Rayford Griffin – Rebirth Of The Cool


Rayford Griffin – Rebirth Of The Cool

Il batterista Rayford Griffin è uno strano caso nel panorama jazzistico. Pur essendo attivo da moltissimi anni e anche se possiede una grande esperienza, ad oggi ha pubblicato solo due album. Nato nel 1958 a Indianapolis, Grazie alla sua famiglia, Griffin fin da bambino ha potuto coltivare il suo amore per la musica, mantenendo costantemente la giusta disciplina per farlo crescere. Madre e padre erano entrambe musicisti ma fu soprattutto il retaggio dello zio, il trombettista Clifford Brown a guidare i primi passi di Rayford. In particolare rimase colpito dal drumming di Art Blakey su molti dei dischi di Brown e questa fu la molla che lo spinse a diventare un batterista. L’ispirazione di un grande del passato, combinata con la sua ferrea volontà, uno studio della tecnica estremamente meticoloso e la sua innata attitudine per la batteria, ha fatto di lui un musicista di grandissimo spessore. Griffin non manca di trarre spunto anche dalle migliori registrazioni del periodo d'oro della Blue Note, dal funambolico jazz-rock di Billy Cobham e da tutta la più raffinata fusion in circolazione. È interessante notare che una delle sue prime band liceali includeva due personaggi che sarebbero più tardi diventati famosi nell’r&b come Babyface Edmonds e Daryl Simmons. Il primo ingaggio di rilievo è stato per la band di Jean-Luc Ponty con la quale Griffin è rimasto per sei anni. A questo è seguita una lunga serie di collaborazioni con artisti importanti come Anita Baker, Michael Jackson, Will Downing, George Duke, Dave Koz e Stanley Clarke. “Rebirth Of The Cool” è il debutto discografico a lungo atteso di Rayford Griffin: l’occasione perfetta per mostrare al mondo la sua bravura come musicista ed il suo talento come batterista. L'album è un’interpretazione decisamente personale e contemporanea della tradizione jazzistica attuata da parte di un ispirato artista. Il cuore della sua musica è radicato in un piccante mix di funk, fusion e jazz: ascoltare "Lids And Squares" e "Kings”, ad esempio, ci mostra dei veri e propri paradigmi del groove, e offre la dimostrazione pratica di come questa formula possa gratificare anche l’ascoltatore più attento. Ma nella registrazione ci sono anche canzoni di grande bellezza melodica e piene di brio molto “radio-friendly”. Ad esempio "Everytime I See U", che assume la forma della ballata strumentale con un piccolo intervento vocale e un magnifico assolo di chitarra del fratello di Rayford, Reggie e "In Your Eyes" che incanta con la sua fluidità dal piglio del vero e genuino smooth jazz. Non mancano come è ovvio i numeri di fusion jazz-rock ("Coffee" e "Folake") che indurranno molti aspiranti batteristi a prendere appunti su come interpretare al meglio questo genere ritmicamente sempre complicato. La title track attinge a piene mani dal migliore acid jazz e vede l’intervento vocale dello stesso Griffin sottolineato da un classico coro r&b. Cantata dal batterista anche la jazzistica e blueseggiante “All That”. Per chiudere il cerchio Griffin non ha dimenticato nemmeno una citazione dello swing come "Jazzi Ray", che ricorda la classica firma sonora delle big band nello stile di Neal Hefti. Per tutto il percorso dell’album si resta affascinanti dal drumming preciso e potente di Rayford Griffin e non si può fare a meno di chiedersi come una tale maestria e tanta raffinata tecnica non abbiano avuto un maggior successo. Gli stacchi funambolici, le rullate vertiginose, gli incredibili contro tempi ed il sapiente uso dei piatti di cui le varie tracce sono stracolme entusiasmano immediatamente. Il cast coinvolto in Rebirth Of The Cool è stellare e comprende musicisti importantissimi, tra cui il sassofonista Branford Marsalis, il trombettista Michael "Patches" Stewart, e il bassista Stanley Clarke, i tastieristi Deron Johnson e George Duke e molti altri. Rebirth Of The Cool è un disco bellissimo e pieno di sostanza, pienamente godibile: è fusion o smooth jazz (la definizione conta poco) nella sua espressione migliore che non deluderà nessuno, in ultima analisi nemmeno coloro che guardano sempre con sospetto le produzioni jazz “borderline” come questa.