Frank McComb - Live In Johannesburg



Frank McComb - Live In Johannesburg

Frank McComb è la sintesi creativa di vari universi musicali, dove il soul di Donny Hathaway e di Stevie Wonder incontra il jazz e la fusion di Herbie Hancock, il funk anni '70, il Rhythm & Blues e il gospel. McComb è a tutti gli effetti il volto contemporaneo più interessante della soul music, conservando nel suo stile il gusto di una "old school" che arriva dritta al cuore, accompagnata da arrangiamenti e sonorità innovativi. Classe 1970, originario di Cleveland, Ohio, inizia il suo percorso nel mondo della musica appena dodicenne quando si appassiona al pianoforte grazie alla zia. La formazione dell'artista avviene direttamente sul campo, iniziando a suonare in giro per gli States già all'età di quindici anni, e senza più fermarsi da allora. Richiestissimo sui palchi di tutto il mondo, ha suonato con i giganti della musica mondiale. Con la Columbia Records pubblica gli album “Buckshot LeFonque” e “Music Evolution” lavorando in veste di cantante del gruppo "Buckshot Lafonque", noti ai più per il bellissimo successo "Another day". Dopo essere stato anche sotto contratto per la Motown Records, decide di gestire il suo lavoro in prima persona e nel 2005 fonda l'etichetta indipendente Boobeescoot Music. Ad oggi vanta sette album tra studio e live (dimensione dove Frank da indubbiamente il meglio di se). Se i suoi dischi in studio possono a tratti apparire fin troppo patinati e perfetti, il groove catturato nelle riprese dal vivo ci restituisce l'artista nel pieno delle sue potenzialità espressive e lo mette nella giusta luce. La sua ottava e ultima pubblicazione è infatti un altro live registrato a Johannesburg in Sud Africa e, lo dico subito, è bellissimo come era lecito attendersi. Il piano elettrico è onnipresente e suonato divinamente, come pochi sanno fare. Le sonorità vintage restituite dal trio (composto oltre che da Frank anche dagli italiani Roberto Gallinelli, basso e Cristiano Micalizzi, batteria) sono stupende e la voce suggestiva di McComb non manca di completare il quadro. Anche le precedenti prove del pianista/cantante di Cleveland erano state convincenti, ma qui, nella magia del live, con un suono netto, fresco, ripulito da ogni sovrastruttura negli arrangiamenti, la musica arriva dritta all'anima, davvero ad un livello superiore. Il Rhodes di McComb è semplicemente spettacolare, esattamente quello che gli appassionati di questo meraviglioso strumento si aspettano, il supporto della ritmica è puntuale e preciso e fa piacere sapere che è tutta "made in Italy". Non mancano i suoi cavalli di battaglia come la sempre bella "Another Day", "The Ghetto", omaggio al suo idolo Donny Hathaway, e alcune tra le sue più intense ballate soul. Una nota particolare va infine attribuita a "Do You Remember Love?" che è un vero tripudio funky, eseguita con Herbie Hancock nel cuore e nelle dita, ritmicamente spumeggiante e satura di un sano e solidissimo spirito black. Da uno come McComb non poteva arrivare regalo più bello. Bravo Frank, album stupendo. Imperdibile !

Incognito - Surreal



Incognito - Surreal

Dopo aver collaborato nel 2010 nell'album Transatlantic RPM, con artisti del calibro di Chaka Khan, Ursula Rucker e il "nostro" Mario Biondi, i pionieri dell'acid jazz britannico Incognito arrivano al loro 15° lavoro di studio, "Surreal". E la formula vincente non cambia dato che, a 30 anni dal loro album di debutto, il leader, chitarrista, compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra Jean-Paul " Bluey " Maunick ha ancora perfettamente il polso della situazione ed un perfetto controllo su tutti gli aspetti del progetto Incognito.La sua vena creativa non pare infatti minimamente in crisi (come confermato anche dall'uscita del suo album solista). Mentre in molti casi una tale longevità potrebbe portare ad uno stallo di idee, la presenza del talento di Bluey è invece qui garanzia di una costante qualità, di una ricerca musicale moderna e al passo con i tempi e di un sempre valido contributo melodico e ritmico. I cantanti veterani come la straordinaria Maysa e la brava Vanessa Haynes, così come Imaani, rimangono una parte vitale del "collettivo", (mi sembra giusto chiamarlo così). Il resto della band ruota attorno al leader con alcuni nuovi ingressi (il cantante Mo Brandis su tutti) ed qualche conferma (immancabile il tastierista Matt Cooper): il groove è immutato e potente. Le atmosfere soul-jazz intrise di funky di grande classe restano il cuore pulsante di Incongito. Si inizia in grande stile con  "The Less You Know", guidata da potenti linee di basso. Poi, nel classico della disco dei mitici 70's "Ain't It Time", sono le vocalists che tornano protagoniste. Il nuovo cantante di origine tedesca Mo Brandis mostra una maturità ed un'anima soul ben oltre i suoi 26 anni sul  primo singolo "Goodbye to Yesterday " con un sapore quasi alla John Legend. Si ripete, ispirato, nella gradevole ed estiva " Don't Wanna Know ". Natalie Williams giustifica il paragone con due grandi cantanti come Erykah Badu  e Jill Scott sul brano dai richiami chillout  "Restless As We Are " e con la bossa nova sognante di "The Stars From Here". La fama di talento emergente del panorama contemporary jazz britannico pare essere meritata dalla brava Natalie. Al solito è eccellente l'apporto di Matt Cooper al piano rhodes e tutte le tastiere, in particolare quelle dal sapore vintage. Solidissima la sezione fiati che negli Incognito è un must dalla connotazione immediatamente riconoscibile. Jan Kinkaid è il nuovo batterista del gruppo e non delude, garantendo la classica e gagliarda verve ritmica. La scaletta di questo Surreal scorre fluida e gradevole, senza pause o cadute. Non ci saranno forse grandi innovazioni o picchi creativi particolarmente elevati, ma il livello resta sempre mediamente altissimo lungo tutto l'album. Ogni cosa al suo posto ed un giusto contesto per ogni voce, ogni nota, ogni singolo arrangiamento o contrappunto. Aggrappati al grande talento di Bluey e dei suoi collaboratori il futuro degli Incognito sembra essere in mani molto solide. Non esiste un metro di paragone: Incognito sono unici. Lunga vita agli Incognito.

Bill Cantos - Love Wins



Bill Cantos - Love Wins

Torniamo in California per eplorare quella linea di confine che separa la West Coast music dal jazz e che pare essere percorsa da alcuni dei migliori talenti dell'ultima generazione di cantautori nativi o basati in quella particolare zona degli States. Il brillante ed ampiamente sottovalutato Bill Cantos appartiene proprio a questo filone di musica in bilico tra pop sofisticato e jazz, Pianista di estrazione jazzistica, oltre che cantante dalla voce gradevole, Cantos si rifà a quella tradizione cantautoriale californiana che annovera tra gli altri Marc Jordan, Bozz Scaggs, Bobby Caldwell, Mark Winkler, Michael McDonald. Ha pubblicato fino ad ora soltanto 5 album, il terzo dei quali, Love Wins, uscito nel 2007, è anche probabilmente il suo miglior lavoro. New standards for the new millennium recita il sottotitolo dell'album e mi pare un claim molto azzeccato. Troviamo in apertura uno dei suoi brani più famosi, "Who Are You?", ormai a tutti gli effetti un classico, dato che è una ballad degli anni '90 che è stata registrata da molti artisti, come Brenda Russell, lo stesso Bobby Caldwell e Ramsey Lewis. Bill lo ripropone in Love Wins dando al pezzo un tocco magico, con un arrangiamento delicato, molto accattivante. La cifra romantica ed il registro ottimista che caratterizzano Bill Cantos lo distinguono certamente dal cinismo e dalla negatività imperante nel mondo della musica, sono un pò il suo marchio di fabbrica. Il cantautore/pianista di L.A. potrebbe avere molto più successo con alcune gemme contenute in questo lavoro, come la bellissima "You Got Me", con quel suo sapore jazzistico vintage o la title track, dal tenore latin/funk eppure così fortemente legata alla tradizione della West Coast. C'è una sorta di ritorno a Cole Porter, Irving Berlin, ai songwriter del passato, in questo set di 13 brani originali, emotivamente avvincente, che trasporta l'ascoltatore attento in un'epoca passata, quando le persone, più di oggi coltivavano i loro sogni con la fantasia, attraverso la musica. Cantante sensibile e buon pianista, Cantos affascina con le sue ballate, come la romantica e cantabile "Do I Ever", oppure la pop, edulcorata "Forgive Me In Advance". Tuttavia da forse il meglio nei pezzi più vivaci del suo repertorio, come " A Little Bit Of Help ", o ancora di più nel frenetico e spiritoso (sia musicalmente che liricamente) "Morning Coffee”, che è la canzone che preferisco, in particolare per il vertiginoso assolo di piano dell'inciso strumentale. Questo poliedrico artista è stato per anni un appuntamento fisso nel panorama jazz di Los Angeles, e collabora regolarmente, e con grande efficacia, con alcuni dei migliori musicisti della città, alcuni dei quali sono grandi artisti a loro volta: Brian Bromberg, Grant Geissman, Pat Kelley e Luis Conte tra gli altri. Mentre il cuore e l'anima dell'ascoltatore si concentrano sulla sua bella voce e il morbido ed emozionale songwriting di Cantos, i suoi assoli di pianoforte restano improvvisazioni jazz di ottimo livello, eccitanti e coinvolgenti. In fondo sono sempre e solo canzoni, ma dopo aver conosciuto Love Wins si ascoltano in maniera diversa, quasi come se  fossero parte di noi da sempre. Un nuovo classico per la West Coast. Il mito della musica californiana continua con nuove formule e ovviamente con nuovi volti, ed a me tutto questo piace molto.

Kyle Eastwood - Now


Kyle Eastwood - Now

Kyle Eastwood è il figlio del regista Clint Eastwood ed è cresciuto, guidato dai genitori, entrambi amanti del jazz, ascoltando i capolavori dei grandi musicisti di questo genere, quali Miles Davis, John Coltrane e Thelonius Monk. Ha avuto anche l’opportunità di assistere dal vivo a numerosi festival, come il Monterey Jazz Festival dove, grazie alla fama del padre è riuscito ad accedere ai backstage ed a incontrare grandi artisti come Dizzy Gillespie e Sarah Vaughan, che lui stesso dirà come abbiano molto influito sulla sua musica. Ma il figlio d’arte, al di là del fatto di essere il rampollo di un mostro sacro del cinema, è comunque bravo e talentuoso, abile come strumentista, interessante come compositore anche di colonne sonore, valido in veste di arrangiatore. Proseguendo nella vena di Paris Blue del 2005, il bassista vira in questo terzo album verso il jazz contemporaneo con un tocco funky. Mescolando su Now acid e smooth jazz, temi modali più strettamente jazzistici, ed alcune influenze soul e funk, Kyle ha realizzato un album che beneficia di una sana e genuina ispirazione melodica e di un solido gruppo di musicisti. È interessante rilevare che il cantante Ben Cullum, fratello del più famoso pianista/cantante Jamie Cullum interpreta come ospite "Leave It" e "I Can’t remember", due brani dal taglio funky e r&b molto gradevoli e ben arrangiati. La title track apre il lavoro mettendo subito in chiaro lo spirito contemporary di questo disco con i fiati ben in evidenza. September Night inizia quasi su toni new age, con il basso di Eastwood a dipingere uno sfondo liquido e suggestivo, per poi concedere ottimi spunti jazzistici. Intrigante è la cover di Eastwood del classico dei Police "Every Little Thing She Does Is Magic" reinterpretata in modo molto originale, volendo anche stravolta e resa molto attuale e “diversa”, dove la voce del tastierista Michael Stevens cerca la somiglianza con Sting  e trova spazio anche per una bella improvvisazione pianistica in stile primi anni ’70. Con Let’s Play torniamo all’interno di un contesto più funkeggiante e ritroviamo il cantante Ben Cullum come vocalist. Nasty Girl sembra uscita da un film di papà Clint della fase Ispettore Callaghan o da un blaxploitation movie degli anni ’70. Eastern Promise mantiene un’atmosfera cinematografica su toni più dark ed intimi. Song for Ruth ci porta nel territorio delle classiche ballad jazz rivisitando il genere con intelligente modernità. Si chiude con il funk-jazz di  How Y'all Doin' che richiama alla mente i bei suoni vintage dell’epoca d’oro delle etichette Verve e CTI.  Now non è affatto un album di jazz omogeneo e tradizionale, molto probabilmente tende a compiacere alla più ampia platea dello smooth jazz, ma è comunque una proposta vivace e ricca di spunti.  Kyle Eastwood è un gran bel musicista, ed ha uno speciale talento nel riunire musicisti al top (tra i quali lo straordinario batterista Manu Katchè e il sassofonista Dave Koz). E' poi bravo nel guidarli al meglio con il suo basso, elettrico o acustico, in mezzo ad un repertorio leggero ma mai banale, in qualche misura pronto per un ascolto facile eppure al contempo maturo e di elevato valore artistico, con un orecchio ben orientato verso il meglio del passato e lo sguardo aperto al futuro.

Andrew Neu - Everything Happens For A Reason



Andrew Neu - Everything Happens For A Reason

Il sassofonista smooth jazz  Andrew Neu ha pubblicato nel 2013 il suo quarto cd come leader per la CGN Records. La sua ultima fatica mette in vetrina Neu ai sassofoni , nonché  Jeff Lorber alle tastiere , Brian Bromberg  al basso, Rick Braun e una miriade di altri talenti del jazz . Andrew Neu, nativo di Filadelfia, è vissuto per diversi anni su entrambe le coste americane (East e West). Ha fatto tournée e registrato con Bobby Caldwell, così come Diane Schuur e altri notevoli personaggi , ma alla fine ha optato per mantenere le sue radici sulla costa orientale. Nel tempo Andrew Neu si è evoluto nel grande talento che è oggi. La mia ammirazione per le sue capacità non fa che aumentare di uscita in uscita e questo ultimo cd è la conferma di una crescita costante e della piena maturazione di un artista vero. La title track ci offre Andrew Neu al sax contralto ed è un brano con tutto ciò che ci si aspetta da una registrazione smooth jazz. E ' funky  ed ha una melodia orecchiabile. Mr. Neu coglie immediatamente nel segno. Il gioco musicale è complesso ma pulito, equilibrato e perfettamente in sintonia con i tempi e le esigenze dell’ascoltatore." On Board " presenta Steve Oliver alla chitarra, Andrew Neu dimentica momentaneamente  il contralto e opta qui per il sassofono tenore. La traccia può evocare immagini di una giornata in piscina o al mare tuttavia questo brano sembra anche perfettamente adatto per guidare lungo un'autostrada, con il vento che scorre tra i capelli. Echi dei Crusaders sono percepibili a tratti. Dopo le prime due selezioni che hanno attirato l'attenzione , ecco il più sommesso "Hit Me Up", che però sedimenta dentro poco alla volta mostrando alcune delle notevoli capacità virtuosistiche al sax alto del nostro Andrew. “The Orchestral Prelude to What Would I Do” è splendidamente orchestrata da Corey Allen ed eseguito dalla The String Orchestra Of Los Angeles Studio. Questa splendida intro ci conduce nel brano firmato dal duo Neu / Caldwell “What would I do” dove Bobby Caldwell negli abituali panni del crooner è meravigliosamente coadiuvato dal tenore di Neu che gioca così un ruolo da accompagnatore alla performance del cantante.  L'atmosfera brasilieneggiante di questa canzone evoca quasi un classico brano di Antonio Carlos Jobim. Il successivo funky di "A Night at the Mohito " ricorda Eddie Harris ed è uno dei miei pezzi preferiti nell’album, anche grazie al fantastico lavoro di Jeff Lorber al Rhodes. Neu si esibisce in un preciso e vigoroso intervento al sax tenore ed anche Rick Braun si unisce per qualche scambio vivace tra tromba e sax. Il batterista Frank Richardson delizia l’ascoltatore per tutta la durata della registrazione, contribuendo fattivamente alla buona riuscita della stessa. Il classico di Dave Brubeck "Take 5" (qui eseguito in 4/4) offre uno splendido, grintoso assolo di chitarra di Gannin Arnold, Il suono della quale viene compensato da una presenza decisamente più dolce di un Neu che rende omaggio a Paul Desmond.  "Bring It On " inizia con un intro di basso acustico ed è un'altro interessante tassello del disco e, come altri brani si configura con Rick Braun alla tromba e Neu al tenore, i quali prima sciorinano il loro assolo e poi si fondono in un unisono: tutto con grande affiatamento e notevole interplay. "Vespa" si tinge di colori latini e il suono del sax alto così come la melodia richiamano alla mente Jay Beckenstein e gli Spryo Gyra. Il basso per una volta acustico di Brian Bromberg offre ancora un’altra sfumatura a questo "Vespa" ed infine arriva l’assolo di Andrew Neu che è quello che forse preferisco. Neu passa nuovamente al sax tenore sul prevedibile ma ben eseguito "Date Night". Prevedibile, nel senso che è proprio quello che ci si aspetterebbe da una canzone smooth jazz, sia pure con venature dei Chicago e degli Steely Dan. Lungo tutto il lavoro la sezione fiati contribuisce a rendere estremamente avvincente il prodotto finale, più ricco, probabilmente meno freddo di quanto si è abituati ad asscoltare. Everything Happens For A Reason è il miglior album che Andrew Neu  abbia registrato fino ad oggi e dove si discosta dalla inflazionata "formula smooth jazz", ci sono momenti davvero fuori dal comune. I sassofonisti, di sicuro, ma anche gli appassionati di jazz e tutti coloro che apprezzano gli standard musicali elevati potranno sicuramente godere di questo album, a mio parere una delle più belle sorprese del 2013. Questo è lo smooth jazz come sarebbe lecito attendersi in un mondo ideale.

Pieces Of A Dream - In The Moment



Pieces Of A Dream - In The Moment

Celebrare 32 anni di musica insieme non è cosa da poco: In The Moment è un album quasi perfetto con cui farlo per questo storico gruppo formatosi a Philadelphia e che fece il suo debutto discografico nel 1981. Da allora i membri fondatori James K Lloyd e Curtis Harmon hanno continuato a tessere la loro caratteristica trama musicale cambiando spesso line- up, pur restando sempre fedeli al particolare, morbido sound del complesso. La nuova uscita li vede esplorare in parte anche nuove strade, mantenendo però la barra dritta sul loro caratteristico mix di contemporary jazz, soul e funky. La title track, ad esempio, riassume, in qualche misura, tutto ciò che i Pieces of a Dream hanno espresso nel corso della loro lunga avventura. L'esperienza di Lloyd nel fondere stili musicali è poi esemplificata al meglio con New Jazz Swing, che si rifà al new jack swing, ovvero un genere di musica che combina, per l’appunto, elementi di jazz, elettronica, smooth jazz, funk, rap e rhythm and blues: è un brano indubbiamente esuberante che vi farà battere il piede a tempo. In completo contrasto è il bellissimo e destrutturato Misty-Eyed con un Lloyd in ottima forma a disegnare suggestive linee al synth su un tappeto sonoro minimale. Il ritmo resta rilassato con le sofisticate People Say, dove il sax di Tony Watson, Jr. è alla ribalta, e Under The Influence, che ha una cadenza piacevolmente scorrevole. Il produttore Chris 'Big Dog' Davis è invece coautore della jazzy TTYL ( I’m Driving ) con la presenza del chitarrista Rohn Lawrence. Rohn è di nuovo protagonista anche in Never Let It End che Harmon ha scritto con lo stile di produzione di Babyface Edmonds ben in mente. Il piano di Lloyd torna in primo piano ed in perfetta solitudine attraverso le note di uno standard jazz come There Will Never Be Another You, numero che consente al pianista di mostrare di quale talento sia dotato.  Morbida e romantica è di sicuro Coming Home, dove l’interazione tra Lloyd e Watson raggiunge livelli stupefacenti.  Steppers D' Lite è un brano dall’atmosfera deliziosamente ottimista che è stato scritto da Lloyd per la proprietaria della scuola di ballo che lui e la moglie frequentano. Il sontuoso For Real è probabilmente il momento clou dell’album ed è stata scritta da Lloyd e dal bassista della band David Dyson. Qui il lavoro al pianoforte di James K. Lloyd è davvero notevole, con quel suo stile così fluido e preciso al pari della performance di Dyson al basso anch’esso degno di una particolare menzione. Non si tratta di un capolavoro, certo. A mio parere al gruppo di Philadelphia è sempre mancato un po’ di coraggio per ambire ad un livello artistico più elevato. Ma se una produzione discografica “commerciale” è comunque confezionata con eleganza, misura, talento e classe come questo In The Moment, bisogna ammettere che i Pieces of a Dream hanno ancora una volta centrato l’obiettivo.

Ronny Jordan - The Rough And The Smooth



Ronny Jordan - The Rough And The Smooth

Ronny Jordan è mancato il 13 Gennaio 2014, creando indubbiamente un grande vuoto nel mondo del jazz contemporaneo. Parlare di un artista scomparso in così giovane età, che ha però lasciato un segno indelebile nel corso della sua pur breve carriera, mi pare un giusto tributo all'uomo e al musicista. Ronny è stato uno dei chitarristi più importanti del movimento acid jazz. Nato a Londra, è unanimemente accreditato di aver contribuito a riportare la chitarra al suo giusto posto nel moderno jazz, ridonandole l'importante spazio che merita. Nonostante i dubbi dei puristi, pochi altri artisti della sua epoca hanno dimostrato di poter abbattere i confini a lungo immutabili della black music contemporanea come Ronny Jordan. Figlio di un predicatore, all'inizio della carriera, Jordan fu affascinato principalmente dal Gospel, e in questo contesto sono state le sue prime esibizioni pubbliche, ma l'esplosione del Brit-Funk durante i primi anni '80 lo ha portato a cominciare ad esplorare altre strade, fino ad approdare in modo quasi naturale al fascinoso e multiforme universo del Jazz. Autodidatta, le sue prime influenze furono Charlie Christian, Wes Montgomery e Grant Green, e quando l'hip- hop ha cominciato a decollare, Jordan ha iniziato a cercare un modo per fondere insieme il jazz e il rap. Il primo frutto dei suoi sforzi è stato il singolo "After Hours", un'incursione primitiva in quello che sarebbe poi diventato noto come acid jazz. Le case discografiche inizialmente non volevano saperne della musica di Ronny, ma quando uscì la sua originale e particolare cover del classico di Miles Davis "So What" che immediatamente divenne un successo, fu chiaro anche alle Major cosa stava succedendo. La carriera di Jordan di fatto cominciò in quel momento. Il suo LP di debutto del 1992 The Antidote fu dunque una bella scossa nel panorama musicale internazionale, ma la svolta avvenne nel 1993 con il famoso album-manifesto del rapper Guru, Jazzmatazz Vol. 1, in cui il lavoro alla chitarra di Jordan è stato prominente ed importantissimo. L'acid jazz prese anche da quelle tracce una sua fisionomia ben definita e decollò definitivamente verso una vera e propria diffusione planetaria alla quale concorsero naturalmente anche artisti del calibro di Incognito, Brand New Havies, Galliano, Jamiroquai, Omar, Carleen Anderson per citarne solo alcuni. The Rough And The Smooth è l'ultimo album che è stato pubblicato da Ronny Jordan, uscito nel 2009. Rappresenta a tutti gli effetti il suo testamento musicale e probabilmente anche la sua opera più compiuta e interessante. Il suo suono pulito ed espressivo raggiunge qui il suo livello artistico più elevato, le sue doti di compositore denotano una maturità tale da far davvero rimpiangere la sua prematura scomparsa pensando a quello che avrebbe potuto regalarci ancora in futuro. Diciamo subito che The Rough And The Smooth è, fondamentalmente, anche a dispetto del titolo, un disco di jazz. Abbandonati gli esperimenti hip-hop, superati i pur validi sentori smooth, archiviata la stagione acid, Ronny ci regala atmosfere modernamente legate a quel jazz chitarristico che inevitabilmente riportano a Wes Montgomery ed al primo George Benson. Blues come filo conduttore, presente nel fraseggio e nel tocco sempre preciso, jazz e swing nelle melodie e negli assolo, esaltanti e misurati al contempo, funky e soul a tratti soprattutto nelle ritmiche che toccano anche la classica bossa (Remember When). Otto bellissime tracce, scorrevoli come un sorso d'acqua fresca eppure così intense e intrise di pathos. Su tutto domina il fantastico suono di velluto della sua meravigliosa chitarra Gibson Archtop, declinato da Ronny Jordan in tutte le sfumature ed i colori possibili. George Benson stesso ha dichiarato che Jordan è il suo musicista preferito: durante un concerto infatti è salito sul palco esibendosi con la propria voce quando Jordan gli aveva offerto la propria chitarra. Un attestato di stima e rispetto che testimonia il valore di Ronny. Un grande artista che, come tutti i grandi, faceva della modestia, dello studio, della scoperta e della passione le linee guida della sua vita artistica e della sua vicenda umana. Ci mancherai tantissimo, non ci resta che ascoltare e riascoltare quello che ci hai lasciato in eredità, cominciando magari proprio da questo stupendo The Rough And The Smooth.  Ciao Ronny.

Alex Bugnon - Soul Purpose



Alex Bugnon - Soul Purpose

Alex Bugnon è un pianista e tastierista svizzero, nativo di Montreux. Le origini non traggano in inganno più di tanto, Dopo aver studiato al conservatorio di Parigi e presso l'accademia Mozart di Salisburgo, si è trasferito negli USA, dove si è diplomato alla prestigiosa Berklee School of Music. Superata quindi la preparazione classica egli è maturato artisticamente in ambito jazzistico, ma è da sempre attivo principalmente nel genere smooth jazz, del quale è diventato presto uno degli esponenti più quotati. Dotato di una ottima tecnica soprattutto al piano acustico, e di una certa "furbizia" compositiva, ci mostra una varietà di influenze in questo Soul Purpose. L'album è del 2001, e pur non essendo privo di contenuti interessanti, la sensazione del prodotto pensato più per l'easy listening disimpegnato non abbandona mai l'ascoltatore attento. Così come l'idea che questo tastierista abbia delle potenzialità di grande valore, mai totalmente sfruttate. La title-track, come suggerisce il nome, prende spunto dall'anima soul della Memphis degli anni '60, anche se poi gran parte di essa si gioca (modernamente) su un abile uso dei sintetizzatori . Alex ha una grande passione per gli ""EW&F", sui quali dice, "Imparare ogni canzone degli Earth, Wind & Fire è stata una grande parte della mia educazione musicale". In realtà, Soul Purpose non suona poi tanto come il popolare gruppo dei fratelli White, ma in "Rio.com" (nominalmente un pezzo brasilianeggiante) e in "Changes" certamente lo fa, anche se Bugnon leviga un pochino i familiari ritmi funk della band originaria di Chicago. Si cimenta anche in un classico del jazz  come "Giant Steps" di John Coltrane, che in un solo minuto è forse più pasticciata di quanto sarebbe lecito attendersi. Ma la sua versione di Duke Ellington di "In a Sentimental Mood", in realtà mostra riverenza ed è eseguita ed interpretata con passione e tecnica al piano solo. Questi brani rubati al jazz tradizionale non sono gli aspetti più importanti dell'album, ma in realtà offrono il giusto tocco di diversità a ciò che altrimenti suonerebbe troppo come un insieme ripetuto di brani di smooth jazz piuttosto ortodosso. Come è d'obbligo nel jazz contemporaneo, c'è una ritmica costante, fluida e moderatamente funky che fa da base ad alcuni modelli melodici ripetuti su ogni canzone, oltre che, naturalmente agli assoli al pianoforte acustico di Bugnon, qualche volta con l'aggiunta di un organo Hammond B -3 o dell'immancabile e sempre gradito Fender Rhodes. Le improvvisazioni che il buon Alex sciorina in ogni brano hanno stretti limiti, ed i pezzi semplicemente scorrono facili e veloci per circa quattro minuti ciascuno, prima di svanire. E' una formula progettata per ammiccare alle radio jazz e, in ultima analisi, risulta un pò anonima, come la maggior parte di ciò che viene suonato su tali stazioni di genere. La cover di Duke Ellington indica che Alex Bugnon è capace di molto di più, ma come è noto la musica più facile permette senza dubbio di pagare le bollette.

Herbie Hancock - Head Hunters



Herbie Hancock - Head Hunters

Giunto al dodicesimo album, di cui gli ultimi precedenti tre particolarmente "sperimentali", il geniale pianista jazz Herbie Hancock compie, nel 1973, una svolta epocale e sforna una pietra miliare della sua mirabile carriera e una gemma assoluta della storia della musica. Ecco allora al via una nuova band, priva di chitarra, ma soprattutto un inedito, larghissimo uso di tastiere e sintetizzatori, tutte ovviamente gestite dall'abilissimo musicista di Chicago. Evidentemente la scuola di Miles Davis deve aver lasciato un'impronta profondissima in Herbie, se seguendo le orme del grande maestro in questo Head hunters, Hancock apre i suoi orizzonti a 360 gradi, virando in modo deciso sul funk per evolvere, e forse in qualche modo superare la poetica del jazz. Nuovi territori, quindi, nuovi suoni, nuovi segni. Un passaggio formale di quella che è una esplorazione contemporanea, urbana e tribale. Modernissima. Così avanti che anche adesso questo album suona attuale e fresco. Non è un caso se ad oggi è una delle opere jazz più vendute. I puristi non mancarono di criticare aspramente il nuovo sound di Herbie Hancock, salvo poi rivalutarne i contenuti e decretarne (tardivamente) l'importanza e l'enorme influenza sulla musica degli anni a venire. I brani sono tutti originali ad eccezione del noto Watermelon Man, pubblicato nell'album d'esordio Takin' off e qui riproposto con una nuova strumentazione ed un arrangiamento rivisto completamente. La contaminazione funky è palese, soprattutto in Chamaleon e Sly, ma il jazz tira le fila del discorso e la sperimentazione di linguaggi diversi ed affascinanti la possiamo avvertire in tutto l'album, ad esempio nell'enigmatica Vein Melter. Tutto questo verrà confermato e in qualche modo sublimato nel successivo album del 1974 con gli Head Hunters ed intitolato Thrust. Un capolavoro di cui parlerò prima o poi. Con Herbie padrone di tutte le tastiere e come sempre ispiratissimo sorattutto al piano elettrico, suonano nella band Bennie Maupin ai sax e flauto, Paul Jackson al basso, Harvey Mason alla batteria e Bill Summers alle percussioni. La copertina di Head Hunters raffigura una maschera africana legata al gruppo etno-linguistico ivoriano dei Baulé. Fu disegnata dall'illustratore americano Victor Mosocoso, celebre soprattutto per le locandine dell'auditorium Fillmore di San Francisco. C'è un prima di Head Hunters e c'è sicuramente un dopo. Qui c'è una boa attorno alla quale tutto un mondo musicale girerà attingendo a piene mani, un riferimento importante ed un seme che presto darà frutti maturi e saporiti. Hancock lancia, con questo disco storico, la sua pietra nel mare del jazz, come avevano fatto prima, in altri modi, e con altre forme, altri grandi geni. L'onda lunga che scaturirà da queste note arriverà come uno tsunami fino ad oggi. Forse nemmeno Herbie avrebbe potuto immaginarsi tanto.

Art Porter - For Art's Sake


Art Porter - For Art's Sake

Nonostante abbia solo pochi album all'attivo, il sassofonista Art Porter era considerato un musicista molto promettente soprattutto nell'ambito del contemporary jazz. La sua tragica scomparsa, avvenuta in mare, in Tailandia durante una gita in barca, ha lasciato la comunità jazzistica sgomenta e un vuoto negli appassionati. Talentuoso e molto colto, Porter studiò al Berklee College of Music ed alla Northeast Illinois University, e tra l'altro si dedicò anche allo studio del pianoforte con Ellis Marsalis. Voce brillante e particolare del suo strumento, il sax alto, si distinse tra i molti emergenti del panorama smooth jazz degli anni '90, lasciando intravedere grandi possibilità espressive ed una tecnica invidiabile non solo all'alto ma anche con il sax soprano. For Art's Sake è un meraviglioso tributo a questo giovane artista dell'Arkansas. Dopo la pubblicazione del precedente album ed a seguito del suo tragico incidente, non c'erano molte registrazioni completate a disposizione, così For Art's Sake contiene una raccolta di tracce dal vivo, remix e  in più "Mr. Porter" una composizione originale dello stesso Porter, che è stato trasformata in un bellissimo omaggio da alcuni grandi musicisti come Lee Ritenour, Jeff Lorber e Gerald Albright, tra gli altri. La musica dell'album è gioiosa, frizzante, venata di buon funky e fortemente caratterizzata dalla matrice smooth jazz. Un album che conferma come Art Porter stesse sviluppando una firma stilistica molto accattivante e personale. Fa sempre una certa impressione ed è triste ascoltare queste tracce alla luce della sua tragica scomparsa, ma For Art's Sake è un tributo di gran classe alla sua memoria. Ed è la dimostrazione che il ragazzo aveva un chiaro e grande talento, cosa che avrebbe potuto di sicuro garantirgli una vita di continui miglioramenti e grandi successi. peccato che la sfortuna abbia posto fine all'ascesa di questa stella nel firmamento dello smooth jazz.

Oscar Peterson Trio - Plus One


Oscar Peterson Trio - Plus One

Oscar Peterson è stato uno dei più grandi pianisti di tutti i tempi. Un musicista con una tecnica fenomenale, allo stesso livello del suo idolo, un altro grandissimo del jazz: Art Tatum. Velocità, destrezza, e la capacità di di padroneggiare qualsiasi tempo erano le doti incredibili di questo straordinario virtuoso canadese nativo di Montreal. Lui era molto efficace nel contesto di piccoli gruppi, nelle jam session, ed anche nell’accompagnamento dei cantanti. Tuttavia Oscar dava il suo meglio in assoluto durante l'esecuzione di musica in perfetta solitudine. Il suo stile originale non rientra in nessun linguaggio specifico. Come Erroll Garner e George Shearing, il modo di suonare distintivo di Peterson si forma tra la metà e la fine degli anni '40 ed è collocabile da qualche parte tra lo swing ed il be bop. Oscar Peterson è stato criticato, nel corso degli anni, per il suo uso strabordante di tante note, per non essersi evoluto molto dal 1950, e per aver registrato un notevole numero di album. Critiche immeritate al cospetto di un artista immenso, fine esecutore e valido compositore. E va detto anche che non c'è nulla di sbagliato nel mettere in mostra la propria tecnica quando questa è al servizio della musica.Nel suo caso è esattamente così. Come con Johnny Hodges e Thelonious Monk, per citare due mostri sacri, Peterson ha vissuto la sua carriera come una crescita continua all'interno del suo stesso stile piuttosto che nella ricerca di grandi cambiamenti; ha focalizzato il suo approccio, ha stabilito un riferimento e ne è diventato il massimo esponente. Essendo il pianista preferito di Norman Granz (insieme a Tatum) un produttore noto per la tendenza a far registrare eccessivamente alcuni dei suoi artisti, Peterson ha pubblicato un numero incredibile di album. Non tutti sono essenziali, e alcuni sono forse di routine, ma la grande maggioranza è davvero eccellente, e tra questi alcune decine sono diventati dei veri e propri classici. Con questo bellissimo album del 1964 cogliamo Oscar Peterson in uno dei suoi momenti migliori. C’è da dire anche che alcuni solisti ospiti dei suoi dischi vengono qualche volta offuscati dalla abilità tecnica del grande pianista, mentre altri beneficiano del suo talento traendone a loro volta ispirazione e nutrimento. Il trombettista Clark Terry si colloca  in quest'ultimo gruppo. Con il supporto del batterista Ed Thigpen e del fido bassista di una vita Ray Brown i due solisti si rivelano in piena intimità creativa nei dieci brani dell'album. Così mentre Peterson ci delizia come al solito con una miriade di stati d'animo, dall'impressionismo stile Duke Ellington sui pezzi lenti come "They Didn't Believe Me", a lampi di follia creativa come in "Squeaky's Blues", Clark Terry vira fortissimo sul blues su originali come "Mumbles" e "Incoherent Blues". Il trombettista esce anche singolarmente al di fuori alcuni dei suoi schemi di strumentista regalandoci sprazzi di  meraviglioso canto scat. Meritano attenzione anche la ballata "Jim" raramente suonata in ambito jazzistico  e la ancora più oscura "Brotherhood of Man" dal musical di Broadway “How to Succeed in Business Without Really Trying” di Frank Loesser. Nell’immenso universo della musica di Oscar Peterson questo disco molto piacevole e coinvolgente è solo un piccolo ma significativo passaggio. Resta il fatto che questo grande uomo ed impareggiabile musicista ha portato il pianismo jazz ad un livello di assoluta e totale eccellenza, mostrando al mondo delle doti tecniche straordinarie e un talento così grande che le parole non sono sufficienti ad esprimere compiutamente. Unico.

Chizuko Yoshihiro - Conscious Mind


Chizuko Yoshihiro - Conscious Mind

Non capita spesso di parlare di musica al femminile. Aggiungo che si tratta di una pianista giapponese (almeno di origine) e non è difficile immaginare che siamo nel campo delle rare eccezioni. La brava Chizuko Yoshihiro è una tastierista che in realtà è nata in America, dove è attiva indifferentemente in svariati generi musicali: in prevalenza il jazz, ma anche blues, gospel, rock, r&b e perfino classica. Nel 1993 esce per l'etichetta verve questo suo primo e finora unico album. Siamo nel pieno del periodo di massima espansione dell'acid jazz, il lavoro non a caso viene registrato a Londra con il supporto di alcuni degli artisti più rappresentativi del momento. Una presenza che contribuisce non poco a rendere Conscious Mind una piccola gemma sepolta e tutta da scoprire. Con un mix tra composizioni originali della stessa Chizuko e alcune cover di brani famosi il disco è davvero molto ben riuscito. La pianista dimostra di avere un ottimo groove e un innato buon gusto musicale. L'alternanza tra il piano acustico ed l'immancabile piano elettrico Rhodes, l'intervento degli ospiti d'onore con i loro rispettivi strumenti senza dimenticare gli arrangiamenti in perfetto stile acid jazz rende questo album un insieme di notevole gradevolezza, da ascoltare tutto d'un fiato. Sulla base di una fantastica sezione ritmica composta da Randy Hope Taylor al basso (Incognito), Andy Gangadeen (Incognito, Lisa Stansfield, Duran Duran), Thomas Dyani Akuru (Incognito) in grado di valorizzare qualsiasi progetto musicale, la Yoshihiro ci propone qui 9 brani. Conscious Mind è subito una dichiarazione d'intenti: groove, sezione fiati, una voce parlante molto black per un sound in stile urbano, con bellissimi ricami pianistici della leader. I veri fuochi d'artificio scattano però con Central Junction che parte proprio come un brano degli Incognito ma si distende con colori latino americani sui quali Chizuko si esibisce con il suo Rhodes e i fiati danno libero sfogo alla loro potenza e coesione. Gran numero. Atmosfera più tranquilla nella cover della celeberrima quanto stupenda Winelight (Grover Washington, Jr) che la pianista interpreta utilizzando il piano elettrico e quello acustico in relax e grande scioltezza. Jacko Peake aggiunge colore con il suo flauto vellutato. Altra cover con Moonlight Serenade: il tema immortale di Glenn Miller viene riarrangiato in chiave funky jazz ed è arricchito da un bellissimo assolo di vibrafono del polivalente multi strumentista Max Beesley (anche lui con gli Incognito per un paio d'anni). E' davvero intrigante ascoltare un classico come questo suonato in modo così moderno e pieno di echi acid jazz. Replicant è un brano mid-tempo dove l'ospite d'eccezione è la chitarra del grande Ronnie Jordan, uno dei pezzi più jazzati dell'intero album, mentre Chizuko Yoshihiro indugia sul Rhodes. Con The Things We Waited For si cambia registro andando a pescare nel soul. Il brano, firmato dalla stessa pianista nippo americana, è un godibilissimo cantato dal ritornello simpatico e accattivante che non manca però di proporci il bel sound del piano acustico. Skyscrapers è uno dei brani più famosi di Eumir Deodato al quale evidentemente la Yoshihiro vuole rendere omaggio. Inutile sottolineare che è il piano elettrico a farla da padrone, ma certamente la sezione ritmica mette tutta la sua energia insieme ai fiati per fare di questa cover un numero memorabile ed estremamente coinvolgente. Herbie Hancock scrisse Tell Me A Bedtime Story nel 1969 (album Fat Albert Rotunda): Chizuko rende omaggio anche al maestro di Chicago regalandoci una versione molto easy, anche in questo caso usando il Rhodes, di un pezzo molto bello. Da notare l'assolo di sax del talentuoso Steve Williamson. Il periodo storico (anni 90), la band messa insieme per l'occasione (praticamente gli Incognito), la presenza di alcuni ospiti molto speciali contribuiscono di pari passo con il talento di questa oscura pianista a fare di Conscious Mind un gioiellino che invito tutti ad ascoltare. Energetico, positivo, orecchiabile e mai banale. Brava Chizuko, buona la prima verrebbe da dire. Peccato che non ci sia mai più stato un seguito, sarebbe stato interessante scoprire dove sarebbe potuta arrivare questa giapponese americana con il groove nel sangue.

Duncan Millar - Good To Go


Duncan Millar - Good To Go

Duncan Millar nasce, musicalmente parlando, negli anni 90 con l’interessante e sconosciuto progetto A-One, figlio del fermento della scena londinese e dell’esplosione dell’acid jazz di quegli anni. E’ un pianista che si esprime molto bene sia  con il pianoforte acustico che con quello elettrico e si distingue per uno stile di facile lettura, semplice ma estremamente efficace.  Crea delle accattivanti melodie sulle quali ama ricamare in modo libero e creativo degli assoli di pregevole fattura. Good to Go è un album fortemente orientato verso il groove contemporaneo e indubbiamente sposta il pianista Duncan Millar su di un altro livello, più alto. Sulla scia del suo debutto di successo per l'etichetta Instinct, Dream Your Dreams, Millar propone qui alcune fresche e interessanti tracce che rappresentano al contempo un’evoluzione del suo sound così come un ritorno alle radici acid jazz. Coadiuvato da Tony Campbell, Chris Standring, Chanan Hanspal, Jacko Peake, Arden Hart, e Damon Brown,  Duncan Millar ci propone una eccellente sequenza di  dieci brani. Uno di questi è una versione aggiornata della famosa canzone di Rodney Franklin intitolata "The Groove", uno dei numeri più d’impatto della prima ondata dello smooth jazz. il CD presenta sul brano di apertura "Super Real Feel",  il compagno di etichetta e chitarrista Chris Standring, che si ripete su "Go Fly You Kite". Entrambe le canzoni sono contagiose con il loro caldo e  rilassato groove,  viatico per gli assoli energetici dei due musicisti. Musica radio-friendly e scorrevole come un sorso d’acqua fresca.  "The Groove" viene riproposta da Millar con quel tanto di diversità da non ridurla ad una semplice replica, il resto lo fa la bellezza di questo favoloso pezzo di Rodney Franklin ma Duncan ci mette del suo con l’assolo di rhodes dopo il primo riff.  "Captain Of Her Heart," è un’altra cover caratterizzata  dallo stile della tromba di Arden Hart che a tratti ricorda quello di Rick Braun. "Brite Life" è un classico mid-tempo in cui  protagonisti sono prima il sax soprano ed il flauto di Jacko Peake e poi il piano acustico ed elettrico del leader. “High Sierra” si apre con la tromba di Hart che intona un orecchiabile tema che sembra uscito da una serie tv con la sonorità di un Herb Alpert o di un Chuck Mangione. Nello stile pianistico di Duncan Millar l'influenza di Herbie Hancock e Chick Corea sono ancora evidenti, anche se il suo modo di suonare è radicalmente cambiato da quando era leader del progetto A-One. “Good to go” è un buon lavoro, un uso meno massivo delle batterie campionate e dei sequencer sarebbe stato preferibile, ma il risultato finale rimane comunque godibile e accattivante.

Bob Baldwin - Brazil Chill


Bob Baldwin - Brazil Chill

Il tastierista, polistrumentista e produttore Bob Baldwin è stato ugualmente influenzato dal jazz come dal pop e dal soul e il suo suono semplice, gioioso e ottimista si è rivelato fin da subito perfetto per le trasmissioni delle radio specializzate in smooth jazz o in adult contemporary rock. La sua carriera da solista è iniziata nel 1990 e Baldwin ha in seguito pubblicato un gran numero di album per svariate etichette. Oltre a registrare e produrre, il pianista ha anche lavorato alla radio come consulente in interessanti programmi sul jazz contemporaneo e le nuove tendenze. Non sorprende che nel corso degli ultimi 15 anni o giù di lì, il tastierista di Atlanta abbia percorso la sua scalata verso l'elite della musica per così dire “easy listening” con una serie di progetti basati sulla contaminazione fra jazz e funk, arrangiati con quella eleganza e raffinatezza che sono tipiche dello smooth jazz. In molte delle sue registrazioni si trovano accenni al suo interesse verso la musica brasiliana ma è qui, su questo Brazil Chill, che la passione diventa il focus principale della sua produzione. Non contento di essere semplicemente un ammiratore americano che da lontano segue la scia della contaminazione con il Brasile,  Baldwin ha fatto di più, è andato sul posto, e ha registrato l’album direttamente a Rio de Janeiro circondandosi di grandi musicisti carioca. Così è riuscito nell’intento di celebrare ritmi e suoni di una diversa cultura in modo spontaneo e positivo, con rispetto e umiltà. Ne è scaturito indubbiamente un gran bel disco dove il suo classico smooth jazz incontra una dimensione musicale altrettanto ricca di colori e di suggestioni. Piuttosto che mettere insieme semplicemente una collezione di grandi melodie, l'intento di Baldwin è proprio quello di creare una sorta di feeling  brasiliano dall'inizio alla fine. Senza però mai dimenticare completamente le sue origini afroamericane. Importante citare i compagni d’avventura di Bob Baldwin in questo progetto, perché si tratta davvero di una selezione del meglio che ci sia in circolazione in Brasile in questo momento. Il sassofonista Leo Gandelman, il chitarrista Torcquato Mariano, il tastierista Marcos Ariel, il bassista Alex Malhieros, la vocalist Zolea Ohizep ed alcuni dei migliori batteristi e percussionisti brasiliani sulla piazza quali Armando Marcal, Ivan Conte e Juliano Zanoni. Lo stile eclettico del pianismo di Bob Baldwin, che si destreggia indifferentemente tra piano acustico, piano elettrico e vari tipi di tastiere, ben si adatta a questo viaggio musicale tra  Manhattan e Rio, il leader riesce a fondere il suo groove urban al “bossa sound” con maestria e equilibrio come ad esempio in "Manhattan Samba," guidato dalle percussioni carioca ma intriso di sonorità americane. Non mancano, in questo tripudio di suoni esotici, (ad esempio "Cafezinho" o "Carnival"), anche accenni al blues,  come in "Sho Nuff", una ballad aromatizzata di smooth jazz con ospite d’eccezione la stella del sax Jeff Kashiwa. Il pianista newyorkese non avrà forse il carisma e l’appeal dei più grandi ma è un musicista onesto, molto propositivo e curioso. I suoi album sono sempre molto piacevoli all’ascolto, e questo Brazil Chill non fa eccezione, spostando al contempo l’asticella della qualità un pochino più in alto.

Robert Glasper Experiment - Black Radio


Robert Glasper Experiment - Black Radio

Black Radio. La percezione che il mondo dovrebbe avere della musica nera, la sintesi concettuale di una corrente musicale che ha nel jazz la sua spina dorsale ma che ormai è trasversale e multiforme. Il giovane pianista Robert Glasper è saldamente al comando del suo Experiment, coadiuvato dal batterista Chris Dave, dal bassista Derrick Hodge, e da Casey Benjamin ai synth ed al vocoder. Parte dall'illustre e profondissimo patrimonio culturale della musica nera per cercare di ritagliarsi già oggi un nuovo imprevedibile futuro. L'album Black Radio è un insieme unico, una fusione mirabilmente centrata di jazz, hip-hop, R & B contemporaneo, neo-soul, spruzzate di rock e pop, il tutto condito da una inusuale abbondanza di invenzioni ritmiche e melodiche. Nel fare questo Glasper si avvale di una produzione intelligente, all’apparenza essenziale ed invece estremamente ricercata. Vari elementi che combinati molto bene producono l’effetto  desiderato: rendere il risultato finale più grande delle sue singole parti. In qualche misura ci troviamo al cospetto di una pietra miliare della musica contemporanea. Un album che è destinato a diventare un punto di riferimento. Glasper è un pianista di grande talento e soprattutto un mirabile creatore di suggestioni sonore che merita grande attenzione nell’ascolto. Partiamo con i contenuti del disco. Shafiq Husayn, con "Lift Off" ci introduce subito con voce profonda in uno strano ambiente sul genere “prova degli strumenti”.  Si fa sul serio invece quando Erykah Badu prende in carico il classico "Afro Blue" e da par suo lo interpreta, mentre la band si distende utilizzando ritmi hip-hop e neo-soul. Dal canto suo Glasper aggiunge il personale tocco al piano dando immediatamente un saggio delle sue doti. Il basso di Hodge si unisce ad un singolare drum kit vintage per l’avvento della splendida voce di Lalah Hathaway a reinterpretare (nel vero senso della parola) la hit di Sade "Cherish the day". La canzone magicamente si avvolge su se stessa e rinasce donandoci qualcosa di molto originale. Su "Always Shine," la band si destreggia su un convenzionale 4/4, sono il pianoforte ed il synth ad attraversare la melodia, aggiungendo un senso di profondità. "Gonna Be Alright" è una rivisitazione di "F.T.B." dello stesso Robert Glasper con  dei nuovi testi e una elegante performance vocale della brava Ledisi. «Ah Yeah", con Musiq Soulchild e Chrisette Michele, è invece una ballad sinuosa e sensuale dove l’”Experiment” sembra quasi voler espandere il concetto stesso di canzone soul. "Consequence Of Jealousy," ha un’atmosfera rareffata, sospesa. Glasper ricama contrappunti eterei sull’affascinante voce di Meshell Ndegeocello.  "Why Do We Try," vede l’intervento vocale di Stokely a fare da ponte tra le fughe melodiche del giovane pianista su un tappeto quasi drum’n’bass. La title track, con Yasiin Bey (ex Mos Def) inizia decisamente in stile hip-hop ma Glasper e Benjamin piazzano interventi strumentali più dolci a margine di un altro brano molto suggestivo. Bilal usa la sua voce elastica e suadente per offrire una singolare lettura di David Bowie e della sua "Letter to Hermione", la band si adegua, seguendo la vocalità del solista, mentre il leader incastona un bellissimo assolo di piano che conduce fino alla conclusione della cover. Per chiudere una drum machine ed una voce filtrata introducono la singolare e irriconoscibile reinterpretazione di "Smells Like Teen Spirit" dei Nirvana che Glasper vuole offrirci come conclusione dell’album. Benjamin canta come sempre attraverso il suo vocoder mentre loop, campionamenti e lampi elettronici infestano il brano come fantasmi. E’ Glasper che approccia  la melodia spingendo questa stranissima combinazione di sonorità in una sorta di stratosfera musicale. Black Radio ci pone davanti ad un contesto completamente nuovo per la musica popolare, il jazz ed il soul portandoli tutti là dove forse non sono mai arrivati. E' il suono del futuro, anche se probabilmente non lo sappiamo ancora. Bello e molto avanti...Black Radio 2 arriverà.

Ramsey Lewis - Sun Goddess


Ramsey Lewis - Sun Goddess

Oggi mi occupo di una delle personalità di spicco del jazz e del funk.  Ramsey Lewis: un pianista di 81 anni dal talento cristallino, tecnicamente formidabile e compositore di valore. Ininterrottamente attivo dalla metà degli anni ’50 fino ai giorni nostri. Tralasciando il suo periodo jazzistico “puro”, è invece a partire da metà degli anni '60 che Ramsey Lewis comincia ad interessarsi della contaminazione tra il jazz ed il soul e il funk. Come molti altri musicisti, anche lui, verso la fine di quel decennio sente l’urgenza creativa di esplorare le nuove strade dettate dalla fusione di diversi stili musicali. E arriviamo così agli anni d’oro del funk quando Sun Goddess viene pubblicato (nel 1974). E’ subito evidente come il più grande successo del decennio di Lewis, si collochi ad una grande distanza dalle atmosfere morbide e lounge di "The In Crowd" (l'altra sua pubblicazione popolare). E’ chiaro come a questo punto, Ramsey si sia trasformato da classico pianista mainstream in un attento e curioso seguace della modernità, scegliendo il piano elettrico ed il sintetizzatore in luogo del piano acustico e dell'organo. L'operazione è infatti compiuta piazzando i più moderni strumenti su un tappeto di arrangiamenti che fondono il jazz con il funk, l'R&B con il soul e incredibilmente aggiungendo anche qualche tocco di rock progressivo. Va detto che Sun Goddess è anche una sorta di album ombra degli Earth, Wind & Fire, che a questa produzione partecipano non solo con i loro musicisti chiave ma anche con il bagaglio di suoni e atmosfere che sono tipiche del gruppo di Maurice White. Fin dal brano di apertura "Sun Goddess", si intuisce che ciò che arriverà “sarà” molto intrigante: il mitico giro di chitarra ritmica accompagnata da una penetrante gran cassa ci dice che il groove emergerà potente per dominare la scena e conquistarci. Questo pezzo da solo è sufficiente a portare questo album tra i classici del periodo jazz-funk: la magia prende forma con un paio di semplici accordi, spontaneità, improvvisazione e un arrangiamento che dà l'impressione di far galleggiare tutto su una nuvola. L’assolo di Rhodes di Lewis merita una menzione a parte perché lo ritengo uno dei più begli esempi di come valorizzare al massimo il piano elettrico, grandioso. Un modo fantastico per aprire un album, ma anche un rischio se non si riesce a dare un seguito con pezzi dello stesso livello. Quello che arriva è  invece comunque eccellente, con il blues di "Living For The City" e il romanticismo di "Love Song". Si piomba così in un groove quasi afro con "Jungle Strut", che sarebbe piaciuta ai produttori di hip-hop di questi ultimi tempi. I pezzi che seguono sono su questa falsa riga. "Hot Dawgit" è un bel brano, ma avrebbe forse potuto essere meglio sviluppata risultando il numero che mi piace meno. "Tambura" è un gran pezzo di funky, quasi in stile Herbie Hancock. "Gemini Rising" sembra a tratti provenire da un album dei Return To Forever, risulta un po’ fuori contesto rispetto al resto dell'album, tuttavia nella sua spigolosa diversità si nasconde un’altra strepitosa esibizione del leader al piano elettrico. Sun Goddess è un album molto interessante, magari non perfetto, ma alla fine, un vero grande classico, pieno di spunti e sonorità che hanno influenzato un’intera epoca e moltissimi altri musicisti. Si ascolta gradevolmente, tutto d’un fiato, lasciando l’ascoltatore con la voglia di continuare con il groove, la musica e gli assoli del magico piano Rhodes di questo grande ed iconico artista  che risponde al nome di Ramsey Lewis.

Ronnie Foster - Cheshire Cat


Ronnie Foster - Cheshire Cat

Ronnie Foster è un tastierista e produttore americano di Buffalo, forse più noto per la sua collaborazione con la star George Benson che per i suoi stessi album da solista. Tuttavia i cinque album prodotti per la Blue Note tra il 1972 ed il 1975 sono decisamente interessanti e non hanno mancato di creare una folta schiera di seguaci in particolare dopo l'esplosione dell'acid jazz. Il sound di Foster è infatti molto affine a quello di tanti artisti che a partire dagli anni '90 hanno creato il fenomeno acid jazz. E nemmeno si possono dimenticare tutte le altre collaborazioni che lo hanno visto silenzioso ma attivo protagonista: Stevie Wonder, Grant Green, Grover Washington, Jr., Stanley Turrentine, Roberta Flack, Earl Klugh, Harvey Mason, Jimmy Smith tra gli altri. Foster è senza dubbio un valido organista, collocabile a livello stilistico in un contesto mainstream avendo Jimmy Smith e Larry Young come modelli di riferimento. Le sue escursioni jazzistiche sono però piuttosto sfumate in quanto fin dai suoi esordi è sembrato interessarsi più al funk e ad al soul, che sono di fatto i generi che ne contraddistinguono la produzione musicale. Questo particolare disco uscito nel 1975 è stato l'ultimo con l'etichetta Blue Note prima del passaggio alla Columbia ed è prodotto da George Benson, che partecipa pure in qualità di chitarrista. Pochi album di questo genere, classificabile come soul jazz, riescono come Cheshire Cat nell'impresa di tenere in perfetto equilibrio l'equazione tra un'anima più squisitamente leggera ed un'altra più sofisticata. Mentre le composizioni originali di Foster vantano la complessità armonica e la rigorosità strutturale del jazz, la produzione di Benson è puro pop, con brani come "Like a Child" che suonano praticamente nello stesso modo dei grandi successi commerciali della metà degli anni '70. Foster si esibisce anche come cantante in alcuni brani dimostrando di possedere una discreta ma non certo spettacolare voce. Rimane certamente più convincente come tastierista e compositore, ruolo nel quale si distingue per il talento e per un genuino entusiasmo, in particolare all'organo e con i sintetizzatori. Cheshire Cat è un ottimo lavoro che espande e migliora quanto di buono si era già sentito sul precedente On The Avenue (anche questo prodotto da George Benson). Per gli amanti del soul jazz, del funk e più in generale del sound tipico degli anni '70 può essere una piacevolissima scoperta.

Bob James & Kirk Whalum - Joyned At The Hip


Bob James & Kirk Whalum - Joyned At The Hip

Bob James è uno dei miei pianisti preferiti. Ha un tocco ed una sonorità immediatamente riconoscibili, è un compositore di grande spessore ed un arrangiatore di livello assoluto. Fin dal suo album d'esordio datato 1974 (intitolato One, su etichetta CTI) ho apprezzato la sua produzione musicale, non perdendomi nemmeno uno dei suoi lavori. Nel corso degli anni si è ovviamente evoluto, è maturato, diventando via via più raffinato ed affermandosi come uno dei personaggi di spicco del movimento smooth jazz. I suoi veri esordi risalgono tuttavia ad un decennio prima del 1974 e sono di stampo tipicamente jazzistico, in trio, con una chiara ispirazione al grande Bill Evans. Le collaborazioni che seguirono sono tutte impressionanti: Sarah Vaughan, Stanley Turrentine, Grover Washington, Jr. Earl Kugh, David Sanborn, fino alla creazione del super gruppo Fourplay. Logico che James abbia imparato il valore dello scambio artistico tra i musicisti, così come il piacere della collaborazione. Più tardi, quando è diventato un vero e proprio solista, ha fatto molto di più che prendere semplicemente a cuore quelle lezioni, ha costruito parte della sua carriera tenendo come punto di riferimento proprio i duetti con David Sanborn, Earl Klugh, ed infine con i Fourplay. Ricordando sempre ciò che significa essere musicisti giovani, di talento, vogliosi di imparare, Bob James non è diventato solo e semplicemente un'icona per una nuova generazione di musicisti jazz contemporanei, ma anche un vero mentore per alcuni di loro, in particolare per uno dei più apprezzati tra questi rampanti artisti, il sassofonista Kirk Whalum. Dopo diverse collaborazioni nei primi album da solista prodotti da Whalum a partire dalla metà degli anni '80, i due sono approdati in questo album ad una condizione di perfetta parità, che vede Joyned At The Hip (traducibile come culo e camicia...) come un lavoro co-intestato da due leader, Un progetto spontaneo e pieno di sentimento, sincero e molto ben riuscito. Per mantenere questa genuina qualità ad un livello elevato di creatività e inventiva la band di supporto del duo è formata dal chitarrista Jeff Golub, dal bassista Chris Walker, e dal batterista Billy Kilson, musicisti che mai in passato avevano collaborato sia con James che con Whalum, L'approccio di questi nuovi collaboratori contribuisce a rendere Joyned At The Hip originale e diverso da qualsiasi precedente registrazione dell'uno e dell'altro. Al solito la mano pianistica di Bob James è sicura, precisa, il fraseggio pulito. Come dicevo è facile riconoscere il sound di questo formidabile pianista, dal quale è lecito attendersi (quasi) sempre il meglio. L'arrangiamento dei brani non presta il fianco ad alcuna critica, essendo anche questa una delle peculiarità più apprezzate di James. Il sax di Kirk Whalum è una delle voci più interessanti di questo strumento: calda, passionale, profonda. Tecnicamente molto dotato, il saxman di Memphis è tuttavia sempre equilibrato, mai esageratamente protagonista e porta il suo tenore ad avvolgerci con un suono ricco e profondo, davvero molto interessante. Pur essendo una registrazione del 1996 Joyned At The Hip resta un'opera di tutto rispetto, molto godibile e per niente scontata e può essere considerata certamente uno dei momenti più felici nella carriera di entrambe i musicisti.

Bobby Lyle - The Power Of Touch


Bobby Lyle - The Power Of Touch

Bobby Lyle, nativo di Memphis, Tennessee è un elegante pianista funk-jazz attivo dalla fine degli anni 60. Dotato di un’ottima tecnica, capace di melodie orecchiabili, con una spiccata familiarità con il funk e amante delle digressioni ritmiche generate dai suoni dell'America Latina, del Brasile e dell’Africa. In gioventù, all’inizio della sua lunga carriera, suonò in una jam session con Jimy Hendrix, il quale aveva intenzione di dare una svolta jazz-rock alla sua parabola ascendente di musicista. E pensò di usare Bobby Lyle come tastierista in questo progetto, purtroppo naufragato con la morte prematura e improvvisa del popolare chitarrista. Definirlo quindi oggi  solo come uno dei paladini dello smooth jazz semplificherebbe troppo il suo approccio globale alla musica.  Apparentemente, certo, l’attuale taglio raffinato del suo stile, il tocco pianistico tecnicamente perfetto, le composizioni estremamente piacevoli sono un perfetto modello di quello che viene definito adult contemporary jazz ma la tavolozza espressiva di Lyle dipinge una gamma di colori troppo variegata per essere confinata dentro ad una tale rigida categorizzazione. E allora su questo Power of Touch troviamo effettivamente brani come "Aruban Nights" e la scanzonata cover di "Feel Like Makin’ Love ' (Will Downing come guest star) che sono un vero manifesto dello smooth jazz.  Ma c’è anche materiale come il brano di apertura, "Timbuktu", dove Lyle, avvalendosi di Gerald Albright al sax e del chitarrista Paul Jackson, Jr.  nonché delle linee del basso pulsante di Alphonso Johnson disegna qualcosa di molto più complesso, intriso di echi afro e latino-americani. Lyle vola poi in Brasile in perfetta solitudine suonando (con le tastiere ovviamente) tutti gli strumenti in "3 Minute Samba" , una bossa dal ritmo caldo condita con seducente passionalità dalle texture di synth-piano. Su  "A Moment in Time" insieme al trombettista Rahmlee e al chitarrista Doc Powell, resta in atmosfera latina, dominando un’interessante tappeto ritmico per l’intervento vocale della brava Kevyn Lettau. Molto particolare anche “Checkin”: atmosfere quasi new age pilotate dai  synth che galleggiano sopra il morbido intercalare recitato da Adwin Brown, cui il chitarrista Phil Upchurch e l’organo  di Lyle aggiungono un tocco blues. Vibrazioni urbane invece in "Jubilee" con il dialogo tra i bei sax del veterano Wilton Felder (tenore) e il nuovo talento femminile Mindi Abair (contralto). "Midnight Creeper" è un numero di contemporary jazz-rap (spesso svalutato da una eccessiva prevedibilità) ma Bobby Lyle non smentisce la fama di essere un musicista rivoluzionario utilizzando le corde del piano come strumenti a percussione ed evitando eccessi melodici e soluzioni scontate. The Power Of Touch mi è sembrato un gran bell’album, vario, completo e interessante. Il talento e la tecnica non sono mai mancati a questo tastierista che nel corso degli anni è maturato, si è evoluto e ha sempre saputo condire con estro, fantasia e contaminazioni di ogni tipo la sua intrinseca essenza di musicista jazz.

George Duke - Face The Music



George Duke - Face The Music

George Duke è stato uno straordinario artista ed un uomo di grande sensibilità, Bambino prodigio fin dall'età di quattro anni, a sedici era già famoso in ambito locale per aver suonato in numerose band. Non vi è alcun dubbio sulle sue doti di pianista, tastierista, innovatore e compositore. E' stato certamente uno dei musicisti più importanti a partire dagli anni 70 e non solo in campo jazzistico. Insieme a Herbie Hancock e Chick Corea è da considerarsi uno dei pionieri dell'uso del sintetizzatore nel jazz. E non va certo dimenticata la sua lunga collaborazione con Frank Zappa nel momento migliore del genio italo-americano. George Duke ha lavorato con un eclettico e variopinto stuolo di musicisti proprio per la sua versatilità, il suo talento e la sua umiltà. Face the Music è il primo album di Duke per la sua personale etichetta Big Piano Music. Ed è un'opera di grande livello, una vetrina eccellente per mettere in mostra tutta la sua prorompente vitalità artistica e quel tocco pianistico che lo ha reso un mito. Sia che si approcci al piano acustico, sia che esalti il suo fraseggio con un piano elettrico o un synth il grande George è sempre un incanto per le nostre orecchie e una riserva di emozioni per la nostra anima. La registrazione prende il via con "The Black Messiah (part II)", che vede l'introduzione del pianista da parte della voce del defunto Cannonball Adderley. E' subito evidente il suo talento per il funk e si può precepire l'influenza della vecchia scuola del R&B nel suo suono. Duke è un vero maestro sul pianoforte a coda ed anche al synth e non perde occasione per dimostrarlo. "Chillin" è un brano caldo, a dispetto del nome, con un andamento rilassato in cui il piano acustico ricama variazioni sempre imprevedibili. L'intervento del corpulento pianista è ipnotico e fluido, il basso acustico di Christian McBride aggiunge un qualcosa in più, pulsando di linee molto interessanti. "My Piano," parte in solitudine per poi sciorinare un sound sudamericano ed esponendoci così il suo ottimo feeling latino, quindi passa inaspettatamente al gospel con un coro da pelle d'oca che viene ripetuto sul suo formidabile tappeto pianistico. Da tastierista compiuto, quale è Duke si diverte, e davvero si può percepire entusiasmo e passione.  La sensuale, cantata "Guess You're Not The One" vede George dipingere un piccolo quadro impressionista al pianoforte, mentre il sax di Kirk Whalum è un valore aggiunto di grande spessore. "Ten Mile Jog" scritta in collaborazione con tutti i membri della band, ci offre una grande scorpacciata di funk quasi in stile jam session. L'assolo di Rhodes è da brividi e così quello al synth, ma tutta la band si esprime al meglio con un vigore, un trasporto ed un'incredibile energia. Per gli amanti del piano elettrico la chicca da non perdere è Let's Roll che è tutta incentrata sul magico suono del Rhodes ma dove anche l'intervento al contrabbasso di Christian McBride è degno di una menzione. Another way To Look At è un altro numero funambolico, carico di vibrazioni funk ed anche qui Duke inserisce il suo magico piano elettrico con due assoli favolosi. George Duke ha sempre amato avere nelle sue band un virtuoso bassista funky e un batterista tecnico e potente, come dimostra il suo lavoro con Stanley Clarke e Billy Cobham. Il bassista Christian McBride ed il batterista Little John Roberts non fanno altro che continuare questa tradizione vincente. Con Face The Music, Duke miscela molto bene dosi e ingredienti creando un lavoro molto appagante e completo che può facilmente soddisfare sia gli amanti del funky che quelli del jazz, riuscendo in una sintesi che solo ai grandi è consentita. Quanto ci manchi Giorgione !

Jeff Lorber Fusion - Hacienda


Jeff Lorber Fusion - Hacienda

Se pensate che la definizione "fusion" sia qualcosa che tende a sminuire i generi musicali che invece vuole coniugare, non fatelo sapere a Jeff Lorber, che invece della fusion è un vero e proprio pioniere fin dal debutto nel 1977. Il suo gruppo infatti portava (e porta) dentro al suo stesso nome proprio il controverso termine fusion, quasi a sottolineare una sorta di manifesto programmatico di quale sia la sua musica preferita. Jeff Lorber, sessantaquattrenne poliedrico tastierista, arrangiatore e produttore di Philadelphia ha al suo attivo 14 album come solista più altri 9 lavori intestati al suo gruppo Jeff Lorber Fusion ed inoltre una quantità enorme di collaborazioni con centinaia di musicisti di ogni genere musicale. A quasi quarant'anni di distanza dall'uscita dell'album "The Jeff Lorber Fusion" il tastierista ha ridato vita nel 2010 al suo progetto originario dimenticato per moltissimo tempo. Diciamo subito che il Jeff Lorber Fusion nuova edizione è un esperimento molto ben riuscito fin dall'album Now is the time, ma con questo Hacienda del 2013 l'asticella della qualità e della creatività si è spostata ancora di più verso l'alto. Hacienda piace già al primo ascolto, soddisfa per l'energia profusa, la freschezza dei contenuti e l'eccellente fluidità che si evidenzia in ogni passaggio. Lorber è una gran musicista, abilissimo nell'uso dei sintetizzatori e del piano elettrico Rhodes del quale è uno dei moderni paladini. Qui troviamo sia i primi che il secondo usati in modo magistrale, con gusto e tecnica ma senza eccessi o invadenze fastidiose. Il progetto Fusion si avvale della collaborazione fattiva e portante del grande Jimmy Haslip al basso, di due batteristi fenomenali come Dave Weckl e Vinnie Colaiuta (il top del drumming contemporaneo), della chitarra di Paul Jackson, Jr., del sax di Eric Marienthal e delle percussioni di Lenny Castro. Una vera reunion di star del jazz dei nostri giorni. La musica si discosta dallo smooth jazz di cui pure Jeff Lorber è un esponente di rilievo, esplorando invece territori più complessi e difficili, decisamente jazzistici, sia pure declinati in maniera molto contemporanea. Il termine jazz rock, ormai dimenticato, pare quello che più si avvicina alla proposta di questo Hacienda, ma lo stesso nome del gruppo direi che può ben cogliere l'essenza di questo stile così composito e pregno di echi di vari generi. Si apre con un numero intitolato Corinaldo evidentemente dedicato alla piccola cittadina marchigiana, veloce, scattante immediatamente arricchito dal synth fluidissimo di Lorber e da una ritmica coinvolgente. A seguire Solar Winds nel quale spiccano, oltre al consueto tappeto ritmico gagliardissimo e sincopato, un  gran bell'assolo al sax di Eric Marienthal, l'immancabile fuga tastieristica del nostro Jeff e l'intervento chitarristico di Paul Jackson, Jr. Favolosa arriva a questo punto la cover che il gruppo fa della King Kong di Frank Zappa: un brano complesso e strutturato dove davvero tutti i musicisti danno il loro meglio in un tripudio jazz rock arricchito dalle due guest star zappiane Jean Luc Ponty al violino e Ed Mann alla marimba. Vale da solo un album. The Steppe da modo al lirismo del sax di Marienthal di esprimersi in un contesto più rilassato nel quale Lorber si inserisce questa volta al piano acustico, dimostrando ancora una volta la sua ecletticità. La title track Hacienda è un pezzo scanzonato molto up tempo, divertito e piacevole con il leader ispiratissimo al Rhodes. Più orientato in un ambito smooth jazz è invece Fab Gear dove ancora una volta è il piano elettrico a dominare la scena. Si prosegue su questa falsa riga per i restanti brani con un livello di tensione creativa sempre alto ed una serie di esecuzioni più o meno adrenaliniche ma tutte degne di nota. Una menzione particolare va certamente al bassista Jimmy Haslip che si distingue lungo tutto il percorso dell'album per una costante e viva pulsione ritmica accompagnata dal suo stile mai ovvio e molto melodico, tipico del mancino ex Yellow Jackets. Vinnie Colaiuta alla batteria è una delizia per le orecchie degli appassionati ma non mancherà di colpire anche i neofiti: il suo drumming è così esplosivo e raffinato che gli elogi non sono mai abbastanza. Paul Jackson, Jr. è un chitarrista estremamente valido, il suo apporto è sommesso ma mai scontato ed ascoltando con attenzione si può cogliere quanto questo musicista sia interessante e probabilmente sottovalutato. Hacienda è stato nominato quale miglior album strumentale del 2013 nella categoria pop (pop? ma dov'è il pop qui...) ai Grammy Awards ed avrebbe certamente meritato la vittoria. Ascoltandolo si capisce perchè. Il Jeff Lorber Fusion è ormai una realtà consolidata e dopo questo lavoro sono usciti altri due album entrambe molto belli. Un sodalizio di talenti assoluti al servizio di una musica fresca, vigorosa e molto stimolante. Ad maiora.



Pressure - Presure (feat.Ronnie Laws)


Pressure - Pressure (feat.Ronnie Laws)

Ronnie Laws (fratello dell'altrettanto famoso flautista Hubert Laws) nel 1979 registrò questo album sotto il nome di Pressure quando era considerato uno dei giovani sassofonisti più promettenti del jazz contemporaneo. Tuttavia quello che ne uscì non fu esattamente la proposta jazzistica che i critici si aspettavano. Ci troviamo infatti di fronte ad una miscela di jazz (poco), r&b, pop, funk e altre contaminazioni realizzate con il supporto della sua band formata da: Melvin Robinson chitarre, Barnaby Finch alle tastiere, Bobby Vega al basso, Pat Kelly alle chitarre, Art Rodriguez alla batteria e percussioni. Le parti vocali sono eseguite da: Betty Jo Miller, Samuel Moore, Sandra and Johnny Laws. E' lo stesso Ronnie Laws a produrre il disco. Le influenze della disco music sono evidenti qua e la. Il tono generale è quello di una certa leggerezza, anche se per la qualità degli arrangiamenti e delle esecuzioni la musica risulta sempre gradevole e godibile. Molto bello il brano Can you feel it, dove l'assolo di sax brilla particolarmente. A mio parere il pezzo forte è però lo strumentale Shove it in the oven, con uno stupendo assolo di piano elettrico del bravo Barnaby Finch. Nel corso della sua carriera Ronnie Laws ha prodotto album molto più interessanti di questo Pressure, ed un brano in particolare è entrato nella storia: "Always there" del quale molti gruppi e artisti hanno proposto cover più o meno azzeccate. Questo lavoro, sebbene non sia del tutto disprezzabile, appare forse un pò troppo commerciale, dando spazio più agli echi di una disco music all'epoca in piena espansione che a quel jazz funk che pure negli anni 70 aveva ancora molto da dire. Carino ma non essenziale.

Fuse One - Fuse One


Fuse One - Fuse One

Leggendo i componenti di questo che, a ragione, si può definire un super-gruppo, gli appassionati di fusion non possono che provare un brivido d'entusiasmo. Stanley Clarke, Larry Coryell, Paulinho Da Costa, Joe Farrell, John McLaughlin, Ronnie Foster, Nudugu Chancler, Lenny White e Tony Williams tutti in una stessa band ! Inoltre sono presenti Eric Gale, Tom Browne, Jeremy Wall e Stanley Turrentine a completare un line up a dir poco stellare. Una riunione di talenti insieme per la prima volta per il gusto di fare musica. Ognuno impegnato a portare il proprio contributo, le proprie idee e la propria vena compositiva senza le costrizioni e le responsabilità specifiche che accompagnano l'essere leader. Un vero e proprio forum musicale. Una proposta innovativa in un mondo di individualismi e fortissime personalità.
Il progetto diede alla luce due differenti album, questo omonimo ed un secondo intitolato Silk uscito un anno dopo. La produzione del grande Creed Taylor per la mitica etichetta CTI, era curata e di gran classe, come sempre. Il risultato è un lavoro di luci ed ombre. Purtroppo, mi verrebbe da aggiungere. A dimostrazione del fatto che a volte non basta mettere insieme il meglio per ottenere il massimo. Certo la classe sopraffina dei protagonisti è evidente, l'esecuzione dei brani è senza dubbio eccellente. Alcuni spunti sono molto interessanti. Quello che si percepisce è però una mancanza di profondità, di intensità, quasi come se la ricerca della leggerezza fosse l'obiettivo primario che i musicisti stessero perseguendo. Forse era esattamente quello il loro intento: trovarsi, suonare, divertirsi. Non si può addebitare loro una colpa per questo. Ma è altrettanto vero come da "tanto" talento ci si possa aspettare anche di più. Nelle intenzioni di Creed Taylor questo super-gruppo doveva diventare una colonna portante della fusion degli anni 80. Lo scarso successo commerciale, i problemi economici della CTI, e gli ovvi impegni solistici e professionali dei componenti decretarono comunque la fine del progetto Fuse One dopo il secondo album nel 1981. Un progetto che lasciava immaginare grandi cose e che probabilmente non è stato mai davvero portato a compimento, con il rammarico degli appassionati, ma suppongo anche dei musicisti e soprattutto di quel grande produttore che era Creed Taylor. Sul quale magari prossimamente scriverò qualcosa. Gli highlights qui sono: Grand Prix, To Whom All Things Concern e Friendship. In ogni caso a 32 anni (!) dalla sua pubblicazione resta un album assolutamente piacevole, straordinariamente ben suonato e dagli arrangiamenti praticamente perfetti.

Julian Cannonball Adderley w Bill Evans - Know what i mean ?



Julian Cannonball Adderley with Bill Evans - Know what i mean ?

Quando si incontrano due grandi talenti come Cannonball Adderley e Bill Evans ci sono enormi possibilità che il risultato sia di valore assoluto. Aggiungiamoci Percy Heat al contrabbasso e Connie Kay alla batteria. Non sarà difficile immaginare cose di grande livello. Il suono dell'alto-sassofonista di Tampa è come sempre caratteristico ed originale. Profondamente radicato nella matrice blues e fortemente connotato dalle sue radici sudiste. Con l'accattivante, classico soffio che lo contraddistingue ed una tonalità che spesso guarda al sax tenore, risulta sempre suadente e mai invasivo. Estremamente efficace nelle ballads è qui splendidamente accompagnato dal tocco magico di Bill Evans, sul quale è forse inutile dilungarsi tranne che per riaffermare ancora una volta la sua grandezza di pianista e di compositore. Perfino Miles Davis, con il quale Adderley suonò, (sostituendo momentaneamente John Coltrane !) disse di lui che il suo sax alto aggiungeva un qualcosa in più ad ogni esibizione. Una curiosità riguarda la copertina: subito sotto la strana scultura nell'immagine, compare una piccola fotografia proprio del nostro grande Bill Evans. La stagione d'oro del jazz "tradizionale"era giunta ormai al suo culmine. L'approccio rivoluzionario del free-jazz era già una realtà che stava cambiando quasi tutto, ma qui ci troviamo ancora di fronte ad un mainstream jazz magistralmente suonato e interpretato da alcuni tra i più valenti musicisti che abbiano illuminato la scena. I know what you mean, man !
Consigliato.

Bil Evans Trio - Since we met


Bil Evans Trio - Since we met

William John "Bill" Evans: il genio, il pianista, il compositore, l'innovatore. Nel jazz sono molti i nomi che hanno segnato una svolta, i musicisti che hanno fatto la storia. Certamente Bill Evans è uno di loro. Nutro un'ammirazione totale per questo importantissimo personaggio e penso che molti dei suoi dischi, delle testimonianze che ci ha lasciato, siano dei veri capolavori. Questo straordinario pianista ha guidato silenziosamente, con discrezione, una rivoluzione altrettanto grande di quella di un Miles Davis, di un John Coltrane o di Ornette Coleman. Con una magia intrinseca, una leggerezza innata, egli ricorre ai temi dei grandi standards o ai richiami classici alla Debussy per sviluppare un linguaggio nuovo, legato certamente al jazz modale, di cui è uno dei padri fondatori, ma etereo e delicato eppure sempre così intenso e passionale da conquistare fin dalle prime note e aprirsi a innumerevoli possibilità melodiche. Non si può non amare Bill Evans. Tecnicamente superbo, sempre ricco di gusto ed equilibrio lo ritengo personalmente lo stereotipo del pianista jazz perfetto.Non a caso è diventato il musicista di riferimento per una folta schiera di seguaci nelle generazioni seguenti: Keith Jarrett, Chick Corea, Herbie Hancock, McCoy Tyner e poi più recentemente Brad Mehldau, Fred Hirsch o Lyle Mays. Questo Since we met cattura il grande Bill dal vivo, l'11 e il 12 Gennaio del 1974 al Village Vanguard di New York. Qui è all'apice della sua potenza espressiva, con il supporto dei suoi fidi e validissimi Eddy Gomez al basso e Marty Morell alla batteria, che raccolsero con profitto l'eredità del primo storico trio formato nel 1961 con Scott LaFaro e Paul Motian, ci delizia con una performance celestiale. La sequenza dei brani scorre con una fluidità sorprendente, a cominciare dalle prime note di Since we met che apre le danze e subito enstusiasma e continua con altri brani originali di Evans, fino a concludersi con l'immancabile standard di turno, in questo caso But beautiful. La critica non considera questo album come uno dei capolavori di Bill Evans, forse sarà così, certamente alcuni grandi dischi del primo trio hanno raggiunto vette ineguagliate, tuttavia io trovo che Since we met sia un'opera di tutto rispetto, che ti fa nascere un sorriso di soddisfazione mentre lo ascolti e ti lascia un buon "sapore" di musica quando finisce di suonare. Ti invoglia ad ascoltarlo ancora, a non dimenticarlo sugli scaffali della tua discoteca. Se anche solo un poco sei un amante del jazz e ti diletti con un pianoforte il desiderio di suonare alla Bill Evans, con il suo stile, con quel tocco così raffinato e sublime non può non condizionarti.
Non è cosa da poco in verità. Un solo rammarico mi coglie quando penso a Bill Evans ed è quello della sua prematura scomparsa, 51 anni sono pochi, troppo pochi. Bill ci ha lasciato molto e di quello possiamo e dobbiamo godere per bearci della sua arte, ma chissà quali meraviglie avrebbe potuto regalarci se fosse vissuto di più.

The James Taylor Quartet - Live at the Jazz Cafe London



The James Taylor Quartet - Live at the Jazz Cafe London


Con il suo organo Hammond quale inconfondibile marchio di fabbrica, James Taylor ha maturato un'ottima reputazione sia come solista (un vero specialista dell'organo jazz), sia come leader della omonima band. Nel corso della ormai più che ventennale carriera ha sempre dimostrato una grande coerenza ed una sostanziale fedeltà ai canoni del jazz-funk o meglio dell'Acid Jazz. Questo ha certamente contribuito alla fama della band e ha consolidato JTQ come maestri del genere. Formatosi nel 1985, il James Taylor Quartet ha cominciato a muovere i primi passi suonando la musica che era in voga nella Londra dell'inizio degli anni '90, quei classici rare-grooves permeati di suoni black dei primi anni 70 che fu la base della nascita dell'acid jazz. JTQ si trovò quindi da sempre in prima linea in questo movimento, soprattutto attraverso i numerosi concerti dal vivo che si tenevano nei club più trendy della metropoli britannica. (Marquee, Jazz Cafe, Brixton Academy). La fama locale crebbe e lentamente li portò ad un agognato ma inevitabile contratto discografico. Da qui partì la diffusione internazionale ed il meritato successo. In The Hand of The Inevitable, per fare un esempio, è ancora oggi uno degli album acid jazz più venduti nel mondo. L'esibizione live di cui parlo qui è invece stata registrata allo storico Jazz Café di Londra nel dicembre del 2008, quando ormai il gruppo era arrivato all'apice della notorietà. Raccoglie alcuni dei grandi successi del gruppo, anche se la scaletta della serata sembra quasi privilegiare la produzione più occulta e meno nota. Una scelta in qualche misura coraggiosa, dettata forse dalla volontà di proporre un repertorio leggermente diverso proprio al pubblico di casa. A noi resta tra le mani un bellissimo concerto, con al centro il fluido e pulsante organo Hammond di James Taylor ed una valida band a fare da supporto. Una vera orgia di suoni vintage che faranno impazzire di gioia gli amanti del genere. Atmosfere da swingin' London e continue citazioni della "blackploitation" ci proiettano indietro nel tempo, facendoci rivivere famose serie tv (Starky & Hutch), film d'autore (Blow up) e più in generale quel mondo colorato e psichedelico, tipico della fine degli anni 60 e della prima metà degli anni 70. Peccato che la registrazione, pur restando godibile, non sia ai massimi livelli dal punto di vista audio, mancando un pochino di profondità. I live più recenti ci hanno abituato a risultati migliori ed ormai non difformi dal suono di studio. Ad ogni modo l'energia e le buone vibrazioni di una grande serata di musica dal vivo restano intatte ed è bello poterle rivivere anche per noi che quella sera non eravamo a Londra.