Walter Bishop Jr. - Soul Village


Walter Bishop Jr. - Soul Village

Walter Bishop Jr. aveva  cinquant’anni quando, nel 1977, ha registrato Soul Village, il suo secondo album per l’etichetta Muse di Joe Fields. Pianista jazz per così dire operaio, nato e cresciuto ad Harlem, visse la giovinezza durante la rivoluzione del bebop e nei primi anni ‘50 suonò con la leggenda del sax Charlie Parker. Ma da ragazzo suonò anche con Art Blakey, Stan Getz e Jackie McLean, prima di debuttare da solista per l'etichetta Black Lion nel 1961. Nei primi anni '70, ha inciso un paio di apprezzati album leggermente colorati di funk, 'Coral Keys' e “Keeper of My Soul”, prima di approdare alla Muse Recors nel 1974. A lungo introvabile perché fuori stampa 'Soul Village' è stato recentemente ridistribuito su cd, facendoci scoprire un gioiello dimenticato, in grado di competere per qualità con le migliori produzioni della CTI dello stesso periodo. Le sei tracce del disco vedono Bishop rinunciare al tradizionale hard bop acustico in favore di una svolta elettrica di carattere  decisamente jazz-funk. Bishop si fa accompagnare dalla tromba di Randy Brecker, dal talentuoso chitarrista Steve Khan e dal bassista Mark Egan, che poi avrà una luminosa carriera in proprio. La band è completata dal dotato  George Young e Gerry Niewood ai sax e dalla precisa batteria di Ed Soph. Soul Village è un album bellissimo, vivo e frizzante come pochi altri, sempre interessante e ricco di spunti e brillanti assoli. 'Soul Turnaround' è un superbo brano jazz funk, magnificamente pilotato dal basso di Mark Egan e con un gran sax solo di George Young. 'Valerie' suona come una morbida ballata dalla bella melodia ed a tratti ricorda Burt Bacharach, mentre “Sweet Rosa' ha una palpabile cadenza caraibica dove Randy Brecker ci delizia con uno dei suoi assoli di tromba. Ancora diverso è il pulsante 'Philadelphia Bright', un numero nervoso e scoppiettante, guidato da un lavoro ritmico/percussivo degno di nota del piano elettrico Fender Rhodes di Bishop, arricchito da alcuni brillanti interventi chitarristici del bravo e originale Steve Khan. Davvero pieno di inventiva l’assolo di basso slap di Mark Egan e ottima la sezione fiati.  'Coral Keys', già registrata precedentemente dal pianista, propone un taglio elegante, con passaggi di fiati sapientemente miscelati ed una deliziosa tromba solista suonata dal solito Randy Brecker. Citazione particolare infine per la title track “Soul Village”, che offre un’emozionante rilettura funky di un bel brano originale, proposto in un precedente album, ma portato qui ad un livello superiore di complessità ed arricchito dal contributo puntuale dei singoli componenti della band. Va detto che Walter Bishop, alle tastiere, è eccellente in tutti i brani, nel contesto di un album che è stato ingiustamente trascurato e che merita certamente l’ascolto di un pubblico più ampio. A mio parere si tratta di un disco intrigante e molto interessante, direi essenziale per avere un quadro corretto e complessivo del jazz elettrico degli anni ’70, ma anche per puntare finalmente i riflettori su un grande pianista assolutamente sottovalutato.

Roy Ayers - He's Coming


Roy Ayers - He's Coming

Il vibrafono è uno strumento molto particolare ed affascinante ma purtroppo non è molto usuale trovarlo nelle comuni registrazioni di musica popolare. E certo non sono molti i musicisti che hanno saputo valorizzare questa incredibile percussione ritagliandosi uno spazio significativo sia nel jazz classico che nel funk. Personalmente trovo che il suo suono sia caldo e coinvolgente, sa essere etereo e spaziale ma anche scattante e nervoso. Un musicista in particolare che ha legato il suo nome al vibrafono è Roy Ayers. Partito dal jazz post-bop ha poi preso la strada del jazz funk, genere del quale è considerato uno dei pionieri. Non a caso è diventato una figura chiave del movimento acid jazz, ed è stato definito da molti come "il padrino del Neo Soul. Anche se Ayers è un artista di fama internazionale, i suoi primi album rientrano tuttavia in quella categoria denominata “rare grooves”, dato che non son in molti a conoscere la sua produzione musicale antecedente l’inizio degli anni ‘80. He's Coming, disco del 1972, cattura un Roy Ayers ancora giovane ma già artisticamente maturo che, affrancatosi dal linguaggio tradizionale, viaggia in piena evoluzione creativa. Un album nel quale Ayers si esprime in un jazz funk carico di tensione e groove e dove l'intensità del suo messaggio musicale crea forse il risultato più vibrante e strutturato della sua carriera fino a quel momento. Profondamente ispirato al musical di Broadway Jesus Christ Superstar, He's Coming è un'esplorazione delle convinzioni spirituali e sociali del vibrafonista di Los Angeles. Ma è anche un’autentica esplosione di quel sound "blaxploitation" che riporta immediatamente a tutta l’iconografia cinematografica afro americana tipica degli anni ’70, Quella di Shaft, Coffy (di cui lo stesso Ayers comporrà la colonna sonora), Superfly o Foxy Brown e molti altri.  Aiutato dal suo gruppo Ubiquity, formato da personaggi di eccellente livello come il sassofonista Sonny Fortune, il bassista John Williams, il tastierista Harry Whitaker e il batterista Billy Cobham, Ayers mette il suo vibrafono in prima linea, da carismatico leader e da virtuoso solista, facendone non il protagonista assoluto, ma lasciando anche spazio alle parti vocali e agli altri musicisti. Un esempio è la fantastica "Sweet Tears": un bellissimo brano, inquietante ibrido di jazz, funk e soul, che mostra chiaramente quale sia l'estetica musicale di Roy Ayers. “He Ain't Heavy He's My Brother” scorre rilassata e sensuale, arricchita da un bellissimo assolo di flauto.”Ain't Got Time” è un brano cantato dallo stesso Roy Ayers, in parte quasi recitato, per sottolineare l’impegno dell’artista nel campo dei diritti sociali. L’omaggio diretto a Jesus Christ Superstar è invece la bella “I Don't Know How To Love Him” il cui tema viene reso in modo molto appassionato dal vibrafono del leader. Un numero che suona quasi psichedelico è “He’s Coming” dominato dal suono acido di un organo hammond su un ritmo ossessivamente ripetitivo e concluso da un altrettanto pungente sax. Molto black, l’iconica “We Live In Brooklyn Baby”: ha un andamento diverso, molto particolare, dove ancora una volta la voce recitata di Ayers fa da contorno ad un arrangiamento molto drammatico. Capofila di un vero e proprio movimento musicale e personaggio di indubbio spessore, Roy Ayers ha innovato il vibrafono inserendolo in un contesto jazz-funk-soul elettrico tra i più interessanti degli anni ’70. He’s coming è un album sconosciuto al grande pubblico ma ricco di importanti suggestioni “acid jazz” e in qualche misura ha avuto il merito di aprire un nuovo e vitale ciclo musicale sia per Roy Ayers che per tutto il movimento jazz funk.

Dexter Wansel - Life On Mars


Dexter Wansel - Life On Mars

Dexter Gilman Wansel (nato il 22 agosto 1950) è un tastierista americano, cresciuto a Philadelphia, Pennsylvania. Ha contribuito allo sviluppo del Philly Sound e ha lavorato con i mitici produttori Gamble e Huff alla Philadelphia International Records. In carriera ha collaborato con la cantante Phyllis Hyman, The Jacksons, MFSB, Teddy Pendergrass, Patti LaBelle, The Jones Girls, Evelyn "Champagne" King, Grover Washington Jr. e Lou Rawls, tra gli altri . Ha anche scritto nel 1981 la famosa canzone diventata una hit internazionale "Nights Over Egypt" delle Jones Girls. Inoltre alcuni suoi brani sono stati più di recente campionati da artisti hip hop e rap. Wansel, a metà degli anni 1970, ha sicuramente esercitato una certa influenza sulla musica pop, sia come produttore che come performer e ha contribuito a portare nuova linfa al movimento jazz funk. Il suo album di maggior successo è stato Life on Mars, pubblicato su etichetta Philadelphia International nel 1976. Dexter ha qui ovviamente suonato tutte le tastiere, Derek Graves il  basso, mentre la voce era quella della turnista Terri Wells, al sax l'eccellente Bob Malach. La band dell’album era completata dalla sezione ritmica formata daI gruppo The Planets e cioè  Darryl Brown, Calvin Harris, Al Harrison. Negli anni ’70 la fantascienza aveva assunto una certa importanza e riscuoteva interesse sia nel cinema che nella letteratura, è quindi abbastanza ovvio che anche la musica risentisse di questa tendenza generalizzata. Ecco allora che per il suo album di debutto Life On Mars, Dexter Wansel decide di cavalcare l’onda, caratterizzando i contenuti del suo lavoro con temi legati alla Science Fiction. Ne esce un album tutt'altro che prevedibile anche se di fatto ciò che si ascolta è solamente ispirato dallo spazio, restando piuttosto lontano musicalmente da quel funk cosmico che invece si può trovare in Lonnie Liston Smith o Eddie Russ o ancora Hubert Eaves.  La traccia “Life On Mars”, che da il titolo a tutto il disco, è un inquietante e sincopato funk dove Wansel fa scintillare il suo Rhodes e scatena i synth in un’atmosfera ricchissima di groove. “A Prophet Named K.G” è ancora veloce e nervosa, con il bell’assolo di sax del bravo Bob Malach, un sassofonista decisamente influenzato da Michael Brecker. Stargazer ci porta in pieno stile Philly Sound strumentale ed è impreziosita di nuovo dal piano elettrico del leader, il cui suono come sempre incanta. Molto bello “Theme From the Planets” brano mid-tempo, molto moderno anche se ascoltato oggi,  dove sono in evidenza i synth e il sax di Malach ed appare magnifico il lavoro di arrangiatore e orchestratore di Wansel. Una citazione d’obbligo infine per “Ring Of Saturn” che è forse il numero più cosmico di Life On Mars ed uno dei più particolari ed affascinati.  Non mancano morbide ballate soul arrangiate nel classico stile di Philadelphia, canzoni probabilmente inserite per stemperare un po’ l’atmosfera jazz funk piuttosto tirata del resto dell’album e non spiazzare così l’ascoltatore più legato alla tradizione. Life On Mars è forse il migliore dei lavori di Dexter Wansel e certamente risulta essere un debutto eccellente, da inserire nel novero di quei rare grooves vintage che caratterizzarono gli anni d’oro del funk afro-americano.

Weldon Irvine - Liberated Brother


Weldon Irvine - Liberated Brother

Andando alla scoperta dei suoni e delle suggestioni vintage degli anni ’70, tra i molti artisti, spesso naif, che animavano la scena musicale ci si può imbattere in un personaggio lunatico e particolare come Weldon Irvine. Irvine, pianista / tastierista afro-americano, fu un musicista molto impegnato sul fronte politico e dei diritti civili.  Nacque a Hampton, Virginia il 27 ottobre 1943. Si trasferì a New York City nel 1965, crescendo, artisticamente parlando, nel più vitale e stimolante dei contesti possibili, quello che dal free jazz stava portando alle contaminazioni elettriche. Da sempre si è dimostrato interessato a vari generi musicali tra i quali ovviamente il jazz-funk, il jazz, l’hip hop, il funk, il rhythm and blues ed il gospel. E’ stato direttore artistico per la cantante jazz Nina Simone ed in seguito è stato un vero mentore per molti artisti hip-hop di New York, tra cui Q-Tip e Mos Def. In carriera ha al suo attivo ben 10 album ed ha composto più di 500 canzoni, e tra le altre cose ha scritto i testi per "To Be Young, Gifted, And Black", eseguita dal vivo per la prima volta dalla stessa Nina Simone sull'album Black Gold del 1970. Questa canzone è stata definita l'inno "ufficiale" del movimento per l’affermazione dei diritti civili. La sua vita ha avuto un tragico epilogo nel 2002 a New York con un drammatico suicidio avvenuto davanti al Nassau Coliseum. Il debutto di Weldon Irvine come leader, è stato questo bellissimo album intitolato Liberated Brother, che è una delle più interessanti ed iconiche espressioni del  jazz elettrico dei primi anni '70. Registrato nel 1972 con il contributo del chitarrista Tommy Smith, del bassista Roland Wilson, e del batterista Napoleon Revels-Bey l’album è innovativo per la sua moderna sensibilità venata di jazz-funk eppure resta ancora profondamente jazzistico. In Liberated Brother, Weldon Irvine traduce in musica la sua forte e non comune passione per un certo tipo di idee politiche e filosofiche estremamente progressiste creando un’opera di rara sincerità, ambizione e bellezza. La prima parte del disco si articola in brani più lunghi e più meditativi, come la canzone che da il titolo all’album, dal sapore latino e la bellissima "Blues Wel-Don" che è invece traccia molto jazzistica ed estremamente complessa, nella quale Weldon si esibisce al piano acustico. La seconda parte di questo lavoro richiama una maggiore attenzione, brani come "Mr. Clean" e "Sister Sanctified" ricordano il Miles Davis elettrico o i primi Weather Report e vedono l’uso intensivo del piano elettrico e dei synth. Ed ecco che la musica raggiunge una fantastica compiutezza ed una mirabile profondità, allorchè tutti gli elementi di jazz, soul, funk e psichedelia emergono bilanciati prepotentemente in un connubio potente e molto suggestivo. "Juggah Buggah" ci presenta anche Weldon Irvine esibirsi con il sintetizzatore Moog, espandendo ulteriormente le frontiere di un  album già molto interessante. Liberated Brother può essere considerato a tutti gli effetti un vero e proprio manifesto di quello che oggi viene definito “rare groove”. Di sicuro è un disco di grande spessore e rappresenta al tempo stesso un ottimo punto di partenza per la riscoperta di tutto quel mondo musicale costruito dai molti musicisti attivi tra la fine degli anni ’60 e la fine degli anni ’70 che non raggiunsero mai gli onori della cronaca o la fama internazionale, ma furono lo stesso in grado di produrre indimenticabili testimonianze della loro arte.

James Mason – Rhythm of Life



James Mason – Rhythm of Life

Gli appassionati cultori dei rare grooves  ritengono che Rhythm of Life di James Mason sia da considerarsi una sorta di disco di culto. Vediamo di scoprire qual è la ragione di questa riscoperta.Tanto interessante quanto sconosciuto è un album fondamentalmente funky ma fortemente caratterizzato da uno spirito soul, in una sintesi (vogliamo chiamarla fusione?) tra una sorta di R&B progressivo e quella voglia di dance che cominciava a sbocciare prepotentemente attorno alla seconda metà degli anni ’70. Non è certo musica per puristi del jazz, che compare molto sfumato in queste tracce vintage, ma chi ama i deep grooves del Donald Byrd dello stesso periodo o quelli di Roy Ayers, nella band del quale lo stesso Mason ha suonato, capirà subito perché questo album è considerato un piccolo capolavoro dai seguaci dell’acid jazz. Ariose ballate soul e potenti ritmi up-tempo caratterizzano questo lavoro del 1977, beneficiando del talento proprio di Mason sia nel comporre canzoni intriganti che del suo gusto innato per l’uso di accordi ricchi e corposi. James Mason suona tutte le chitarre e vari tipi di synth vintage oltre che l’immancabile ed onnipresente piano elettrico Fender Rhodes. E’ dunque in gran parte responsabile per la parte strumentale di ogni singola traccia di questo disco. Va anche detto che Mason è un bravo e dotato musicista quando sceglie di essere protagonista, ma in effetti la sua attenzione è più rivolta alla creazione di valide ed interessanti composizioni, di sontuosi arrangiamenti, senza mai, in tutto ciò, dimenticare il ritmo. Il risultato è che le tracce più veloci risultano molto jazz-funk, suonate a ritmi davvero impressionanti sempre sottolineate dal bel basso tambureggiante di Gene Torres. Inoltre la presenza della voce di Clarice Taylor infonde un’atmosfera molto soul a questo Rhythm of Life.  Tuttavia le canzoni dell’album non sono solo un superficiale esercizio di ritmo e groove ma sono estremamente strutturate e complesse, donando un piacevole senso di maggiore profondità a tutto il lavoro. Almeno quattro dei dieci brani che compongono questo album sono diventati degli standard di successo nei club dove si coltiva il culto dei rare grooves e sono "Sweet Power Your Embrace," "Free," "Funny Girl," and "Slick City". Rhythm of Life, canzone che da il titolo al disco è la punta di diamante di questo vero e proprio trionfo del vintage sound. Dischi come questo, orecchiabili, funky, riccamente strutturati, gioiosi e trascinanti sono uno dei motivi per i quali è nato e ancora vive il movimento acid jazz.  Dal momento che le qualità di questo tipo di musica non sono certo molto apprezzate dai jazzisti più accaniti, potrebbero facilmente essere consegnate all'oblio, ed in parte forse è stato proprio così.  Per fortuna, oggi si riscoprono sempre di più le piccole grandi gemme di quel fantastico periodo storico. Ed è così allora che anche un album così “raro” e dimenticato può tornare a riscuotere interesse e avere in qualche misura una seconda vita.

Hubert Eaves – Esoteric Funk


Hubert Eaves – Esoteric Funk

Ritorno a parlare di rare grooves e lo faccio andando a pescare un misconosciuto mago delle tastiere di nome Hubert Eaves.  Eaves negli anni ‘70 era ben noto nell’ambiente musicale come valido e apprezzato session man, ma era altrettanto sconosciuto al grande pubblico. Voglia di sperimentazione, un’ottima tecnica, l’ampia gamma di sonorità che poteva offrire ne fecero ben presto una scelta ambita per un ampio ventaglio di artisti di svariati generi musicali. Questa meritata fama di bravo tastierista tra gli addetti ai lavori non sfociò mai, di fatto, in una vera e propria carriera da solista. In effetti esiste un solo album a suo nome, questo Esoteric Funk che, pur essendo un gioiellino del funk-jazz, sono in pochi a conoscere. Hubert Eaves lo registrò per l'etichetta Inner City nel 1976 con i membri della band di Miles Davis,  Reggie Lucas e Mtume e altri straordinari musicisti come René McLean e Malachi Thompson. Eaves si esibisce con ogni tipo di tastiera all’epoca conosciuta: dall’ARP al Moog, dal Rodhes al piano Steinway. Con sei brani da lui stesso composti e arrangiati,  il leader disegna un ricco quadro di solidissimo funky permeato di jazz e di soul, ma non privo di una venatura di esoterismo e oniricità che ben si riflettono nel titolo stesso dell’album. Il groove domina la scena, l’atmosfera è tipicamente seventies, a cavallo tra la colonna sonora di un poliziesco e le feste psichedeliche piene di colletti improbabili, pantaloni a zampa d’elefante, colori vivaci e acconciature afro. Due esempi tra le sei tracce: "Call to Awareness" che all’inizio scorre rilassata, con un magico Rhodes a suggerirne l’atmosfera quasi spaziale, per poi esplodere in modo inaspettato pilotata da una bella linea di basso e con i fiati a sottolinearne il groove prettamente jazzistico. E "Slow Down" che è invece strutturata su una serie di crescendo legati insieme da una dinamica piattaforma di piano acustico. Il resto dell’album è comunque molto variegato e in qualche misura sorprendente per la qualità, la complessità ed anche l’originalità della proposta musicale. Era un epoca d’oro per questo genere e non è certo un caso che gli amanti dell’acid jazz continuino a cercare avidamente nel repertorio degli anni '70 alla ricerca di lavori dimenticati ma ricchissimi di spunti, contenuti, sonorità e ritmi che la scena musicale attuale può soltanto cercare di imitare. Hubert Eaves con il suo “funk esoterico” e le sue magiche tastiere ne sono un bellissimo esempio.

Michael Franks - Time Together


Michael Franks - Time Together

Non nascondo di essere un grande ammiratore di Michael Franks, da moltissimi anni. Mi è sempre piaciuto il suo modo di comporre, la sua abilità nel scegliere collaboratori ed arrangiatori, il suo genuino impegno ed infine la sua straordinaria originalità. Non esiste un altro Michael Franks ne mai esisterà. Michael è comunque un artista che tocca la sensibilità della maggior parte degli appassionati di jazz, pop e adult contemporary music. Oppure per contro scatena sentimenti opposti. Il suo approccio musicale profumato di jazz è unico, profondamente influenzato dalla musica brasiliana, ispirato dal dolce vento creativo californiano, ma anche straordinariamente romantico, languido eppure sempre fresco e positivo. E’ lo stile Michael Franks, un marchio di fabbrica. Time Together è la sua prima registrazione di nuovo materiale dopo cinque anni di silenzio e ad oggi il suo ultimo album. Il tempo non ha cambiato il suo modo di creare musica e atmosfere. Time Together è un arioso ed ottimista affresco sull'estate, intesa come stagione ma soprattutto come stato d'animo. Michael lo dipinge con le note e con le parole, facendoci volare da St. Tropez a New York, da Parigi all’Egitto, da Rio a Chicago. Si viaggia attraverso un passato un pò nostalgico e ci si ritrova nel momento presente, con intelligenti ed ironiche osservazioni sulla vita, accompagnati da belle melodie e dalla pigra e caratteristica voce del solista. Franks distribuisce la produzione e gli arrangiamenti dell’album tra Charles Blenzig, Gil Goldstein, Chuck Loeb, Scott Petito, e Mark Egan. Il resto del cast internazionale di questo set di undici canzoni comprende vecchi amici e nuovi collaboratori: David Spinozza, Mike Mainieri, David Mann, Eric Marienthal, Till Brönner, Alex Spiagin, Jerry Marotta, Billy Kilson, Romero Lubambo, Clifford Carter e la corista Veronica Nunn. Time Together è un disco lucido e rilassato senza essere mai eccessivamente melenso. Al solito è arrangiato e suonato in maniera impeccabile e, cosa che non guasta, è registrato davvero molto bene. Il lavoro si apre con "Now that the summer’s here", una bossa che è come una sorta di inno alla pigrizia estiva di ispirazione brasiliana, con ottimi assoli di tromba di Till Bronner e di sax contralto di Eric Marienthal. L’intervento di Chuck Loeb include una combinazione perfettamente bilanciata di chitarre acustiche ed elettriche. "One day in St. Tropez" riporta alle canzoni più belle del repertorio di Franks con il fantastico apporto al pianoforte di Gil Goldstein, e straordinarie presenze al basso di Greg Cohen e la magica chitarra acustica di Romero Lubambo. La canzone evoca gli indimenticabili momenti d’oro della bossa classica degli anni sessanta, mentre il testo del cantante, così esoticamente ricco e nostalgico ci rimanda ad un romantico e lontano viaggio in autostop  nel sud della Francia. “Summer in New York” vira su toni più squisitamente americani, illuminata da bellissimi contrappunti trombettistici di matrice jazzistica, portandoci a spasso per i quartieri e le attrazioni newyorkesi.  "Mice" è un lento e sensuale brano, divertente, ironico e metaforico, splendidamente arricchito dal vibrafono di Mainieri. "Samba Blu" è un'altra delle tracce più interessanti dell'album, una bossa che racconta la storia di un amore vissuto a Parigi, senza un briciolo di retorica e senza scadere nel mellifluo. Questo grazie alle belle liriche di Michael ed ad una melodia ancora una volta accattivante. "My Heart Said Wow" è un duetto con la brava Veronica Nunn, e fa bella mostra qui un intenso assolo di tromba di Spiagin. "Feathers From An Angel's Wing", è la più lunga e forse più bella traccia dell’album, arrangiata da Mark Egan, il cui basso fretless fa da liquida introduzione al brano mentre le chitarre di Chuck Loeb, le tastiere di Clifford Carter, e la batteria di Joe Bonadio condiscono il tutto con estrema eleganza. “Charlie Chan in Egypt” richiama i film degli anni trenta e la serie tv in bianco e nero degli anni cinquanta con protagonista il famoso detective e lo fa con quella tipica atmosfera jazzy tanto retrò quanto moderna, mentre la voce di Michael è più pigra e sussurrata che mai. Time Together è infine la bellissima e straziante dedica di Michael alla sua amata bassotta Flora, morta poco prima dell’uscita del disco.  Chiunque abbia amato nella sua vita un animale domestico non può non commuoversi davanti a tanta dolce e malinconica poesia. Il  quadro impressionista dipinto da Franks può essere considerato a tutti gli effetti contemporaneo, ma la sua musica è tuttavia senza età. Time Together può essere la colonna sonora di un’estate o di una vita poichè la formula di Michael è sempre la stessa. Non cambia ed in ultima analisi non importa. Davanti a tanta poesia e tanta delicata dolcezza il cuore magicamente si apre e ancora una volta Michael Franks riesce a riempirlo con semplicità e passione. Il “tempo insieme” è bellissimo con in sottofondo uno come lui.

Fourplay – Esprit De Four


Fourplay – Esprit De Four

I super gruppi, intesi come l’unione di alcuni musicisti considerati tra i migliori del loro strumento, sono il sogno  di tutti gli appassionati. Tuttavia in passato, soprattutto nel progressive rock, hanno spesso deluso le aspettative di quelli che pregustavano grandi cose e si sono ritrovati al cospetto o di operazioni commerciali o di semplici contenitori di virtuosità fine a se stessa. Non è questo il caso dei Fourplay, nati dalla volontà di Bob James (piano-tastiere), Nathan East (basso-contrabbasso) e Harvey Mason (batteria) inizialmente completati da Lee Ritenour (chitarre) e poi in seguito alla fuoriuscita di quest’ultimo, da Larry Carlton (chitarre). Per oltre 20 anni, questo incredibile insieme di talenti cristallini ha prodotto grande musica, con una classe unica ed una raffinatezza impareggiabile. Col passare del tempo i Fourplay hanno maturato un approccio sempre più coerente ed intrigante nell’interpretazione del jazz contemporaneo, inanellando uno dopo l'altro numerosi album di successo. Quando i tre membri fondatori, nel 2010, hanno aggiunto alla band il chitarrista Chuck Loeb in occasione dell’uscita dell’album Let’s touch the sky, il gruppo ha raggiunto forse il suo miglior equilibrio e la sintesi perfetta tra contenuti ed esecuzioni. Con una nuova iniezione creativa data dal navigato e bravissimo chitarrista, i Fourplay raggiungono probabilmente lo zenit delle loro potenzialità espressive. Ecco allora che con questo Esprit de Four, i quattro musicisti pur rimanendo comunque molto accessibili e gradevolmente orecchiabili, fanno un ulteriore passo avanti confermandosi come il miglior gruppo di questo tipo del panorama mondiale. La loro estetica musicale è stata e rimane profondamente contemporanea, direi canonicamente smooth jazz, ma le composizioni, le improvvisazioni, le melodie e le armonie, così come le ritmiche sono ormai assurte ad un livello di perfezione formale davvero mirabile. Il gusto, l’equilibrio e la complessità della loro musica vanno anche al di là di un discorso di genere, diventando in qualche misura universali. "December Dream" di Chuck Loeb evidenzia bene il concetto. Si tratta di un’ariosa composizione che intreccia folk, pop, jazz in maniera perfetta. Lo scintillante lavoro batteristico di Harvey Mason mette in evidenza l'interazione tra Bob James e lo stesso Loeb, mentre la linea di basso di Nathan East pervade di groove il tutto in modo irresistibile. Su "Sonnymoon," il basso del grande Nathan è profondamente funky, e va a sottolineare il perfetto dialogo tra gli accordi ricchi di colore di Loeb e la meravigliosa consistenza del caldo pianoforte elettrico James, Harvey Mason è lì a scandire perfettamente il numero con i suoi inconfondibili breakbeats. Sebbene sui precedenti dischi dei Fourplay gli interventi vocali siano stati numerosi, qui ne troviamo solo due: la bella, blueseggiante, quasi notturna composizione di East "All I Wanna Do", e la romantica canzone di Bob James "Put Our Hearts Together," cantata splendidamente da Seiko Matsuda. Lo stesso brano viene poi proposto anche in versione strumentale. E’ una dedica appassionata e struggente al Giappone, scritta subito dopo il dramma del terremoto e del conseguente tsunami. La versione strumentale differisce da quella vocale in modo sorprendente: inizia come un pezzo pop classico,  lascia il posto ad un intreccio melodico molto particolare ed infine diventa una sorta di jam session post-bop con un grande assolo di piano di James. Esprit de Four è un brillante esempio di come il jazz contemporaneo dovrebbe essere ma è anche un fantastico e riuscito sforzo di collaborazione e di interplay di quattro delle stelle più luminose del firmamento musicale odierno. Sono quattro grandi solisti che suonano meravigliosamente, si ritagliano il loro spazio senza mai prevalere l'uno sull'altro, in un connubio creativo all'insegna dell'equilibrio, dando ognuno il meglio di se in funzione del risultato finale. Una vera band in grado di ergersi ad un livello altissimo e di diventare un riferimento per qualsiasi altro musicista. Impossibile non apprezzarli.

Bob James - Ivory Coast


Bob James - Ivory Coast

Bob James è un grande pianista, un notevole compositore e cosa non trascurabile, vanta uno stile molto personale e riconoscibile. Partendo dalla lezione dei maestri del piano jazz (Bill Evans su tutti) Bob si è via via evoluto ed il suo linguaggio artistico ha progressivamente abbandonato il filone classico del jazz mainstream per virare sempre più decisamente verso quei territori definiti "fusion". Ciò non significa necessariamente una caduta di qualità o una visione esclusivamente commerciale. James infatti, a partire dal 1973-74, ha prodotto una serie di lavori di notevole qualità e pur con le cadute ed gli inevitabili momenti meno riusciti si è distinto in questi 40 anni di carriera per più di alcune gemme indimenticabili. Una ricerca continua di una sorta di perfezione stilistica e tecnica. Ivory Coast, del 1988, arrangiato e prodotto dallo stesso James  è composto da sei brani di cui cinque composti da Bob. L'album è dedicato a sua moglie e l'atmosfera è rilassata e romantica senza mai scadere nel melenso o nel banale. Il clou della registrazione, però, è l'importante lavoro solista dal sassofonista Kirk Whalum (un talento vero, autore di album solisti di notevole pregio) su una composizione non di James, "Rosalie". Whalum è anche in grande evidenza sulla energetica "Yoghi's dream", bellisssima. Il  lavoro del flautista Alexander Zonjic è degno di nota in diverse tracce, tra cui l'opener "Ashanti", dove lo stesso Bob James mette in mostra la parte migliore del suo pianismo preciso e raffinato. Pur non essendo il suo miglior album in carriera, James offre comunque una gran qualità in questo CD, dimostrando una notevole fantasia nella diteggiatura nelle tracce dove il pianoforte è in primo piano. Le tastiere elettroniche restano prevalentemente in sottofondo, scongiurando così il pericolo, spesso assai incombente, di rendere tutto molto freddo ed impersonale. I pezzi sono riccamente strutturati, arrangiati in maniera impeccabile. Ottimi sono, come detto, anche gli assoli di Whalum, Zonjic e James stesso. Tutto ciò rende questa registrazione pregevole e degna di nota tra le altre dello stesso periodo. Il finale degli anni '80, vide infatti un'esplosione del genere fusion, ma anche il proliferare di eccessi di ogni tipo nell'uso dell'elettronica e qualche volta anche una sterile ricerca del tecnicismo a tutti i costi da parte dei musicisti. Il nostro Bob James, maestro di gusto ed equilibrio non è stato a sua volta immune da questa sorta di virus elettronico che imperversò all'epoca. Ne uscì però meglio di tanti altri, mantenendo il suo livello artistico ben sopra la media. Ivory Coast ne è un bellissimo esempio. Non è un disco essenziale ma vale certamente un ascolto.

Art Porter, Jr. - Undecover


Art Porter, Jr. - Undecover

Voglio parlare nuovamente di un giovane sassofonista a cui il fato ha tolto una luminosa carriera, privando i fans di un talento dalle grandi potenzialità espressive. Sfortunato e bravo il nostro Art Porter, sassofonista di valore, figlio del pianista Art Porter, Sr., scomparso a 35 anni in un tragico incidente in Thailandia, dopo aver registrato solo cinque album. Quello di cui parliamo, "Undercover", è il suo terzo, registrato per la prestigiosa etichetta Verve. Una curiosità riguardo a questo artista è che egli è nativo di Little Rock, Arkansas, lo stesso luogo di origine di Bill Clinton (sassofonista per diletto a sua volta), e che suonò nel 1993  insieme al padre in un concerto proprio in onore dell'insediamento del presidente degli Stati Uniti, che era un suo grande estimatore. Un talento naturale sbocciato fin da bambino prima alla batteria, in seguito dopo aver preso lezioni anche di pianoforte, esploso al sax. In questo bellissimo album Art Porter si mostra palesemente maturato rispetto ai primissimi lavori ed il merito è in parte della felice scelta di una doppia e sontuosa produzione: quella consolidata di Jeff Lorber e quella nuova di Ronnie Foster. Da qui un disco in perfetto equilibrio tra le esplosioni ritmiche e funky esaltate dalla vena di Lorber e le atmosfere più rilassate e romantiche ispirate dal gusto di Foster. Una soluzione che da al lavoro un respiro fresco e godibile, mettendo al posto giusto tutto quello che serve per far rendere al meglio le anime di un artista sensibile ed energico come il nostro Art in un contesto indiscutibilmente smooth jazz, ma con una qualità spesso sconosciuta in un genere dove regna la tendenza all'appiattimento. La voce del sax è qui a tratti ruvida e scattante, in altri momenti setosa e sognante. Si salta di tempo in tempo, dal funky classico alla ballata romantica ed in tutto questo Porter mantiene una coerenza espressiva mirabile, frutto di una energia fluida, in continua evoluzione, giocosa ed equilibrata, magicamente sospesa sulla base di una produzione e di arrangiamenti perfetti e calibrati. Due chitarristi star sono al servizio di questo progetto e ne arricchiscono ulteriormente i contenuti: Norman Brown e Paul Jackson, Jr. Harvey Mason alla batteria garantisce la ritmica  ideale, Nate Phillips al basso l'immancabile groove. Ciliegine sulla succosa torta sono le parti di tastiera magistralmente orchestrate dai due produttori dell'album: Jeff Lorber e Ronnie Foster, due nomi di grande livello che sono una garanzia assoluta. Un gran bel disco questo Undercover che consiglio a tutti di ascoltare. Un talento quello di Art Porter che dispiace non aver avuto la possibilità di godere più a lungo a causa di un incredibile quanto sfortunato incidente. Art Porter ci lascia la testimonianza della sua arte con i suoi 5 album di cui forse questo è il migliore. I suoi colleghi lo stimavano e gli hanno tributato l'onore di un disco in sua memoria, assemblando con materiale live quel "For Art's Sake" di cui ho parlato in un'altra recensione. Su quel lavoro postumo ci sono anche due canzoni inedite ed una di queste, bellissima, gli è stata dedicata proprio da Jeff Lorber. Un' iniziativa riservata ai migliori a riprova del fatto che Art era speciale come sassofonista e come persona.

Bob Baldwin - Newurbanjazz.com


Bob Baldwin - Newurbanjazz.com

Il navigato tastierista Bob Baldwin si è fatto le ossa col suo pianismo funky venato di gospel sin dal 1990. E nonostante lo scarso appoggio delle grandi etichette discografiche è riuscito a ritagliarsi un piccolo spazio nel mondo dello smooth jazz. Il suo talento e la sua onestà giustificano ampiamente la buona fama guadagnata dal pianista di Atlanta. Con uno sguardo al futuro, Baldwin aveva coraggiosamente affermato la potenza di internet quando intitolò BobBaldwin.com il suo album del 2000. Nel 2008 torna a quel concetto con questo Newurbanjazz.com. Siamo nel territorio di quel sotto-genere jazzistico che viene definito smooth jazz, ma che, al solito, vede multiple contaminazioni funky, soul, gospel e R&B come sottolineato dallo stesso artista nelle note di copertina. Un suono che è dunque facilmente riconducibile al termine “urbano”. Bob Baldwin non esita a mantenere un legame con il suo stile e le precedenti esperienze, innestando al contempo nuove sonorità e vibrazioni più moderne. Lo sentiamo in "Jeep Jazz" (una chicca confezionata con il cantante Zoiea) , oppure in " Third Wind" (dove i suoi accordi illuminano il bellissimo vocal-scat della chitarra di Norman Brown). La seducente  "Take My Hand " ci culla con un'atmosfera rilassante, distesa, gli inglesi dicono laid-back. Contaminazioni a parte, Baldwin però non dimentica mai che la parola "jazz" è nel titolo del disco, corredandolo di gemme uptempo orecchiabili, come "Too Late", sapientemente arrangiata con abbondanza di fiati  e con un campionario di vivaci e dinamiche improvvisazioni. Quincy Jones in persona ha dato un giudizio lusinghiero per uno dei brani più originali del disco , “Smokin' ”.  Un tributo pieno di atmosfera per una delle leggende del jazz la troviamo in "Joe Zawinul". Un'altra caratteristica sorprendente del "nuovo" sound di Baldwin è il suo approccio collettivo,  molto corale alla musica che troviamo in questo Newurbanjazz.com. L'album comprende i contributi fondamentali di nomi noti e di nuovi personaggi. Dunque, se da una parte ci sono alcuni di coloro che ogni fan di smooth jazz vorrebbe sempre ascoltare ( Najee , Marion Meadows , Phil Perry ) e un paio di cantanti soul famosi (Freddie Jackson , Jocelyn Brown) , il tastierista introduce qui anche alcuni nuovi arrivati versatili e talentuosi come Frank McComb (diventerà una star a sua volta) o il rapper Della Croche . Un album pieno di energia, una vera delizia per gli amanti del pianoforte e delle tastiere ed una proposta musicale fresca e moderna che può intrigare anche chi non ha particolare dimestichezza con il jazz o con il suo derivato commerciale chiamato smooth-jazz. Bob Baldwin è un buon pianista. Ha gusto ed equilibrio e cosa molto importante compone ottime melodie. Il timido successo ottenuto fino ad oggi è destinato a crescere e con pieno merito.

Soundscape UK - Surreal Thing


Soundscape UK - Surreal Thing

Torniamo in Inghilterra, patria dell'acid jazz moderno e di molta della miglior musica degli ultimi 60 anni, per parlare di un altro interessante duo formato da Mick Talbot alle tastiere e dal percussionista e bassista Chris Bangs. Talbot e Bangs hanno lavorato entrambe, attorno alla metà degli anni '90, con il noto gruppo Galliano, ma un certo punto della loro carriera i due decidono di unire le loro forze creative nel progetto Soundscape UK. L'idea è quella di partire dai suoni disco e soul degli anni '70 e sintetizzarli in una miscela di acid e smooth jazz, con un groove caratterizzato da sax e tastiere. Sul loro secondo album, questo Surreal Thing, i musicisti sono evidentemente ancora interessati a combinare suoni e accenti dei due stili, tuttavia, rispetto al primo Life Force, tendono ad orientarsi sempre più verso la loro inclinazione "morbida", cosa che spesso oscura un pochino gli elementi più interessanti della loro musica . Questo non è così sorprendente se si considera che il debutto della band ha visto sbocciare nelle classifiche, in modo imprevisto, una hit radio come "Morning Song". Un brano dal sapore tipicamente smooth jazz. Un successo dal quale, naturalmente,i Soundscape UK hanno dedotto che il pubblico rispondeva  meglio a quel preciso stile. E' inutile negare che questo tipo di sound è orientato verso quegli ascoltatori che non vogliono ammettere quanto siano gratificati da un genere smaccatamente piacevole e suadente, ma ne sono comunque inconsciamente rapiti. L'essenza di questo lavoro è quasi sempre incentrato su ritmi ripetitivi, deep groove ed orecchiabili riff jazzistici. Ecco allora che Surreal Thing corre scanzonato in questa esatta direzione. La maggior parte dei brani dell'album contiene una forte (e piuttosto anonima) atmosfera smooth jazz pilotata dal sax e dalla chitarra elettrica, cosa che in parte soffoca le potenzialità creative del gruppo, nascondendo per così dire gli spunti più interessanti. Questo è un peccato,  perché Mick Talbot è un ottimo tastierista (lo ricordiamo accanto a Paul Weller negli Style Council) ed è quindi sorprendente quanto poco spazio solista si prenda. Quando si fa sentire, in particolare al Rhodes o all'Hammond, i brani se ne giovano immediatamente. La maggior parte degli spazi riservati agli assolo vengono così catturati dal chitarrista di estrazione jazzistica Nigel Wallace Price. Il quale è un valido musicista senza tuttavia possedere una grande personalità. Le tracce che funzionano meglio sono quindi quelle che non mettono saxofono e/o chitarra davanti a tutto. Questo non tanto per demeriti specifici dell'onesto e preciso saxofonista Gary Spacey-Foote e del già citato Nigel Wallace Price, quanto forse perchè senza il dominio del binomio chitarra - sax i brani riescono a sfuggire ai clichè consolidati dello smooth jazz tipico delle radio FM, risultando perciò più imprevedibili ed interessanti. Di fatto il meglio viene espresso dove i Soundscape UK suonano in stile acid jazz con i loro accenti retro e qualche spunto futurista. Numeri come "Tea Pot ", "Tre Thirty Nine" e la title track sono supportati da una tromba con sordina sopra a degli ottimi break beats e dimostrano che Talbot e Bangs, quando vogliono, sanno come accontentare una vasta gamma di ascoltatori. Dunque i Soundscape UK propongono un album che accompagna gradevolmente, spesso fa da sottofondo, qualche volta fa "ballare", ma in ultima analisi raramente esalta. Come invece vorremmo e come ricordiamo fece alla grande "l'acid" nel suo momento di massimo splendore. In ultima analisi Surreal Thing è un disco piacevole, perfetto in automobile durante un viaggio, o come sottofondo musicale disimpegnato, ma non lascia il segno. Carino ma non essenziale.

Hank Easton - "11"


Hank Easton - "11"

Musicista che è stato etichettato come "il segreto meglio custodito di San Diego", Hank Easton è un giovane artista quasi sconosciuto, che ha tuttavia sviluppato uno stile unico nel suonare la chitarra e scrivere canzoni, mescolando jazz -pop - rock - blues e fusion. Meriterebbe certamente di uscire dall’ambito locale per approdare ad un pubblico più vasto ed internazionale. Infatti a giudicare dalle premesse e dal talento debordante potrebbe davvero essere una scommessa vincente affermare che Easton sia destinato a diventare, nei prossimi anni, una figura importante nell'ambito della chitarra jazz / rock americana. Il ragazzo ha trascorso quasi tutta la sua vita con una chitarra in mano. Originario di New York , ha iniziato a suonare la chitarra all'età di cinque anni . E' stato istruito inizialmente con la musica classica, presso il Cleveland Institute of Music, questo dalla prima infanzia fino a 17 anni. Nell'adolescenza, ha quindi iniziato a suonare anche la chitarra elettrica. Era già un chitarrista esperto nei club della sua città (Cleveland, in quel momento), ma dopo la laurea presso la Ohio State University il giovane Hank decide di trasferirsi nella California del Sud. Qui ha continuato a sviluppare il suo stile personale ed a guadagnarsi una platea sempre più vasta di estimatori. Easton ha sempre coltivato il suo amore per la musica classica e per la chitarra acustica, tuttavia è conosciuto soprattutto per l'abilità che ha maturato con la chitarra elettrica. La versatilità e la poliedricità artistica come solista lo hanno portato presto alla ribalta come sideman e musicista di studio nel circuito della California meridionale. In aggiunta a questo, ha una band fusion di quattro elementi, The Hank Easton Group, che esalta e valorizza alla perfezione tutte le sfaccettature del suo talento alla sei corde. Easton suona anche con la Steely Damned, una cover band locale di San Diego che rende omaggio ai mitici Steely Dan. Noto per suonare principalmente jazz e blues, Easton è ultimamente molto attratto dal lato più rock della sua indole artistica. Egli dice che il suo modo di suonare è influenzato da mostri sacri del calibro di Hendrix, Beck, Clapton, Carlos Santana, Steve Howe, ed anche Peter Frampton. Hank ha pubblicato tre album fino ad oggi : Snapshots, Nylon & Steel e Eleven. Prendiamo in considerazione proprio l'album strumentale "11" dove Easton si propone proprio alla chitarra elettrica. Potente e non privo di un suo spirito avventuroso, troviamo qui nove tracce ad alto contenuto energetico con la funambolica chitarra ben supportata dalla sua interessante band. Le influenze che risultano più evidenti su questo album sono quelle di Jeff Beck, Jimi Hendrix, Eric Johnson, Larry Carlton, e Joe Satriani: un campionario di fenomeni di tutto rispetto. Questo alternare stili così diversi, ispirato da una raccolta di fonti tecnicamente così intricate e complesse, lascia però ad Easton lo spazio per mostrare ugualmente il suo talento sfolgorante. Con una velocità incredibile, non basata su frasi ad effetto e senza abusare della tecnologia, Easton usa le sue dita magiche per produrre una splendida varietà di interessanti e trascinanti numeri: "Orange Roughy", "El Niño", "Coming Home" e molti altri. Le sue chitarre Ibanez modificate ci regalano tonalità ricche e variegate, i brani scorrono piacevoli e fluidi, non privi di una particolare originalità. Non resta che attendere le prossime uscite di questo ragazzo per valutare se riuscirà a mantenere le aspettative che il suo innegabile talento ha fatto intravvedere. Se, oltre che come chitarrista puro saprà definitivamente affermarsi anche come compositore, ci troveremmo indubbiamente al cospetto di un nuovo grande personaggio nel mondo della musica. Il jazz, ma anche il rock ne hanno un grande bisogno.


Shakatak - Live at Ronnie Scott’s


Shakatak - Live at Ronnie Scott’s

1983, avevo appena acquistato il mio primo lettore di cd, un Philips molto spartano, e dei primi due dischi che mi accaparrai nel nuovo, rivoluzionario formato, uno fu Drivin’ Hard degli Shakatak (pubblicato a dire il vero nel 1981 ma solo su vinile). Fu passione al primo ascolto. Su una solida base ritmica (Roger Odell alla batteria e George Anderson al basso) con sfumature funky-disco molto ricercate, ecco materializzarsi una serie di moderne e accattivanti melodie, non solo strumentali, arricchite dagli stupendi assoli di piano di Bill Sharpe e tutto insaporito da una brava cantante come Jill Saward . Si trattava e si tratta ancora (il gruppo è ancora splendidamente attivo) di una perfetta alchimia, di un sound riuscito e vincente, compiuto nel suo rigore formale e nella pulizia degli arrangiamenti proprio perchè questi 4 musicisti inglesi sono dei veri maestri della forma. Detto questo, avere un sound così patinato e pulito non è sempre una buona cosa quando si affrontano gli spettacoli dal vivo, come quello che questo bellissimo album ha catturato. Tuttavia Live at Ronnie Scott’s  non è certo la prima registrazione di cui si ha testimonianza poiché  il primo Shakatak Live è addirittura del 1985. Quella prima esperienza live ha cristallizzato l'energia di un gruppo di giovani  in crescita e lanciati sulla cresta dell’onda dei successi radiofonici e di vendite e supportati da una vasta e popolare platea di fan. Live at Ronnie Scott’s arriva 12 anni dopo, cogliendo un gruppo più vecchio e più maturo, ancora più esperto in studio e con una grande reputazione in gioco. Questo, forse, è il motivo per cui il quartetto storico è coadiuvato da un trio aggiuntivo di musicisti che fornisce cori vocali , sax , e percussioni, in un insieme che contribuisce ad aumentare il livello delle performance del gruppo, avvicinandolo sensibilmente a quello delle loro ambiziose creazioni di studio . L’intenzione non è certo quella di soffocare o nascondere il talento e la bravura indiscutibile dei quattro Shakatak , che si dimostrano straordinari sul palco come è lecito aspettarsi ed anzi si esaltano nell’esecuzione di alcuni dei loro brani più noti , tra cui " Streetwalkin ' ", " Day by Day" (purtroppo qui senza Al Jarreau) , " Nightbirds " e " Easier Said Than Done ". Live At Ronnie Scott’s  può non avere la vibrante forza giovanile del loro precedente album live , ma è comunque una dimostrazione di come gli Shakatak hanno preservato il loro stile e siano cresciuti durante la loro lunga carriera. Una menzione particolare mi sento di doverla a quel magnifico pianista che è Bill Sharpe, in grado di entusiasmare ogni volta che sale alla ribalta con uno dei suoi proverbiali assolo. Veloce, preciso, lirico ed espressivo al limite della perfezione, questo inglese dell’ Hertfordshire è il vero cuore pulsante e il deus ex machina degli Shakatak che senza di lui non sarebbero certo la stessa cosa. Il pianoforte è il protagonista, il marchio di fabbrica, il faro di questa band. Live at Ronnie Scott's è un disco riuscito, solare, gioioso. Un resoconto fedele di una magica serata di musica in quel di Londra in grado di evocare al contempo i ricordi di un'epoca felice e ormai lontana come i mitici anni ’80.

Billy Cobham - Spectrum


Billy Cobham - Spectrum

Mr. Billy Cobham, ovvero un talento innato, un raffinato compositore, un artista che in carriera ha saputo e sa ancora spaziare da un genere all'altro con una mentalità aperta, libera, senza porre limiti ai confini della sua musica. Cobham è un batterista. Forse, nel suo caso sarebbe meglio dire “il batterista”! Un rivoluzionario innovatore della tecnica del drumming, non solo in ambito jazzistico, ma anche e soprattutto nel contesto più eterogeneo e frastagliato di tutta quella musica a cavallo tra molti stili e correnti. Con lui la batteria assume un ruolo centrale, come forse mai prima era successo, supportato da una maestria e da una virtuosità che lo pongono come un personaggio primario della storia della musica, e certamente lo innalzano al ruolo di batterista più influente del jazz-fusion. Un concentrato unico di potenza e velocità, affinato con gli anni e ancora oggi a quasi 70 anni di età, un esempio per innumerevoli seguaci. Un esempio è l'uso della doppia grancassa, una tecnica oggi abbastanza diffusa ma all'epoca davvero rivoluzionaria. Egli stesso dichiara che le sue fonti di ispirazione sono stati Max Roach, Art Blakey e Roy Haynes: che dire ? Semplicemente il meglio. Spectrum esce nel 1973, ed è il suo primo lavoro da solista. In qualche misura è anche il suo disco migliore, certamente il più importante, andandosi a collocare come vero punto di riferimento per il genere jazz rock o jazz fusion, ma in particolare per tutti i batteristi a venire. Le influenze del maestro Miles Davis (di quello elettrico, Billy ha infatti suonato nel seminale Bitches Brew), e della Mahavishnu Orchestra sono forti ed in qualche misura traspare anche la lezione dei Weather Report (che avevano già pubblicato i loro primi album Weather Report e I sing the body electric). La qualità delle composizioni incluse in Spectrum è di uno spessore artistico talmente elevato che la maggior parte dei pezzi, tutti composti da Cobham, sono diventati nel tempo autentiche pietre miliari. E’ innegabile che il reale punto di forza del lavoro sia costituito dal magistrale lavoro alla chitarra del giovanissimo e compianto Tommy Bolin (ventidue anni all'epoca ed in seguito con i Deep Purple) un musicista stravagante e dotato, dal suono ruvido e hard rock, ma qui votato ai difficili fraseggi composti da Cobham ed in grado di creare quella energica e "nervosa" atmosfera che permea  tutto Spectrum. Il disco apre con Quadrant 4  che è l'essenza dei contenuti di questo album. Un brano eseguito ad una velocità incredibile nel quale Bolin si esibisce in assoli funanbolici, mentre Cobham picchia duro e rapidissimo sulla sua batteria. La title track, Spectrum, è condita da un ammaliante tema portante ed arricchita dalla presenza di strumenti a fiato. Un’altra dimostrazione di bravura di Cobham è Anxiety che introduce Taurian Matador,  funky, sublime e a modo suo quasi gioiosa. La lunga Stratus costituisce il momento clou di questo album: sintesi perfetta di cosa si intende quando si parla di jazz rock. Inizialmente si respira un’atmosfera eterea che lascia presto il posto ad un furioso synth accompagnato dal solito potentissimo Cobham. Infine entra in scena il barbuto Lee Sklar (dal 2007 nei Toto) con un travolgente giro di basso tra i più noti della storia della musica moderna, sul quale Tommy Bolin inanella una serie davvero micidiale di brillanti assoli. L'album chiude con  i toni psichedelici di Snoopy Search, caratterizzata da un frenetico e inquietante sintetizzatore e in ultimo dalla leggendaria e trascinante Red Baron, uno dei brani più famosi di Cobham, ancora oggi suonato ripetutamente nei live. Siamo al cospetto di un'opera che rappresenta i vertici compositivi raggiunti nel jazz rock e nella fusion. Disco non facile, complesso, spigoloso, persino ostico a tratti, Spectrum è un capolavoro. Non proprio fruibile da tutti ma pur sempre un’opera imperdibile. A distanza di 40 anni rimane uno dei dischi più venduti. Il motivo risiede probabilmente nella sua potenza espressiva e nel suo incomparabile e profondo messaggio di innovazione.

Gare Du Nord - Sex 'n Jazz (vol.1)


Gare Du Nord - Sex 'n Jazz (vol.1)

A volte cercando qua e là nella rete si fanno delle belle scoperte, magari uscendo un po’ dal proprio genere preferito e perché no, spaziando pure fuori dai confini delle solite, feconde “riserve” inglesi o americane. Siamo nel 2009, prendete un duo di musicisti provenienti da Belgio e Olanda, uno, chitarrista, si fa chiamare Doc (Ferdinand Lancée). L'altro saxofonista con l'alias Inca (Barend Fransen).  Dopo varie esperienze iniziate fin dal 2001, soprattutto in ambito lounge music e attraverso tre precedenti album si arriva a questo Sex 'n Jazz, indubbiamente un lavoro interessante e compiuto, primo volume di quella che viene definita da loro come la trilogia dell'amore. Il duo si avvale della collaborazione di alcuni musicisti di valore come il rinomato trombettista Erik Truffaz ed il batterista Oscar Stone, di una band che dal vivo può arrivare fino a nove elementi ed ha il supporto vocale dei cantanti Paul Carrack e Dorona Alberti. Paul Carrack in particolare è un personaggio interessante e un compositore di valore (sue alcune hits popolari lanciate da altri artisti: How Long? oppure Over My Shoulder), oltre ad essere in possesso di una bellissima voce. Dorona Alberti vanta a suo volta uno stile personale, dai toni vagamente vintage ed un'ottima presenza scenica. Una vera band dunque, che s’impegna con profitto in studio di registrazione ma è in grado di esibirsi dal vivo in concerti di grande impatto. Quindi non i classici dj che (pur con valore) assemblano campionamenti e spunti per produrre lavori non sempre coronati dal giusto grado di calore e passione. Sex 'n Jazz è un album molto eterogeneo, ma il suo filo conduttore è indubbiamente incentrato su atmosfere lounge jazz, con accenti disco e molti richiami retrò in grado di regalare una piacevole sensazione di freschezza, ottimismo e orecchiabilità. Marvin & Miles apre l'ascolto e subito ci proietta nel mondo dei night clubs parigini fumosi e ambigui degli anni '50 con Dorona Alberti che da il meglio di se stessa interpretando perfettamente il classico e cinematografico ruolo della cantante fatale e tormentata. Somethin' In my Mouth rimanda tutti sulla pista da ballo e lo fa in stile chill house, con la tromba di Erik Truffaz a ripetere il tema su una base ritmica martellante. Paul Carrack si fa sentire in Ride On, un suo bellissimo brano soul, uscito anche come singolo ad anticipare l'album e uno dei momenti migliori di Sex 'n Jazz. Bella la cover di You're My Medicine di Marvin Gaye, un vero idolo per questo duo fiammingo, al quale rendono un rispettoso e passionale tributo con la collaborazione precisa di Dorona Alberti e l'inserimento di un indovinato campionamento di Sexual Healing. Dorona ci delizia anche in Beautiful Day una fantastica canzone disco arrangiata benissimo e con una melodia retrò che resta subito in testa. Top class, se fosse stata promossa in modo massiccio dalle radio avrebbe avuto le potenzialità per diventare una hit internazionale. In Chet's Chat la virata sul jazz è più netta e la voce di Paul Carrack si fa confidenziale quanto basta per ricordare il grande Chet Baker, ma è la timbrica della tromba di Erik Truffaz a risaltare e a stupire. Lobster for Love è uno strumentale ancora una volta chill house, base per assoli di notevole valore per tutti i componenti della band. Hey Mr. Glider è una bossa molto gradevole e sofisticata, veicolo per il sax di Inca e condita dalla voce profonda di Paul Carrack. Il disco si chiude con il notevole blues di Hot Glue, lento ed ipnotico, un ponte tra la tradizione del classico ed i suoni del futuro. Sex 'n Jazz mi è piaciuto al primo ascolto. Dopo un'analisi più attenta confermo che si tratta di un album molto interessante, vario e davvero ben eseguito ed arrangiato. Molto più sofisticato di tanta musica dello stesso genere e privo al contempo di quella patina di freddezza che spesso avvolge molte delle produzioni più recenti. Gradita sorpresa.

Maysa - Blue Velvet Soul


Maysa - Blue Velvet Soul

Doveva arrivare anche il momento di parlare di Maysa. La donna che io considero la miglior cantante in circolazione ormai da anni, è notoriamente dotata di una stupenda e profonda voce, ricca di affascinanti sfumature, potente come poche ma anche versatile.  Ho sempre avuto un grandissimo rispetto ed una sincera ammirazione per questa corpulenta artista di Baltimora.  Dal 1992 è voce solista degli Incognito e musa di un altro dei miei riferimenti musicali e cioè quel Bluey Maunick che del supergruppo inglese è il leader. È cosa certa che, insieme, soprattutto nel primo periodo degli Incognito, i due hanno scritto pagine memorabili dell’acid jazz, momenti che restano impressi nella memoria degli appassionati e sono una delizia anche per tutti gli amanti della musica in generale. Rilasciato a meno di due anni dal precedente Motions in Love, Blue Velvet Soul esce dopo la scomparsa della madre di Maysa e dopo la conseguente depressione che di fatto ne aveva bloccato l’attività artistica. Si tratta del suo decimo album solista ai quali andrebbe aggiunto un purtroppo introvabile “Live At The Birchmere ” del 2011. In Blue Velvet Soul, Maysa si fa aiutare da alcuni autori di canzoni e collaboratori già noti ma anche da alcuni nuovi interlocutori. C’è l’immancabile Bluey e poi Chris "Big Dog" Davis e Lorenzo Johnson. Uno dei tre contributi di Mr. Incognito è "Good Morning Sunrise ", uno splendido e ammaliante duetto mid-tempo, con una melodia così accattivante da ispirare immediatamente positività. L’album appare da subito particolarmente rilassato ma sempre gradevole e ottimista. Di fatto la parte più interessante ed incisiva comincia là dove Maysa cambia continuamente marcia  in modo impeccabile, donando al lavoro una notevole varietà. La bella " Quiet Fire " ad esempio, è un brano scritto da Johnny " Hammond " Smith e Cheryl Friberg  per l'album del 1988 di Nancy Wilson  “Nancy Now!”. Una scelta sorprendente ed ispirata che dovrebbe essere un tassello immancabile di qualsiasi lavoro soul contemporaneo. "This Much ", prodotta da Mike City , ricorda certa house dei primi anni '90, con il classico groove di piano e il  suo bel ritmo energizzante. Un altro brano di Bluey , " Nothing But You" inizia come omaggio al gruppo disco- funk del Bronx GQ, prima di sfociare nelle atmosfere gioiose della pura discoteca degli anni '70. L'album è ricco di riferimenti lirici ai sentimenti, alle relazioni di coppia, agli affetti. Testimonianza di quanto Maysa sia artista sensibile e attenta ai rapporti umani. Tutto però è affrontato con grande leggerezza , in modo poco appariscente, quasi con casualità . La musica alla fine scorre fluida, con ben quindici brani perfettamente arrangiati. La voce è come sempre straordinaria, l'interpretazione passionale come è giusto che sia. In fondo sono solo canzoni d'amore avvolte "nel velluto blu", vale a dire un altro piacevole e divertente album di Maysa. Adatto per tutte le occasioni. Una garanzia.

David Sanborn - Another Hand


David Sanborn - Another Hand

Virtuoso conclamato del sax alto, David Sanborn è un esperto di tecniche avanzate quali: quarti di tono, growl, suoni multipli (multiphonics), estensione di 4 ottave (top tones), ed è probabilmente il sassofonista più influente degli ultimi 20 anni in ambito pop, R & B, e più in generale di tutta quella corrente musicale collocabile nel termine "crossover". Un grande numero di sassofonisti si è ispirato a lui e David ha anche suonato con i più quotati musicisti dell'era moderna. Sono innumerevoli i suoi contributi come ospite nei dischi di moltissimi cantanti di fama, un esempio ne sia, tra tanti, il suo assolo in Just The Way You Are di Billy Joel. La sua preparazione artistica gli consente di spaziare in più generi musicali: jazz, smooth jazz, crossover, soul, funk, rhythm'n'blues, fusion, pop, rock. La maggior parte delle sue registrazioni sono comunque state nel contesto fusion, con venature soul / R&B, anche se Sanborn è soprattutto un valido jazzista. Ultimamente si è riavvicinato al jazz classico, con un serie di lavori davvero molto interessanti. I suoi maggiori contributi alla musica sono in particolare il suo sound passionale (le sue proverbiali note alte, quasi urlate e molto emotive), e le sue interpretazioni delle melodie che aumentano sempre il tasso qualitativo dei brani ove venga impiegato. A differenza dei suoi innumerevoli imitatori, Sanborn è immediatamente riconoscibile già dopo due note, una caratteristica unica e straordinaria di un artista già di per se di grande valore. Dopo la gavetta fatta a Chicago soprattutto in ambito blues, Sanborn ha collaborato con Gil Evans , Stevie Wonder , David Bowie e i Brecker Brothers, ed ha iniziato la carriera solista nella metà degli anni '70, collezionando una striscia di successi commerciali. Questo lo ha portato nel corso degli anni a lavorare spessissimo con vari musicisti fuori dal contesto jazzistico, contribuendo alla fortuna di chi ha avuto l'acume di utilizzare il suo sax. Di tanto in tanto David Sanborn lascia il mondo più easy della fusion e del pop per ritornare al suo grande amore, il jazz: il suo eccentrico ma gratificante Another Hand, del 1991 è un esempio brillante delle svolte che il sassofonista di Tampa riesce periodicamente a dare alla sua carriera. Una collezione di tracce che rappresentano al meglio l'essenza del musicista e certamente sono una delle sue migliori uscite di sempre. Non è usuale che un album si possa ascoltare ascoltare dall'inizio alla fine. Di solito ci sono una canzone o due che non riesco a farmi piacere. Devo dire che non è affatto il caso di questo Another Hand. Ogni brano è interessante ed è un piacere far scorrere la musica senza soluzione di continuità per tutta la durata della registrazione, cullati dalle perle sciorinate soprattutto nelle maginfiche ballads o pungolati dal virtuosismo mai fine a se stesso del grande David nei pezzi più ricchi di ritmo. I puristi del jazz più integralisti potrebbero essere diffidenti verso un campione della fusion come Sanborn, ma anche loro troverebbero i contenuti di questo disco davvero accattivanti. Con Another Hand, dopo 13 anni alla Warner Bros, Sanborn ha infatti posto quale sua priorità principale la qualità artistica. Non c'è niente di superficiale o artificioso nell'album, che è finalmente uno sforzo esplorativo sincero fatto attraverso le sue introspettive improvvisazioni. Riflessivo piuttosto che estroverso con la sola eccezione nella gemma soul-jazz "Hobby". Invece di evitare la complessità come in alcune delle sue registrazioni più commerciali ha fatto in passato, Another Hand vive spesso proprio su un livello più alto, strutturato e maturo. Forse i musicisti coinvolti tendono a servire più che altro come sfondo per Sanborn, invece di essere di più parte attiva ma data la profondità e l'eccellenza complessiva delle esecuzioni si può tranquillamente trascurare tale lacuna. Bellissime "First Song" di Charlie Haden (che partecipa al disco) e l'altra ballad davvero struggente "Another Hand" composta dall'amico e meraviglioso bassista Marcus Miller, che pure è presente tra i sideman di questo lavoro. Anche se alcune sue registrazioni possono forse essere considerate troppo commerciali e qualche volta scontate non è certo il caso di questo incredibile album: qui sono palesi, al contrario, il talento, la maestria tecnica e la curiosità musicale di quel fantastico sassofonista che risponde al nome di David Sanborn. Da non perdere.

Charles Mingus - Ah Um


Charles Mingus - Ah Um

Quando si parla di Charles Mingus, si parla di uno dei più grandi personaggi della storia della musica, non solo del Jazz. Mingus è stato enorme, da qualsiasi punto di vista lo si consideri: un personaggio fuori dalle righe, complesso e complessato, forse anche a causa delle sue origini meticce, con tutte le conseguenti e feroci discriminazioni subite. Irascibile e violento ma capace di infinita dolcezza e umanità egli sublima questo dualismo, dagli estremi apparentemente incompatibili, nella sua straordinaria musica, sempre così imprevedibile, irrequieta, articolata, quasi feroce a tratti nei suoi fortissimi contrasti. Mingus era un genio capace di un'arte ricca, immortale, complessa e vastissima per quantità e qualità. Per questa ragione è estremamente difficile scegliere il meglio o definire quale sia stato il suo capolavoro assoluto. Fatta questa premessa provo, con grande rispetto, reverenza e umiltà a dire la mia su quale potrebbe essere l'apice del genio di Nogales, certamente il più grande contrabbassista di tutti i tempi. Il prototipo del Mingus tipico, (se mai dovesse esisterne uno, di prototipo di Mingus, beninteso) lo si trova probabilmente in un preciso album: "Mingus Ah Um", che è di certo il più grande omaggio di Charles alla storia del jazz. Il suo debutto per la Columbia Records, Mingus Ah Um appunto è una splendida summa dei numerosi talenti del bassista e probabilmente il miglior punto di riferimento per tutti coloro che vogliano avvicinarsi all'arte del Maestro. Certo "The Black Saint And The Sinner Lady" è considerato da molta critica come il suo miglior lavoro in generale, ma manca forse dell'accessibilità immediata di Ah Um. Le composizioni e gli arrangiamenti di Mingus sono stati sempre estremamente complessi, sintetizzando in una brillante spontaneità musicale individuale una solida consistenza musicale, che raggiunge il massimo della bellezza, a mio parere, proprio su Mingus Ah Um . La band comprende collaboratori di lunga data di Mingus, già molto ben orientati verso la sua originale musica, come i sassofonisti John Handy, Shafi Hadi e Booker Ervin. I trombonisti Jimmy Knepper e Willie Dennis, il pianista Horace Parlan, e il fedele batterista Dannie Richmond. Le loro performance smaglianti si legano insieme in quello che potrebbe essere il Mingus più grande, con una serie emotivamente ricchissima di straordinarie composizioni. Almeno tre divennero subito un classico, partendo dall'irrefrenabile esuberanza spirituale di "Better Get It in Your Soul , eseguita in un veloce 6/8 e scandito qua e là da frasi recitate del Vangelo. "Goodbye Pork Pie Hat " che è un lento, passionale e accattivante tributo al genio di Lester Young, morto non molto tempo prima che le sessioni di Ah Um cominciassero. " Fables of Faubus " è una presa in giro selvaggia e molto controversa del governatore segregazionista dell'Arkansas Orval Faubus, ritratto musicalmente come un clown vaudeville maldestro (i testi originali sferzanti e caustici, censurati dai pavidi e poco "aperti" dirigenti del governo federale dell'epoca, possono essere ascoltati su Charles Mingus Presents Charles Mingus). La sottovalutata "Boogie Stop Shuffle" è scoppiettante con il suo swing aggressivo, e altrove ci sono omaggi ai personaggi che più hanno influenzato Mingus e da lui furono più venerati : "Open Letter To Duke", ispirato da Duke Ellington, è uno spettacolare numero da big band, che si manifesta esuberante per poi ammorbidirsi pian piano. Impressionanti le assonanze con lo stile della giungla di Ellington, specialmente nelle ricchissime invenzioni del sax alto e nei sontuosi cambi di tonalità."Bird Calls" è forse il pezzo più soprendente del disco: l'amico Charlie Parker rivive nello stupendo e tiratissimo duetto dei sax. "Dizzy Atmosphere", è a sua volta fantastica, non solo per i tempi inestricabili e rapidissimi, ma anche per il particolare "calore" che sorregge il tema. Infine"Jelly Roll" è ancora un affettuoso omaggio, questa volta a Jelly Roll Morton, egocentrico e bizzarro pianista autoproclamatosi "inventore" del jazz, artista fuori di testa esattamente come lo fu Charles. L'atmosfera qui è resa con un gustoso e ricco tema orchestrale. In conclusione (e molto semplicemente) non è proprio possibile individuare un album di Mingus e sentenziare che sia quello definitivo, ma Mingus Ah Um è probabilmente quello che più si avvicina alla perfezione. Un capolavoro come questo segna una svolta in chiunque lo ascolti. Per quanto mi riguarda, ha probabilmente rappresentato l'inizio di una passione per il mondo del jazz che è ancora una parte importante della mia vita.

Brand X - Unhortodox Beahviour


Brand X - Unhortodox Beahviour

Qualcuno potrebbe sostenere che forse questo è un album di progressive rock, è una tesi che ha qualche fondamento, ma di sicuro è più vicino al jazz rock. Io propendo per la seconda ipotesi e per questo mi piace molto l’idea che possa entrare nella galleria delle mie recensioni. I Brand X per lungo tempo furono il progetto parallelo di Phil Collins dei Genesis e "Unorthodox Behaviour" segna nel 1976 il loro debutto nel mondo del nascente genere "fusion". Sulla scia della Mahavishnu Orchestra, con un orecchio ai Soft Machine, alcuni echi prog-rock e molto del migliore jazz-rock post Miles Davis ben stampati in testa.  Abbiamo qui un poderosissimo suono condotto con regale maestria dalla tecnica batteristica ineccepibile di Phil e armonicamente guidato dal basso "liquido" e pulsante di Percy Jones. A loro s'appoggiano le chitarre funamboliche di John Goodsall, che saettano fraseggi bellissimi per tutto l'album, e tutto è impreziosito dalla presenza di un altro talento quale quello di Robin Lumley (già collaboratore di David Bowie) alle tastiere. Intrecci melodici impossibili, lontani anni luce da quei Genesis nei quali ancora militava all'epoca il buon Collins, eppure in qualche misura ad essi collegati proprio dalla complessità ritmica del progetto. I tempi sono ultra sincopati e veloci tuttavia non privi di inaspettate aperture melodiche. Sette brani completamente strumentali che non lasciano tirare il fiato nemmeno un secondo e che suonano come un clamoroso messaggio destinato al futuro. Non è certo un caso se quest'opera suona ancora oggi fresca ed attuale a quasi quarant'anni dalla sua uscita. L’attacco del disco è folgorante: "Nuclear burn" è un vero fuoco d'artificio, un rincorrersi di batterie, di tastiere e di chitarre tiratissime, ad un ritmo forsennato, davvero atomico. Ma anche il resto del disco non è certo da meno, con un uso sapiente ed efficace del sintetizzatore e un continuo susseguirsi di assoli di notevolissima fattura. "Euthanasia Waltz" mette in piazza l'incredibile lavoro al basso di Percy Jones, inizia tranquilla e rilassata per poi sfociare nel grido, quasi delirante della chitarra di Goodsall. La lunga e varia "Born Ugly" accenna ad atmosfere funky, quasi disco in partenza, mantenendo intatta una grande ricchezza di accenti poliritmici ed evidenziando il lavoro al piano (acustico ed elettrico) di Robin Lumley. La batteria di Phil Collins è a livelli stellari, con virtuosismi incredibili, supportata come sempre da un basso stratosferico, quello di Percy Jomes, al quale pare venire tutto facile. "Smacks of Euphoric Hysteria" è un'altra dimostrazione di cosa significhi jazz-rock nella sua estrema essenza. Tra rarefatti tocchi di Rhodes e fulminee rullate di batteria, si rincorrono i fraseggi della impressionante chitarra di John Goodsall. "Unorthodox Behaviour" prosegue sulla linea funky, disegnando un tappeto perfetto per i synth di Lumley. "Running on Three" è frenetica ma al contempo lucidamente melodica, quasi matematica nella sua perfezione. L'album si chiude con "Touch Wood", un brano di breve durata estremamente raffinato e curato, interamente acustico, con il sax ospite di Jack Lancaster a disegnare melodie suggestive. Il gruppo è affiatatissimo, si percepisce una contagiosa e grande voglia di suonare e un divertimento sincero, evidente in ogni nota prodotta dai Brand X. "Comportamento non ortodosso" è il titolo tradotto in italiano, e pare assolutamente azzeccato, poichè qui di usuale e scontato c'è proprio poco, soprattutto pensando al fatto che fu concepito nel 1976. Era un balzo nel futuro e per questo motivo ancora oggi lo si ascolta come qualcosa di attuale, anzi, forse adesso si può cogliere ancora meglio l'essenza dei suoi grandi contenuti artistici. Non c'è freddezza in tutto questo sfoggio di abilità tecnica, al contrario si trova il calore di un'opera scritta e suonata col cuore e con la testa, nel pieno di un'epoca nella quale si è prodotta molta ottima musica. Secondo me, è un album prezioso, un capolavoro da possedere e riascoltare (spesso) con immenso piacere.

Miles Davis - Kind Of Blue



Miles Davis - Kind Of Blue

E' difficile approcciarsi a Miles Davis. Difficile perchè l'uomo, l'artista, il musicista rappresentano certamente l'eccellenza assoluta nel campo della musica. Ed è arduo esprimere a parole tutta l'ammirazione ed il rispetto che un personaggio come Davis merita. Nella sconfinata e variegatissima produzione del genio di Alton c'è un'opera  in particolare che più di altre ha cambiato non solo la mera valutazione di Miles, ma ha addirittura dato un'impronta diversa al corso della musica. Considerato come uno dei più grandi album di jazz di tutti i tempi, e di più, come una delle più grandi espressioni musicali del 20° secolo, i suoi 46 minuti di improvvisazione e raffinatezza restano senza pari. Sto parlando di Kind Of Blue. L'album di jazz che anche i non appassionati di jazz possono probabilmente gradire. Nei primi anni '50 George Russell tra i primi aveva teorizzato la possibilità di utilizzare un approccio modale (cioè suonare i brani secondo una determinata scala, anziché seguendo una sequenza fissa di accordi). Il giovane Miles vide questa svolta come una via d'uscita dalle limitazioni all'improvvisazione nelle quali si sentiva ingabbiato, specialmente in quel momento di predominio di un hard bop sempre più "denso" di accordi e terribilmente complesso. Dal 1958, con Milestones, Davis si sentì pronto a provare l'approccio modale, il brano omonimo fu appunto la sua prima registrazione a testimoniare questo cruciale passaggio. Kind of Blue, pubblicato l'anno seguente, sviluppa l'idea e la sublima fino ad un livello stupefacente. Miles Davis entra in studio con un sestetto rimaneggiato (Garland e Jones avevano ormai ufficializzato la separazione). C'erano Coltrane, Adderley e Chambers, Jimmy Cobb alla batteria e Bill Evans si alternava al piano con Wynton Kelly. Da quella seduta sarebbe nato l'album considerato il suo capolavoro. Registrato in appena due sessioni ed improvvisato dal gruppo sulle scheletriche strutture armoniche abbozzate da Davis ed Evans, Kind of Blue rivoluzionerà letteralmente il jazz. Una raffinatissima eleganza caratterizza tutto l'album, evocando atmosfere di locali fumosi aperti fino a tarda notte e ricolmi di fermento artistico e personaggi ambigui. Miles utilizza qui il blues, ma trasmuta i tipici accordi di settima in qualcosa che suona ancora moderno quasi sessant'anni anni dopo. Lo fa molto semplicemente liberandosi dalle strutture armoniche che avevano guidato i suoi lavori precedenti e magnificamente accompagnato dalla band, Davis ebbe spazio sufficiente per estendere le sue nuove idee armoniche e melodiche, e ne diede altrettanto ai suoi collaboratori. La registrazione è notevolissima non solo dal punto di vista compositivo e  per la sua proverbiale spontaneità,  ma anche per la possibilità che è offerta a tutti i componenti della formazione di far risuonare con grande libertà la propria voce, creando allo stesso tempo un suono collettivo estremamente caratterizzato. Questo concetto è ben sottolineato da Bill Evans stesso nelle note di copertina. Fra i capolavori più venduti del jazz, e ancora ritenuto il migliore, sembra che Kind of Blue abbia influenzato ogni musicista, jazz o di altro genere. Come ho già sottolineato rimane un pilastro fondamentale della musica. Aleggia una sorta di facilità ingannevole nell'album. La chiave per comprenderla è proprio la band che Miles aveva assemblato. Tutti i musicisti avranno una carriera leggendaria, ma Coltrane in particolare prese il modello modale di Miles  e con esso se ne andò lontano, verso mondi inesplorati, spesso con risultati spettacolari. E poi Bill Evans, che di questo capolavoro fu almeno un co-autore, e a mio parere si consacrerà ineluttabilmente come il più grande dei pianisti di jazz. Miles Davis dieci anni dopo darà una nuova scossa "elettrica" al mondo, sarà importante e sarà epocale, ma la bellezza sfavillante dei suoni di Kind Of Blue resterà insuperata. Quincy Jones dice di ascoltare questo album ogni giorno. Penso che faccia bene a farlo, probabilmente dovremmo seguire tutti il suo esempio.

Hiram Bullock - From All Sides


Hiram Bullock - From All Sides

Personaggio straordinario Hiram Bullock. Mi ricordo bene della sua simpatia e della sua carica dirompente al Teatro Ciak di Milano, durante un concerto di David Sanborn, dove lui era stato praticamente il vero mattatore. Con quella sua Fender tutta scrostata, consunta, vissuta. Ma Hiram era molto di più di un istrionico showman,  era un chitarrista energico e muscolare come il suo stesso fisico lasciava capire. Quello stesso fisico che lo ha poi tradito in giovane età, privandoci prematuramente della sua presenza. E’ stato, musicalmente parlando, l'emblema di quel genere di fusion che attraversò tutte le sperimentazioni più o meno impegnate di matrice jazz/rock/funk, nel corso degli ultimi 30 anni. Bambino prodigio che già in tenera età dimostrò un’inclinazione per la musica, scoprì tardivamente la chitarra, cominciando a suonarla solo dopo i 16 anni. Dopo una gavetta durata praticamente fin dagli inizi degli anni ’70, cominciò a sviluppare le sue straordinarie doti di showman che hanno fatto di lui un personaggio unico sul palco. Terminati gli studi si spostò a New York dove iniziò una fulminea e prestigiosa carriera sempre a cavallo della musica jazz, rock e funky, collaborando con illustri musicisti come David Sanborn, Jaco Pastorius, Bob James, Carla Bley, Sting (nell'album Nothing like the Sun, suo il famoso assolo di Little Wings, uno dei più belli che si possano ascoltare), Al Jarreau, Marcus Miller, Billy Joel, Miles Davis, Gil Evans, Chic, Steely Dan (Gaucho), Paul Simon (One trick Pony), Harry Belafonte ecc. Ha partecipato a lungo al David Letterman Show, ovviamente come chitarrista della band della trasmissione durante la quale diverrà molto amico del bassista Will Lee. Il debutto di Hiram Bullock alla Warner Bros come leader è un particolare miscuglio di stili ed emozioni. Bullock in quel momento, il 1986,  era già un chitarrista e produttore esperto, arricchito, come abbiamo visto, dalle numerose e varie esperienze con tanti artisti di fama (uno dei gioielli della sua corona è il primo album di Mike Stern come leader, il notevole Neesh , che è stato rilasciato solo in Giappone e non ha mai visto la luce in U.S.A.). Questo insieme di tracce, autoprodotto, comprende otto originali brani di Bullock più una bella rilettura di "Cactus " del grande Don Grolnick. La band presenta molti degli abituali musicisti di Hiram: il batterista Charley Drayton , il citato amico bassista Will Lee, e Cliff Carter alle tastiere , così come alcune apparizioni di ospiti davvero stellari, dal compianto Kenny Kirkland al il sassofonista David Sanborn. Bullock non ha mai realmente considerato se stesso un artista jazz e in definitiva questo non importa più di tanto. Ciò che viene fuori da questo album è una collezione divertente ma eterogenea di brani dove domina il suo lavoro di chitarra e la sua abilità nel creare quello che oggi è considerato “jazz contemporaneo” nella sua accezione più positiva. Emerge anche la sua la sua eccellente sensibilità pop e la capacità di ottenere, in uno studio di registrazione (ma anche dal vivo), esattamente il suono  che voleva. E limpide sono pure le “vibrazioni” che il suo particolare stile riesce a trasmettere . Si cimenta anche al canto il nostro Bullock, senza particolare maestria ma senza sfigurare. "Funky Broadway " è potente e trascinante , con una sezione fiati estesa che comprende Michael Brecker e gli Uptown Horns . Altre gemme sono l’iniziale "Window Shoppin' ", con quella sua chitarra così intrigante e sempre vigorosamente emozionale, e il già citato "Cactus", che è uno stupendo classico in qualsiasi modo lo si esegua, ma che Hiram interpreta meravigliosamente. Se Way Kool, registrato nel 1992, sarà forse un album più maturo e costante , questo esordio non è affatto male, e la firma di Bullock sia come chitarrista che come compositore è in piena evidenza e ottimamente espressa in “From All Sides”. Hiram Bullock ci ha tristemente lasciati il 25 luglio 2008 dopo essere stato a lungo malato. Ci resta il ricordo di un chitarrista con solide basi che poggiavano sui linguaggi del blues, del jazz, del rock, del soul e del funky coniugati con mirabile equilibrio, e la memoria di un personaggio simpatico e solare che comunque ha lasciato un vuoto.

Mike Stern - Neesh


Mike Stern - Neesh

Se sei un musicista e, ad un certo punto della tua carriera, vieni chiamato da Miles Davis, con il quale registri poi tre album, vuol dire che sei bravo. Mike Stern è bravo, è talentuoso, è innovativo. In 30 anni di attività ha prodotto 15 lavori, ed ha guadagnato il rispetto e la considerazione della critica e un nutrito seguito di fan. Egli spazia dal jazz classico alla fusion, ed ha ricevuto tre nomination ai Grammy Award con gli album "Is what it is", "Between The Lines" e "Voices". Allievo del grandissimo Pat Metheny, Mike non potrebbe essere più diverso, stilisticamente parlando, dal suo maestro ed amico, accogliendo dentro al suo modo di suonare evidenti echi rock, pur mantenendo solide base jazzistiche. Neesh è il suo vero esordio discografico, purtroppo non distribuito al di fuori del Giappone, e di conseguenza è disco non particolarmente popolare, nemmeno fra gli addetti ai lavori. E' un peccato, perchè soprattutto coloro che apprezzano maggiormente lo Stern jazzista "puro" hanno qui un'occasione per ascoltare un chitarrista solido e ispirato, arrivato a registrare un album solista alla soglia dei 30 anni e forse proprio per questo dotato di un suono immediatamente riconoscibile e personale. La sua chitarra, suonata con largo uso di riverbero ed effetti, spesso è rinvigorita da un accenno di distorsione che se con il tempo è divenuta più ovattata e delicata, su Neesh è ancora ringhiosa e sporca. Questo è un lavoro dalle sonorità eccezionali, come forse Mike non avrà più nel seguito della sua carriera. Il gruppo che lo supporta è di ottimo livello con la presenza frizzante di Victor Lewis alla batteria e la grande maestria di David Sanborn al sax alto. Gli altri musicisti sono l'ottimo Tom Barney al basso, Hiram Bullock alla chitarra ritmica, e Buggsy Spaniel alle percussioni. Davvero un ensemble molto ben assortito. L'album inizia con con l'intrigante Zee Frizz, ed è subito chiaro con che tipo di musica avremo a che fare. Energia creativa, improvvisazione jazz con spruzzate di rock, e raffinati tocchi di eleganza formale. Gli assolo di Sanborn e dello stesso Stern sono sempre eccellenti, misurati, aggressivi quando serve, emozionali quando è il momento. Una cifra di classe che sottolinea la bellezza di un piccolo capolavoro. Quando le strutture musicali più complesse appaiono come semplici e lineari sappiamo di trovarci al cospetto dell'arte di grandi personaggi. Così Neesh è una fluida alternanza di stili e di generi, che spaziano dalle ballads al latino, comprendendo un duetto commovente tra chitarra e sax, arrivando infine alla degna conclusione con il brano che da il titolo all'album, davvero onirico e passionale. Raramente un esordio discografico raggiunge un tale livello di eccellenza, per Mike Stern è successo: questo album è un'opera godibile, fresca, potente ed estremamente interessante. Arriva ai nostri giorni consegnandoci, dopo 30 anni, qualcosa di speciale. Non vi stancherete di ascoltare Neesh se avrete la pazienza e la voglia di cercarlo.