un andamento soul e r&b, al contempo delicato ed incisivo, a tratti pare ricordare certe canzoni di Peter Gabriel ( ad esempio Sledgehammer…). Tutto è perfetto in Feeling Good e non fa eccezione il dolce ritmo latino di "Rio de Janeiro Blue" che sottolinea una delle più belle canzoni degli anni ’80; qui viene riproposta in una versione più rilassata, ma l’assolo di Sample resta oggi come allora un pezzo di bravura assoluta. "But Beautiful" ci propone una Randy intima e passionale accompagnata in trio per creare la giusta atmosfera di un piccolo e fumoso club perfettamente tagliato per questo standard senza tempo. Blues a tutta forza invece in "Tell Me More and More And Then Some".  E ancora, è un bel viaggio indietro al 1960 "Everybody’s Talking" (hit degli anni ’60 di Harry Nilsson) che la band interpreta come un cha cha, e la Crawford non manca di far sua attraverso i falsetti e i cambi tonali che le sono propri. “End Of The Line” insiste sui ritmi latini e gioca tutto su un sontuoso arrangiamento orchestrale.  In Feeling Good c’è molto spirito blues, abbonda un’atmosfera profondamente soul, non mancano i profumi latini: Randy Crawford è in splendida forma e più ispirata che mai. La band, a partire dal magico e mai troppo compianto Joe Sample, supporta il talento della cantante con tocchi di grazia ed una professionalità senza pari. Questo è un album fantastico. Difficile crederci, ma forse Feeling Good è il primo album della discografia di Randy Crawford a catturare in modo esaustivo la sua versatilità e la sua arte. Ci sono voluti tren’anni da quando uscì il suo album di debutto. La cosa bella è che questo lavoro non suona nemmeno per un attimo come una correzione di rotta o di stile rispetto a quanto fatto precedentemente: semplicemente Randy non aveva mai fatto un album migliore di Feeling Good.

The Heath Brothers – Jazz Family


The Heath Brothers – Jazz Family

Una famiglia di jazzisti riunita per dare vita ad un gruppo musicale. Questo sono gli Heath Brothers: Jimmy, Percy, e Albert Heath, dal 1975 in avanti hanno messo insieme le loro forze ingaggiando il pianista Stanley Cowell ed in seguito il chitarrista Tony Purrone e il percussionista Mtume per completare il loro particolare progetto. Fino ad allora, il bassista Percy era stato occupato con il Modern Jazz Quartet, ma con il gruppo in "pensione" (temporaneamente, come dopo si è scoperto), tutti e tre i fratelli si trovarono liberi di dare corpo a questa singolare riunione. La band ha registrato complessivamente dieci album tra il 1975 ed il 2009. Albert Heath lasciò il gruppo nel 1978, e fu sostituito da Akira Tana, ma nel 1983 rientrò in organico. La musica dei fratelli Heath è essenzialmente classificabile come hard bop, con delle occasionali escursioni verso ritmiche e sonorità soul jazz. I loro album sono tutti piuttosto interessanti ed hanno il denominatore comune di essere estremamente piacevoli e raffinati. “Jazz Family” vide la luce nel 1998 dopo un lungo periodo di inattività a livello discografico. In quel momento però, Percy Heath era tecnicamente in pensione a Long Island, Jimmy Heath si era appena ritirato dal Queens College, mentre Albert Heath era libero da impegni e pronto per l'azione. Così i Fratelli Heath hanno avuto tutto il tempo di dedicarsi a questo album, mettendo insieme un'altra raccolta di brani prim'ordine, perfettamente tagliati per un piccolo combo di stampo hard bop. Su "East of the Sun (And West of the Moon)" e "Easy Living", ai fratelli si aggiunge un quartetto di fiati, che l’elegante scrittura musicale di Jimmy Heath esalta molto bene, riuscendo a mettere momentaneamente da parte i colori più sommessi del piccolo combo in favore di una maggiore sontuosità. Il chitarrista Tony Purrone, un pilastro dei primi Heath Brothers, ritorna in ottima forma e regala ottimi assoli. Jeb Patton, allievo di Jimmy al Queens College, è il nuovo pianista e si dimostra all’altezza.  Ci sono poi tre specialisti della tromba (il veterano Joe Wilder, Earl Gardner e Tom Williams) che si alternano nel ruolo di solisti, anche se le note del disco danno informazioni incomplete su chi di loro appaia e su quale traccia. Percy Heath, a differenza del suo ruolo di supporto nel Modern Jazz Qaurtet, torna più volte in primo piano come ad esempio su "Move to the Groove" che è un tipico blues sornione e accattivante  scritto dal bassista. Il quale dimostra una volta di più una classe purissima ed un innegabile talento  Quattro dei nove pezzi sono di Jimmy Heath, tra questi i più caratteristici sono "13 House" e "Three At Last" dalle forti tinte soul jazz. Su quest'ultimo si esibiscono solo i tre fratelli in una jam spensierata, eseguita nello stile tipico di New Orleans. Il suono del tenore di Jimmy è come sempre ricco di accenti e sfumature. “Little Bird” come è soprannominato per la forte influenza che ha avuto su di lui Charlie Parker, non delude gli appassionati, confermandosi la voce lirica della famiglia Heath. Albert Heath, che è musicista di grandissima classe ed esperienza, dal canto suo, fornisce quel drumming scorrevole e preciso per il quale è stato spesso richiesto da alcuni tra i migliori jazzisti, come John Coltrane e Herbie Hancock.  Jazz Family è un altro graditissimo e sospirato album che questi non più giovanissimi ma sempre gagliardi e vivaci sopravvissuti alle “guerre” del jazz hanno deciso di regalarci, sarebbe un peccato lasciarselo sfuggire.