The Phil Collins Big Band – A Hot Night In Paris



The Phil Collins Big Band – A Hot Night In Paris

Phil Collins che suona il jazz in stile big band? E’ successo davvero! Per una breve stagione dopo il 1996 il buon Phil percorse anche questa strada. Sì, proprio lui, il simpatico, poliedrico, formidabile batterista che ha fatto la storia del progressive-rock con i Genesis durante l’epoca di Peter Gabriel e anche dopo. L’incredibile musicista che mentre suonava e cantava con i grandissimi Genesis, riuscì a trovare il tempo ed il modo di dare vita ai mitici Brand X, creando un vertiginoso jazz rock che incantò immediatamente frotte di appassionati. Phil Collins, dicevo, ovvero l’artista che finite queste fasi della sua carriera se ne è inventata un’altra a suon di successi pop internazionali. Ebbene alla fine degli anni ’90 il buon Phil diede vita anche ad un altro progetto, meno riuscito dei precedenti ma ugualmente interessante e che comunque non ebbe (purtroppo) un seguito. In cosa consisteva questo nuovo capitolo della storia musicale di Collins ? Si trattava di una big band di stampo jazzistico che riproduceva parte del suo repertorio Genesisiano, pescava ovviamente in quello da solista ed infine proponeva cover, non solo pop, ma anche jazz. La creazione della Big Band ha avuto una spinta molto forte soprattutto dalla passione che Phil Collins ha avuto sin da quando, giovanissimo, ascoltò l’orchestra di Buddy Rich. Ma non bisogna dimenticare però un’altra motivazione determinante. Nella seconda metà degli anni '90, la carriera di Phil subì una battuta d’arresto, con la conseguenza di un sostanziale calo anche nelle vendite discografiche. Collins, invece di inseguire la via più semplice e cioè confezionare (senza vergogna) un altro singolo da primi posti in classifica, decise di cambiare passo e provare qualcosa di diverso. Ecco allora che decise di ritornare ad essere prima di tutto un batterista, e quindi di assemblare la sua personale Big Band, facendo rivivere il suono dei suoi idoli: artisti come Buddy Rich e Sonny Payne. Il progetto aveva delle premesse molto stimolanti e pur avendo i suoi momenti di interesse è rimasto qualcosa di incompiuto. Di sicuro è spiazzante per gli appassionati meno avvezzi ai suoni del jazz, ma purtroppo non è stato completamente gradito nemmeno da questi ultimi. Inizialmente il disco potrebbe risultare davvero strano e forse un po’ naif trovandosi al cospetto di pezzi come "Sussudio", "That's All", "Against All Odds" o “Los Endos” che risuonano molto diversi nei loro nuovi arrangiamenti. E’ anche vero che le melodie possono occasionalmente sembrare in parte inconsistenti in un contesto come quello di una jazz big band, ma una volta che la prima reazione è superata, A Hot Night in Paris non può non essere ritenuto quanto meno divertente. A Hot Night In Paris è rimasto l’unica testimonianza della big band di Phil Collins e come si intuisce dal titolo è una registrazione dal vivo, effettuata a Parigi. Brevemente vi dirò quale è stata la genesi dell’album e della stessa orchestra: tutto iniziò con un breve tour europeo nel 1996 (che ha visto la presenza di Quincy Jones come direttore artistico e Tony Bennett come cantante). In seguito Phil ha creato una nuova versione della band ingaggiando alcuni famosi musicisti jazz, in particolare spiccano tra gli altri il sassofonista alto Gerald Albright, il chitarrista Daryl Stuermer, l’altro sassofonista James Carter e i pianisti George Duke e Brad Cole. Quella band andò in tournée in America e in Europa nel 1998, ed è quella presentata sull'album A Hot Night in Paris, che si compone di dieci brani per 70 minuti circa di musica. In questa definitiva incarnazione della sua big band, Collins non prova nulla di nuovo dal punto di vista stilistico, mantenendo la formula tipica delle grandi orchestre jazz, semplicemente la aggiorna, introducendo le sue canzoni. Tra i brani troviamo quindi anche quelli dei Genesis come ad esempio un tanto inatteso quanto particolare "The Los Endos Suite" che ovviamente non mancherà di sorprendere, più di tutto per essere originariamente molto progressive. Ci sono le cover di un brano importante come "Milestones" di Miles Davis e quella del famosissimo pezzo funk degli Average White Band "Pick Up The Pieces". In quanto tale, è il tipo di disco che inevitabilmente forse irriterà i puristi, dal momento che è mirato proprio al pubblico del jazz tradizionale, d’altra parte tutti quelli che hanno amato il Phil Collins solista e pop star e ancor di più gli amanti del progressive potrebbero a loro volta storcere il naso. Però a mio parere bisogna valutarlo con più attenzione e con una certa apertura mentale, non ragionando per schemi o archetipi consolidati. E’ semplicemente diverso. Quelli che non hanno davvero familiarità con la musica di una big band, ma hanno almeno una vaga idea di come suona un’orchestra jazz e ovviamente chiunque non sia oltremodo esigente o intransigente sarà probabilmente piacevolmente sorpreso da A Hot Night in Paris. Il disco è strumentale e ha certamente la dote di trasudare entusiasmo ed energia: i temi musicali emergono abbastanza rapidamente e questo li rende immediatamente riconoscibili, ma presto scompaiono immersi in un roboante carosello di fiati e ritmo. La batteria di Collins è come sempre pirotecnica e precisa, in linea con lo stile dei suoi epigoni, in particolare con quello di Buddy Rich: non a caso viste le premesse. D’altra parte la musica ha dello swing, non ha grandi pretese ed è molto divertente e vivace. Sì è vero: non è mai più che semplicemente godibile e simpaticamente vigorosa, però ha tutto quello che deve avere. E’ ben suonata, gli arrangiamenti danno un sapore nuovo a brani conosciuti e in ultima analisi rappresenta un modo diverso per un grande artista come Phil di presentarsi al pubblico. La critica non ha amato questa declinazione del grande batterista, i fan ne sono rimasti sorpresi, tuttavia ritengo che l’album meriti un ascolto attento ed una valutazione meno severa di quanto è sembrato fare il mondo dei recensori. Anzi arrivo a dire che mi dispiace che questo progetto non abbia avuto un seguito, perché penso che con il tempo avrebbe potuto regalare anche qualcosa in più di un semplice bel concerto a Parigi. A Hot Night In Paris è migliore di qualsiasi disco Collins abbia prodotto in oltre un ventennio e ci suggerisce che questo sarebbe per lui un modo dignitoso ed anche affascinante per percorrere felicemente la sua maturità come musicista. Dai… provaci ancora Phil.