Gavin Harrison - Cheating the Polygraph


Gavin Harrison - Cheating the Polygraph

Con Gavin Harrison siamo al cospetto di uno dei più formidabili batteristi dei nostri giorni. Se la sua militanza nel miglior gruppo neo progressive degli ultimi 30 anni, i Porcupine Tree, è già di per se un biglietto da visita più che sufficiente, in termini di credenziali assolute, quella arrivata subito dopo con mitici King Crimson è una consacrazione ancora più importante. Harrison si è unito a loro nel 2014 come parte di un incredibile terzetto di batteristi. Se un musicista è degno di prendere in mano le bacchette per delle leggende come i King Crimson, significa che il talento è totale. Sebbene lui sia altrettanto tecnicamente virtuoso e spettacolare è certamente meno invadente di un Mike Portnoy, ma in più ha dalla sua una versatilità di gran lunga superiore. Detto questo, il suo secondo album da solista “Cheating the Polygraph” è un lavoro davvero molto interessante. E’ possibile utilizzare come base la musica rock progressiva per creare un lavoro di jazz ? La risposta è sì, e qualche esperimento è stato fatto (ad esempio con i Genesis e con i King Crimson) in verità con buoni risultati. Per questo progetto di otto tracce, Gavin Harrison è partito proprio da questo complicato presupposto: rielaborare, per non dire stravolgere, i brani classici dei Porcupine Tree e riarrangiarli per una lettura in chiave jazzistica, nel formato inusuale  di una big band. Un’impresa impossibile? No, perché con grande intelligenza musicale, Harrison ha capito che non era il caso di rimaneggiare nota per nota i brani dei Porcupine Tree. Ecco dunque che il nostro Gavin sconvolge nella sostanza ogni pezzo, al punto che praticamente risulta difficile riconoscere gli originali. Tuttavia allo stesso tempo Harrison riesce a mantienere le parti migliori dei brani del grande Steve Wilson, in modo tale che siano comunque identificabili, sebbene completamente rivisitati. "The Sound of Muzak" e "So Called Friend" sono mescolati a formare un unico pezzo, dove la ritmica fondamentale di ciascuno di essi  viene mantenuta mentre sono i fiati portare la musica verso nuove, entusiasmanti direzioni. Sorprendentemente, in queste versioni declinate in scala big band alcune parti si trasformano in qualcosa addirittura migliore degli originali stessi. Ad esempio la linea vocale di "The Start of Something Beautiful" funziona brillantemente quando viene eseguita dagli ottoni, suonando come se la partitura fosse stata scritta direttamente per degli strumenti e non come una imitazione della voce. La saggia selezione di brani operata da Harrison sicuramente aiuta questo esperimento di elaborazione del progressive rock in jazz per big band. Ne esce un’architettura sonora molto evocativa, estremamente profonda e molto originale. Il parallelo sonoro tra Cheating the Polygraph e la musica di Frank Zappa è più che mai calzante e pertinente. Fatta questa valutazione è evidente che ci troviamo al cospetto di qualcosa di eccellente. I sassofoni di "Halo", ad esempio, rievocano il dinamismo ritmico e gli stravaganti riff che Zappa era così bravo a creare. Ascoltando questo incredibile album, appare ovvio che Gavin Harrison avrebbe potuto tranquillamente far parte della band del genio di Baltimora. Grazie al sapiente lavoro di arrangiamento ed alla tecnica  sopraffina di Harrison il passaggio dal rock progressivo a questa sorta di jazz molto particolare funziona a meraviglia. C’è un brano in Cheating the Polygraph, intitolato "Heartattack in a Layby" (originalmente su In Absentia dei Porcupine Tree) dove in mezzo alle seducenti esplosioni ritmiche risalta un’atmosfera dark, quasi da jazz club: l’effetto è degno di nota. Ma è soprattutto in brani pirotecnici come The Pills I’m Taking (Anesthetize), Cheating The Polygraph / Mother & Child Divided e Futile che si può scoprire la bravura di Gavin come batterista e non di meno il suo eccellente lavoro di arrangiatore.  Qui, come in tutto il disco non c’è traccia di progressive rock, questo è jazz orchestrale pieno di potenza ed energia: un sound da big band in piena regola scolpito a colpi di batteria e  fiati. Ripensando all’idea di fondo che ha portato alla realizzazione di questo album, ci sono molti fattori che avrebbero potuto inficiarne il risultato finale. Ma così non è stato: Harrison ha evitato il copia e incolla evitando la vera grande insidia di un progetto così ambizioso. Inoltre non si è fatto prendere da un eccesso di presenza, evitando il protagonismo a tutti i costi. Di più, il batterista inglese ha dato libero sfogo alla sua inventiva su queste canzoni, non per una vuota operazione nostalgia verso i Porcupine Tree, bensì perché ha visto in questi pezzi una opportunità creativa di reinventarsi. In un colpo solo ha definitivamente sancito la sua straordinaria abilità come batterista di livello mondiale ed ha al contempo mostrato a tutti una padronanza totale degli arrangiamenti ma soprattutto del linguaggio del jazz. Interssantissimo.