Maysa – Live At The Birchmere


Maysa – Live At The Birchmere

Nutro un’ammirazione incondizionata per Maysa Leak. A mio parere è la miglior cantante apparsa sulla scena dagli anni ’80 ad oggi. Con uno stile che è al contempo profondo e sofisticato, la bravissima Maysa (come è più semplicemente nota al grande pubblico) ha alle spalle una carriera solista che è diventata sempre più smagliante nel corso del tempo, anche grazie alla parallela collaborazione trentennale con la band soul jazz Incognito.  Tuttavia mi sento di dover sottolineare un fatto: se c’è una cantante che meriterebbe un riconoscimento più ampio, è proprio lei, la corpulenta vocalist di Baltimora. Maysa registra album da solista da moltissimi anni, eppure ci sono tante persone che non hanno mai sentito parlare di lei. Come è possibile una tale mancanza di fronte ad un talento di questo portata? Sono i misteri del mondo discografico. Nata e cresciuta a Baltimora, il viaggio artistico di Maysa, dopo il diploma al college, la portò a cantare per un anno come corista per Stevie Wonder ed in seguito a diventare la cantante principale del gruppo "Incognito". Maysa registrò il suo primo album nel 1995, ed a questo fecero seguito molti altri lavori, l’ultimo dei quali è Love Is A Battlefield del 2017, una raccolta di alcune delle canzoni preferite di Maysa, rielaborate con il suo esclusivo tocco soul. La sua discografia così come la sua militanza negli Incognito fa di lei quella che secondo il mio modesto parere è una delle più grandi cantanti soul-jazz della sua generazione: un’artista da inserire tra le top vocalist insieme ad altre quali Anita Baker, Chaka Khan, Angela Bofill, Marlena Shaw e, più recentemente, Whitney Houston, Ledisi e Hill St. Soul. Ho avuto la fortuna di assistere ad uno spettacolo di Maysa qualche anno fa, qui a Milano e ricordo quella serata come un’esperienza entusiasmante. In un piccolissimo locale del centro, alla presenza di pochissimi spettatori fu straordinario cogliere ogni sfumatura di una voce possente ma controllata, ricca di colori e con una estensione ed una tecnica davvero impressionanti. Ritengo che se un vasto pubblico avesse la possibilità di ascoltare Maysa dal vivo rimarrebbe estasiato almeno quanto me. I suoi show regalano emozioni, e lei non usa campionamenti, voci preregistrate o altre diavolerie elettroniche. In questa straordinaria registrazione live che su disco ha preso il titolo di Live At The Birchmere, Maysa è salita sul palco e ha dispensato musica e buone vibrazioni a profusione. Non c'è stata alcuna pausa, nessun intervallo, solo 2 ore e mezza di puro divertimento che ha coperto una grande varietà di generi tra cui il jazz, lo smooth jazz, il blues, l’R&B, il soul ed il funk. E’ un album dal vivo che riporta alla memoria lo spirito delle grandi del passato da Ella Fitzgerald a Sarah Vaughn, con un ovvio sapore di modernità ma con un grande rispetto per la tradizione. Il mix di brani proposti si concentra come è logico sulle canzoni tratte dagli album da solista, ma essendo un doppio cd, c’è lo spazio anche per numerose covers. E tra queste alcuni brani sono dei classici intramontabili che Maysa riesce ad interpretare come sempre a modo suo, dando loro un’impronta diversa e molto intrigante con la sua vocalità unica e rara. My Funny Valentine e Summertime ad esempio, potrete sentirle in una versione soul jazz, tanto inattesa quanto imprevedibile. E poi una splendida What Are You Doing With The Rest Of Your Life di Barbara Streisand: la melodia è bellissima e Maysa la vive con la consueta passione e trasporto. Vola sulle ali del blues con I Put A Spell On You e cavalca alla sua maniera il soul di You Are My Starship. Si cimenta anche con Round Midnight, trasformando il classico del jazz in un brano profondamente soul, ma dando anche in questo caso un saggio di cosa può fare con la sua voce. Immancabile è la trascinante The Bottle di Gil Scott Heron che è ormai un momento topico di ogni suo concerto. Nella serata Maysa non poteva di sicuro tralasciare  il repertorio personale, quello che a partire dal 1995 è parte dei suoi album da solista: ed allora ecco un carrellata di bellissime canzoni più o meno conosciute. A volte tipicamente r&b, altre più soul o ancora quasi disco. Ballate romantiche come la sinuosa Sexy, la delicata Grateful, la sofisticata Soul Child o la meravigliosa Can We Change The World. Ma ovviamente non mancano i brani veloci, dal sapore smooth jazz come A Woman In Love o l’appassionata dedica al maestro Bluey (leader degli Incognito) intitolata Let's Figure It Out. Brillante e ballabile è anche Hooked Up, che tra l’altro è arricchita da uno splendido assolo di chitarra elettrica. Maysa sfiora anche la bossa con Hypnotic Love e il drum’n’bass con Friendly Pressure, e fa riferimento allo stile degli Incognito con What About Our Love. Il concerto si chiude in bellezza con il perfetto esempio di raffinato r&b della bellissima Mr So Damn Fine. La band che ha accompagnato Maysa nelle due serate che hanno dato vita a questo doppio cd live è perfetta in ogni frangente e con tutte le varie atmosfere che sono state di volta in volta proposte al pubblico. Si percepisce un grande affiatamento ed una ammirevole unità d’intenti nel valorizzare la vera protagonista dello show: lei, la mitica Maysa Leak. Il commento finale che posso fare è questo: se hai la possibilità di vedere esibirsi Maysa, fallo. Se canta nella tua città non esitare, vai e goditi uno spettacolo musicale indimenticabile. La sua voce ti entrerà dentro e non potrai dimenticarla mai più. Il suo spettacolo ha tutto ciò che dovrebbe avere una performance dal vivo. Se invece vuoi godere subito di questa gemma discografica, comodamente seduto sul divano di casa tua, da oggi potrai farlo facilmente. Dopo alcuni anni ed una travagliata genesi Live At The Birchmere è infatti finalmente disponibile sulle principali piattaforme di commercio elettronico. Da non perdere.

Doky Brothers - Doky Brothers


Doky Brothers - Doky Brothers

I Doky Brothers erano un duo di jazz che venne alla ribalta a metà degli anni '90 con un paio di album per la Blue Note. La musica del gruppo aveva le sue radici nella tradizione hard bop degli anni '60, con l’aggiunta di una produzione senza alcun dubbio contemporanea e corposi innesti di fusion. Nativi di Copenaghen, in Danimarca, i due fratelli Doky, ovvero il pianista Niels Lan Doky (1963) e il bassista Chris Minh Doky (1969), sono il prodotto di una famiglia di musicisti. Il padre era un medico appassionato di chitarra classica e la madre era una cantante pop danese. I due erano una simbiotica e unitissima entità musicale, pervasi da un’unica grande passione e da una perfetta comunione d’intenti. I Doky Brothers misero in mostra una sinergia davvero ammirevole, creando un loro stile nel rispetto della cultura jazzistica americana ma mantenendo un legame con il gusto melodico europeo. La sintonia tra i due fratelli era più evidente quando si esibivano nei riff all’unisono, ma è comunque ben avvertibile in tutto lo sviluppo dei loro brani. Curiosamente l'album vede impegnato un altro e ben più famoso duo di fratelli, e cioè Michael e Randy Brecker: un valore aggiunto non indifferente per il loro eccellente debutto discografico, datato 1995. Gli altri compagni di squadra nella sessione sono il chitarrista svedese Ulk Wakenius, il batterista finlandese Klaus Suonsaari e il batterista danese Alex Riel, con la prodigiosa batterista Terri Lyne Carrington ospite su sette tracce. Le due coppie “fraterne” si possono ascoltare tutte insieme su "Fearless Dreamer", mentre in altri due brani i Brecker sono presenti separatamente. Il disco si compone di cinque originali e cinque standard, per un totale di dieci pezzi di grande musica. La cover di "Natural Woman" di Carol King è intrigante in questa resa jazzistica, e consente di apprezzare l’ottima tecnica pianistica di Niels Lan Doky, il cui talento è davvero palpabile. C’è anche una rivisitazione del classico "Summertime" di Gershwin in cui è il fratello bassista Chris Minh Doky  a prendersi tutta la sezione iniziale ed a mostrare a sua volta un grande virtuosismo, ma va sottolineato l’assolo di piano di Nils che illumina ugualmente la cover. Trova spazio anche una ballata come "My One and Only Love" animata dalla particolare voce di Curtis Stigers e dalla tromba di Randy Brecker per un’atmosfera da night molto suggestiva. “Teen Town” di Jaco Pastorius è un esercizio di bravura ed una sfida per il basso di Chris, ma anche una bella prova corale di tutta la band. E l’unisono tra i due fratelli sul famoso riff del brano dei Weather Report (Jaco) è una chicca da non perdersi. L’ultima delle cover è “I Feel Pretty” da West Side Story: con la bella voce di Deborah Brown ed il pianoforte sugli scudi, anche questa celebre canzone rappresenta un bella prova dei due fratelli Doky che ne danno un’interpretazione in stile hard bop piena di swing. Ma veniamo alle composizioni originali scritte di proprio pugno dai due fratelli. Per la verità non mancano di interesse, e complessivamente mostrano anche una piacevole varietà. “While We Wait” ricorda gli Steps Ahead e apre la registrazione mettendo subito in evidenza le doti virtuosistiche di entrambe. Nils al pianoforte è palesemente influenzato da Chick Corea, Herbie Hancock e Oscar Peterson, mentre Chris è un bassista tecnicamente ineccepibile con Jaco Pastorius e il connazionale Niels-Henning Ørsted Pedersen come punti di riferimento. La delicata “Children’s Song” è un esempio di come il duo danese riesca a coniugare molto bene un sound contemporaneo con lo stile più tradizionale dell’hard bop. Non a caso lo stesso approccio è offerto anche da “Hope” e “You Never Know” che pur essendo brani di concezione tipicamente jazzistica, suonano in parte anche molto moderne, andando a percorrere le stesse strade della fusion più colta. (Yellow Jackets). Quando uscì questo album, nel 1995, le possibilità che il duo lasciava presagire erano ottime. Tuttavia oltre a questo debutto ci fu solamente un altro disco, nel 1997, a nome di entrambe i fratelli, che preferirono proseguire le loro carriere come singoli artisti. Doky Brothers è un album molto interessante che, oltre a puntare i riflettori su un gruppo jazz certamente poco conosciuto, dovrebbe piacere ad una vasta platea di ascoltatori che possono svariare dall’hard bop alla fusion con un livello sempre alto della qualità della musica offerta. Il pianista Niels Lan Doky appare qui come un evidente talento, una sorta di diamante grezzo dalle notevolissime possibilità. Suo fratello Chris Minh Doky si revela un solido e tecnicamente inappuntabile contrabbassista. Trovo che dei due album che il duo ha pubblicato sia proprio questo quello più riuscito ed attraente e in conclusione ne consiglio caldamente l’ascolto.

Matthew Whitaker – Now Hear This


Matthew Whitaker – Now Hear This

Matthew Whitaker è un pianista jazz americano. La sua storia è quella di un ragazzo attualmente di 19 anni che ha vissuto una parabola di vita travagliata ed affascinante, ma dentro al quale ardono il sacro fuoco dell’entusiasmo e della passione. Cieco dalla nascita, Matthew è cresciuto circondato dalla musica. Il suo amore per le note è iniziato alla giovane età di 3 anni, dopo che suo nonno gli regalò una piccola tastiera Yamaha. Un talento incredibile, che a soli dieci anni ha avuto l’onore di aprire un concerto di Stevie Wonder all'Apollo Theater. Sebbene sia giovanissimo, il multistrumentista Whitaker ha fatto molta strada per arrivare dove si trova oggi, superando le avversità della sua condizione e dedicando innumerevoli ore a perfezionarsi al pianoforte, all’organo ed alle tastiere, ma anche alla batteria. Ora, con il suo secondo album Now Hear This, Matthew si delinea come una importante nuova voce del jazz. Non ho ancora ascoltato l'album di debutto di questo prodigioso pianista, ma questa seconda registrazione è così impressionante che mi ha invogliato ad analizzare anche Outta The Box, uscito nel 2017. Whitaker suona con naturalezza ed uguale bravura il piano, i sintetizzatori, l’organo Hammond B3 ed il piano elettrico. Su questo album è coadiuvato da alcuni musicisti di grande valore quali Dave Stryker alla chitarra, Yunior Terry al basso, Ulysses Owens Jr alla batteria e Sammy Figueroa alle percussioni. Il disco si compone di un mix di covers sapientemente arrangiate ed interessanti brani originali. Il suo tocco al piano è gioioso ma anche intenso, ed il suo talento strabordante pervade la musica con uno straordinario e contagioso entusiasmo. Ovviamente di questo giovane fenomeno si era fatto un gran parlare negli ambienti jazzistici già da qualche anno e dirò subito che Now Hear This è certamente all'altezza delle aspettative. Come detto, Whitaker è in grado di suonare fluentemente sia il pianoforte che l’organo, e lui si divide equamente tra i due strumenti. Tuttavia, il suo approccio a ciascuna delle due tastiere è originale: al pianoforte privilegia l’elaborazione della melodia. Sull’Hammond B-3, si concentra sull’armonia, mantenendo una linea più tradizionale e facendo un uso classico del tremolo. La performance di Whitaker va alla continua ricerca di soluzioni melodiche, ma in nessun caso il ragazzo cerca di stupire gli ascoltatori con un virtuosismo fine a se stesso.  Il suo trio comprende perfettamente le sue intenzioni e lo asseconda al meglio. In particolare, il batterista Ulisses Owens Jr. sembra sintonizzarsi direttamente sulla stessa lunghezza d'onda di Whitaker. La musicalità, gli arrangiamenti e la capacità di governare il gruppo messa in mostra su Now Hear This sarebbero già notevoli se parlassimo di un musicista di maggiore esperienza, quindi immaginate cosa può significare se dietro a tutto ciò c’è un ragazzino di 19 anni come Matthew. Passando con disinvoltura quasi irritante da una tastiera all’altra, Whitaker mostra costantemente una chiara e ben definita visione dell’improvvisazione, un raffinato senso della dinamica ed un tocco sofisticato. Sia nelle sue 4 composizioni originali che nelle ben più numerose covers che sono incluse in questo cd, Whitaker dà un timbro personale alla musica. E non bisogna dimenticare che ci sono pezzi di Ahmad Jamal, Charlie Parker, Billy Strayhorn, Michael Camilo, Eddie Harris per citarne alcuni, cioè sfide musicali niente affatto facili. I brani sono tutti per un verso o per l’altro interessanti: Overcoat è un esempio dell’interplay speciale che c’è tra il pianista ed il batterista. Ma Owens, come detto, ben si adatta a tutte le situazioni che Whitaker propone, come sulla infuocata  versione di "Freedom Jazz Dance" dove protagonista è l’organo il ragazzo prodigio dà una dimostrazione di muscolarità e destrezza su una ritmica funky. "Tranquility" racconta una storia diversa, nella quale sale alla ribalta anche il fluido basso di Terry, per un classico momento di trio jazz. "Bernie’s Tune" è un brano dove Matthew si lascia ispirare dal grande maestro McCoy Tyner, mentre intraprende un meraviglioso viaggio in "U.M.M.G." di Duke Ellington, volando in perfetta simbiosi accompagnato solo dal basso di Terry. Le sue composizioni sono tra i momenti clou dell'album. "Miss Michelle" ad esempio, ha degli affascinanti toni bossa e scivola dolcemente tra le dita veloci del pianista, in un elegante alternanza tra il piano di Whitaker e la chitarra di Stryker. Molto interessante anche la notevole "Underground con i suoi i cambi di tempo pieni di precisione e grazia ed un assolo di synth che non mancherà di impressionare gli amanti di questa tastiera. Per quanto riguarda il lato più riflessivo del disco, "Thinking of You" è un sogno romantico declinato su un bellissimo suono di Hammond B3 così come "Black Butterfly" dove anche il piano elettrico di Marc Cary contribuisce a creare un mood perfetto. La comparsa sulla scena di un giovanissimo prodigio è sempre un fatto esaltante oltre che raro: il rischio è sempre quello che poi le aspettative non vengano mantenute, ma nel caso di Matthew Whitaker possiamo ben dire che per ora il talento è del tutto pari alle attese. È vero, Matthew ha solo 19 anni ed è anche cieco, ma questo non è un limite per lui, non si può negare che abbia una forza ed un entusiasmo dirompenti. I suoi due album sono un gran bel viatico per una luminosa carriera: il nuovo arrivato va tenuto d’occhio, a mio parere diventerà un grande del jazz.

Kandace Springs - The Women Who Raised Me


Kandace Springs - The Women Who Raised Me


Gli album di covers possono essere suddivisi in due distinti e per certi versi opposti gruppi. Il primo è quello nel quale confluiscono delle collezioni di musica, spesso priva di interesse, non particolarmente ispirata e che sono destinate ad essere presto archiviate e dimenticate. Il secondo gruppo, più ridotto, è composto da quei pochi album dove invece il o la protagonista in copertina è riuscito ad esprimere qualcosa di più della semplice replica degli originali. I musicisti che ambiscono ad appartenere a quest'ultima categoria trovano il modo, con il loro talento, di aggiungere un tocco personale alle canzoni che propongono. In altre parole fanno sì che ogni brano interpretato rinasca a nuova vita attraverso le caratteristiche proprie dell’esecutore. Kandace Springs è una giovane pianista e cantante il cui talento è evidente: sia per quanto concerne la voce, sia per la sua tecnica strumentale: la sua estrazione e la sua preparazione sono di stampo jazzistico. A fronte delle sue indubbie doti, i suoi precedenti lavori non hanno completamente convinto.  Indigo (registrato per la Blue Note nel 2018), era improntato ad una miscela  a tratti irritante e qualche volte troppo generica di influenze pop e R&B, con il jazz che restava colpevolmente sullo sfondo. Il suo debutto del 2016 era orientato invece verso sonorità blues più tradizionali, ma senza particolari sussulti di creatività. Finalmente Kandace ha deciso di scostarsi da quei percorsi con il suo terzo album, intitolato The Women Who Raised Me. Questa è sì una raccolta di covers, ma ciononostante è un disco che rappresenta decisamente un balzo in avanti nella sua giovane carriera. Soprattutto è un lavoro che segna una nuova fase per la Springs, una fase in cui il jazz da ultimo torna ad avere un peso. Kandace, come tutti le artiste che fanno della voce il loro strumento principale, è stata influenzata profondamente da molte grandi cantanti del passato e del presente. Per questa ragione ha deciso di mettere insieme una serie di canzoni rese famose proprio dalle grandi cantanti che hanno ispirato la sua crescita artistica. In questo ultimo album la Springs ha cercato di dare un’interpretazione personale ad ognuno di quei famosi brani. Per fare ciò ha reclutato un trio di musicisti che comprende il chitarrista Steve Cardenas, il bassista Scott Colley e il batterista Clarence Penn: tutta gente che ha qualche legame con i suoi punti di riferimento. Tutto questo, combinato con un gruppetto di ospiti di alto profilo e le sagge scelte del repertorio, rendono The Women Who Raised Me un album di valore. C'è una nitida purezza nel suo modo di cantare e se è pur vero che la Springs si avvale della moderna tecnologia, è altrettanto evidente che non è un’artista che ne abusa impunemente. Non a caso Kandace eccelle proprio nelle canzoni che rappresentano la sfida più difficile, quelle che la spingono ad osare ed a raggiungere l'apice delle sue vaste capacità. E’ qui che la bella cantante/pianista trova il culmine della tensione e gestisce al meglio l'intensità interpretativa. Ascoltare "I Put A Spell On You", consente di apprezzare esattamente questi aspetti emozionali, sia per quanto concerne la voce che per il fraseggio al piano. Magnifico l’assolo di David Sanborn al sax alto, che esplode improvvisamente facendo schizzare l’emozione a mille. È un perfetto esempio di ciò di cui la cantante è capace quando si impegna al massimo e di come sia importante essere  supportati dal talento di un valido gruppo di accompagnatori. Questa interpretazione a tratti dark e di  grande spessore di un brano così famoso e già molto “sentito” in precedenza, offre una visione su un possibile  futuro di Kandace Springs, ponendo la performer all’interno di quello che è il suo contesto ideale: il jazz. Le due stupende ballate "Pearls" e "The Nearness Of You" sono sobriamente cantate ma emanano quel fascino e quella passione profonda che non può essere trascurata da nessun ascoltatore. Un altro momento da evidenziare è la celebre "Angel Eyes",  qui proposta in duetto con la star Norah Jones, che tra l’altro è proprio una delle artiste che la Springs considera una grande fonte d’ispirazione. Nessuna delle due tenta di sopraffare l'altra, sicché la loro versione può addirittura competere con quella resa famosa da Ella Fitzgerald nel 1958. La coppia di brani che vede Chris Potter al sassofono, "Gentle Rain" e "Solitude", oltre alla precedente collaborazione con David Sanborn, dimostra quanto possa giovarsi una cantante nell’avere un grande sax nel suo mix sonoro. La parata di magnifiche canzoni continua con alcuni classici davvero senza tempo. Ad esempio la Strange Fruit di Billie Holiday, che Kandace affronta addirittura in solitudine accompagnata solo dal suo piano elettrico è semplicemente fantastica. Mi è piaciuta molto anche la cover che la Springs offre di una canzone celeberrima come Killing Me Softly With His Song che suona davvero personale ed è impreziosita anche da un assolo di flauto di grande valore di Elena Pinderhughes. Va detto che l'aggiunta di una tromba o di un ancia (sax o flauto che sia) conferisce ad ogni pezzo un tocco di emozione in più e si rivela una scelta molto intelligente. Senza i vincoli della tradizione o di enormi aspettative a livello commerciale, Kandace finalmente mostra tutto il suo grande talento e lo fa con sobrietà,  senza eccedere in personalismo e con una gradita dose di buon gusto. La sfida era di quelle difficili ed il confronto con un repertorio della portata artistica di quello contenuto in questo album poteva rivelarsi una montagna troppo alta da scalare. Ma Kandace ne esce alla grande ed anzi appare addirittura più forte e più pronta per le prossime tappe della sua maturazione di cantante e di musicista. Sempre più raramente nell'era moderna ci si può sorprendere a meravigliarsi della bellezza della voce di un cantante. Siamo così distratti dall’immagine che viene venduta prima ancora dell’abilità o magari dal presunto messaggio politico abbinato ad un artista  che spesso fatichiamo ad accorgerci di chi ha realmente il vero e puro talento. Oggi è difficile sottrarsi all’attrazione della fama: siamo nell'era dei video su Internet e di una quanto mai necessaria autopromozione. Ma Kandace Springs non è così, appartiene ad un’altra categoria: gioca con i suoi punti di forza e non indugia minimamente ad un qualsiasi tipo di discorso commerciale. Lei non è solo brava, è anche autentica. The Women Who Raised Me entra di diritto nella seconda delle categorie in cui ho diviso gli album di covers. Quella migliore, quella rara. Quella che lascerà un segno.

The Park Avenue Experience – Life Span


The Park Avenue Experience – Life Span

È uscito nei primi giorni di Gennaio un album intitolato Life Span, per me misterioso e sconosciuto. Si tratta dell’opera prima di un nuovissimo progetto discografico chiamato The Park Avenue Experience. Creato dal musicista, produttore ed autore siracusano Fabio Puglisi, che è meglio conosciuto con il nome d’arte di Soul Basement, The Park Avenue Experience è un trio nato per esplorare quella terra di frontiera nella quale il jazz va ad incontrare strade alternative, territori inusuali. Vi dirò subito che nel momento in cui ho ascoltato le prime note di Life Span sono subito rimasto affascinato dalla sua per certi versi enigmatica atmosfera. Il suo leader Fabio Puglisi (come detto noto anche come Soul Basement), è un jazzista italiano, e tuttavia di italiano Life Span non ha proprio niente. Non ha influenze mediterranee, non tratta nemmeno le melodie tipiche, ancor meno usufruisce degli arrangiamenti vicini alla nostra cultura musicale. A tratti mi ha ricordato Robert Glasper, di certo per il gusto dell’essenziale, forse per il ritmo cadenzato, in parte per quel susseguirsi veloce di note leggere, galleggianti, evanescenti e profonde al tempo stesso. L’ascolto, in un primo momento superficiale, si è fatto più attento perché sentivo una strana forma di magnetica attrazione per  quegli inusuali ed originali quadri sonori. E presto è venuto fuori il jazz, un jazz moderno e minimalista, anomalo e sorprendente, che ogni tanto declina verso il nu jazz e qualche volta indugia verso l’elettronica. Ma poi il vento della musica cambia ancora scivolando nella lounge o portando l’ascoltatore ai confini della new age: tutto questo lascia piacevolmente disorientati. Di certo The Park Avenue Experience ha un forte potere di suggestione e cattura l’attenzione del pubblico non con le armi del virtuosismo e nemmeno inondando l’ambiente di cascate di note. Piuttosto lo fa con un’intelligente alchimia di armonie create da accordi di largo respiro o da intuizioni ritmiche piazzate là dove non te le aspetti. In un quadro complessivo improntato al rigore ed al minimalismo, Puglisi punta a toccare le corde emozionali seguendo una strada che non è la più facile ne tantomeno quella più popolare, ma lo fa con intelligenza e talento. I morbidi tocchi di pianoforte, le vaporose sortite delle tastiere così come tutta l’architettura ritmica sottendono alla creazione di un universo sonoro affascinante e in qualche misura inedito. Si potrebbe definire musica impressionista, dove le note e le armonie sono usate come i pennelli di un pittore. Sono 8 le tracce di questo enigmatico album: 8 brani che delineano un percorso omogeneo e caratterizzato da un mellow groove avvolgente e sinuoso, liquido e ricercato. Si va dal morbido inizio di Getting Closer che in poche battute fa intuire quali siano le linee stilistiche che Park Avenue Experience vuole disegnare, alla successiva Balance che aggiunge alla stessa estetica più ritmo ed un synth pur sempre minimalista. That Good Old Trick si distingue per le percussioni afro beat ed un andamento che ammicca alla musica latina. Il jazz emerge con più forza sulla bellissima Meifen Smiling To The Sky, tra un pianoforte sincopato ed il basso che insieme alla batteria ammiccano quasi ad un morbido drum’n’bass, mentre un sintetizzatore sul finale regala un’ultima emozione. Anche A Better You richiama le sonorità jazzistiche di un classico trio jazz di piano, batteria e basso. Love Knows No Limits suona come un sorta di ballata declinata in un medio tempo. Tutto è coniugato da una tastiera che crea un’atmosfera spaziale ed ipnotica sulla quale è sempre il pianoforte a versare sapienti gocce di note. Si arriva al bellissimo finale di questo album rivelazione: Water Under The Bridge. Il brano ricorda Lyle Mays e allo stesso modo riesce a toccare le corde emozionali. Delicatamente immerge in una nuvola fatta di rari accordi e note di pianoforte: rarefatta ed evanescente eppure così profonda ed ammaliante. Life Span è un viaggio sonoro elegante, raffinato e colto in grado di farci immergere in un’intrigante miscela strumentale di jazz, urban sound, funk, elettronica e lounge. E’ un lavoro che mira all’essenziale, sfruttando al massimo una manciata di strumenti ma giocandosi tutto sulle suggestioni. Fino ad oggi non avevo mai ascoltato niente di Fabio Puglisi o di Soul Basement, anzi non ne avevo neanche mai sentito parlare. Ammetto di essere colpevolmente in ritardo perchè Life Span è stata decisamente una bella scoperta. Italiana o internazionale che sia la buona musica è sempre una piacevole rivelazione. Il mio consiglio è di rilassarvi, mettere questo cd ascoltandolo magari in cuffia e godervi una mezz’ora di musica trasversale a cavallo tra i generi ma sempre sul filo delle emozioni.

Darryl Anders AgapéSoul – Conversations


Darryl Anders AgapéSoul – Conversations

In greco agape significa amore incondizionato e soul ovviamente identifica lo stile della musica:  questa è in sintesi la spiegazione dello strano nome del gruppo che il bassista Darryl Anders ha creato nel 2010. Dopo un debutto intitolato Believe In Love del 2012, a distanza di 6 anni, nel 2018, è uscito il secondo atteso cd della band californiana. A questo proposito dice lo stesso Anders: "Questo album incarna lo spirito della musica dal vivo. Il tipo di musica che puoi ottenere solo da un gruppo di musicisti che lavorano in stretta correlazione. Vogliamo comunicare energia positiva. Vogliamo che le persone credano nell'amore". L’ultimo album di Agapesoul si intitola Conversations: anche in questo caso non è una scelta casuale. Secondo Darryl Anders, il mondo ruota attorno al potere delle comunicazioni. Che sia all'interno di uno scenario globale, aziendale o personale, è la comunicazione che guida il modo in cui le relazioni esistono. La musica non si sottrae a questa legge universale: in studio o su un palco, i musicisti vivono di connessioni profonde con i loro colleghi artisti e questo può determinare il colore e le sfumature del loro quadro musicale. Darryl Anders e la sua band AgapeSoul sottoscrivono pienamente questa teoria. Tornando all’album, Agapesoul riprende da dove si era fermato con il cd Believe in Love. Dunque, anche in Conversations, funk, soul e jazz si incontrano e si fondono in modo molto piacevole. Tuttavia, fin dalle prime note si intuisce che il contenuto complessivo di Conversations sembra avere qualcosa di più, come se fosse salito ad un livello superiore nella qualità delle composizioni. La sensazione è di maggiore consapevolezza, di più profondità, di una intensità superiore al primo disco, oltre ad una naturale crescita artistica e professionale degli stessi musicisti. E d’altra parte Darryl Anders ha investito gli ultimi tre anni nel processo di scrittura ed allestimento di questo lavoro, ottenendo dei risultati che evidentemente lo ripagano dello sforzo sostenuto. L'attuale line up di AgapeSoul è composta da ottimi musicisti come Paul Jackson, Jr., Eric Gales, Ivan Neville e Tommy Sims. L’esordio sonoro dell’album è subito notevole: il brano "Kite" è particolarmente ispirato, con il basso in evidenza e la bella voce di Zoe Ellis sugli scudi. Suona un po’ Incognito, un po’ Fertile Ground e rammenta Stevie Wonder o Frank McComb. Ma la successiva "The Way That We Love" non è da meno, ed anzi introduce un bell’arrangiamento di fiati, a sostegno della calda vocalità della Ellis, con il basso di Anders sempre gagliardo, anche nell’assolo. "Changes" ha quel groove soul jazz che personalmente mi piace moltissimo, e la melodia è molto accattivante. Il sound swingante è magnificamente arrangiato e Michael Maher della band fusion Snarky Puppy contribuisce con un bell'assolo di tromba. La sintesi dei significati racchiusi nell’album Conversations è proprio nella title track: unisce il sound tipicamente soul jazz  con un testo che vuole spiegare la dinamica delle comunicazioni interpersonali. Un’atmosfera profonda, che viene catturata in modo intenso e nella quale, vocalmente, il ruolo principale viene assunto da Naté SoulSanger, con i bei cori di Sara Williams. Ma sono il groove ritmico e la base strumentale a colpire per potenza e precisione. Bellissima è anche "Think About It", una canzone dall’ampio respiro, declinata da un'atmosfera gospel e blues e dalla presenza dell’organo di Lynette Williams che aggiunge un tocco in più al brano. SoulSanger alza la sua voce potente mentre i fiati sottolineano il tutto complice un arrangiamento impressionante. Se c’è  un momento leggermente meno esaltante quello è nella ballata "Home", non tanto per la voce di Tommy Sims, quanto perché si tratta di una canzone soul piuttosto tradizionale. Sullo stesso genere è “The Lesson”, ma il risultato appare più convincente. La cover del grande successo R&B degli Ohio Players, "Sweet Sticky Thing" è invece quanto mai seducente: la bella voce di Ashling Cole e la sezione fiati contribuiscono a rendere questo pezzo, colmo di groove, molto interessante. Per dare un segnale di varietà troviamo lo strumentale "Fruitvale Gumbo" ed è una gran bella prova corale, con gli AgapeSoul che mettono in evidenza una notevole padronanza anche in un contesto musicalmente complesso, pieno di echi degli stili di Minneapolis, della Bay Area e di New Orleans. Notevolissimo l’assolo di basso slap di Anders ed il lavoro ritmico della batteria di Zigaboo Modeliste, il leggendario drummer dei Meters. La sezione fiati è quella degli Snarky Puppy, e il talento dell’astro nascente della chitarra Eric Gales contribuisce per la sua parte con un fantastico assolo rock funk. Darryl Anders e i suoi Agapasoul ci è hanno consegnato una perla rara. Su Conversations troverete ottima musica soul, corroborata da grandi ritmi, melodie forti, arrangiamenti brillanti e storie affascinanti sulla vita, l'amore e la sopravvivenza. Il gruppo ha trovato un perfetto equilibrio nella sua formula attuale: gli Agapesoul piacciono per il loro eclettismo e il modo con cui integrano soul, jazz e funk. L'album nel suo complesso si dimostra molto solido ed è sicuramente un ascolto intrigante. Ha tutti gli ingredienti che ci si può aspettare per essere speciale. Per quanto i singoli componenti siano musicisti impressionanti, Anders e gli AgapeSoul sono arrivati ad un risultato finale che è persino migliore delle parti che lo compongono. Caldamente consigliato.

Warren Wolf - Reincarnation


Warren Wolf - Reincarnation

Ho sempre amato il vibrafono nel jazz, sia per le sue possibilità espressive sia per i protagonisti che nel corso del tempo hanno dato un contributo importante allo sviluppo di questa particolare percussione. Anche di questi tempi ci sono dei musicisti di talento che si distinguono per aver scelto di adottare il vibrafono come proprio strumento. Uno di loro è Warren Wolf, un 40enne afroamericano di Baltimora con alle spalle una carriera già piuttosto importante nel jazz mainstream e 4 album pubblicati tra il 2005 ed il 2016. A quattro anni dall’ultima fatica, nel 2020, Wolf è uscito con un nuovo lavoro: e questa volta sorprende tutti con una svolta inaspettata. L’ormai acclamato vibrafonista, riconosciuto per la sua schietta applicazione al jazz tradizionale, oltre che come epigono dei suoi grandi predecessori Milt Jackson e Bobby Hutcherson, ha deciso di lanciarsi in un’avventura, inedita per lui. Su Reincarnation, che è il titolo del suo ultimo album, il vibrafonista di Baltimora ritorna ai suo primi amori di ragazzo e cioè all'R & B al soul con i quali si è avvicinato alla musica negli anni '90. Certo lo fa coniugando quei suoni con la sua cultura jazzistica, ottenendo così un ben riuscito e calibrato mix di stili. Reincarnation è un album che contiene nove composizioni originali di Wolf e una cover che vogliono anche celebrare un bel momento della sua vita, con un nuovo matrimonio e i suoi ben cinque figli. Wolf, dall'età di 21 anni, ha suonato sempre jazz classico e la sua carriera professionale è stata fino ad oggi improntata ad un estremo rigore. Tuttavia, suo padre, che fu il suo primo insegnante, in realtà lo incoraggiò fin dall’inizio a suonare tutti i generi e Warren solo oggi si è finalmente deciso ad introdurre nuovi spunti creativi nel suo repertorio. Per fare questo, sapeva di aver bisogno di una band esperta sia di jazz che di vintage sounds. I brani sono composti traendo ispirazione da quelle che erano stati i suoi artisti preferiti durante il liceo e poi il college: D’Angelo, Mint Condition, Prince, persino 2Pac e gli Isley Brothers. Ovviamente, molti degli artisti jazz che hanno accompagnato fin ad ora la crescita professionale di Wolf non erano in sintonia con quel tipo di sonorità, ma Wolf si è adoperato per riunire dei veterani insieme a dei giovani leoni che potessero assecondare il suo progetto. Ad esempio il batterista Carroll "CV" Dashiell III è, come Wolf, un musicista di "seconda generazione". Lui è una stella nascente della scena jazz di Washington DC il cui talento ha catturato l'attenzione di Warren. Inoltre il vibrafonsita ha scoperto il tastierista Brett Williams all'inizio della carriera a Pittsburgh, per poi seguire i suoi progressi fino alla sua collaborazione con il bassista Marcus Miller. Ha chiamato il bassista Richie Goods, che si autodefinisce un musicista “Jazz, Funk, Rock”: un artista che è maturato sotto sotto l’ala del grande pianista Mulgrew Miller. C’è anche una star internazionale del jazz in questa band: il chitarrista Mark Whitfield, ospite in due tracce dell'album. In questo progetto mancava un ingrediente finale e più precisamente una cantante. Wolf l’ha individuata nella talentuosa Imani-Grace Cooper che aveva conosciuto mentre era ancora una studentessa della Howard University. Dice Warren: "Questa è la voce perfetta per me. E’ il membro più sconosciuto del gruppo, ma penso che dopo questo disco la gente inizierà ad apprezzarla moltissimo. La voce che si sente su "Smooth Intro" e "Smooth Outro", è quella di Marcellus "Bassman" Shepard, alias "The Man with the Voice", un popolare DJ di Baltimora. Un’aggiunta che crea l'atmosfera giusta per introdurre e congedare dall'ascolto. Su Reincarnation Wolf celebra le molte facce dell'amore. “For Me” è una sincera dedica a sua madre, Celeste Wolf, deceduta nel 2015. È particolarmente significativo in quanto lui e sua madre (al pianoforte) si esibivano spesso in duetti sulle note dei successi della Motown: il vibrafonsita porta quei suoni gioiosi nella sua musica. "Vahybing" è un fantastico esercizio di groove che dà l’opportunità ai solisti di prendere la scena, principalmente vibrafono e pianoforte. "In the Heat of the Night"  mette la vocalist ed il chitarrista Whitlfield sugli scudi: è un brano sensuale ed avvolgente, molto minimalista, dove le linee di basso si incrociano con la voce sensuale di Imaani.  In sottofondo ci sono le iniezioni di Brett Williams con il suo piano elettrico, l'uso di Mark Whitfield dell'effetto wah-wah ed il vibrafono di Wolf ad aumentare l'atmosfera. Forse il fulcro dell'album è "The Struggle" con il suo ritmo altalenante e l’andamento malinconico guidato dal piano acustico e dal vibrafono. L'unica cover dell'album, è l’interpretazione di “For the Love of You” dei The Isley Brothers  con una Imaani in ottima forma. “Sebastian e Zoë”, è un delicato omaggio ai suoi due bambini più piccoli. Il valzer "Come And Dance With Me" è stata scritta per la moglie di Wolf, che è una ballerina, nella speranza che lei userà questa canzone nelle sue lezioni. Imaani Cooper è ancora protagonista nella brillante canzone "Living the Good Life", che tra l’altro ci regala qualche attimo di ritmo swing, solo una breve deviazione di un minuto, giusto per dimostrare ai fan che il vibrafonista non ha abbandonato le sue radici jazzistiche. Su tutto domina il suono fluido e sempre melodioso di quello fantastico strumento che è il vibrafono. Tecnicamente Warren Wolf lo interpreta e lo suona nel solco della migliore scuola, quella che ci riporta a Lionel Hampton, Milt Jackson, Bobby Hutcherson, Gary Burton, Mike Mainieri, Roy Ayers. Se il musicista di Baltimora voleva dimostrare la sua versatilità ed il suo saper adattarsi anche ad idiomi diversi da quelli del jazz classico, con Reincarnation ci è riuscito in pieno. Se è vero che qui il jazz come siamo abituati ad ascoltarlo non è presente se non per una generale attitudine e per la tipologia degli assoli e delle armonie, resta il fatto che questo è un album di grande qualità. La modernità e l’evoluzione di un artista probabilmente passano anche da questo tipo di sperimentazioni: sono sicuro che il prossimo lavoro di Wolf e del suo vibrafono saranno nuovamente incanalati sui sentieri della tradizione.

Groovopolis - Groovopolis


Groovopolis - Groovopolis

A volte il nome di un gruppo è già di per se una dichiarazione programmatica riguardo a quale tipo di musica questo possa suonare, o quanto meno può darne un'idea generale. A questo punto, se parliamo di una band che si chiama Groovopolis dovremmo avere un quadro piuttosto delineato. Se è vero che si associa quasi sempre la parola groove al funk, Groovopolis sembrerebbe dunque suggerire una predisposizione per quello specifico genere. Probabilmente è un tipo di denominazione che ci si aspetterebbe da un gruppo sullo stile dei Funkadelic o dei Cameo. Tuttavia Groovopolis non contiene esattamente quel tipo di funky vocale, quanto piuttosto dell’ottimo jazz/funk strumentale: in ultima analisi il loro nome non va considerato del tutto inappropriato, anzi. Dietro al progetto Groovopolis si cela un chitarrista di grande esperienza come Chris Cortez. Cortez ha trascorso gli anni '80 e '90 lavorando principalmente come sideman, al seguito di musicisti come Herbie Mann e Lou Rawls. Anche come compositore è rimasto a lungo nell’ombra: fino alla pubblicazione di alcuni album da solista che gli hanno consentito di raggiungere un certa popolarità, riscuotendo al contempo delle buone critiche. Agli inizi del 2001 decise di iniziare un nuovo progetto che chiamò per l’appunto Groovopolis: si trattava di una collaborazione con il trobettista Jay Webb, il bassista Lenny DiMartino, il tastierista Dan Fransen e il batterista Jeff Mills. L’album di debutto è finalmente apparso nell'autunno del 2002 ma fu registrato nel corso del 2001 e del 2002: è un lavoro non certo rivoluzionario, tuttavia è un’opera prima che mantiene un alto livello di qualità e di suggestioni. Un risultato ottenuto pagando un sostanziale tributo alla musica degli anni ’70, ma non senza un minimo di originalità e di sicuro divertendo l’ascoltatore. Come dicevo, i Groovopolis sono una band piuttosto attenta alle sonorità degli anni '70, e fanno del jazz funk di quell’epoca una base sulla quale elaborare una propria identità musicale. Questo disegno artistico è concretamente espresso sia quando la band esegue il suo materiale originale (la maggior parte del quale è stata composta dal leader e chitarrista Chris Cortez) come pure nell’interpretazione di un classico del 1971 di Marvin Gaye, la celeberrima "What's Going On" o quella di “Go Home” di Stevie Wonder. Innegabilmente tutta la musica proposta dai Groovopolis è caratterizzata da una rivisitazione del vintage sound e dalla derivazione diretta da quest'ultimo. Ma quella stessa palese ispirazione non significa tuttavia che debba necessariamente uscirne qualcosa di scontato o banale. Se Groovopolis non potrà mai essere accreditato di una sperimentazione spinta del jazz-funk, va detto che il loro primo (e unico) album resta pur sempre godibile e ben suonato. Si può tranquillamente far rientrare il progetto Groovopolis nella corrente acid jazz  poiché il loro sound ritmato e accattivante offre di fatto tutte quelle peculiarità che contribuiscono ad appagare gli appassionati di quel genere. Ed allora ecco il groove ricco di fiati, il piano elettrico, una struttura jazzistica con assoli estesi e degli arrangiamenti sempre molto precisi. La provenienza di Cortez dall’area di New Orleans permette al chitarrista di introdurre anche qualche richiamo allo stile tipico della Lousiana, ma sempre nel contesto di una sofisticata e più alta architettura musicale.  Groovopolis è un progetto serio e mette sul tavolo la mentalità specifica dell’improvvisazione jazz. Ai solisti viene concesso molto spazio per esporre la loro abilità e ne escono passaggi complessi ed un ottimo bilanciamento sonoro.  Contrariamente a quanto sostenuto con atteggiamento snob dai puristi ad oltranza del jazz, anche questa è espressione di quella stessa cultura musicale. I 13 brani che compongono Groovopolis sono tutti al di sotto dei 5 minuti di lunghezza, una caratteristica che sottende quasi ad una volontà di sintesi. I momenti migliori si possono ascoltare sulla swingante Mr.Noom, sull’intrigante ed inusuale Jammin With Jay, ma anche sul bop “funkyzzato” di New Blood e Distinquitive. Belle entrambe le cover: con Go Home di Wonder più ironica e scanzonata, e What’s Going On? di Gaye che mantiene la struttura armonica per fare da trampolino a dei notevoli assoli di chitarra e tromba. Groovopolis è un album che soddisferà gli appassionati di jazz venato di funk e soul, in una parola piacerà ai fan dell’acid jazz strumentale che non smettono mai di apprezzare le registrazioni degli anni '70, quelle dei grandi artisti di quell’epoca irripetibile.  Per intenderci quelle di Grover Washington, Jr., dei Crusaders, dei Funk, Inc. ma anche di Donald Byrd, Stanley Turrentine o degli Headhunters. Non sarà un capolavoro ma è ugualmente un disco godibile e divertente che scorre fluido, con più di un motivo di interesse.

Rah – God’s Music


Rah – God’s Music

Rah: dietro questo acronimo che evoca la mitologia egizia, si cela un misterioso personaggio il cui vero nome è Richard Adolphus Harrison: R.A.H. appunto. Batterista, compositore e produttore, Rah è uscito a fine 2019 con un album interessantissimo intitolato God’s Music, un debutto che è stato davvero una grande rivelazione. E’ un piacere scoprire (in modo totalmente casuale) che in giro per il mondo ci sono musicisti in grado di pubblicare un’opera prima di questo spessore artistico. Prodigio musicale nato nel Bronx, Richard Adolphus Harrison ha fatto tanta gavetta prima di arrivare a registrare God’s Music: ma la sua determinazione ed il suo talento sono stati ripagati dal risultato finale. In questa miscela ben curata di jazz, funk, neo soul e prog rock, che sintetizza tutta la varietà delle sue influenze si possono trovare condensate le abilità di Richard Harrison. Come detto, Rah ha la sua base operativa a New York, nel Bronx, ed è quindi figlio di quella peculiare cultura urbana così ben radicata nel cuore pulsante della Grande Mela. Ma non aspettatevi il solito hip hop o un banale rapper, quello che Rah propone a livello musicale è un vero crossover di stili musicali che hanno come denominatore comune la ricerca e l’innovazione. Sofisticata e complessa, la sua musica non indulge a tentazioni commerciali, nemmeno nei pochi brani cantati. Forse anche perché è arrivato dopo molto tempo e tanto lavoro, c’è moltissimo materiale su God’s Music, ben 16 tracce, ed ognuna di queste ha una storia da raccontare ed un’emozione da regalare. La particolare esperienza di ascolto che riserva l’album è un originale viaggio attraverso molti generi: dal funk allo smooth jazz. Ma non solo, dato che incredibilmente da questo sorprendente lavoro escono sonorità che si avvicinano anche al jazz rock e addirittura al progressive per poi improvvisamente arrivare perfino ad un inatteso jazz be bop. Insomma il famoso melting pot di New York, per Rah diventa un crogiuolo di stili che si alternano uno dietro l’altro. Per mettere in pratica un progetto tanto ambizioso quanto complesso come God’s Music Harrison non ha certo fatto tutto da solo: si è avvalso della collaborazione di alcuni eccellenti musicisti dell’area newyorkese come Ron Gibbs, Monte Croft, Ragan Whiteside, Gary Poulson, Dennis Johnson, Carl Bartlett, Meighstro Curwen, Kenyatta Beasley ed altri. God’s Music è un album prevalentemente strumentale, dei 16 brani che lo compongono solamente tre sono cantati ed in ultima analisi sono i momenti meno interessanti del disco. Vibe, Sunride e The Way You love me sono tre originali esempi di neo soul che pur non risultando banali o scontati non raggiungono i livelli delle parti strumentali. L’apertura di God’s Music è affidata al flauto di Ragan Whiteside nel più smooth jazz dei brani, nel quale si fanno notare subito il drumming di Harrison e la chitarra di Ron Gibbs. Modern Metropolis proietta invece l’ascoltatore in un atmosfera diversa: ricorda alcuni passaggi del George Duke di Brazilian Love Affair, ma soprattutto vanta una ritmica molto intrigante. I’ll Be Back è bellissima nel suo incidere funk jazz dai toni vintage. L’arrangiamento è molto ben riuscito con i fiati anni ’70 che intonano un riff accattivante e un nuovo assolo degno di nota di Gibbs. Putting On Ayers, come già il titolo lascia intendere, vuol essere un omaggio al grande vibrafonista Roy Ayers. Il vibrafono c’è ed è suonato da Monte Croft, la chitarra è quella di Gary Poulson, questa volta dai toni jazz rock, domina il pezzo con ricami deliziosi e potenti. Una delle composizioni più belle è la successiva Confidential: una traccia in stile fusion, anche in questo caso impreziosita dai contrappunti di fiati e da un magnifico assolo di tromba di Kenyatta Beasley. A cavallo tra gli strumentali degli Earth Wind And Fire degli anni ’70, George Duke ed il progressive rock è invece la title track. Un numero veloce e dinamico, complesso e articolato. Il prog resta nelle corde di Rah con Worm Holes In Space: con una batteria sincopata il pezzo si dipana in quei territori di confine che furono dei Brand X o di alcune band di Canterbury. E poi arriva Her, ed a sorpresa Rah da un ulteriore saggio della sua poliedricità sfoderando dal suo magico cilindro un pezzo di puro be bop. Pieno di swing e di energia jazz ci permette di godere dell’assolo di sax di un fenomeno come Carl Bartlett. Dal mio punto di vista è il top dell’intero album. In verità a me piace moltissimo anche Consciuousness, un'altra dimostrazione di quanto possa ancora essere fluido e moderno il jazz rock. New Millenium 4 ci riporta ai confini tra il prog rock ed il contemprary jazz, con un mood quasi spaziale nel quale sembra perfettamente a suo agio la chitarra di Gary Poulson. Black Silk è ipnotica e intrigante, avvolgente e piuttosto enigmatica: una sorta di nu jazz corroborato da un groove rock ed elettronico. Più o meno la stessa atmosfera si respira nella successiva Taken A Drive Down I95, ma qui ci si sposta di più  (e nuovamente) sul versante jazz rock. L’album si chiude con 630 ed ancora una volta si apprezza la batteria di Harrison a sostenere la complicata ritmica di un ulteriore sconfinamento nella fusion. God’s Music mi è piaciuto moltissimo. Ho apprezzato il modo vario e sofisticato di intendere la batteria da parte di Rah, ma più ancora di questo ho trovato davvero molto interessanti le sue composizioni. In un volo esaltante tra generi diversi, Richard Adolphus Harrison riesce a trascinare l’ascoltatore con continui passaggi tra atmosfere e stili, epoche e tendenze senza mai annoiare, ma anzi stimolando curiosità e attrattiva praticamente dall’inizio alla fine. Una dote rara in qualsiasi lavoro discografico, a prescindere dal genere, ma anche dai periodi storici. Secondo me God’s Music è uno degli album più belli del 2019, ed in attesa di quello che Rah proporrà in futuro, possiamo godercelo ancora per molto tempo. Il mio consiglio è di ascoltarlo al più presto.

The Jeff Lorber Fusion - Impact


The Jeff Lorber Fusion - Impact

Mi piace molto Jeff Lorber, come il buon vino invecchiando è migliorato moltissimo. E’ sempre stato uno dei paladini contemporanei della fusion, ma lasciate da parte alcune escursione nella musica commerciale, concentrate negli anni ’80, il suo percorso di crescita e di ricerca costante della qualità non ha mai smesso di salire verso livelli che appaiono oggi veramente notevoli. E’ una vera icona del genere fusion il nostro bravo Jeff, con le sue tastiere ed il suo pianoforte ha creato uno stile, ha definito uno standard: il suo gruppo non a caso si chiama The Jeff Lorber Fusion. Lui è talmente sinonimo di fusion che il nome stesso della band appare quasi ridondante. Il suo rinascimento, iniziato nel 2010 con Now Is The Time, è continuato imperterrito e spedito anche con l’ultimo album Impact, uscito nel 2018. Squadra che vince non si cambia, ed infatti Lorber conferma sia la formula musicale che i membri della sua band. L’album precedente, Prototype, è valso a Jeff Lorber il primo Grammy Award nella categoria "Best Contemporary Instrumental" della sua lunga attività: la prima vittoria assoluta dopo otto nominations. La verità è che questo riconoscimento è quasi da considerare un premio alla carriera in quanto, da oltre quarant’anni, questo formidabile tastierista dispensa la sua miscela di jazz e funk, fornendo idee ed ispirazione per generazioni di giovani musicisti. Probabilmente il prestigioso Grammy Award lo ha solo motivato ad accelerare il ritmo già serrato di una pubblicazione ogni due anni. Ma questa è una gran bella notizia per tutti i suoi fan. Su Impact Lorber si avvale nuovamente della collaborazione del suo amico bassista Jimmy Haslip, anche lui personaggio di primissimo piano nel mondo della fusion. E non sono da meno gli altri componenti del gruppo che contribuiscono a quella che è ormai una macchina perfetta: il sassofonista Andy Snitzer ed il batterista Gary Novak. A completare il quadro c'è un piccolo contingente di musicisti che fanno le loro apparizioni in veste di ospiti, e tutto è arricchito dai luccicanti arrangiamenti per i fiati ad opera di Dave Mann. Questa è la medesima formula che Lorber ha usato negli ultimi tempi, ed è difficile metterla in discussione, inutile cambiare se non ce c’è bisogno. Se si producono molti album in breve tempo c’è tuttavia il rischio che lo si faccia a scapito della qualità. Ma ciò che forse è più prodigioso degli ultimi lavori del Jeff Lorber Fusion è proprio come, nonostante la innegabile prolificità, i lavori mantengano un elevato standard nelle composizioni, una sinergia di gruppo tra le più efficienti ed una produzione praticamente impeccabile. Impact non mostra alcun cedimento, è interessante e godibile dall’inizio alla fine, nel segno della miglior fusion ma con un groove molto funky che ne rappresenta il filo conduttore. "Sport Coat Makes Good" è il brano che da il via al programma, con i fiati a guidare i giochi, e la chitarra ritmica vecchia scuola grazie ad un Paul Jackson, Jr.sempre in forma. Se avevate dubbi su quanto poteva essere funk questo album, qui troverete la risposta. E subito Lorber fa sfoggio della sua bravura: il primo assolo al piano acustico, il secondo con il suo magico Rhodes. "Pasadena City" ha un sofisticato impatto da jazz urbano, reso ancora più speciale dall'improvvisazione di basso di Haslip piazzata subito all’inizio. Groove a palla, bisogna abituarsi all’aggettivo 'funky': in questo album è collocabile ovunque. “Citizenship” è fresca e contemporanea, tipicamente fusion,  e tuttavia l'ispirazione viene da quel blues latino alla Horace Silver, reso popolare dal pianista alla fine degli anni '50, primi anni '60. Nel solo di pianoforte così virtuoso c’è davvero tutto Jeff Lorber. Da sottolineare come questo maestro del piano elettrico e dei sintetizzatori non abbandoni mai completamente lo strumento acustico, lasciando spazio al pianoforte su ogni traccia. "Highline" si lancia nuovamente con decisione nel funk, con un andamento imprevedibile ed originale. Caratterizzata da una interessante linea di basso di Haslip, “Opt In” ci consente di ascoltare un ispirato Snitzer al sax soprano duettare con il pianoforte di Jeff. La band sembra prendere fiato con “Quest”, dove ancora Andy Snitzer sfoggia il suo sax in stile David Sanborn nell'unico momento tranquillo dell'album. Con "Sunny Sounds" si ritorna al groove, quello tipico del JLF: è un piacere per le orecchie un numero in cui gli arrangiamenti per i fiati di David Mann risaltano appieno anche grazie al ritmo, quasi jazzistico. E ancora Lorber sciorina tutto il suo talento negli assoli. "Companion" si presenta con un meraviglioso ritmo sincopato in cui Lorber, al basso synth, si diverte con linee che si confondono con quelle di Haslip. Curiosamente rispolvera anche il Minimoog che ci riporta alle sue registrazioni della fine degli anni '70. Chiudono la formidabile sequenza di 10 brani Arda e Valinor, forse non a caso i due più jazzati dell’intero album. Impact è “tanta roba” direbbero i più giovani. Non deluderà di certo i fan del Jeff Lorber Fusion, ma anzi, è un lavoro in assoluto molto ben riuscito. E’ sempre dinamico e propositivo, pieno di energia e cosa ancor più importante suonato meravigliosamente. Jeff Lorber ed il suo gruppo hanno fatto centro ancora una volta. Da non perdere.

Fo / Mo / Deep - A Beautiful Bang


Fo / Mo / Deep - A Beautiful Bang

Sono costantemente alla ricerca di nuove proposte musicali, di artisti che possano incuriosirmi e che di conseguenza possano entrare nella mia collezione. E ovviamente che io possa poi inserire in questo blog. Mi sono imbattuto casualmente nei Fo / Mo / Deep e subito hanno catturato la mia attenzione. Ma chi sono i Fo / Mo / Deep ? Di base si tratta di un trio di Columbus, Ohio che all’occorrenza si arricchisce di un paio di elementi aggiuntivi. A parte il nome, curioso ma non particolarmente accattivante, il gruppo in questione è invece molto interessante ed è pienamente collocabile all’interno della corrente jazz/funky/fusion. I Fo / Mo / Deep hanno quel particolare groove le cui radici vanno ricercate nella miglior scuola sperimentale degli anni '70: un tempo in cui jazz, soul e funk erano spesso interpretati e mescolati insieme come un’unica cosa. Il trio è composto da Ron “FatKat” Holmes Jr. al basso, Andre Scott alla batteria e Kevin Jones alle tastiere.  Al nucleo di base si aggiungono Keith Newton al sax e al flauto e Kenneth “ Pounce ” Pouncey alle percussioni. Hanno pubblicato già 4 CD e la loro musica è stata riprodotta in tutto il mondo sulle stazioni radio Internet, satellitari e terrestri. Nonostante ciò è una band sostanzialmente sconosciuta, tuttavia la loro proposta merita senza dubbio una grande attenzione. Negli anni '70, gruppi come gli Headhunters ed altri fondevano elementi jazz con vibrazioni funk e afro per creare una straordinaria ed originale ricetta musicale. Fu un viaggio importantissimo ed imprevedibile di percorsi culturali che allargarono gli orizzonti non solo della musica ma anche quelli della coscienza sociale americana. Molti musicisti hanno tentato di ricreare quel magico feeling nel corso degli anni a seguire, ma pochi hanno davvero catturato con successo il groove di quel momento storico. I Fo / Mo / Deep emergono dall’anonimato della provincia americana per colmare in modo piuttosto convincente questa lacuna, regalando una collezione di brani che colgono lo spirito degli anni ’70. Il trio dimostra una capacità innata di riaccendere gli elementi classici e fondamentali del funk e del jazz e di coniugarlo in un linguaggio moderno. Già il loro primo CD, "Eclecticism", aveva ricevuto recensioni molto positive. Anche sul loro secondo album "A Beautiful Bang" il loro groove unico viene declinato con un eclettico mix di ritmi jazz/funk piuttosto rari al giorno d’oggi. I loro spettacoli energici e imprevedibili ed hanno contribuito a creare una formidabile reputazione per questa band infusa di purissimo funk. "A Beautiful Bang" trasferisce magistralmente l'energia delle esibizioni dal vivo dei Fo / Mo / Deep fin dentro allo studio di registrazione: con un grande rispetto per il patrimonio culturale della musica americana, ma con originalità e un tocco di intelligente modernità. I brani disegnano un quadro musicale dai colori variopinti, con esplosioni di improvvisazione, ma catturando allo stesso tempo l'essenza emotiva dei momenti stilisticamente più delicati. Gustosamente varia ma legata da un filo di grande coerenza, la musica del trio coglie l’attimo e tuttavia resta connessa con la tradizione. "A Beautiful Bang" tocca il blues, l’afrobeat, il groove brasiliano, il funk, il neo-soul e ovviamente il jazz. È  un album molto più eclettico del primo, in cui i 13 brani portano in un viaggio funky che spazia  tra le atmosfere da jazz contemporaneo di "Jawjacka" e "The Wanting", e vanno in profondità nella vecchia scuola con "Martini Blues" e "My Baby Gots 'the Blues, Blues". C’è spazio per la bossa jazz di “A Plethora of Pleasant Thoughts” ma anche per un accenno di neo-soul jazz con “Da Ba Di Do (Sonrisa de Zoe)”. Un ipnotico andamento afro-beat è leit motiv di  "A Beautiful Bang" che pesca comunque anche dalla musica brasiliana. Il funk è il focus di "Mama Said, Mama Said", e non manca la poesia di una lenta ballata come "The Road" che ricorda certi strumentali dei primi Earth Wind And Fire. Fin qui il materiale originale composto dai tre ragazzi dell’Ohio, che dimostrano una grande sapienza ed un bel talento anche in questo delicato campo. Ma poi ci sono le loro selezionate covers, come il super funk "Gentleman" (Fela Kuti), il delizioso duetto di sax e pianoforte di "Naima" (John Coltrane), l’inusuale interpretazione reggae della complessa "Red Clay" (Freddie Hubbard) ed infine l’eccellente fusion di “Montara” (Bobby Hutcherson). La sezione ritmica, con il pulsante basso di Ron “FatKat” Holmes Jr. e la precisa batteria di Andre Scott sostiene tutta l’impalcatura della band, ed è davvero notevole lungo tutto il percorso sonoro dell’album. Altrettanto valido è poi il piano (acustico ed elettrico) di Kevin Jones. Il sax di Keith Newton è praticamente il quarto tassello fondamentale di questo album e la sua voce ne diventa una parte imprescindibile. Cercando con coraggio e caparbietà di sfidare l'ordinario, questo gruppo di musicisti semi sconosciuti ci consegna una miscela unica di groove a base di jazz, funk e soul. Il loro segreto è semplicemente la passione: suonare, scrivere e registrare musica con entusiasmo e competenza. Una bella sorpresa, che consiglio a tutti di provare ad ascoltare, potrebbe essere una rivelazione entusiasmante.

Dave Koz And Friends – Summer Horns



Dave Koz And Friends – Summer Horns

Dave Koz è uno tra i più famosi sassofonisti contemporanei di smooth jazz. Nato in California, ha studiato musica, ma si è anche laureato  in scienze della comunicazione alla UCLA. Tra la fine degli anni '80 e i primi anni '90 decide di dedicarsi a tempo pieno alla sua vera passione: il sax. Nel frattempo era stato turnista di Bobby Caldwell, Jeff Lorber e Richard Marx. Nel 1990 ha firmato un contratto discografico con la Capitol Records e ha pubblicato il suo primo album. Ha ricevuto immediatamente ottimi riscontri con due candidature ai Grammy Award. Al contempo si è esibito dal vivo in tournée in varie parti del mondo ed ha fatto anche molta radio, in particolare nel suo show “The Dave Koz Morning Show”, portato avanti fino al 2007. Questo album del 2013, è ispirato dalle classiche band pop, funky e R&B degli anni '60 e '70, caratterizzate da un uso massiccio dei fiati, come i Chicago, i Tower of Power o gli Earth, Wind and Fire. Per questo particolare progetto, Dave, che è ormai una superstar dello smooth jazz ed ha pubblicato molti altri album a suo nome, ha invitato tre famosi colleghi come Mindi Abair, Gerald Albright e Richard Elliot, tutti sassofonisti come lui. Ecco dunque formato una sorta di roboante quartetto di stelle del contemporary jazz. Il risultato di questa alleanza musicale è Summer Horns, una raccolta di covers di brani dell'epoca d’oro delle band prima citate che vuole rendere un tributo a quel particolare modo di fare musica ma cerca anche di evocare lo spirito divertente e spensierato dell'estate. Va detto che i quattro dimostrano un evidente cameratismo: interpretano la partecipazione a questo album con un intento univoco, senza protagonismi, ma come vedremo senza davvero convincere. Tutto il progetto si avvale degli arrangiamenti di alcuni veterani di prim'ordine. C’è molta opulenza in Summer Horns, questo è fuor di dubbio, così come tutto appare perfettamente tirato a lucido e realizzato con competenza. E allora che cosa potrebbe andare storto a fronte di un impegno così professionale? In realtà molte cose non vanno per il verso giusto. Il problema principale di Summer Horns è il suo partire dal presupposto che se “molto” è bene, allora “di più” deve essere meglio. Ma abbondare non è sempre una cosa raccomandabile. In certi casi è solo più di quanto sia veramente necessario. Dunque l’album zoppica principalmente per questo motivo. Una mancanza di personalità che fa pensare che se, per assurdo, sostituite i 4 del progetto con altri sassofonisti presi dal vasto panorama dello smooth jazz,  probabilmente il risultato non cambierebbe di molto. I brani rimarrebbero più o meno gli stessi e gli arrangiamenti di Greg Adams, Tom Scott, Gordon Goodwin, Marco Basci e dello stesso Albright suonerebbero sempre sufficientemente a fuoco senza mai risultare davvero impressionanti. Insomma questo è il classico album formalmente ineccepibile che nella sostanza manca di cuore e convinzione. A questo non sfugge nemmeno la scelta dei brani inseriti nella raccolta. Il concept che prevede solo covers (tranne un pezzo) potrebbe essere stato guidato dal desiderio di far risuonare dei classici familiari a tutti con un abito moderno o più semplicemente è dovuto al fatto che i 4 sassofonisti non avevano il tempo di comporre materiale completamente nuovo e originale. Difficile a dirsi, ma la seconda ipotesi sembra tristemente la più probabile. L'urgenza di compiacere invece di incuriosire l'ascoltatore è ciò che rende Summer Horns un bell’involucro, anche allettante, ma vuoto. È simile a un film di successo con un cast stellare ed effetti speciali strabilianti che vi fa passare un'ora e mezza, ma non lascia alcuna impressione a lungo termine. Il talento dei protagonisti è indiscusso, ma in ultima analisi non lascia il segno. Nell’unione dei quattro musicisti è come se ci fosse una sorta di freddo calcolo commerciale finalizzato al successo nelle vendite: proprio ciò da cui ogni vero appassionato di jazz da sempre cerca di sfuggire. In ogni caso il disco scorre fluido e senza sussulti da un pezzo all’altro: e molti sono brani che non faticherete a riconoscere. Da Take Five di Brubeck a God Bless The Child, da You Have Done Nothing di Stevie Wonder a Hot Fun In The Summertime di Sly and the Family Stone. Non mancano I feel Good di James Brown, Always There  di Ronnie Laws e Reasons degli EW&F. Una parata di ospiti prestigiosi completa il quadro con la sfilata di Brian Culbertson, Michael McDonald, Jeffrey Osborne, Rick Braun e Jonathan Butler. Il momento migliore e forse l’unico interessante di tutto il disco arriva alla fine con "Summer Horns", ma suona quasi come una beffa: fa presagire cosa avrebbe potuto essere questa grande collaborazione se Dave Koz e compagni avessero scelto di osare di più e non giocare in difesa, alla sola ricerca del facile successo. Peccato, è un’occasione sprecata, ma tranquilli… come sottofondo di un viaggio in auto o di una serata in compagnia Summer Horns può andare bene lo stesso.

Mark Etheridge - Connected


Mark Etheridge - Connected

E’ un personaggio particolare Mark Etheridge, di sicuro ha dimostrato di essere molto vario nelle sue scelte artistiche. Dopo un'infanzia travagliata (bullismo e problemi con l'identità sessuale), Mark ha evidentemente incontrato anche molte incertezze esistenziali mentre cercava di scoprire chi voleva realmente essere o meglio che tipo di musica voleva veramente fare. Se ci si basasse solo sull’ascolto di "Connected", il suo ultimo album, il tastierista verrebbe classificato senza ombra di dubbio come un musicista di smooth jazz. Tuttavia, quando ha debuttato circa una decina di anni fa, Mark fu considerato un esponente della corrente denominata "New Age": tutto nei contenuti del suo lavoro portava in quella specifica direzione. Il suo secondo album, uscito del 2102, intitolato Change Coming, vide un nuovo ed inatteso cambio di rotta, dato che Etheridge incise un disco incentrato sulla sua voce attraverso delle classiche canzoni “adult oriented”. Ma eccoci al presente, e ad una nuova svolta nella sensibilità musicale di Mark e probabilmente anche nella sua vicenda personale. "Connected" è puro e semplice smooth jazz: limpido, ottimista, pulito e ben suonato. Niente atmosfere rarefatte New Age o canzoni più o meno sofisticate. Qui si tratta di jazz contemporaneo, ovviamente basato sul piano e sulle tastiere, declinato in 10 brillanti composizioni originali nelle quali Etheridge ha proiettato tutto il suo entusiasmo e la sua competenza. Quindi ora, risolto il suo conflitto artistico interiore, ci dice con chiarezza quale tipo di musica preferisce: Connected celebra l'ottimismo derivante da una positiva connessione umana. Si percepisce questo feeling ritrovato e si gode delle buone vibrazioni proprio attraverso la serenità e l’allegria di questo album. Prodotto dal fantastico Paul Brown, Connected è una raccolta di brani davvero accattivanti. A questo punto e visti i risultati, è naturale pensare che è un peccato che al tastierista ci sia voluto tanto tempo per trovare la sua strada nel variegato mondo dello smooth jazz. Alla luce di questa pubblicazione, è chiaro che l'interesse degli appassionati di jazz contemporaneo di tutto il mondo verso Mark Etheridge risulterà enormemente aumentato. In attesa ovviamente di future conferme, forse non del tutto scontate. In ogni caso questo album è molto piacevole e ben congegnato: non ci si potrebbe aspettare niente di meno con un personaggio come Paul Brown al timone della produzione. La perfetta unità di intenti e la sintonia artistica sono sancite dal fatto che Etheredge e Brown condividono la stessa identica band. Un gruppo che oltre al pianista può contare sul bassista Roberto Vally, il percussionista Richie Garcia e il batterista Gordon Campbell. Un formazione completata dalla tromba del sempre eccellente Lee Thornburg e affiancata dal sax di Greg Vail, ciliegine sulla torta le due apparizioni di Paul Brown stesso alla chitarra. Il risultato è inevitabilmente di ottimo livello. Qui non troverete banali campionamenti ne abusi di sequencer e sintetizzatori, gli arrangiamenti invece fanno leva sui classici strumenti suonati da musicisti di indubbio valore. Inoltre tutto il progetto beneficia della qualità intrinseca delle composizioni di Etheridge la cui mano appare particolarmente ispirata. A partire da "Groovin With My Baby", un brano dal sapore romantico pieno di leggerezza e gioia di vivere. "Be Who You Are" ha una melodia molto accattivante che è immediatamente piacevole ma è bello ascoltare come il piano di Mark riesca ad impreziosire il tutto. "Roger That" vanta un sound sofisticato dai toni contemporanei e jazzati: la brillante batteria e la bella sezione fiati la rendono uno dei momenti clou dell’album. "Connected" è un’altra composizione davvero notevole, ricorda il miglior Bob James e mi ha impressionato il suo andamento melodico, così pieno di luminosità e ottimismo. La sezione fiati ed il sax di "Lost in the Shuffle" conferiscono  a questo pezzo un groove tra i più jazz oriented dell’intero disco. "For Your Love" è un'altra meravigliosa traccia con un bel groove, che è toccante e rilassante allo stesso tempo. E c’è anche la fantastica chitarra di Chuck Loeb ad illuminare il brano. "Rain" è delicatissima, ma non melensa: il ritmo lento e il gioco di pianoforte molto discreto la rendono piacevolmente rilassante. Non manca un’escursione nel ritmo latino con l’intrigante "Cherry Cha". "Bing Bang Boom" si rivela una superba vetrina per il puntuale e pulitissimo tocco pianistico di Etheredge. Infine "Soul Clap Honey" arriva a chiudere nel modo migliore l’album: corroborata dal sax potente di Andy Suzuki. Considerando Connected come una sorta di debutto, quanto meno per il contesto dello smooth jazz, non si può chiedere molto di più a Mark Etheridge. Il pianista ha davvero confezionato una collezione di brani pieni di grazia, buon gusto e positività. In ultima analisi questo è un album che può soddisfare una vasta platea di ascoltatori: dall’appassionato di jazz  in cerca di leggerezza al semplice estimatore della buona musica, vale la pena di dedicargli un po’ di attenzione.

Mattias Roos - It Goes On And On


Mattias Roos - It Goes On And On

Ho parlato qualche settimana fa dei Soweco, un gruppo funky soul svedese molto interessante, salito recentemente alla ribalta con i suoi album curati ed eleganti. Nel segno della continuità vorrei oggi prendere in esame il loro leader e tastierista tuttofare Mattias Roos. Il suo ultimo album si intitola "It Goes On And On": andare avanti  è sicuramente il motto che rispecchia il modo d’essere del tastierista svedese, che ritorna con il suo terzo lavoro da solista grazie a questa bella collezione di dieci tracce strumentali. Ancora una volta troviamo Roos molto ispirato e creativo. Scritto, arrangiato, suonato e prodotto in prima persona, "It Goes On And On" è pubblicato sull'etichetta Skytown Records e segue il suo progetto del 2017 "Movin". In comune con il precedente sforzo, il disco mette in evidenza l'inclinazione di Mattias verso una ben congeniata fusione tra i grooves tipici dello smooth jazz e le atmosfere  della vecchia scuola disco/soul. Oltre ad essere ormai un  consolidato solista ed un tastierista richiesto da molti artisti svedesi di alto livello, molti conosceranno Roos come membro della band Soweco che ha formato nel 2011 con il batterista Peter Gustavsson. Come è lecito attendersi, Roos ha traslato un po' di quel suono distintivo in quella che ora è una fiorente carriera da solista, ma nel farlo ha forgiato un'identità molto personale. Certo non bisogna aspettarsi dei contenuti particolarmente impegnati, si tratta pur sempre di un disco di puro intrattenimento, suonato e prodotto con eleganza, ma senza quella profondità propria di progetti decisamente più ambiziosi. Musica piacevolmente allegra e positiva dunque, sulla quale aleggia un sentore di contemporary jazz che va ad insaporire un piatto fondamentalmente pop. Questo è chiaro già dal numero di apertura, il vibrante "Rising To the Top" che è anche il primo singolo ad essere stato trasmesso alla radio. L’album prosegue con l’orecchiabile "It's A Lovely Day" in cui un il contrappunto di fiati si rivela il perfetto accompagnamento per il piano di Roos. Sulla stessa linea ma con un ritmo ancora più coinvolgente, la title track ricorda da vicino alcuni strumentali degli Shakatak ed in più beneficia della chitarra del bravo U-Nam. Il produttore e chitarrista U-Nam è ormai legato a Mattias Roos da un legame che va al di là del rapporto professionale: i risultati della collaborazione sono evidenti sia qui che sull’ultimo album dei Soweco, ma anche nell’ultima fatica di U-Nam stesso. In tutti i casi i risultati sono affascinanti e, così come avviene su "It Goes On And On", si può dire lo stesso di "Back To You" brano nel quale Roos offre esattamente quello smooth jazz da manuale che sa farsi molto apprezzare. In realtà in tutto l’album il tastierista dispensa vibrazioni positive come ad esempio nel contagioso "Bring It On":  ad un esame più attento  entrambi i brani traggono beneficio dall'eccezionale sound di Samuel Olofsson e della sua chitarra. Olofsson contribuisce a sei delle dieci tracce del disco così come il sax di Greger Hillman, un altro membro dell'entourage di supporto di Roos: ad esempio è eccellente la sua esibizione in "Party In My Backyard" dei Ripingtons. "Magical Nights" rivela il lato più delicato della personalità musicale di Roos così come il suadente "Just Cruising" che è semplicemente delizioso nel suo andamento rilassato. 'Spending My Time With You' si avvale dell’intervento elegante del sax di Andrey Chmut, compagno di scuderia alla Skytown Records. Il programma per così dire “più morbido” è completato dalle suggestive atmosfere di "Beautiful Starlights" nella quale la tromba di Markus Asplund è la classica ciliegina su una torta decisamente gustosa. L'album si chiude con una bonus track che è la versione radiofonica di "Rising To The Top". Mattias Roos  si sta conquistando una folta schiera di appassionati estimatori della sua musica grazie alla sua semplice ma elegante formula di smooth jazz. Complici le sue composizioni accattivanti, un eccellente gusto negli arrangiamenti e la necessaria perizia come tastierista sono sicuro che il ragazzo svedese farà parlare a lungo di se.

Bill Withers – Greatest Hits


Bill Withers – Greatest Hits

Bill Withers è stato un cantante d’eccezione. Essendo scomparso qualche giorno fa, mi è parso doveroso dedicargli un piccolo, personale tributo attraverso una recensione su questo blog. Bill ebbe una carriera piuttosto breve ed i suoi album non sono numerosi, anche per questa ragione ho deciso di parlare del suo Greatest Hits, che condensa in 10 significative canzoni tutto il suo mondo musicale. Per poco più di un decennio, Bill si è fatto interprete di uno stile morbido, fatto di atmosfere calde e avvolgenti, caratterizzate dalla sua bella voce profondamente black. Una sorta di icona del genere soul declinato nella maniera più elegante, garbata e sofisticata che si possa immaginare. Nel 1985, a seguito dei suoi contrasti con l’etichetta Columbia, divenuti insostenibili dopo l’uscita del suo album Watching You Watching Me, prese la decisione di scegliere la strada delle collaborazioni con altri artisti di fama per poi ritirarsi definitivamente dall’industria discografica e dedicarsi ad altri interessi. Nonostante la relativa brevità della sua carriera, (1971-1985) nei non molti dischi che realizzò per la Sussex Records e  poi per la CBS, il vocalist originario di Los Angeles seppe toccare le corde delle emozioni di leggende come Booker T. Jones e Stephen Stills. Per non parlare dei milioni di ascoltatori che nel corso degli anni si sono fatti conquistare da brani diventati immediatamente famosissimi come “Lean on Me”, “Use Me” e”Ain’t No Sunshine”. Personaggio all’antitesi degli scatenati urlatori R&B che imperversavano negli ’70 e ‘80, Withers privilegiò sempre un repertorio più confidenziale, caratterizzato da delicatezza e finezza intrinseche, tutti elementi che hanno costruito la base dei suoi lavori fondamentali come ad esempio questo Bill Wither’s Greatest Hits. Le peculiarità che emergono da questa raccolta di successi si possono trovare nelle sonorità nervose delle chitarre, gli spunti funky del basso, il sofisticato contorno degli archi. Ma vanno sottolineate anche l’ariosità delle armonie di contrappunto e la contagiosa energia della batteria che contribuiscono in modo determinante alla costruzione di un sound come quello di Bill. La musica di Withers accarezza gradevolmente i sensi ed è universalmente apprezzata per la sua sincerità ed il suo fervore: la sua splendida voce è in grado di accompagnare ed intrattenere come raramente accade. Incredibilmente, Withers non ottenne mai risultati di vendite particolarmente eclatanti dai suoi dischi, ma il tempo ha restituito comunque all’artista delle belle soddisfazioni. La sua storia di cantante è particolare: dopo aver ricevuto una proposta dalla Sussex mentre lavorava in una fabbrica di sedili per servizi igienici, Withers venne accolto sotto l’ala protettrice dell’organista Booker T. Jones. Con l’etichetta Stax Records alle spalle, Booker T. Jones convogliò alcuni membri della sua band, tra cui Stills e Jim Keltner, nella registrazione dell’esordio discografico di Bill Whiters. La collaborazione con la Sussex/Stax portò a 4 album. La vicenda con la CBS Records fu invece piuttosto travagliata, 5 album in tutto ed un rapporto, come detto, piuttosto conflittuale che sfociò nel 1985 con l’abbandono del mercato discografico in veste di solista. In Greatest Hits è possibile ascoltare due brani registrati durante le sessioni con Booker T. Jones : il brano vincitore di un Grammy Award, “Ain’t No Sunshine” e lo struggente “Grandma’s Hands”. Entrambe le canzoni consentono di apprezzare l’incredibile controllo della voce, lo stile gradevolmente soul e il brillante fraseggio di Withers. Questo stesso album ci consente di apprezzare anche la spiccata propensione di Withers nel trasformare episodi biografici in brani quanto mai coinvolgenti. Le sue canzoni  riescono a far coesistere brillantemente elementi del pop, del gospel, del blues e del soul in un mix davvero coinvolgente. La prova più eclatante di questa inclinazione di Withers per il crossover non è costituita tanto dai brani che pur entrarono nelle classifiche pop e R&B, ma nello stesso DNA delle sue opere migliori. Tutti i brani contenuti in Greatest Hits meritano di essere ascoltati con la massima attenzione. Riproposta in seguito in brillanti covers, eseguite da artisti di fama internazionale, “Use Me” sfrutta un avvincente riff di clarinetto e un tempo mosso per esprimere le sensazioni contrastanti legate a una relazione problematica. Nell’agile “Who Is He (And What Is He to You?)”, Withers mischia di nuovo sapientemente uno spirito dolce a spunti decisamente più amari. In “Lovely Day”, un brano con un arrangiamento indimenticabile e accattivante, Withers tiene una nota per ben 18 secondi. La canzone ottenne un successo talmente clamoroso da spingere un gran numero di star ad eseguirlo nei loro concerti e a registrarne riuscitissime covers (due nomi? Diana Ross e a R. Kelly). Ovviamente, per quanto mi riguarda, i due momenti top restano Just The Two Of Us e Soul Shadows, i due brani con maggiori affinità verso il jazz. Il primo era contenuto in uno degli album più belli del secolo scorso, ovvero Winelight di Grover Washington, Jr. ed è una canzone semplicemente perfetta: dall’arrangiamento all’assolo di sax, per non parlare dell’interpretazione indimenticabile di Whiters. Il secondo era invece parte di Rhapsody And Blues dei Crusaders: nello stesso modo del precedente risulta uno dei brani più belli degli ultimi decenni, proprio grazie alla splendida voce del nostro Bill. Con “Lean on Me” Withers ha poi creato un capolavoro che da oltre quarant’anni continua a fare parte del classico American Songbook. Bill Whiters è un imprescindibile punto di riferimento per ogni cantante soul contemporaneo, al di qua ed al di là dell’Oceano. Lui è stato e sarà per sempre il portavoce ideale della musica soul e R&B e di tutto quel repertorio di canzoni senza tempo esplorato anche da tanti altri grandi artisti. Qualunque sia il vostro genere preferito il Greatest Hits di Bill Withers non può mancare nella discoteca di nessun amante della grande musica.

Robben Ford & Bill Evans – The Sun Room


Robben Ford & Bill Evans – The Sun Room

Due giganti del panorama musicale contemporaneo uniti da un progetto comune, legati da una visione della musica del tutto simile e da un’amicizia e da una stima reciproca di lunga data. Il duo formato dal chitarrista Robben Ford e dal sassofonista Bill Evans, che hanno spesso condiviso il palco e registrato insieme nel corso degli anni, finalmente pubblica un album ufficiale con materiale inedito. Ne è uscita la cosa migliore che i due musicisti hanno dato alle stampe di recente. La band è stata appositamente assemblata con musicisti di altissimo profilo e presenta l’attuale batterista degli Steely Dan, Keith Carlock e il bassista James Genus, che ha suonato con artisti del calibro di Lee Konitz, Michael Brecker, Branford Marsalis e Chick Corea. The Sun Room è esattamente ciò che ti aspetti di ascoltare quando due leggendari musicisti come questi uniscono le forze. E’ un lavoro che possiede molto stile, vanta un’eccellente qualità compositiva, un grande virtuosismo (ma quello era scontato) e quella vena creativa di cui ha bisogno un album di blues, jazz, soul e funk fusi insieme. Bill Evans inquadra bene la tipologia del disco nella sua presentazione: “Ogni tanto musicisti che la pensano allo stesso modo si uniscono per creare qualcosa che trascende i confini musicali ma che può comunque raggiungere un pubblico più ampio. Secondo me, la musica che abbiamo scritto per The Sun Room è senza tempo. Amo blues, jazz, soul, funk e questo album ha tutto ciò, suonato a livelli altissimi. Non posso essere più felice. L’atmosfera era grandiosa durante le registrazioni ed era una gioia esserne parte”. Non molto diversa la dichiarazione di Robben Ford in merito al progetto: “Avendo lavorato con molti musicisti in diversi ambienti, posso dire che questo gruppo ha un’intesa incredibile ed è in grado di navigare in acque inesplorate, abilità fondamentale per improvvisare”. “Fare questo album e suonare con questi musicisti è stata una delle esperienze preferite di tutta la mia carriera musicale”. Musicalmente parlando l’album appare più vicino allo stile di Evans, ma comunque la classe ed il tocco inconfondibile di Ford sono in evidenza. La sensazione è che il sassofono, di solito tenore, ma anche quello soprano, sia lo strumento principale. “The Sun Room” si presenta come un solido disco d’esperienza, in cui la matrice rock blues traccia delle linee musicali che si intersecano con l’architettura jazz-fusion. Non c'è da meravigliarsi che i due abbiano deciso di convogliare i loro sforzi artistici per creare un suono vincente, così perfetto che sembra realmente nato da un interplay naturale, quasi fisico. Uno dei segreti dell’album sta nell'interpretazione che Ford da al suo personalissimo modo di suonare la chitarra. Da giovane ha studiato il sassofono ed è per questo che il suo sound ed i suoi assoli sono basati proprio su quello strumento ad ancia. Dall’altra parte c’è Bill Evans, cioè un sassofonista che da sempre è molto attento a confrontarsi con lo stile dei musicisti che lavorano con lui. Per Bill il termine fusion ha un significato molto più ampio e variegato della semplice commistione di generi diversi. I brani contenuti in The Sun Room sono tutti di notevole spessore e spaziano con disinvoltura tra le varie anime che contraddistinguono i due solisti. Si va dalla fusion be bop di Star Time al blues di Pixies, dalle complesse e apparentemente improvvisate Stange Days e Bottle Opener; al fascino di un vecchio pezzo jazz traslato all’era moderna come Catch A Ride fino a Gold On My Shoulder, con quel pop jazz cantato tipico di Robben Ford. Molto interessanti anche la trasversale Insomnia (con un altro intervento cantato di Robben) e la jazzata e quasi “Davisiana” Big Mama. I due grandi ed esperti strumentisti insegnano alle nuove generazioni come si possa essere eleganti e concreti, senza tuttavia esagerare con il virtuosismo a tutti i costi, spesso troppo frequentato ai giorni nostri. Inutile sottolineare come Bill Evans dimostri di essere un sassofonista moderno e vario, dotato di una timbrica molto coinvolgente che lungo tutto il percorso del disco dispensi emozioni e calore. Analogamente Robben Ford fa sfoggio della sua chitarra dalla voce piena e tagliente, carica di blues ma sempre pronta a confrontarsi in modo naturale con ogni genere musicale. Una menzione doverosa e meritata va ovviamente alla sezione ritmica nella quale Keith Carlock e James Genus non si limitano a svolgere un ruolo di supporto a Ford e Evans ma si ritagliano un posto di rilievo nell’economia della registrazione. In ultima analisi ci troviamo di fronte ad un album che è vario e tuttavia omogeneo, come raramente capita di ascoltare. Semplicemente fantastico.

Andy Bey – Shades OF Bey


Andy Bey – Shades OF Bey

Il cantante preferito di John Coltrane. Questo è il marchio che Andy Bey si porta appresso: tuttavia lui è uno dei tanti artisti del jazz non abbastanza celebrati e, seppur goda di un piccolo seguito che lo apprezza senza riserve, non è così famoso come dovrebbe essere. Bey è un interprete che possiede una ampia gamma vocale, che parte da una tonalità su base baritonale, ricca e piena, ma può estendersi con naturalezza anche più in alto. Nato e cresciuto a Newark, nel New Jersey, non lontano da New York, Bey ha avuto frequentazioni con il jazz fin da bambino iniziando a cantare di fronte al pubblico già all'età di otto anni. Curiosamente in alcune di queste esibizioni era accompagnato da un grande del sax tenore come Hank Mobley. Incredibilmente Bey aveva solo 13 anni quando, nel 1952, registrò il suo primo album da solista, Mama’s Little Boy's Got the Blues e ne aveva 17 quando formò il gruppo Andy & the Bey Sisters con le sue sorelle Salome e Geraldine. Il gruppo registrò anche tre album (uno per la RCA Victor nel 1961, due per la Prestige nel 1964 e 1965), prima di sciogliersi nel 1967. La voce da baritono di Andy Bey è ovviamente invecchiata con il passare degli anni, ma lo ha fatto con un processo di maturazione e se vogliamo di evoluzione che l’ha persino migliorata. Oggi suona ancora più calda e pastosa che agli inizi della carriera. Sull’album Shades of Bey datato 1998, la bella voce di Andy Bey arde di un fuoco intimo e coinvolgente. Proseguendo con l'atmosfera raccolta e riflessiva iniziata in modo mirabile sul precedente disco per solo piano e voce intitolato Ballads, Blues e Bey, anche qui il cantante afroamericano si esibisce in due brani accompagnato solo da una chitarra (al posto del piano): "Like a Lover", che è un adattamento vocale di "O Cantador" e " Drume Negrita ", che invece è una "ninna nanna afro-cubana". Sul resto delle tracce è viceversa accompagnato da un variegato gruppo di musicisti che assecondano a dovere il talento di Bey durante le parti strumentali, mantenendo una omogenea continuità di atmosfere. Un clima da notte fonda, profondo, caldo ed interiore. Andy non interpreta il canto con un eccesso di variazioni tonali, (anche se in "Last Light Of Evening" fa un uso efficace del suo falsetto) piuttosto  preferisce alternare con parsimonia la sua pur ampia gamma vocale. Predilige usare la voce per creare un'atmosfera intensamente confidenziale, che brilla di passione sincera senza scivolare nell’esagerazione. Tuttavia se vuole può anche essere esuberante, come nel delizioso scat di "Believin 'It". Su quella traccia, così come su "Straight, No Chaser" di Monk (qui chiamata "Get It Straight") Bey mette in atto una particolare interpretazione jazzata del rap che si alterna con una vocalizzazione in tecnica scat. Un modo sorprendente per illustrare a modo suo la continuità tra due tradizioni musicali che a prima vista potrebbero sembrare mondi a parte. Andy Bey è anche un abile pianista, che adatta con sensibilità ed una notevole agilità il suo strumento alla voce. Un buon esempio lo troviamo nelle due ballate "Some Other Time" e "Dark Shadows", quest’ultima con un bellissimo andamento blues. Ma è altrettanto valido nell’accompagnarsi nella romantica "Midnight Blue", oppure in "Believin'It" e  nell'indimenticabile "Blood Count" di Billy Strayhorn (ridenominata "Last Light Of Evening". Geri Allen si siede al piano al posto di Bey in "The Starcrossed Lovers" di Ellington ("Pretty Girl" nella versione di questo disco) e dimostra lo stesso orecchio educato e sensibile del cantante nell’adattarsi agli altri musicisti. Piuttosto sorprendente è la cover di "River Man" di Nick Drake, un brano singolare e appassionato reso con trasporto da un ispirato Andy. Una nota gradita tra i membri della band è la presenza del sax di Gary Bartz, il cui contralto è magnifico in "Midnight Blue" e solamamente un filo più sobrio, ma non meno preciso e fiammeggiante in "Dark Shadows" e "The Last Light of the Evening". Bartz e Bey condividono un destino comune: sono grandi interpreti del jazz che non hanno ricevuto fino in fondo i riconoscimenti che meritavano. Un grande fallo della critica che avrebbe dovuto essere più attenta nei confronti di artisti che invece hanno lasciato un segno tangibile del loro talento. La speranza è che un album bello ed intenso come Shades Of Bey, realizzato con il cuore e con ottima tecnica possa restituire sia a Andy Bey che, di riflesso, a Gary Bartz almeno parte dell'attenzione che meritano.