Bunny Brunel - Dedication


Bunny Brunel - Dedication

Bunny Brunel è un bassista straordinario, anche se forse è meno conosciuto di altri specialisti dello strumento che più o meno recentemente hanno raggiunto la fama di star internazionali. A testimonianza delle sue capacità però ha suonato e registrato con una lista lunghissima di esponenti di rilievo di ogni genere musicale. Giusto per citare qualche nome: Chick Corea, Herbie Hancock, Wayne Shorter, Tony Williams, Jack DeJohnette, Al Jarreau, Natalie Cole, Stevie Wonder, Stanley Clarke, Dizzy Gillespie, Ziggy Marley, Gloria Estefan, Larry Coryell, Al Di Meola, Mike Stern, Joe Farrell, Michel Polnareff e molti, molti altri. Oltre al suo lavoro come performer, è ugualmente a suo agio nel ruolo di compositore, arrangiatore, produttore, insegnante e designer di strumenti. E’ impegnato anche nella composizione di colonne sonore per il cinema e per la televisione.  Bunny ha inoltre pubblicato molti album come solista. Brunel si esibisce anche con il mega gruppo fusion noto come CAB, in collaborazione con Tony MacAlpine, Virgil Donati, Brian Auger, Patrice Rushen e Dennis Chambers. Tutti questi progetti mettono in grande evidenza le sue belle composizioni ed i suoi assoli sempre melodici così come le sue pulite quanto elaborate linee di basso. Bunny Brunel è certamente più noto in veste di bassista elettrico virtuoso, nel contesto di una fusion di altissima qualità musicale, che come contrabbassista jazz. Questa particolare registrazione è quindi un po' diversa per Brunel che si esibisce esclusivamente al basso acustico, scegliendo un repertorio molto mirato di standard del jazz, tra cui brani di Wayne Shorter, Steve Swallow e Herbie Hancock insieme ad altri brani classici più legati alla tradizione mainstream quali "Stella by Starlight,  “Relaxin 'at Camarillo" e "Someday My Prince Will Come ". Il chitarrista Mike Stern è il solista principale, il pianista Billy Childs ha ugualmente il suo giusto spazio, ed il batterista Vinnie Colaiuta fornisce il suo favoloso contributo alla batteria. Tuttavia è chiaramente Brunel che resta in piena evidenza, e non si può non apprezzare come il suo contrabbasso guidi i giochi con un pulsare continuo e potente sia come accompagnamento che con una serie di assoli di grandissima precisione e spessore. Il gruppo mostra comunque un’ottima coesione e un interplay eccellente in tutti i nove brani che compongono l’album. Sulla conclusiva "Twelve Bars For Leberstraum," l’ospite d’onore è addirittura Chick Corea al pianoforte. Se da una parte la sezione ritmica fondata sullo stesso Bunny e sul drumming pirotecnico di Vinnie Colaiuta è un motore efficientissimo per qualsiasi solista, bisogna sottolineare quanto la chitarra di Mike Stern ci offra una serie di interpretazioni molto convincenti. Il pianismo lirico e misurato, ma di altissimo livello di Billy Childs non fa che arricchire il quadro complessivo. Questa è una registrazione di eccellente qualità, jazzistica nella migliore accezione del termine, dal primo all’ultimo minuto. Non ci sono punti deboli, ne cadute di stile o di tensione emotiva. A partire dalla felicissima scelta dei brani, continuando con lo straordinario talento dei musicisti coinvolti, e concludendo con il livello strepitoso della registrazione.  Nel complesso, questo è uno dei migliori album jazz di Brunel, e, allontanandosi dai canoni usuali del bassista franco americano, di fatto è anche una gradita sorpresa, in particolare per tutti gli appassionati di jazz classico. Consiglio caldamente un attento ascolto.

Wayne Shorter – Native Dancer


Wayne Shorter – Native Dancer

Wayne Shorter è certamente uno dei personaggi più importanti della storia del jazz del dopo guerra. Ha iniziato a suonare il clarinetto a 16 anni, per passare al sax tenore prima di entrare alla New York University nel 1952. La sua esperienza di musicista cominciò con Horace Silver, quindi continuò nella band di Maynard Ferguson (dove incontra quello che diventerà il suo alter ego musicale Joe Zawinul) per unirsi in seguito ai Jazz Messengers di Art Blakey per i quali diventerà anche direttore artistico. Nel 1964 l’approdo alla corte di Miles Davis, per dare vita ad un quintetto il cui impatto sarà di grandissima importanza per tutto il movimento jazzistico. Fino al 1970 Shorter contribuirà in veste di compositore a molta della produzione di Davis e soprattutto sarà testimone ed artefice della transizione dal bop al jazz rock, una transizione che vide il suo apogeo nel progetto Weather Report. Fu in questo periodo che Wayne Shorter cominciò ad usare il sax soprano, il cui particolare timbro si era rivelato essere più adatto alla convivenza con i nuovi strumenti elettronici rispetto al sax tenore. In tutto questo percorso non mancano numerosi album da solista che hanno arricchito la sua tavolozza artistica passando dall’hard bop all’avanguardia fino alle interessanti escursioni nel territorio delle contaminazioni tra jazz, rock e funk. Alcuni critici da anni discutono se l’impatto più importante di Wayne Shorter sul jazz moderno sia stato più come compositore o come sassofonista. Nessuno però disputa in merito alla sua valenza come una delle figure di spicco del genere per un lungo arco di tempo. Musicalmente figlio di John Coltrane, Shorter ha però sviluppato una sua personale via alla tecnica dello strumento, più essenziale e tuttavia ancora intrisa della qualità e dell’intensità di un timbro duro e lirico, al quale ha aggiunto con gli anni i caratteristici elementi funk. E quando parliamo del suo approccio al sax soprano, Wayne Shorter è da valutare quasi come un altro musicista: il suo è un bellissimo timbro, brillante come un fascio di luce. La sua sensibilità sembra addirittura incrementare il suo lato più poetico e le sue improvvisazioni si fanno più libere di quanto non appaiano in tutto il resto della sua produzione musicale. Gli anni '70 comunque sono stati un periodo molto intenso e produttivo per Shorter principalmente perché segnano l’inizio dell’avventura con i Weather Report e del sodalizio artistico con il tastierista Joe Zawinul. L’influenza di questa collaborazione e le idee musicali alla base di quel progetto sono i pilastri sui quali un album come “Native Dancer” poggia. Un lavoro che può essere considerato a buon titolo come uno dei piccoli capolavori della jazz fusion di quel periodo. Un disco nel quale oltre alla contaminazione con il funk è fortissima l’influenza della musica brasiliana, certificata dalla presenza del talentuoso cantante Milton Nascimento e del percussionista Airto Moreira. La registrazione vanta poi la presenza dello straordinario Herbie Hancock con tutto il suo set di tastiere e l’immancabile piano acustico. In questo dimenticato gioiello, tutto è teso ad una costante ricerca melodica come nel suggestivo brano firmato da Hancock "Joanna’s Theme" che viene eseguito in duo dal pianista e da Shorter senza alcun accompagnamento ritmico. Ovviamente le canzoni scritte da Milton Nascimento come ad esempio ”From The Lonely Afternoon” o “Ponta De Areia” virano su atmosfere molto etnico brasiliane, ma la voce del sax soprano del leader risplende magica sia nell’esposizione delle melodie che negli assoli.  “The Beauty And The Beast” composta da Wayne Shorter è un bellissimo esempio delle sue doti: il tema è subito accattivante, l’assolo è intensissimo e l’arrangiamento vira decisamente verso il miglior soul jazz strumentale.  “Tarde”, cantata in portoghese da Nascimento, suona struggente e malinconica, in una sorta di fusione tra blues e musica brasiliana. La formula “due” si ripete in “Diana” nuovamente giocata tra i tocchi del pianoforte e del sax soprano. “Ana Maria”, scritta personalmente da Shorter, è invece un numero di bossa nova interpretato magnificamente da tutta la band anche se non si può non sottolineare quanto sia brillante e seducente il timbro del sax soprano del leader. Quanto di più vicino al sound dei Weather Report viene proposto dalla stupenda “Lilia” che corre tra spazio e terra, tra jazz, funk e world music con una naturalezza ed un fascino davvero unici. Se, come spesso fanno, alcuni puristi estremi del jazz potrebbero considerare questo album e la produzione degli anni ’70 di Wayne Shorter come una macchia nella sua carriera artistica, si può  d’altro canto facilmente confutare questa posizione critica. Semplicemente Shorter ha abbracciato con passione e grande impegno la fusione e la sintesi tra jazz e funk, mixando entrambe anche con altre suggestioni. Esattamente come Miles Davis fece da In a Silent Way in poi o come Chick Corea propose con il suo visionario e spigoloso Return To Forever. Per questo Native Dancer è chiaramente tra gli album più importanti di  Wayne Shorter. E’ un fatto che l’influenza, diretta o indiretta, che questo straordinario artista ha esercitato sui musicisti che lo hanno seguito è stata molto importante, basta ascoltare ad esempio un talento di oggi come Branford Marsalis. Come compositore ha saputo costruire delle architetture musicali complesse, articolate, avvolgenti e accurate, molte delle quali sono diventate degli standard del jazz eseguite da una moltitudine di importanti artisti.

Gordon Goodwin Big Phat Band - XXL


Gordon Goodwin Big Phat Band - XXL

La Gordon Goodwin’s Big Phat Band, o semplicemente “The Big Phat Band”, è un grande ensemble di jazz con sede in California, ideato e guidato dal poli strumentista e compositore Gordon Goodwin. Il leader si fa carico della maggior parte delle composizioni, organizza e arrangia tutto, e naturalmente dirige  le performance del gruppo. Suona il pianoforte ed occasionalmente il sassofono tenore. Nonostante l'utilizzo di una strumentazione tradizionale simile in tutto e per tutto a quella delle grandi swing band degli anni 1930 e 1940 (parliamo di 18 elementi), la Big Phat Band ha un suono altamente contemporaneo, nel quale non sono solamente gli strumenti a fiato ad essere in prima linea ma è anche la ritmica a fare da guida. C’è, in generale, meno enfasi sulle linee melodiche, mentre gli arrangiamenti sono estremamente veloci, quasi frenetici, in combinazione con un grande virtuosismo di tutti i musicisti. In rare occasioni, la band utilizza dei cantanti oppure adatta i suoi brani per essere usati come accompagnamento alla danza. Formatisi nel 1999, il gruppo comprende molti dei musicisti di studio più acclamati di Los Angeles, ed ha fino ad oggi pubblicato undici album con la Silverline Records. La Gordon Goodwin’s Big Phat Band è insomma una moderna big band che coniuga con successo elementi di jazz e funk e che ricrea un sound ricco e potente.  Sonorità e atmosfere ora retrò, altre volte contemporanee che dimostrano di poter essere sempre accattivanti per l'ascoltatore e stimolanti per i suoi stessi membri. Di sicuro si respira un’aria ironica e giocosa, in particolare nei concerti dal vivo, ma la musica è comunque piena di sostanza e di ottime vibrazioni. Per un paio d’anni dal momento della creazione di questo imponente collettivo, la band ha girato in lungo e in largo gli Stati Uniti ed altri paesi impegnandosi in numerose esibizioni dal vivo e contemporaneamente preparando una prima registrazione. Il disco d’esordio è arrivato solo nel 2001, ottenendo subito buone recensioni, mentre questo ”XXL” è stato pubblicato nel 2003 ed è il secondo album della Big Phat Band. Il lavoro si rivela ancora una volta interessante e conferma la stessa formula musicale, fedele ad una ben precisa progettualità. "Hunting Wabbits" inizia curiosamente con i soli ottoni prima di trasformarsi in un blues vivace e swingante.  "Horns of Puente" è l’omaggio al compianto Tito Puente, un grande personaggio del latin jazz, e mette in evidenza il trombettista Wayne Bergeron. "The Jazz Police" è un irridente schiaffo musicale dal tono rockeggiante indirizzato ai critici dalla mentalità chiusa ed ai conduttori radiofonici mono-tematici. La Phat Band fa anche un buon uso degli ospiti speciali come nel caso dello straordinario gruppo vocale Take 6 che movimenta "Comes Love" e " It's All Right With Me". Il clarinettista Eddie Daniels da un saggio della sua abilità nella scattante "Thad Said No" ed in un delizioso arrangiamento del noto tema classico della 40° Sinfonia di Mozart. Il cantante Johnny Mathis è protagonista di un divertente brano R&B vecchia scuola come "Let The Good Times Roll".  In un’alternanza molto gradevole di stili non mancano episodi particolari che consentono l’ascolto della formula “grande orchestra” applicata ad atmosfere quasi smooth jazz. Una soluzione che si rivela, a mio parere, decisamente azzeccata, come nella roboante “Games Of Inches” o nella delicata e romantica “The Quiet Corner”. Su tutto però si stagliano, come è naturale,  i fiati: sassofoni, trombe, tromboni sono i veri protagonisti di questo album e di questa orchestra unica. Dettano i temi e comandano gli arrangiamenti con il loro suono ricco, pieno e travolgente. Un vero piacere per tutti gli appassionati. Raramente i grandi gruppi, come certamente è questa Gordon Goodwin’s Big Phat Band, sono in grado di combinare una tale diversità di influenze in un mix così affascinante e piacevole senza perdere la loro identità e mostrando anzi una così prorompente personalità.

Incognito – In Search Of Better Days


Incognito – In Search Of Better Days

Si potrebbe pensare che una band con ormai trentasette anni di anzianità non abbia più niente da dire e quindi possa riposare sugli allori, vivere di rendita e non proporre nulla che non sia scontato. Questo concetto però non vale per gli Incognito. Il collettivo di musicisti messo insieme da Bluey Maunick resta creativo, caldo e trascinante come lo era al suo concepimento nel 1979. Una prodezza artistica davvero rara in questi giorni di successi effimeri e meteore che nascono e scompaiono nel breve volgere di una stagione. Sia chiaro, il marchio di fabbrica è quello ben noto ed inconfondibile, le atmosfere sono quelle ormai conosciute, non ci sono grandissime novità, non si va incontro a stravolgimenti nell’approccio musicale ne a soluzioni ardite. E tuttavia questa incredibile unità e costanza, semplicemente granitica, dimostra quanto la band londinese abbia dentro di se la forza e le qualità necessarie per mantenere la propria proposta sempre accattivante ed interessante, ad ogni nuova uscita. In Search Of Better Days, 17 album degli Incognito, uscito da pochissimi giorni, torna ad allietarci con le sue fresche canzoni soul ed i suoi brani strumentali jazz funk senza compromessi che sono le fondamenta stesse del gruppo di Bluey e fanno brillare ancora una volta la stella di questa più che longeva avventura musicale. Ma come sempre c'è anche qualcosa in più. E’ un suono che corre lungo oltre tre decenni di soul e si snoda attraverso le note di questo album dandogli sostanza, concretezza e quel pizzico di inaspettato che basta per renderlo nuovamente appetibile ed intrigante.  Ci sono spruzzate di drum&bass e ritmi sincopati, rare groove e deep soulful house, influenze dal rock e dal blues ripescati dalla scena musicale del Regno Unito degli anni '60 e dalle atmosfere della fine degli anni '70. La facilità di scrittura del leader Bluey Maunick è al solito sorprendente, così come lo è la sua innata capacità di creare melodie e canzoni di straordinaria fruibilità ma al contempo estremamente complesse e strutturate.  Il bassista Stuart Zender, ex Jamiroquai, è l’ospite d’onore sul brano di apertura “Love Born In Flames”, cantato da Imaani: inizio griffato Incognito al 100% sia per le sonorità tipiche, sia per il groove. Come vuole la tradizione la band accoglie tra le sue fila alcune tra le più belle voci soul sulla piazza, come la citata Imaani,  Vanessa Haynes, Tony Momrelle, Katie Leone, Vula Malinga. Una carrellata di vocalità diverse che sono tutte protagoniste una dopo l'altra in una sequenza di brani funky che non possono non colpire fin dal primo ascolto. E come ciliegina sulla torta, a completare la batteria delle cantanti arriva il ritorno della straordinaria americana Maysa Leak, alias "la voce degli Incognito", che si prende le luci della ribalta in ben quattro brani. La partecipazione al nuovo album ribadisce la lunga amicizia tra Bluey e la cantante di Baltimora, magnificamente evidenziata nel testo e nelle immagini video del singolo “All I Ever Wanted”.  Non mancano però una serie di altri artisti in veste di special guest e mai utilizzati precedentemente. Tra questi la bravissima pianista/cantante  Avery * Sunshine, il formidabile batterista Richard Spaven, la polivalente percussionista Jody Linscott, e il leggendario chitarrista giapponese Tomoyasu Hotei,  famoso per la colonna sonora di Kill Bill.  Tutti lasciano il loro marchio indelebile su questo nuovo album degli Incognito con la loro classe e la loro personalità. Accennavo sopra al particolare di quanto il songwriting, la produzione e gli arrangiamenti di Bluey siano come sempre ad ampio spettro, molto profondi, calati nella storia del soul e del funk. Il chitarrista a capo degli Incognito combina in modo unico i suoni classici del passato e le tendenze sonore del presente e del futuro. Queste canzoni, che possono essere di volta in volta d'amore, di consapevolezza, di discussione, oppure stimolanti o magari pervase da un sano ottimismo, da una gioia contagiosa, oppure, perché no, di speranza, sono un campionario esclusivo e bellissimo di talento e creatività. Probabilmente l’ultimo album è tra i migliori della recente produzione degli Incognito. Bluey continua il suo ardente percorso in continua espansione: la singolare comunità di artisti al top della scena si arricchisce ogni volta di qualche nuovo tassello, alimentata da una passione per la narrazione musicale e da una grande integrità intellettuale che è sempre finalizzata a voler creare emozioni attraverso il groove. "In Search Of Better Days " ci porta esattamente lì, dove vuole che noi si vada, nel suo territorio, nel suo dominio incontrastato, ed è un viaggio meraviglioso che non vorremmo finisse mai. Il “solco” è sempre più delineato e profondo: difficile uscirne.

Billy Childs - Lyric


Billy Childs - Lyric

Uno dei più talentuosi tra i pianisti della penultima generazione, Billy Childs è un eccellente musicista ed un compositore preparatissimo e forse un po’ sottovalutato.  In carriera ha collaborato con molti jazzisti tra i quali Freddie Hubbard, J.J. Johnson, Dianne Reeves, Brandford Marsalis ed altri. Lo stile di Childs,  che è molto eclettico, ha preso direzioni diverse nel corso degli anni, dal neo-bop alla new age, fino alla jazz fusion. Dal punto di vista pianistico Billy è tecnicamente perfetto, fluido e lirico, veloce e misurato, nella migliore tradizione dei grandi dello strumento, da Bill Evans a Oscar Peterson a Brad Mehldau. Tuttavia c’è sempre stata un’eco classica nel suo suono, e con Lyric, questa estetica emerge più chiaramente, sia pure ampiamente ammantata di jazz. Un’operazione musicale apertamente dichiarata dallo stesso Childs, il quale definisce il progetto “jazz chamber music” alludendo in modo esplicito al fatto che esiste una precisa volontà di creare una sorta di ibridazione tra la musica classica ed il jazz. In verità l’opera trascende con facilità i vari generi e gli schemi ordinari, ed è di difficile catalogazione.  Il sestetto che sostiene Billy Childs in questo ambizioso progetto, viene a volte completato da una sezione di archi, da Carol Robbins all’arpa, dal chitarrista Larry Koonse, dal bassista Scott Colley, dal sassofonista Bob Sheppard e dai batteristi Brian Blade e Marvin Smith. Effettivamente il sound dell’album infonde una sensazione quasi di musica da camera, creando un’atmosfera molto suggestiva e spiazzante. Tutte le composizioni sono estese ed articolate in modo da lasciare ampio spazio all’improvvisazione dei singoli elementi: tanto da riportare alla mente quel feeling rarefatto e delicato che era una caratteristica peculiare delle registrazioni dell’etichetta europea ECM. Al tempo stesso si avverte un grande rigore ed una perfetta organizzazione degli arrangiamenti, come se nulla fosse lasciato al caso (e di fatto non lo è). La musica di Lyric è spesso impegnata e seria, tuttavia sa anche essere varia, come dimostra "In Carson's Eyes" che inizia su toni decisamente new age per poi passare ad un moderno hard bop, dove la tecnica superba del pianista è in grande evidenza. "Quiescence" profuma di “nuevo” tango e gioca tutto su un’atmosfera decisamente più malinconica e cupa. Bellissimo il brano "Hope, In the Face of Despair" con il sax soprano di Sheppard sorprendentemente tenuto sui toni più bassi, e favoloso l’intervento pianistico di Childs, che richiama lo stile del maestro Bill Evans. Stupefacente anche "American Landscape" che si diversifica dal resto del programma offendo un impatto molto più movimentato ed assai affine al jazz rock. La musica indugia spesso e volentieri sui toni impressionistici tipici della migliore new age, e talvolta si fa più classicheggiante, come in "Preludio in B-Flat Major". Il lento valzer di "The Old Man Tells His Story" alterna accenni di jazz ad altri di musica da camera in un singolare connubio che potrebbe ben figurare come colonna sonora di un film.  Anche "Into the Light" colpisce per l’approccio iniziale che sembra seguire la stessa tendenza, salvo improvvisamente esplodere in qualcosa di completamente diverso, in una continua alternanza di atmosfere e ritmi. L'interazione tra i membri della band, in particolare tra Childs, Robbins e Koonse, è ai vertici assoluti per la sensibilità dei musicisti e la perfetta sintonia di intenti. Dopo svariati album nei quali Billy Childs ha esplorato principalmente il jazz e la fusion, il pianista californiano, con Lyric, ha voluto alzare l’asticella creando un opera trasversale di grande fascino ma di difficile lettura. Si tratta di un album ibrido, che oscilla tra musica da camera, new age, jazz e crossover con una grande naturalezza senza apparire nemmeno per un attimo confusa o ambigua. Lyric è un un disco concettualmente evoluto e profondamente impegnato: rispecchia la natura stessa di Billy Childs, che oltre che essere un meraviglioso pianista è un uomo di grande cultura e molteplici interessi musicali.

Antonio Carlos Jobim – Stone Flower


Antonio Carlos Jobim – Stone Flower

E' stato detto che Antonio Carlos Brasileiro de Almeida Jobim è stato il George Gershwin del Brasile, e vi è un solido fondamento di verità in questo, sia per il contribuito in termini di composizioni regalate al repertorio jazz, sia perchè entrambi vengono identificati come icone musicali dei loro paesi agli occhi del resto del mondo. Con la sua bossa nova, con la grazia sensualmente dolente delle sue melodie, con le suadenti e malinconiche armonie, le canzoni di Jobim hanno fornito ai musicisti jazz degli anni ‘60 una alternativa sorprendentemente originale alle loro tradizionali fonti. Ma le sue composizioni minimali eppure modernissime hanno rappresentato un’epoca anche in proprio, vivendo di una precisa ed unica identità soprattutto nel lavoro solistico del genio di Rio de Janeiro. La grandezza della personalità musicale di Jobim è tutta racchiusa in questa sintesi.  Le radici del pianista e cantante sono state sempre ben piantate nel jazz; i dischi di Gerry Mulligan, Chet Baker, Barney Kessel, ed altri musicisti jazz della West Coast degli anni ’50 crearono un enorme impatto su di lui. Ma Tom Jobim non ha mai nascosto che anche il compositore impressionista francese Claude Debussy ha avuto un'influenza decisiva sulle sue armonie.  Almeno quanto la samba brasiliana ha influenzato tutta la sua musica con il classico quanto esotico schema ritmico che ne è la colonna portante. Registrato nel 1970, nello studio di Rudy Van Gelder nel New Jersey, sotto la produzione di Creed Taylor e la direzione artistica e gli arrangiamenti di Eumir Deodato, Stone Flower è semplicemente una delle sue opere più riuscite e sorprendenti.  Certamente è uno dei punti più alti della sua produzione discografica. Quasi un decennio dopo il periodo d’oro che vide il dominio della bossa nova in entrambe le classifiche pop e jazz, Creed Taylor riuscì nell’impresa di riportare la musica di Jobim di nuovo alla ribalta. Stone Flower è stato registrato da una band di tutto rispetto, che includeva sia Jobim che Deodato al pianoforte, Ron Carter al basso, João Palma alla batteria, Airto Moreira e Everaldo Ferreira alle percussioni, Urbie Green al trombone, Joe Farrell al sax soprano e al flauto, e Harry Lookofsky al violino. L’album è talmente bello che è perfino inutile esaminare le singole tracce: va quasi preso come una lunga suite che si snoda per tutta la sua durata senza soluzione di continuità. Ogni cosa sembra trovare magicamente la giusta collocazione: il trombone che delinea le suadenti melodie, il pianoforte che punteggia e sottolinea con brevi e sintetici tocchi i fraseggi di tutti brani, una sintesi armonica caratterizzata da una semplicità disarmante. Stone Flower è pervaso di un’atmosfera di intimità e di calore arricchita dalla ritmica che è già di per sé il paradigma stesso della bossa nova nella sua essenza più profonda. La musica di Jobim è tuttavia solo all’apparenza semplice, dato che in realtà è tanto sofisticata quanto armonicamente complessa. Una citazione particolare va fatta per due brani, tra gli altri, che sono a mio parere due capolavori assoluti: “Wave” e “Triste”, non a caso sono canzoni tra le più utilizzate dai migliori jazzisti degli ultimi cinquant’anni per innumerevoli e spesso magnifiche interpretazioni. Stone Flower è, in una parola, geniale: è un quadro impressionista del Brasile più bello, è come una splendida fotografia del panorama di Rio scattata da una “Rolleiflex”,  è la “bambina dal corpo dorato dal sole di Ipanema” che tutti vorrebbero guardare (ascoltare).  E’ “Il mondo che sorridendo si colma di grazia e diventa più bello”… con il sottofondo di questa musica suggestiva. (Tutto) questo è la bossa nova, questo è molto naturale, è Jobim.

Johnny Hammond - Breakout


Johnny Hammond - Breakout

Nato John Robert Smith a Louisville, il 16 dicembre 1933, Smith ha iniziato lo studio del pianoforte da bambino e i suoi punti di riferimento nella fase iniziale della sua carriera furono Bud Powell e Art Tatum. Dopo essersi trasferito a Cleveland, Smith ascoltò il pioniere dell’organo jazz Wild Bill Davis e decise di cambiare lo strumento per passare anche lui all’Hammond identificandosi a tal punto con questo tipo di tastiera che “Hammond” divenne il suo soprannome. Ha fatto il suo debutto professionale nel 1958 e da quel momento il suo percorso artistico non si è più fermato sino al suo ritiro, nei tardi anni '90.  Johnny "Hammond" Smith è stato forse uno dei più sottovalutati organisti soul-jazz del periodo d'oro di questo particolare stile. Col passare del tempo, Smith ha progressivamente optato per una strada sempre più funky; nel 1971, ha abbreviato il suo nome in Johnny Hammond passando all’etichetta CTI del produttore Creed Taylor. Nello stesso anno è stato pubblicato Breakout che rappresenta il suo debutto per la CTI: un album carico di blues e di funky groove che contiene alcune cover dei brani in voga in quel momento e alcuni classici. Il lavoro trasuda un’energia ed un feeling sufficientemente forti per interessare anche i puristi del jazz. In primo luogo c'è da sottolineare la band: lo stesso Hammond insieme a nomi illustri della scuderia CTI come Hank Crawford e Grover Washington, Jr., Eric Gale, Airto, Billy Cobham, Danny Moore, e il bassista Johnny Williams. Musicisti in grado di dispensare soul-jazz e funk a piene mani.  E poi c'è il materiale sonoro, i brani: ad esempio una versione di undici minuti di  "It’s Too Late" di Carol King, con uno splendido intervento di Grover Washington (prossimo a lanciarsi nella sua inimitabile carriera solista) e un fantastico intermezzo di chitarra di Eric Gale. Un’altra cover che è presente in Breakout è un’interpretazione brillante e solare di "Workin on a Groovy Thing" di Neil Sedaka con l'organo di Hammond che fila fluido e liscio come la seta per tutto il brano intervallato dagli splendidi accenti della sezione fiati.  Si respira un atmosfera rilassata e quasi lounge sulla riproposizione del celeberrimo “Never Can Say Goodbye” il cui tema viene esposto dalla tagliente voce del sax di Hank Crawford mentre Hammond resta semplicemente in sottofondo. "Blue Selah" è il numero dove invece l’organo è più in evidenza ed appare fantastica, per velocità, la mano destra del leader, ma non manca la presenza blues della chitarra di Eric Gale. La traccia finale è "Breakout", un brano scritto da Jimmy Smith qui eseguita in una versione funky-blues che stranamente suona molto poco nello stile della CTI e più nella vena di Jack McDuff. Billy Cobham spinge alla grande la sua potente batteria e Johnny Hammond risponde alla sua maniera con innegabile virtuosismo, mentre Gale ribatte colpo su colpo ad ogni riff, ed a completare il quadro arriva l’esaltante duello di assoli di sassofoni tra Crawford e Washington. Breakout è un album molto interessante che copre una vasta gamma di contaminazioni musicali, dal soul-jazz al funk, fino all’ R&B. Johnny Hammond si dimostra un vero specialista dell’organo nella tradizione di altri grandi jazzisti quali Jimmy Smith, Jack McDuff, Larry Young o Jimmy McGriff. Impossibile infine non sottolineare come la produzione di Creed Taylor per la sua creatura CTI sia sempre di un livello davvero eccezionale.

Gregory Porter – Liquid Spirit


Gregory Porter – Liquid Spirit

Il singolare personaggio che risponde al nome di Gregory Porter è cresciuto a Bakersfield, in California.  E’ un cantante e compositore jazz, soul e gospel ed anche sporadicamente un attore . Da bambino, rimase incantato dalla musica di Nat King Cole, imparando a cantare come il popolare pianista/crooner e ad imitarlo perfettamente, tuttavia il suo interesse era più focalizzato sullo sport. Dopo un serio infortunio alla spalla lasciò da parte la carriera nel football americano iniziando  ad esibirsi nei jazz club locali,  dove ha incontrato il sassofonista, compositore, pianista Kamau Kenyatta. Kenyatta divenne il mentore di Porter, presentandolo al flautista Hubert Laws, che ha subito utilizzato la voce di Porter su una traccia del suo album del 1998 “Remembers the Unforgettable Nat King Cole”. A questo punto la sorella di Hubert Laws, Eloise Laws, dopo aver sentito Porter durante le sessioni in studio rimase colpita dal suo modo di cantare ed aiutò Gregory ad avere un ruolo tra i protagonisti nel musical It Ain't Nothing But the Blues, che è andato in scena a Broadway. Da quel momento sembrava che le porte si fossero aperte per Porter: ma non fu esattamente così. Il ragazzone con il cappello sempre in testa che ad un certo punto avrebbe voluto fare l’impiegato comunale perché nella musica pareva tutto impossibile, avrebbe dovuto aspettare molti anni per avere la sua vera chance discografica. Il suo album di debutto, che si intitolava Water, fu pubblicato solo nel 2010, seguito da un secondo, Be Good, registrato due anni dopo, nel 2012. È nel 2013 che esce il suo terzo album, Liquid Spirit, prodotto da Brian Bacchus, ed è qui il momento della svolta per Gregory. L'album è stato immediatamente un enorme successo, vincendo il Grammy Award 2014 quale miglior album di jazz vocale e diventando al contempo il lavoro di jazz con più streaming di tutti i tempi: oltre 20 milioni di stream. Finalmente era arrivata la definitiva consacrazione di questo straordinario personaggio. Gregory Porter è un cantante il cui stile vocale rifiuta di essere ingabbiato da una precisa etichetta jazz, gospel, o R&B. Il suo caldo e invitante tono da baritono sguazza indifferentemente nei generi come e quando vuole. Liquid Spirit è stato realizzato per la Blue Note Records utilizzando gli stessi musicisti che apparivano con lui su Be Good e cioè Yosuke Sato e Tivon Pennicott ai sassofoni, Chip Crawford al pianoforte,  Aaron James al basso e Emanuel Harrold alla batteria. Porter ha scritto dieci di queste quattordici canzoni. Tra le cover c'è una rilettura esplosiva della famosa "The In Crowd" di Billy Page, che mette in evidenza il fraseggio ritmico di Porter. Anche se è un brano molto soul il cantante ne da un’interpretazione swingante. La seconda cover è invece "Lonesome Lover" di Max Roach originariamente cantata da Abbey Lincoln, eseguita in stile post bop da un Porter che ne offre una lettura ineditamente aperta alla propria gamma tonale superiore. Ma la vera forza di Liquid Spirit si trova nelle canzoni scritte dallo stesso Gregory Porter: i suoi testi e le sue melodie sono ricche come la sua voce. "No Love Dying" trova la sua strada tra jazz e soul e le sue parole di elogio della vita sono sottolineate dall’autorità della sua voce, mentre il sassofono contralto di Sato fa da lirico contrappunto. La title track sorprende per il suo andamento da gospel sottolineato dal classico, ritmico battimani intervallato dai fiati.  "Hey Laura" è una ballad rilassata e sincera di Porter che colpisce emotivamente e cattura per la melodia subito orecchiabile . "Brown Grass" è ancora una canzone d'amore ma giocata su un tono un po’ più triste e malinconico. Con tutta la sua innovativa capacità di combinare senza sforzo vari generi musicali e modellarli a sua immagine, Porter si conferma un personaggio davvero unico nel panorama jazzistico e non solo. Basta ascoltare "Musical Genocide” dove celebra la musica del passato con un ritmico pianoforte e i fiati carichi di groove. Sulla tenera ballata "Wolfcry" Gregory è accompagnato solo dal piano acustico di Crawford: è così melodicamente ricca che avrebbe potuto facilmente essere cantata da un giovane Nat King Cole. Fantastico il modo in cui lui e la sua band eseguono "Free": blues, jazz, gospel e R&B si mescolano quasi naturalmente sotto alla potente voce di Porter che appare più che mai bellissima e perentoria. Mentre i suoi primi due album sono serviti a rivelare al mondo la promessa di un importante nuovo talento, Liquid spirit è artisticamente un grande passo in avanti, ampliamente gratificato dal successo di pubblico e di critica che ha ottenuto in tutto il mondo. Gregory Porter, il gigante dal cuore tenero che sul palco curiosamente indossa sempre un cappello col paraorecchie, si è finalmente mostrato a tutti per quello che realmente è: un formidabile cantante baritono che unisce la purezza cristallina del jazz e il calore malinconico del blues con la sensualità del soul e dell’R&B.

CTI All Stars - California Concert: The Hollywood Palladium


CTI All Stars - California Concert: The Hollywood Palladium

Un’ incredibile adunata di svariate personalità musicali riunite per un concerto jazz registrato dal vivo davanti ad una grande platea. Questa potrebbe essere la definizione del progetto CTI All Stars. Freddie Hubbard, Stanley Turrentine, Hubert Laws, George Benson, Johnny Hammond, Hank Crawford, Ron Carter, Airto Moreira e Billy Cobham hanno fatto tutti parte della CTI Records, la rivoluzionaria etichetta discografica che il produttore Creed Taylor aveva creato con lo scopo dichiarato di dare spazio alla fusione tra il jazz ed altri generi musicali.  La band CTI All Stars non è altro che un collettivo formato dal maggior numero possibile di artisti sotto contratto con l’etichetta, attivo in occasione di alcuni concerti organizzati presso teatri di grandi dimensioni. Una novità assoluta, quella dei grandi spazi, in un momento in cui il jazz era ancora in gran parte relegato ai piccoli club, ma soprattutto un modo per veicolare al mondo l’esistenza del marchio CTI attraverso le esibizioni dei suoi talentuosi musicisti. Così nasce questo album che è stato registrato dal vivo all’Hollywood Palladium nel 1971. Taylor credeva fortemente in una prima linea di artisti che fosse d’impatto e di esperienza, in grado di districarsi al meglio anche con i brani più complessi e articolati. Ed infatti la band è composta da nove elementi tra i quali anche il chitarrista George Benson e il sassofonista Hank Crawford, con l'inclusione di Hubbard e Laws tutti in veste di solisti. Come introduzione del concerto, fu scelto “Impressions” di John Coltrane: ventiquattro minuti di jam session che possono essere considerati come un impegnativo riscaldamento per tutti i musicisti. Il bassista Ron Carter dirige l’orchestra e insieme all'organista/pianista elettrico Johnny Hammond, il batterista Billy Cobham, e il percussionista brasiliano Airto Moreira, fornisce il pulsante motore ritmico e armonico a tutti i solisti.  La band si impegna poi in una lettura dolcemente funky di "Fire and Rain", del cantautore James Taylor, terreno fertile per un solo fantastico del flauto di Hubert Laws. Lo stesso fa con una versione molto interessante della famosa "It’s Too Late" di Carole King, interpretata da Hammond con un pathos ricco di soul. I solisti  Hubbard, Turrentine e Crawford suonano vigorosamente, come si conviene in una performance live ma sono convincenti anche gli interventi di George Benson e del funambolico tandem Cobham e Moreira. California Concert prevede anche una versione inedita del classico "So What" di Miles Davis, una proposta sempre gradita che si aggiunge all’iniziale Impressions di Coltrane. Una cover brillante, eseguita in quintetto senza i fiati e disegnata per Benson e la sua chitarra solista, che si dimostra un artista dal virtuosismo sconcertante e dall’ampia immaginazione. Un’immagine molto jazzistica della nota star,  prima che il richiamo di una maggiore notorietà cominciasse a spostare la direzione della sua musica verso lidi più commerciali. Un altro brano molto interessante è la versione di venti minuti di “Straight Life” di Freddie Hubbard. Una lunga jam con il trombettista che mette in mostra tutta la sua mirabile tecnica insieme ad un ispirato Benson che sciorina cascate di note e dimostra che dal vivo è possibile spingersi oltre i limiti, senza perdere un’auspicabile  accessibilità. Stanley Turrentine irrompe, mettendosi in evidenza su "Sugar": a giudicare dagli applausi, il sassofonista era già un beniamino dell’entusiasta pubblico del Palladium di Hollywood anche prima di questa esibizione. La composizione di Eumir Deodato, "Blues West", eseguita per la prima volta, è un numero jazzistico e corale dall’andamento blueseggiante che ci rivela un lato non molto conosciuto delle capacità compositive del pianista brasiliano . Lungo quasi ventuno minuti è un veicolo potente per valorizzare  tutta la band nel suo insieme, con una menzione particolare per Ron Carter, il cui solo, relativamente breve, è però carico di lirismo e tecnica. "Leaving West" che va a toccare anche i colori della bossa, è un bellissimo brano scritto da Carter e Turrentine appositamente per questa performance, ed allude apertamente al lato più  latino delle registrazioni della CTI, ampliamente esemplificato dall’album Stone Flowers di Antonio Carlos Jobim pubblicato nel 1970 proprio dall’etichetta di Creed Taylor. In particolare si distingue George Benson , che condisce il suo lungo assolo di colori blues. Queste sono due ore e mezzo di musica che davvero non si fa fatica ad ascoltare, viene proposto un jazz sempre giocato sul filo del divertimento e del gusto dell’esibizione che tuttavia non appare mai futile o noioso. Gli artisti sono tutti al top della loro forma, appaiono affiatati ed in perfetta sintonia gli uni con gli altri, disposti ad incantare il pubblico ed a dilettarsi loro stessi nel contesto di una magica serata. In California Concert troviamo nove dei musicisti che, per un periodo relativamente breve di tempo, sarebbero diventati quasi il sinonimo dello stile inconfondibile della mitica etichetta CTI di Creed Taylor. La registrazione è stata splendidamente rimasterizzata ed a quarantacinque anni di distanza è pienamente godibile. Le note di copertina di Bob Belden sono molto esaustive e pongono nel modo più corretto l’album e la CTI nel giusto contesto storico. Per chi non sapesse nulla dell’etichetta e dei suoi contenuti,  California Concert: The Hollywood Palladium rappresenta il punto di partenza giusto per iniziare ad esplorare un fenomeno di grande rilevanza nella storia del jazz. Per i fan appassionati di Creed Taylor e della sua creatura potrebbe essere una piacevole scoperta, visto che questa registrazione include moltissimo materiale inedito e mai eseguito dal vivo.

Snarky Puppy - Culcha Vulcha

Snarky Puppy - Culcha Vulcha

Gli Snarky Puppy sono un caso molto particolare nel panorama musicale contemporaneo. Prima di tutto per la scelta coraggiosa di fare sperimentazione nel jazz, nel funk e nel rock senza alcuna indulgenza verso qualsiasi deriva commerciale, e poi per l’ampio gruppo di musicisti (18) che ruotano attorno al bassista e leader Michael League (noti con il nome di “The Fam”). L’approccio, le idee, la creatività alla base di questo progetto sono singolari e davvero molto innovative. Dopo otto anni gli Snarky Puppy tornano a proporre un album di studio con Culcha Vulcha. Tra il primo, The Only Constant del 2006, e questo ultimo disco, il collettivo texano trapiantato  a Brooklyn ha pubblicato una serie di album live sulla base di una sola strategia: catturare una singola prestazione della band dal vivo e manipolarla il meno possibile (o per niente). Questo nuovo lavoro interrompe una prassi ormai consolidata e dimostra come gli Snarky possano anche impegnarsi in una canonica seduta di registrazione senza che vi sia alcuna perdita di energia o di spontaneità. La portata musicale di ampio respiro delle composizioni del bassista Michael League consentono una  perfetta dinamica di gruppo e una splendida interazione tra i membri della band senza che venga mai trascurata l'improvvisazione o la ricerca del nuovo. Culcha Vulcha ha un inizio funky con la ruggente "Tarova" dove tutti i diciotto musicisti sono coinvolti in un mix esplosivo. Fraseggi di piano elettrico Rhodes, leggeri tocchi di organo, un basso sempre pulsante, rullate sofisticate di batteria, stoccate di violino, e caldi fiati vanno a toccare un po’ tutti i generi e le tendenze musicali. "Semente", cambia prospettiva e si configura come un muscolare brano latin jazz: un occhio al lirismo dei mariachi combinato con ritmi afro-cubani e ad un pò di Northern Soul. "Gemini" è più notturna e ariosa, lo scambio melodico tra chitarre e piano elettrico è bilanciato da una batteria ipnotica ed infine sottolineato da un bellissimo assolo di sassofono. "Grown Folks " ci offre una linea di basso funk molto spumeggiante, sulla quale il brano si dipana su un ritmo hip hop e attraverso un'armonia neo-soul dove non mancano i fiati “cinematografici” e i tocchi di tastiera quasi da dub jazz. L'atmosfera da colonna sonora è presente anche sul particolare "Palermo” che ricorda Piero Umiliani, Stefano Torossi, e gli sperimentalismi di Jon Hassell. "The Big Ugly" è una sorta di jazz-rock post psichedelico, inquietante ed enigmatico: supportato da una assai complessa stratificazione di tastiere, rhodes, clavinet, organo. I ruoli si alternano tra wah-wah e chitarre soliste, archi e  un basso ossessivo in sottofondo fino ad un irreale assolo di Moog di Cory Henry. E’ il paradigma di quello che questo straordinario gruppo è in grado di fare, al di là ed oltre ogni genere musicale. Culcha Vulcha è un tutto inscindibile; ogni brano è una porta che conduce in quella successiva, quasi senza soluzione di continuità. Non importa quanto diverse tra loro possano essere le singole tracce, l’album si propaga come un sogno che si colora di volta in volta di sensazioni differenti. Gli Snarky Puppy propongono una musica totale, portano un messaggio di ecletticità unico e quasi magico. La loro alchimia è un’eccezione nel panorama musicale internazionale. Qualsiasi ascoltatore che ha trovato soddisfazione dalle registrazioni dal vivo degli Snarky  non mancherà di godersi anche questo ultimo sofisticatissimo lavoro. Chi ancora non li conoscesse non deve perdersi questa opportunità. Questo è il luogo dove l’irrequietezza musicale e la disciplina del talento si incontrano in una magnifica avventura creativa.

Les McCann - Layers


Les McCann - Layers

Les McCann è in primo luogo un pianista jazz, tra l’altro dotato anche di un gran talento. Ma visto il gradimento che riscuoteva la sua voce ruvida e profonda, ha cominciato ad usarla sempre di più diventando in breve tempo un cantante/pianista. È così che si è guadagnato la fama di innovatore dello stile soul jazz,  proprio fondendo il jazz con il funk, il soul e svariati ritmi da tutto il mondo e colorando il tutto con la sua particolare voce.  Parte della sua musica dei primi anni ‘70 in qualche misura anticipa gli album di Stevie Wonder di quel decennio. Inoltre va sottolineato come grazie alla sua naturale curiosità ed al suo spirito di innovazione McCann fu tra i primi musicisti jazz ad utilizzare il piano elettrico, il clavinet, ed il sintetizzatore. Questo innovativo disco di fusion è davvero diverso da qualsiasi altro Les McCann abbia mai pubblicato. Per prima cosa è privo di parti cantate, in secondo luogo Layers è un album totalmente suonato con i sintetizzatori, nel quale l’unico supporto “umano” è riservato ad una sezione ritmica di tre percussionisti ed al bassista Jimmy Rowser. Probabilmente è una delle prime registrazioni jazz con alle spalle una tale filosofia. Secondo le note di copertina, l'ambizione di McCann era quella di essere lui stesso l'intera orchestra, così come la immaginava nella sua testa, e a tal fine il tastierista decise di esplorare profondamente le possibilità sonore che la tecnologia dell’epoca gli permetteva. Per farlo utilizzò massicciamente il nuovo e rivoluzionario  sintetizzatore ARP.  A questo vanno aggiunte, in alcuni punti, alcune sovraincisioni di piano elettrico, strumento nel quale Les si è sempre dimostrato un maestro. La varietà dei toni disponibili sulla piattaforma synth della ARP dà a McCann un ampio spazio su cui giocare liberamente, e lui ne approfitta imitando i fiati, gli archi, il basso slap, e perfino le intonazioni del cantato umano. Qualcosa di straordinario per quegli anni e di certo un esperimento destinato a raccogliere moltissimi proseliti e seguaci. Layers ribadisce il suo pionieristico impatto sul mondo della musica anche per il fatto di essere stato il primo album in assoluto a prevedere la registrazione in formato 32 tracce. La caleidoscopica  capacità di McCann di inserire i giusti colori musicali ed una varietà di contrasti tonali, dà all'album un suono ricco, pieno e variegato. Ma ciò che veramente permette a Layers di avere una dimensione umana e sorprendentemente calda, a dispetto della sua natura, per così dire sintetica,  è l’impegno emotivo che McCann mette nel suonare il suo complesso set di sintetizzatori e tastiere, il cuore che ci mette. Certo va necessariamente considerata l’epoca e la tecnologia disponibile nel 1972, che se paragonata a quelle attuali, ci appare rozza ed obsoleta. Tuttavia i semi piantati in questa occasione matureranno in seguito, esplodendo in modo definitivo negli anni '90, soprattutto, va detto, al di fuori del jazz. McCann ha suonato la gran parte delle sezioni che compongono l’album in presa diretta, lasciando che le diverse tracce confluissero direttamente l'una nell'altra, con il risultato di produrre quasi due lunghe suite continue. Il formato da one-man band sembra scatenare la libertà espressiva del tastierista in un flusso musicale onirico e riflessivo, in particolare sui brani più lenti e “cosmici” anche se non mancano i momenti più canonicamente ricchi di funky groove. McCann lavora sul suo nuovo strumento come farebbe un bambino con un nuovo giocattolo: è entusiasta, coraggioso ma anche genuino. La particolare natura di questo album non appassionerà particolarmente i fan del jazz tradizionale, che probabilmente non lo riterranno molto di più di una semplice curiosità. In realtà, Layers è abbastanza all'avanguardia se riferito all’anno di pubblicazione, e denota da parte di Les McCann una notevole sensibilità musicale ed un grande spirito di ricerca ed innovazione. E’ un album veramente lungimirante ed in anticipo sui tempi.

Stan Getz – Jazz Samba


Stan Getz – Jazz Samba

La storia della musica e quindi quella del jazz è da sempre segnata da alcuni album che, dalla loro uscita, hanno lasciato una traccia indelebile.  Opere seminali che hanno indicato una via sulla quale molti artisti hanno poi percorso almeno una parte del loro cammino.  L'affermazione del movimento hard bop e l'approssimarsi del free jazz misero in crisi tutti i canoni  sia del cool jazz che di quello tradizionale. La strada maestra, “il mainstream”, venne improvvisamente smarrita. Per molti artisti una via di innovazione sembrava essere la contaminazione tra jazz e altri generi, tra i quali la musica popolare brasiliana. In questo contesto vide la luce Jazz Samba di Stan Getz  che è addirittura considerato il punto d’inizio di un genere, che da qui prenderà addirittura il suo  nome. Così si aprì, all'inizio degli anni sessanta, la stagione della bossa nova di cui Stan Getz diventò uno dei più fervidi sostenitori. E’ interessante analizzare come le cose andarono esattamente. Durante una tournée in Brasile sponsorizzata dal Dipartimento di Stato americano, il chitarrista Charlie Byrd rimase colpito dal nuovo stile imperante in quel paese e in particolare dal cantante/chitarrista João Gilberto e dal suo modo di suonare la chitarra, con la caratteristica "batida" da lui inventata. Tornato negli Stati Uniti, fece ascoltare a Getz i dischi che si era portato dal Brasile. Fu una vera folgorazione e i due si incontrarono, a Washington, per registrare l'album  che si intitolerà Jazz Samba: conteneva brani alcuni di Antonio Carlos Jobim. Il disco, e in particolare il singolo Desafinado (che valse a Getz il Grammy for Best Instrumental Jazz Performance nel 1963), ebbero uno straordinario successo commerciale al punto che l'album è considerato il disco di jazz più venduto di ogni tempo. Jazz Samba è un’opera cruciale e innovativa. In effetti, oltre ai lusinghieri risultati di pubblico ed ai meravigliosi contenuti artistici, è stato l’ inizio di una vera e propria mania per la bossa nova, che non fu solo un fatto musicale ma anche un fenomeno di costume e culturale molto importante.  Jazz Samba introdusse una serie di basilari canoni stilistici per il genere, ma soprattutto è un album dall’inestimabile  valore artistico: una collezione di brani tanto aggraziata quanto sottilmente innovativa e moderna. Questo è dovuto sicuramente alla bellezza delle armonie, alla leggerezza sublime delle melodie ed a quel ritmo ipnotico che non a caso è diventato parte dell’iconografia del Brasile stesso. Getz e il suo partner, il chitarrista Charlie Byrd, hanno il tocco musicale perfetto per la delicata, ariosa consistenza della bossa nova. Da parte sua, Byrd è stato uno dei primi musicisti americani a scoprire e padroneggiare  i difficili fraseggi della bossa, e i suoi assoli sono leggeri e intensi come il genere richiede. Al contempo il suono di Getz è superbo, al tempo stesso caldo e pieno ma tuttavia sempre perfettamente controllato. Inoltre, proprio lo stile garbato e quasi sommesso di Byrd, sembrano stimolare l'inventiva melodica di Stan Getz il quale si spinge davvero verso vette ineguagliate. Ma oltre all’aspetto strettamente tecnico, il sassofonista di Filadelfia intuisce ed interpreta come nessun altro il profondo romanticismo e quel retrogusto carico di malinconia che è insito nella musica brasiliana. Questo è ciò che ha reso Jazz Samba un capolavoro assoluto ed il più classico degli esempi del genere insieme al suo disco gemello Getz/Gilberto. E’ un disco assolutamente essenziale per qualsiasi collezione jazz. È uno di quegli album che hanno fatto la storia.

Rayford Griffin – Rebirth Of The Cool


Rayford Griffin – Rebirth Of The Cool

Il batterista Rayford Griffin è uno strano caso nel panorama jazzistico. Pur essendo attivo da moltissimi anni e anche se possiede una grande esperienza, ad oggi ha pubblicato solo due album. Nato nel 1958 a Indianapolis, Grazie alla sua famiglia, Griffin fin da bambino ha potuto coltivare il suo amore per la musica, mantenendo costantemente la giusta disciplina per farlo crescere. Madre e padre erano entrambe musicisti ma fu soprattutto il retaggio dello zio, il trombettista Clifford Brown a guidare i primi passi di Rayford. In particolare rimase colpito dal drumming di Art Blakey su molti dei dischi di Brown e questa fu la molla che lo spinse a diventare un batterista. L’ispirazione di un grande del passato, combinata con la sua ferrea volontà, uno studio della tecnica estremamente meticoloso e la sua innata attitudine per la batteria, ha fatto di lui un musicista di grandissimo spessore. Griffin non manca di trarre spunto anche dalle migliori registrazioni del periodo d'oro della Blue Note, dal funambolico jazz-rock di Billy Cobham e da tutta la più raffinata fusion in circolazione. È interessante notare che una delle sue prime band liceali includeva due personaggi che sarebbero più tardi diventati famosi nell’r&b come Babyface Edmonds e Daryl Simmons. Il primo ingaggio di rilievo è stato per la band di Jean-Luc Ponty con la quale Griffin è rimasto per sei anni. A questo è seguita una lunga serie di collaborazioni con artisti importanti come Anita Baker, Michael Jackson, Will Downing, George Duke, Dave Koz e Stanley Clarke. “Rebirth Of The Cool” è il debutto discografico a lungo atteso di Rayford Griffin: l’occasione perfetta per mostrare al mondo la sua bravura come musicista ed il suo talento come batterista. L'album è un’interpretazione decisamente personale e contemporanea della tradizione jazzistica attuata da parte di un ispirato artista. Il cuore della sua musica è radicato in un piccante mix di funk, fusion e jazz: ascoltare "Lids And Squares" e "Kings”, ad esempio, ci mostra dei veri e propri paradigmi del groove, e offre la dimostrazione pratica di come questa formula possa gratificare anche l’ascoltatore più attento. Ma nella registrazione ci sono anche canzoni di grande bellezza melodica e piene di brio molto “radio-friendly”. Ad esempio "Everytime I See U", che assume la forma della ballata strumentale con un piccolo intervento vocale e un magnifico assolo di chitarra del fratello di Rayford, Reggie e "In Your Eyes" che incanta con la sua fluidità dal piglio del vero e genuino smooth jazz. Non mancano come è ovvio i numeri di fusion jazz-rock ("Coffee" e "Folake") che indurranno molti aspiranti batteristi a prendere appunti su come interpretare al meglio questo genere ritmicamente sempre complicato. La title track attinge a piene mani dal migliore acid jazz e vede l’intervento vocale dello stesso Griffin sottolineato da un classico coro r&b. Cantata dal batterista anche la jazzistica e blueseggiante “All That”. Per chiudere il cerchio Griffin non ha dimenticato nemmeno una citazione dello swing come "Jazzi Ray", che ricorda la classica firma sonora delle big band nello stile di Neal Hefti. Per tutto il percorso dell’album si resta affascinanti dal drumming preciso e potente di Rayford Griffin e non si può fare a meno di chiedersi come una tale maestria e tanta raffinata tecnica non abbiano avuto un maggior successo. Gli stacchi funambolici, le rullate vertiginose, gli incredibili contro tempi ed il sapiente uso dei piatti di cui le varie tracce sono stracolme entusiasmano immediatamente. Il cast coinvolto in Rebirth Of The Cool è stellare e comprende musicisti importantissimi, tra cui il sassofonista Branford Marsalis, il trombettista Michael "Patches" Stewart, e il bassista Stanley Clarke, i tastieristi Deron Johnson e George Duke e molti altri. Rebirth Of The Cool è un disco bellissimo e pieno di sostanza, pienamente godibile: è fusion o smooth jazz (la definizione conta poco) nella sua espressione migliore che non deluderà nessuno, in ultima analisi nemmeno coloro che guardano sempre con sospetto le produzioni jazz “borderline” come questa.

Stefon Harris - Evolution


Stefon Harris - Evolution

Stefon Harris (23 marzo 1973) è un vibrafonista  afro-americano. Inizialmente  voleva suonare nella New York Philarmonic  Ochestra per perseguire le sue ambizioni di musicista classico, ma dopo aver ascoltato Charlie Parker si convinse a cambiare direzione ed a immergersi completamente nel jazz. Nel 1999, il Los Angeles Times lo ha definito "uno dei più importanti giovani artisti del jazz", e ha detto ancora di lui che è "in prima linea della nuova musica di New York" e "molto richiesto come session man". Harris ha suonato con diversi grandi artisti, tra cui Kenny Barron, Steve Turre, Kurt Elling, e Charlie Hunter, inoltre ha pubblicato  numerosi album molto ben considerati dalla critica. Nel disco del 2004 “Evolution”, Stefon Harris & Blackout hanno creato una potente miscela di jazz e fusion spruzzata di vaghi richiami hip hop. Harris si sdoppia suonando sia il vibrafono che la marimba, aiutato dalla band composta dal tastierista Marc Cary,  dal sassofonista Casey Benjamin e dal bassista Darryl Hall, oltre che dalle percussioni di Terreon Gully.  L'energia del quintetto è immediatamente avvertibile. L’album si apre in modo sorprendente con il brano post-bop "Nothing Personal" del compianto tastierista Don Grolnick, una cover che stravolge il concetto stesso di reinterpretazione musicale giungendo a qualcosa di completamente nuovo.  Daryl Hall ha scritto l'esotico "For Him, for Her" che vede Stefon Harris esibirsi alla marimba mentre il flauto è quello di Anne Drummond. Inusuale ma molto lirica l’interpretazione della ballata "Until" scritta da Sting, che Harris esegue con l’aggiunta di Xavier Davis al pianoforte. Harris conferma la sua attitudine a trasformare le melodie ed a giocare con tutte le possibilità armoniche quando si confronta con lo standard  "Summertime" di George Gershwin. Il ritmo è stralunato,  quasi hip hop ma il brano mantiene la sua magia grazie al caldo assolo di Benjamin e alle fantasiose divagazioni vibrafonistiche di Harris. "Blackout" è ritmicamente complessa, una sorta di moderno hard bop pieno di cambiamenti repentini di tempo ed atmosfera, dove appare semplicemente favoloso l’assolo di marimba proposto da Harris. Notevole anche "King Tut’s Strut" che richiama atmosfere afro: qui meritano attenzione sia l’intervento di piano elettrico di Marc Cary che il tagliente sax di Casey Benjamin, ma il vibrafono del leader non manca di deliziare l’ascoltatore. Riflessiva e delicata “Message To Mankind”, non delude per originalità e qualità degli assoli. Montara vira su un tono più fusion, ma il sound vintage degli strumenti fa pensare alle cose migliori di Roy Ayers o Mike Mainieri. “The Lost Ones” va a pescare nella migliore lounge music corroborando il tutto con un fusion feeling di gran livello. L’eclettismo del vibrafonista è evidente anche in un brano come “A Touch Of Grace” una lenta, circolare ballata che gira attorno alla melodia più e più volte e dove ancora sorprende l’approccio di Stefon in veste di solista. Il suo vibrafono a momenti vola imprevedibile, in altri diventa riflessivo ed etereo. Il talento di questo “nuovo” paladino del vibrafono è assolutamente cristallino. Harris incanta come strumentista e mostra grandi potenzialità anche come compositore ed arrangiatore. Evolution è un album davvero convincente: sa essere serio e complesso senza mai risultare noioso o prolisso. La band ed il leader eseguono egregiamente tanto gli originali quanto le coraggiose cover di brani jazz storici. Stefon Harris ha dichiarato: “Gli studi mi hanno dato l’opportunità di esplorare le diversità dei mondi della musica classica e di quella jazz ed alla fine di trovare la direzione artistica che realmente volevo prendere”. Il jazz ringrazia:  questo classe 1973 non solo ha rinvigorito la tradizione del vibrafono, ma ha iniettato nel panorama musicale contemporaneo una bella dose di personalità, talento ed innovazione.

Seawind - Seawind


Seawind - Seawind

Provate ad immaginare un soggetto musicale di questo genere:  una band hawaiana in grado di sviluppare e proporre da un lato un funk jazz grintoso,  alla maniera dei Tower of Power, dall’altro una bella fusion strumentale arricchita da degli arrangiamenti sofisticati ed accattivanti. I Seawind si adattano perfettamente a questa descrizione, e per questo si sono guadagnati un piccolo ma fedele stuolo di fan. Originariamente chiamato 'Ox', il gruppo di musicisti isolani divenne noto come 'Seawind' nel 1976 quando si trasferì dalle Hawaii a Los Angeles. Il passaggio in terra californiana fu opera, in gran parte, del grande batterista Harvey Mason. Il quale procurò loro anche un ingaggio fisso per suonare al “Baked Potato”, a Studio City,  appena a nord di Hollywood. Harvey Mason si adoperò anche affinchè firmassero un contratto discografico con la CTI, cosa che portò la band a registrare prontamente due album in due anni (nel '76 e '77). Una lunghissima serie di  tour in giro per gli States ritardarono invece l’uscita dei successivi due album fino al 1979 e 1980. Lo scioglimento della band avvenne nel 1982. Nel 2009 con l’uscita dell’album “Reunion” fu sancita la rinascita della band.  I Seawind purtroppo non diventarono mai famosi come era lecito attendersi viste le loro indubbie doti artistiche, ma gli accaniti seguaci che potevano vantare non smisero mai di interessarsene. Anche se il jazz qui è solamente un profumo, una remota fonte d’ispirazione, questo gruppo ha creato comunque una sintesi davvero felice tra funk, pop, fusion e West Coast Music, e di sicuro meritano una riscoperta.  Prodotto dal batterista Harvey Mason nel 1976, Seawind è un superbo esordio discografico, vario, completo ed eclettico come raramente capita nei debutti.  Una parte notevole del suono della band è dettato dal set di fiati  denominato "Seawind Horns" (composto dal trombettista Jerry Hey, dal sassofonista e flautista Kim Hutchcroft, e dall’altro sassofonista, flautista e tastierista Larry Williams), che in seguito si è guadagnato una grandissima reputazione sia in ambito fusion che nel pop. Negli anni hanno fornito arrangiamenti ed accompagnamento per artisti  come gli Earth , Wind & Fire, George Benson, Michael Jackson (Thriller, Off the Wall e Bad), Quincy Jones e Mika. Magnifico è stato poi il lavoro svolto per conto del grande arrangiatore Jay Graydon negli anni ’80, con la creazione di un sound inconfondibile, immediatamente riconoscibile (vedi album di Al Jarreau: This Time, Breakin’ Away, Jarreau). I Seawind avevano (ed hanno ancora) nel loro organico la cantante Pauline Wilson  che si dimostra eccellente nei brani funky come "Make Up Your Mind", "We Got A Way," e "You Gotta Be Willin' To Lose (Part II)". Ma lei è altrettanto espressiva sui numeri più jazz-oriented come "The Devil Is A Liar" e "He Loves You.  L’album è completato da alcuni brani strumentali di jazz fusion molto belli come "Roadways (Parts I & II)" e "Praise (Part I)". L’edizione Giapponese di Seawind contempla anche due bonus track: “Can't Wait” che è un medio tempo funkeggiante e il lento e romantico “Please Say Yes”. La particolare combinazione musicale dei Seawind li portò ad un discreto successo sulle radio FM americane senza tuttavia riuscire a sfondare su quelle di matrice più black. Inoltre non incontrarono mai, come è facile intuire, i favori della comunità jazz più purista. Era un sound forse un po’ troppo commerciale anche se, in questo caso, il termine commerciale non va inteso in senso dispregiativo. Riascoltato al giorno d’oggi, se ne può forse apprezzare pienamente il valore e la grande godibilità. Nel 1976 i Seawind erano perfettamente consapevoli di quello che stavano facendo, la loro ricetta era solare e positiva, la loro visione della musica virava più sui colori tropicali e sul divertimento che verso le atmosfere più seriose imperanti attorno alla metà degli anni ‘70. In fondo sono collocabili a buon diritto in quella corrente che era più vicina alla fusion nel contesto della grande famiglia della West Coast Music. Vale la pena di possedere tutti gli album dei Seawind, o quanto meno di dedicarvi almeno un ascolto. Questo debutto però è senza dubbio la loro registrazione più importante ed è a mio parere imperdibile.

Stefano Torossi - Feelings

Stefano Torossi - Feelings

Chi è Stefano Torossi ? Vediamo di fare luce su questo musicista italiano davvero oscuro ma dotato di un grande talento compositivo. Classe 1938, ha effettuato studi classici di contrabbasso al conservatorio di Roma. Dal 1957 al 1959, grazie ad una borsa di studio, si è trasferito negli Stati Uniti, dove ha  studiato presso il Williams College di Williamstown, in Massachusetts e la Brandeis University a Boston. Tornato in Italia, si è iscritto alla SIAE, è entrato nel gruppo The Flippers e con loro ha suonato il contrabbasso dal 1959 al 1961. Dopo aver abbandonato il complesso, ha iniziato l'attività di compositore per la RAI e per il cinema, scrivendo numerosi commenti sonori e musicali per rubriche, filmati e documentari di ogni genere. Ha scritto anche canzoni per altri artisti e come musicista ha realizzato molti dischi di musica strumentale: tra questi il più memorabile,  quello che è diventato un vero cult è l'album Feelings. Nella ristampa dell’etichetta Easy Tempo è stato distribuito con una copertina psichedelica piena di colori che ben ne rappresenta il contenuto musicale, che è un originale connubio tra la musica psichedelica  degli anni '60, il funky in stile Motown e il sound delle colonne sonore dei film polizieschi. Feelings è un capolavoro della scena italiana degli anni '70: il maestro Torossi concepì nel 1974 questa straordinaria proposta funky jazz corredata da un grandioso mix di archi, fiati e sostenuta dalla più classica e tradizionale delle strumentazioni elettriche (piano elettrico, basso e batteria).  Il risultato è una registrazione  così ricca di groove che può rivaleggiare tranquillamente con i migliori lavori made in USA. Un sound intriso di vibrazioni blaxploitation, una library music sexy ed avvolgente dove la vera protagonista è l’orchestra, che davvero riesce a colpire le corde giuste per ammaliare ed ipnotizzare l’ascoltatore.  Ciò non toglie che anche gli strumenti solisti possano avere il loro spazio e ritagliarsi momenti di esaltante protagonismo.  Come ha detto di recente lo stesso Torossi,  l'album "è stato interpretato solo da musicisti di studio ... i migliori che abbiamo trovato in quel momento, ed i risultati si sentono". L'album vede la partecipazione di Sandro Brugnolini, Giancarlo Gazzani, Puccio Roelens e Stefano Torossi stesso. Se arrivati a questo punto vi state giustamente chiedendo cos’è la library music di cui prima ho parlato, provo a rispondervi per sommi capi e senza addentrarmi nei complicatissimi distinguo che pure andrebbero fatti. Prendete le musiche «di servizio» che trovate in documentari, notiziari, sceneggiati radio, film TV, e via di questo passo. Ecco, quella è library music ovvero, per dirla all’italiana, musica per sonorizzazioni. La differenza con le «colonne sonore» vere e proprie è sottile, addirittura risibile in taluni casi. Esponenti della library music furono Ennio Morricone e Piero Umiliani, giusto per fare due nomi… Una curiosità su questo album è che fu pubblicato inizialmente sotto gli pseudonimi di Jay Richford e Gary Stevan, una scelta necessaria dettata da vincoli contrattuali che impedivano ai due veri protagonisti ed autori, Brugnolini e Torossi, di comparire in altre produzioni discografiche. Il susseguirsi delle dieci tracce è un piacere ed una scoperta continua. La musica scorre meravigliosamente fluida, ora frenetica e nervosa, ora malinconica e dolce. Impossibile non ripensare agli anni ’70, alle commedie sexy, ai polizieschi all’italiana, alle immagini in bianco e nero della televisione, allo stadio di San Siro avvolto nella nebbia o ad una Roma senza traffico e ancora bellissima. E mille altre ricordi che ognuno di noi vedrà emergere dalla propria memoria trascinati allo scoperto dal potere di suggestione di questa gemma musicale. Definitela come volete: jazz funk, lounge o library music:questo è un disco particolare, diverso, unico: è un ascolto che consiglio a tutti.

Bob Mamet - Adventures In Jazz


Bob Mamet - Adventures In Jazz

Nativo di Chicago, Bob Mamet ha iniziato a suonare il pianoforte all'età di cinque anni, ma era ben lungi dall'essere l'unico membro della sua famiglia dotato di talento creativo. Suo fratello, David Mamet, è un drammaturgo e sceneggiatore ben noto; un altro fratello, Tony, è un musicista rock; e la sorella, Lynn, è una sceneggiatrice anche lei. Dopo gli studi universitari ha suonato professionalmente con una band fusion, i Panacea, poi ha deciso di concentrarsi sulla carriera di compositore, scrivendo le musiche per spettacoli televisivi e spot pubblicitari. Ha anche composto colonne sonore per numerosi film. Infine nei primi anni '90, Mamet ha spostato la sua attenzione sullo smooth jazz, sia come solista che come session man per i sassofonisti Gerald Albright e Eric Marienthal. Nel 1997 arriva la collaborazione con il famoso e già affermato collega pianista David Benoit che affianca Mamet nella produzione di questo Adventures In Jazz. Caratterizzato da melodie accattivanti e da arrangiamenti molto diretti e semplici, i contenuti di questo album devono aver ricordato a Benoit i primi tempi della sua stessa carriera, e la cosa non sorprende visto che lo stile dell’emergente allievo Bob Mamet ricorda moltissimo quello del suo mentore. Al centro della scena oltre al pianoforte c’è il sax di Eric Marienthal con il suo tono confidenziale e dolce come si ascolta sulla title track o  sulla bella “Conversation At 29 st.” La partecipazione di David Benoit non si limita alla produzione ma si palesa anche negli interventi ai synth, che non fanno altro che sottolineare le malinconiche riflessioni pianistiche di Mamet. Certo si può disquisire sulle somiglianze stilistiche trai due, ma per fortuna,  nel seguire le orme di uno dei migliori come Benoit, Mamet dimostra di essere un magistrale pianista e un abile compositore. E lo è sia nel jazz che nelle divagazioni più pop.  Il titolo dell’album “Adventures In jazz” sembra tuttavia abbastanza ingannevole, dato che le prime otto tracce sono facilmente collocabili in un contesto tipicamente circoscritto allo smooth jazz. Quindi si parla di pezzi fluidi, morbidi, sofisticati ma orecchiabili e molto adatti alle radio fm. Tutto cambia quando si arriva alla coppia di brani consecutivi "Six Stories 1-3" e "Six Stories 4-6", in cui Mamet vira decisamente su un jazz contemporaneo di ben altra fattura, utilizzando il bassista Derrick Murdock e il batterista Johnny Friday per dare respiro ad un colorato trio acustico. Una dimostrazione di talento che lascia intravedere grandi potenzialità.  Non manca un pezzo per piano solo come "Nightsong" che sconfina nelle eteree e delicate atmosfere della new age. Attingendo stilisticamente sia al pianismo jazz classico che a quello contemporaneo e creando melodie piuttosto facili ed orecchiabili, Bob Mamet ha attirato una platea decisamente vasta di ascoltatori, principalmente appassionati di smooth jazz. E’ di sicuro un compositore brillante che dà ai suoi collaboratori un terreno musicale intelligente, riflessivo, e vibrante in cui lavorare. Certo, non si può negare che Mamet prenda spunto da altri pianisti più rinomati di lui,  ma lo fa in un modo così piacevole e raffinato che questo Adventures In Jazz alla fine risulta una delle realtà discografiche più gradevoli della fine degli anni novanta.

Gerry Mulligan - The Complete Pacific Jazz Recordings With Chet Baker


Gerry Mulligan - The Complete Pacific Jazz Recordings With Chet Baker

Gerry Mulligan è stato uno dei grandi maestri del jazz e senza dubbio il più famoso tra gli specialisti dell’affascinante sax baritono. Un gigante quindi, un personaggio storico e musicalmente molto influente. Mulligan fu un vero rivoluzionario, riuscì a dare una luce nuova al baritono, utilizzato fino ad allora solo come "colore" nella sezione dei sassofoni, facendolo assurgere a vero e proprio strumento solista. Ogni musicista che collaborò con questo genio ha qualcosa di speciale da raccontare su di lui e la cosa ancor più interessante è che sembra che Gerry Mulligan detenga il primato di collaborazioni con i più svariati artisti. Ha suonato infatti, come solista o sideman con quasi tutti i grandi del suo tempo: Paul Desmond, Duke Ellington, Chet Baker, Ben Webster, Johnny Hodges, Billie Holiday, Stan Getz, Thelonious Monk, Quincy Jones, Miles Davis, Astor Piazzolla, Count Basie, Dave Brubeck e perfino Charles Mingus. Sposato con un italiana, conosciuta al “Capolinea” di Milano, visse a lungo nel capoluogo lombardo dove negli anni cinquanta appariva spesso all'improvviso nei jazz club e cominciava ad improvvisare con i musicisti che incontrava, così per il semplice gusto di partecipare ad una jam session. La componente umana era per Mulligan dunque estremamente importante. Trattava i suoi collaboratori, quando si dimostravano all'altezza, quasi come membri della famiglia e li spronava a fare sempre meglio. Era davvero quello che si può considerare un maestro. Mulligan era alla costante ricerca del proprio miglioramento, per questo aveva bisogno di fondersi, umanamente e musicalmente, con i maggiori esponenti del jazz e non solo. Perciò aveva rapporti di amicizia con moltissimi di loro e non disdegnava di suonare con musicisti non troppo affermati del panorama internazionale. Mulligan fu un protagonista assoluto della corrente cool fin dai primi tempi. È importantissima la sua partecipazione  come compositore, arrangiatore e strumentista (6 brani su 9 sono sue composizioni) al celebre nonetto di Miles Davis, ai cui concerti, documentati dal famoso disco "Birth of the Cool" del 1949, si fa generalmente risalire la nascita del movimento. Questa impronta stilistica rimarrà poi sempre presente nelle improvvisazioni e nelle composizioni di Mulligan, che non se ne allontanò mai troppo, malgrado l'avvicendarsi di nuove tendenze nel panorama jazzistico. Il quartetto privo di pianoforte di Gerry Mulligan del 1952 / 1953 con l’amico trombettista Chet Baker è stato uno dei gruppi più popolari del periodo e una delle forze più influenti del West Coast Jazz. Gerry perfezionò l’interazione con Chet Baker guardando indietro verso l'improvvisazione collettiva del Dixieland ma reinterpretandola con armonie ed arrangiamenti moderni e rivoluzionari. il pianoforte fino al quel momento veniva usato nelle band per tenere l'armonia di fondo. Batteria, contrabbasso e piano costituivano quindi la spina dorsale di un gruppo jazz, ma Mulligan e Baker decisero di fare a meno del pianoforte in un gioco sottilissimo di armonie, di frasi che si scavalcano in continuazione e momenti di incontro unici, tanto da non far sentire affatto la mancanza di uno strumento d'armonia. La formazione durò però poco tempo interrotta dalle continue liti fra i due e soprattutto dall'arresto per uso di sostanze stupefacenti di Gerry Mulligan, che se la cavò con tre mesi di reclusione ritrovando all'uscita, con grande sorpresa, l'amico Baker divenuto famoso per le proprie doti canore. Questo è un box di quattro album che raccolgono proprio le registrazioni dello storico quartetto di Mulligan nel suo periodo iniziale, quando il genio di New York stava gradualmente formando il suo gruppo senza pianoforte (per la verità utilizzando in due tracce anche un pianista: Jimmie Rowles). Al suo interno troviamo anche alcune sessioni dal vivo in cui il sax alto di Lee Konitz faceva diventare la band un quintetto ed anche il brano di grande successo "My Funny Valentine". Da notare che nonostante entrambi i musicisti siano rimasti attivi per oltre 30 anni,  Mulligan e Baker dopo queste storiche incisioni, si riunirono solo un’altra volta in occasione di un concerto alla Carnegie Hall, nel 1970, pubblicato  dalla CTI.  La musica che si ascolta in queste registrazioni di oltre sessant’anni fa è sempre deliziosa, affascinante, misurata e raffinatissima. Per tutte le quattro ore e quarantuno minuti di durata dell’intera raccolta si respira un’atmosfera di grandissima classe ed per questo che nel termine “cool”, che caratterizza lo stile di Mulligan, va letto il vero significato di “giusto e rilassato” e non quello più comunemente diffuso di “freddo”.  Quello che deve essere rimarcato è che Mulligan pensava soprattutto a suonare, suonare e ancora suonare, o per essere più precisi, ad esprimersi musicalmente, trasformando le sue note in frasi artistiche di grande impatto emotivo. Sono ben ottandue (82 !) i brani presenti nel set, tra i quali anche moltissimi standards:  uno spaccato estremamente  esaustivo su uno dei sodalizi più significativi che il jazz abbia conosciuto, quello tra il genio di Gerry Mulligan e la sensibilità artistica di un altro grande come Chet Baker. Imperdibile.

George Braith - Extension


George Braith - Extension

George Braith è un sassofonista nativo di New York, noto per la sua capacità di suonare due strumenti contemporaneamente, in modo analogo a quello sperimentato per primo dal maestro Roland Kirk. Ha anche inventato il Braithophone:  una singolare combinazione di sax alto e sax soprano uniti insieme da connessioni, valvole ed estensioni. Braith è attivo fin dai primi anni ’60 e come musicista è saldamente ancorato ad uno stile hard bop con profonde radici nel soul-jazz.  Extension del 1965, è il suo terzo album ed è stato registrato con il supporto di Billy Gardner all’organo, Grant Green alla chitarra e Clarence Johnston alla batteria, ovvero il classico combo che caratterizza il soul jazz groove. E’ in questo lavoro che George Braith estende al massimo l’idea di suonare più ance contemporaneamente, facendo di Extension la sua opera più significativa ed importante e dell’originalità della sua tecnica strumentale un vero e proprio marchio di fabbrica. Braith si spinge nell’esplorazione delle zone più estreme della sua musica e pur restando fedele ai canoni del soul jazz si avventura felicemente in un ambito più complesso ed articolato con risultati senza dubbio gratificanti. Le sue composizioni risultano pienamente compiute attraverso una sapiente esposizione melodica, stratificata e complessa quanto basta per offrire a se stesso e a due pilastri come Grant Green e Billy Gardner il più favorevole dei background di opportunità solistiche. Quando Braith si propone con la tecnica del doppio sax, come ad esempio nella title track “Extension”,  ci troviamo di fronte ad un sound impressionante, quasi ultra terreno, che ben si adatta a questo tipo di avventurosa ricerca musicale. Lo standard "Ev'ry Time We Say Goodbye" di Cole Porter suona forse un pochino più goffo attraverso la voce sdoppiata delle due ance insieme e tuttavia anche questo numero è valorizzato da degli ottimi assoli. Ma va detto, ad onor del vero, che il quartetto da il meglio di se nelle composizioni originali, mettendo in mostra nei cinque brani composti dal polistrumentista di New York un invidiabile interplay nonché una perfetta coesione di gruppo. “Nut City” è un esempio perfetto: ritmo veloce, l’azione dell’organo che recita la doppia parte del basso e dell’armonia e ovviamente il sax del leader che si prende con autorità il suo assolo, senza tralasciare di proporre nell’intro e nel finale la strabiliante tecnica del doppio sax. “Ethilyn’s Love” ci riporta nella classica e calda atmosfera delle ballads, mentre Braith usa il suo tenore sulla vena di Ben Webster e Coleman Hawkins.  Approccio nervoso e muscolare per “Out There” che scatta, si ferma e riparte  complessa e frenetica come richiesto dallo stile hard bop . Certo è inevitabile fare accostamenti con Rahsaan Roland Kirk, però un confronto diretto non è nemmeno onesto, in quanto il maestro Kirk davvero non ha paragoni. Alla circolarità ed alla tecnica di respirazione che arrivarono a vette mai più eguagliate, Braith risponde con il suono dei suoi due sax strettamente allineato, unisono eppure stranamente dissonante. In alcuni momenti l’album diventa più rilassato e rassicurante, ma il senso di mistero insito in una tecnica così particolare è sempre presente. Extension è il punto più alto della carriera di George Braith, senza dubbio il suo personale capolavoro. Ritengo che per gli appassionati sia un aggiunta necessaria in una collezione di jazz che ambisca ad essere un minimo completa. Per tutti gli altri ascoltatori può invece rappresentare una stimolante curiosità, in grado di suggerire spunti e suggestioni molto interessanti.

Azymuth - Azymuth


Azymuth - Azymuth

E' certo che in Brasile, prima del 1975, ci siano state altre band e altri album di jazz-funk che offrivano più o meno gli stessi contenuti degli Azymuth, nessuno di questi era però altrettanto vario e composito quanto il loro storico debutto discografico. Uno strano e particolare mix di psichedelia tropicale, funk,  jazz, musica popolare brasiliana,  samba, e disco che i membri della band soprannominarono "samba doido ", che si traduce come "samba pazza". Gli Azymuth si erano formati come trio nel 1973 con José Roberto Bertrami (tastiere), Alex Malheiros (basso, chitarra), e Ivan Conti (batteria, percussioni): la stessa formazione che li contraddistinguerà per tutta la loro lunghissima carriera (tuttora in corso). Tutti e tre erano stati session man molto attivi negli anni ‘60. Dopo aver suonato in alcune esibizioni live ed aver svolto un’intensa attività di supporto di altri musicisti sia sul palco che in studio, gli Azymuth hanno iniziato la registrazione del loro primo album omonimo nel 1974, completandolo nove mesi più tardi, sarà solo il primo di una lunghissima serie. Il lavoro, vista la premessa, appare fresco, spontaneo e ricco di suggestioni e si articola su dieci tracce piuttosto eterogenee.  La registrazione comincia morbida e delicata sul sognante "Linha do Horizonte", dove il piano elettrico, gli archi synth più il sintetizzatore Moog, la chitarra acustica, la batteria, e il basso  fretless forniscono il giusto contesto a Bertrami per intonare languidamente la bella melodia di Paulo Sergio. Esordio felice dunque, ma questa è solo una piccola parte di ciò che gli Azymuth propongono in questo album. "Melo Dos Dois Bicudos",  che è stato usato da decine di dj per animare le piste da ballo,  è contemporaneamente nervosa e marziale,  è funky samba brasiliano al suo meglio. Ritorno all’atmosfera eterea sul dolce "Brasil", però il groove c’è ed è influenzato non solo dalla jazz bossa brasiliana dei sessanta, ma anche da certo soul-jazz stile Crusaders. "Seems Like This " è invece un ipnotico jazz-funk con le tastiere insinuanti di José Roberto Bertrami, una linea di basso molto incisiva di Alex  Malheiros, e l’esplosivo mix di percussioni di Ivan Conti: come mischiare in parti uguali la disco-soul e il samba psichedelico. "Estrada Dos Deuses" viene introdotta da un synth che suggerisce i suoni che verranno negli anni successivi, per poi lasciare spazio al Rhodes come sempre molto intrigante. Le due tracce finali  sono diventate dei classici che i dj di tutto il mondo non hanno mancato di utilizzare a piene mani per il loro campionamenti. "Manha"  è molto brasilianeggiante ma anche sufficientemente jazz nelle parti di piano elettrico da renderla un brano davvero contagioso. "Periscopio" è invece sette minuti e mezzo di puro funky groove. Il ritmo accellera e rallenta, tutto si arrotola attorno all'ascoltatore come un serpente che non lascia la presa fino a quando un organo irrompe acidissimo. Un riff di clavinet, le percussioni etniche e la batteria funky riconsegnano in ultimo lo stesso organo e la classica linea di basso al finale. Nel corso degli anni gli Azimuth produrranno molti altri bellissimi album, sempre fedeli alla loro formula, sempre coerenti con la filosofia del “samba pazzo”, diventando sempre più raffinati senza mai dimenticare le loro origini. Dagli anni ’80 otterranno anche un discreto successo internazionale culminato con il brano “Jazz Carnival” che fu per anni la sigla del programma televisivo di Rai 2 Mixer . In ogni caso questo loro debutto del 1975, nella sua scarna essenzialità, pur con le ingenuità che le opere prime si portano sempre dietro, si pone come una pietra miliare ed un punto fermo nella storia della band ed è quindi un ascolto caldamente consigliato.

Yuji Toriyama – Silver Shoes


Yuji Toriyama – Silver Shoes

È risaputo che i Giapponesi nutrono una grande passione per la musica. E sono molti gli artisti di livello internazionale che la terra del Sol Levante ha dato al jazz e soprattutto alla fusion. La loro notorietà è tuttavia piuttosto limitata e spesso la critica (ma anche il pubblico) hanno guardato con troppa sufficienza al fenomeno del jazz nipponico probabilmente a causa di una diffusa mancanza di vera originalità.  Un atteggiamento sbagliato che è condivisibile solo in parte: è vero che molta produzione manca di una sua peculiarità ma dal Giappone è arrivata anche della buona musica, bisogna solo saperla cercare. Casiopea, Sadao Watanabe, Kazumi Watanabe, Stomu Yamash’ta  sono solo alcuni tra i più rinomati artisti giapponesi (Ryuichi Sakamoto non l’ho inserito perché considero il suo genio “fuori quota”). In ogni caso, andando a scavare con più attenzione si possono scoprire altri nomi molto interessanti, tra questi ad esempio c’è il chitarrista e compositore Yuji Toriyama. Nato nel 1958, ha iniziato la carriera auto-producendosi il primo album nel 1981 e dopo questo debutto ne sono seguiti molti altri, tutti collocabili nel genere fusion.  Parallelamente Yuji Toriyama si è dedicato alla composizione di colonne sonore per video games e film animati. (Final Fantasy XII, Street Fighter II). Come chitarrista è dotato di una buonissima tecnica e di un suono che possiede una sua personalità, anche se, come vedremo, l’influenza dei grandi esponenti del movimento chitarristico internazionale ne hanno marcato fortemente la produzione. La sua è una fusion solare, molto orecchiabile ed il feeling che emana è riconducibile al sound del famoso gruppo di suoi connazionali Casiopea.  Silver Shoes è il suo secondo album: pubblicato nel 1982, è totalmente strumentale, registrato con il supporto di una band che di nipponico non ha proprio nulla. Si tratta di Neil Larsen (tastiere), Buzz Feiten (chitarra), Art Rodriguez (batteria), Jimmy Haslip (basso) e Lenny Castro (percussioni). La produzione è affidata allo stesso Yuji Toriyama e a Neil Larsen, la cui mano è chiaramente avvertibile e fa sì che a tratti il sound assomigli a quello della sua propria band di fusion: gli americani Full Moon.  Il disco è quasi tutto incentrato sulla chitarra del leader che con grande impegno e passione si prende carico del suo ruolo di solista sciorinando assoli  in lungo e in largo e sostenendo al contempo anche le principali  linee melodiche. Il sound viene di tanto in tanto diversificato dagli interventi puntuali delle tipiche e molto riconoscibili tastiere di Neil Larsen ma non solo, visto che anche il formidabile Buzz Feiten duella con il collega nipponico per arricchire ulteriormente la proposta musicale. Dal punto di vista ritmico l’album è estremamente vivace, praticamente tutto giocato su tempi veloci che danno una grande sensazione di dinamismo ed energia. Un effetto che trovo davvero piacevole e che a mio parere rende l’atmosfera generale simpatica e brillante. Siamo nel 1982, un’epoca di ottimismo e benessere: la fusion di quel periodo sembrava abbeverarsi di questa positività e Yuji Toriyama non si sottrae certo alla tendenza. Certo Silver Shoes è forse anche troppo “leggero” ed autenticamente ingenuo, tuttavia non è nemmeno  così privo di spessore e di un minimo di sostanza.  Ovviamente, tra echi di un Lee Ritenour, l’ombra di un Larry Carlton, il fantasma di un Hiram Bullock, più qualche altra mezza dozzina di “già sentito” chitarristici, l’album non brilla per originalità, tuttavia l’ascolto resta scorrevole per tutta la sua durata e non mancano momenti di pregio. In un alternarsi di ritmi latineggianti,  spunti a tratti jazzistici e fusion a palate,  “Area Code 213”, “S.O.B.A.”, “Miles Away” e “Secret #36” sono i brani più interessanti. In generale il supporto della band americana è di primo livello in ognuna delle otto tracce presenti su Silver Shoes e spesso si ha quasi l’impressione di ascoltare un disco del premiato duo Larsen e Feiten, il che è chiaramente un punto di forza di questa produzione.  Silver Shoes è un album indirizzato in particolare agli amanti della chitarra elettrica e naturalmente ai cultori della fusion più classica. Qui non si possono trovare impennate di creatività o sperimentalismi d’avanguardia;  solo una quarantina di minuti di sincera e sofisticata musica di intrattenimento, molto diretta, piuttosto orecchiabile e quasi sempre contagiosa. Per i capolavori rivolgersi altrove ma per dare una sferzata al vostro viaggio in automobile o per liberare la mente da stress e impegni, ascoltate tranquillamente  Yuji Toriyama,  sarà un’esperienza piacevole.