Ernie Watts – Wheel OF Time


Ernie Watts – Wheel OF Time

Ernie Watts è un grande sassofonista jazz. Un musicista di ampio respiro dotato di tecnica sopraffina e di un innato gusto estetico: doti innegabili che lo hanno portato ad essere un improvvisatore intenso e passionale, con il pieno controllo del suo strumento in ogni situazione. A partire dalla metà degli anni '70 e fino ad oggi è stato spesso coinvolto in progetti discografici extra jazzistici, la qual cosa ha generato fin troppa ambiguità in merito alla sua figura di musicista di talento. Ricordo ad esempio il suo tour con i Rolling Stones e molte apparizioni con altri artisti pop di fama internazionale. Tuttavia di fatto Ernie Watts non è un sassofonista pop o R B, questa è solo una piccola parte della sua personalità artistica. Egli è un jazzista a tutto tondo, e a dire il vero la sua principale fonte d’ispirazione è sempre stata John Coltrane. Il suo lavoro jazzistico, che si snoda lungo 50 anni di carriera, rivela quanto Ernie Watts si sia in realtà evoluto in uno dei più energetici sassofonisti contemporanei. Ora, a settanta anni, con alle spalle le sue innumerevoli esperienze, Watts, con il suo sax tenore continua a produrre i suoi assoli lirici ed intricati e a suonare hard bop di alto livello. Wheel Of time è la sua ultima fatica, registrata in quartetto, nella quale sono inclusi nove brani, quattro dei quali scritti dallo stesso leader e uno ciascuno dagli altri membri del gruppo. La band è così composta: Ernie Watts, sax; Christof Saenger, piano; Rudi Engel, contrabasso; Heinrich Koebberling, batteria. Il tempo non ha certo temperato lo spirito di Ernie e di sicuro non ne ha sminuito le capacità tecniche. La musica di questo album ha la stessa carica espressiva del suo periodo alla corte di  Buddy Rich o della sua collaborazione con il bassista Charlie Haden nel celebrato Quartet West. È sufficiente ascoltare come Watts  suoni mirabilmente nella appropriatamente intitolata "Velocity" o nell’aggressiva "Inner Urge" di Joe Henderson. Questo è il quartetto di Watts in versione europea, una band con la quale ha suonato negli ultimi quindici anni (Wheel Of Time è stato registrato a Darmstadt in Germania e i musicisti sono tedeschi). Tutti indistintamente mettono in mostra i loro talenti a cominciare dal versatile e preciso pianista Christof Saenger, continuando con l’incrollabile e raffinato bassista Rudi Engel, e concludendo con bel drumming del batterista Heinrich Koebberling che si rivela una risorsa preziosa. Saenger è l’autore della lirica "L'Agua Azul” dal sapore latino, Engel della piacevole "Andi’s Blues" e Koebberling della variegata  "You and You". A completare il programma sono le composizioni di Ernie Watts "Letter from Home", "A Distant Light" e "Wheel Of Time", quest’ultima è una ballata davvero stupenda dedicata all’amico e collega Charlie Haden, morto nel luglio 2014. Simpatica e coinvolgente anche la canzone in stile calypso del pianista canadese Adrean Farrugia, intitolata "Goose Dance". Tutti i bravi musicisti tedeschi offrono un saggio delle loro impressionanti doti di strumentisti, in particolare il pianista Christof Saenger, che brilla in ogni occasione in cui ci sia bisogno della sua tecnica e della sua inventiva. Ma, come è normale che sia, l’album grava essenzialmente sulle spalle del formidabile Watts: un peso che il muscolare e virtuoso Ernie sostiene con disinvoltura e grande classe. Dopo più di mezzo secolo di musica all’insegna del suo sax vivace e colorato, il maestro non mostra alcun cedimento nella sua invidiabile energia e nessuna crepa nella sua incontenibile passione. In altre parole, Wheel Of Time altro non è che il solito grande Ernie Watts, se possibile migliorato dalla saggezza e dall’esperienza.

Camera Soul – Not For Ordinary People


Camera Soul – Not For Ordinary People

Chi sono i Camera Soul ? Prima di tutto va detto che sono un gruppo italiano, formatosi in quel di Bari nel 2011, quando Pippo e Piero Lombardo, meglio noti come i Lombardo Brother's, decisero di cimentarsi nel soul-funk ovvero uno dei generi da loro più amati insieme alla jazz bossa. La città di Bari in effetti vanta una lunga tradizione nel campo del new jazz e del soul e questo gruppo ne è la conferma. Il loro primo album "Words don't Speak" suscitò subito un buon interesse di critica e venne recensito negli States come una interessante rielaborazione dei leggendari nomi del soul funk degli anni ’70 e '80, come Earth Wind and Fire, Kool and Gang o S.Wonder e Al Jarreau. Per fortuna oggi i Social Network e la diffusione della musica on-line consentono anche agli artisti emergenti di avere una buona visibilità globale e di conseguenza di avere una chance professionale anche a livello internazionale. Ed infatti la band ha ottenuto l'interesse di una partnership americana che si e' affiancata all’iniziale produzione della Azzurra Music di Verona. I Camera Soul hanno così potuto fare le cose in grande per il loro secondo album, con il supporto di Kathryn Ballard Shut della TIMKATENT Entertainment sulla sponda americana. Il risultato è Not For Ordinary People, un disco sfacciatamente ed orgogliosamente retrò, che avrebbe potuto essere pubblicato alla fine degli anni ’70 ma che tuttavia è anche tremendamente attuale. L'album è costruito su dei ricchi ed elaborati arrangiamenti che fondono gli elementi essenziali del funk: groove ritmici irresistibili sulle linee di un basso sempre aggressivo e potenti fiati a completare al meglio il tutto. Una formula non così sorprendente se si considera che i fratelli Lombardo hanno da sempre identificato come loro fonte d’ispirazione proprio la musica dei grandi artisti del funk. E ascoltando "Time Fades Away" appare piuttosto evidente che anche la bossa nova di  Sergio Mendes sia un'altra influenza certa di questi musicisti italiani. Con queste premesse un album come Not For Ordinary People potrebbe essere un progetto piuttosto rischioso. Il pericolo, in questi casi, è che ne esca un’operazione di banale emulazione di cose già sentite che per giunta dovrà confrontarsi con il meglio della storia del soul-funk. Ciò non accade perché questo album è un progetto ben concepito dall'inizio alla fine. Il disco si sviluppa con un buon equilibrio di brani che alternano in modo sapiente i ritmi veloci ad altri basati su degli accattivanti mid-tempo, senza dimenticare alcune eccellenti ballate. "Nobody Else" ad esempio evidenzia una semplice ma robusta melodia perfettamente congeniale alla fusione del ritmo blues, funk e jazz. La bella voce della vocalist Serena Brancale ha delle tonalità interessanti ed un modo di trascinare le note, cantando leggermente dietro la melodia che riportano alla mente Corrine Bailey Rae. "She" inizia con la Brancale accompagnata da una chitarra acustica per poi sfociare in un groove funk-caraibico dal fortissimo richiamo agli Earth Wind & Fire. "My Heart" è invece un bel pezzo dance con un pulsante basso ed un bellissimo arrangiamento di fiati concluso in bellezza da un notevole assolo di chitarra elettrica. La title track suona immediatamente come una dichiarazione programmatica dello stile e dell’estetica dei Camera Soul: il ritmo è coinvolgente, la melodia orecchiabile ed i riff della sezione fiati sono perfetti. Per trovare qualcosa di paragonabile di questi tempi si deve scomodare una vera e propria icona del funk come gli Incognito. Il funky groove la fa da padrone anche su “Mama”, dove la chitarra ritmica detta i tempi, ma è presto affiancata dal basso slap, dalla precisa batteria e dagli immancabili e potentissimi ottoni. “For A Lifetime” è un saggio di abilità nel comporre materiale delicatamente orecchiabile eppure profondamente r&b, cosa che sorprende ancor di più considerando l’origine nostrana di questi ragazzi baresi. Un discorso che può essere esteso a canzoni come “Full Off Me” o “I’m a Fool” che non disdegnano la melodia ma non concedono nulla alla canonica tradizione musicale italica. L’album si chiude con la gioiosa e brillante “The Happiest Day” che è un po’ la sintesi perfetta dei Camera Soul: gran ritmo, bella voce femminile, arrangiamento puntuale e un contagiosissimo funky feeling. In un certo senso il titolo dell'album potrebbe apparire come se il gruppo volesse quasi fare una selezione elitaria del suo pubblico, ma una chiave di lettura alternativa è che la band riconosca la scadente realtà della produzione musicale moderna e da questa voglia in qualche misura staccarsi. Sono bravi i Camera Soul, molto bravi e credo che se ne rendano conto. Negli anni ’70 le band di soul e funk talentuose e tecnicamente superbe erano di ordinaria amministrazione. Al giorno d’oggi lo sono molto meno. Il che fa di un gruppo come i Camera Soul e della musica che propongono un qualcosa di assolutamente straordinario.

Steve Davis – Say When


Steve Davis – Say When

Analizzando un’uscita discografica datata 2015 come quella di Steve Davis viene spontaneo pensare che i cambiamenti che hanno modificato il corso del jazz nel 21° secolo sono stati molti ed estremamente diversificati. Con il supporto dei media, sempre alla ricerca della novità, sembra che i fautori delle nuove tendenze abbiano optato con convinzione per un allargamento del concetto stesso di jazz, esasperandone l'apertura fino a comprendere anche stili che sono, ad onor del vero, lontanissimi dall’originale. È così che gli elementi chiave, che sono stati sempre in primo piano nel jazz, come l'elaborazione profonda e metodica della melodia, lo swing e l'improvvisazione, vengono ormai considerati come obsoleti da una parte consistente della critica e del pubblico. Diciamo che effettivamente una piccola porzione della nuova musica riveste un ruolo di vitale importanza nell’innovazione e nella ricerca, ma gran parte di essa è  purtroppo musicalmente irrilevante, ed anzi contribuisce ad assottigliare ulteriormente il pubblico del jazz: una platea che, a conti fatti, si riduce di giorno in giorno. Questa premessa da sola basterebbe a rendere un album come Say When di Steve Davis una merce rara, quasi fosse una sorta di stato dell’arte  del jazz mainstream, declinato da alcuni tra i migliori musicisti di New York. Questo album, inoltre, rende omaggio alla leggenda del jazz J.J. Johnson, cosa che induce ad un’ulteriore carica di interesse ed ottimismo. Però è triste pensare al fatto che questo tipo di registrazioni erano la norma qualche decennio fa, mentre oggi vanno considerate splendide eccezioni. Il trombonista Steve Davis può vantare una bella discografia come solista, ma si è ritagliato al contempo un ruolo importante nella band One For All, che molti osservatori paragonano ai Messengers di Art Blakey. Davis stesso dice che questo omaggio a J.J. Johnson era in cantiere da molti anni, però ha deciso di dare corpo al progetto solo di recente. I brani che compongono Say When sono ben undici e tutti di consistente lunghezza, per un totale di oltre un’ora di bellissima e genuina musica jazz. Gli originali di Johnson sono sei, ma tutto l’album è costituito da materiale classico associato a vario titolo al celebre trombonista be-bop: Davis ha sia l'esperienza che l’abilità tecnica per onorare al meglio il suo mentore, esprimendo così anche la sua propria pulsione creativa. A supporto del bravo trombonista ci sono i suoi più fidati e regolari collaboratori, vale a dire Eric Alexander, Harold Mabern, Nat Reeves, e Joe Farnsworth. Un gruppo di musicisti che ha suonato insieme così tante volte che il loro livello di comunicazione musicale è praticamente perfetto. La novità è qui rappresentata dall'aggiunta di Eddie Henderson alla tromba. Va detto che Davis, nei suoi arrangiamenti, utilizza i fiati con molto gusto ed equilibrio: di fatto il trombonista riesce a creare un’architettura musicale perfettamente congeniale alla libertà espressiva di ogni singolo solista. Ad esempio la suggestiva tromba con sordina di Eddie Henderson illumina un brano come "Shortcake", tessendo lucide melodie di grande bellezza. Sull’originale di Harold Mabern intitolato "Mr. Johnson" è Eric Alexander che si mette in evidenza con il suo assolo di sax, concludendolo con uno dei suoi caratteristici trilli, ma anche l’intervento del trombone del leader è degno di nota. Quella proposta da Steve Davis è una formula seducente ed anche molto coinvolgente, come è facile apprezzare ascoltando brani come "Say When" e "Pinnacles". Harold Mabern è puntuale con i suoi caratteristici accordi ed il suo inconfondibile tocco soul crea le basi armoniche per il classico  "What Is This Thing Called Love?" ed il bel brano "Kenya". Viene dato il giusto spazio anche al bassista Nat Reeves, che ha la possibilità di mettersi in luce, prendendosi due stupendi assoli  su "Lament" e "Shutterbug." Una nota particolare va poi riservata al batterista Joe Farnsworth: il quale dimostra qui, ancora una volta, il motivo per il quale è considerato uno degli specialisti più acclamati del panorama jazzistico contemporaneo. Il suo drumming è vario e fantasioso e il suo groove è una vera icona di come una batteria jazz dovrebbe davvero suonare. Pur essendo Say When un album di Steve Davis, egli non si fa mai prendere la mano dal suo ruolo di leader e non da mai la sensazione di voler essere protagonista a tutti i costi. Ciò nonostante, il suo trombone appare agile e pieno, così come la mirabile liricità del suo sound colpisce l’ascoltatore in tutti i brani del disco, in particolare sulle due bellissime ballate "Lament" e "There Will Never Another You". Il retaggio del mitico J.J. Johnson è particolarmente evidente in un  vecchio cavallo di battaglia  come la celeberrima "When the Saints Go Marching In" che la band ripropone come numero di chiusura dell’album. Con Say When, Steve Davis confeziona un disco estremamente intelligente, ammantato da un’aura di classicismo jazz ed intriso di un grande senso di rispetto nei confronti del maestro di tutti i trombonisti moderni: J.J. Johnson. Coadiuvato da una sezione ritmica tra le migliori sulla piazza e da due solisti di grande spessore Steve Davis ci regala uno dei suoi migliori lavori di sempre. Ispirandosi al bebop degli anni '50, Steve Davis ha perfezionato un suo personale e distintivo suono al trombone, contribuendo in maniera significativa a mantenere vivo uno strumento troppo spesso dimenticato. Qui si ascolta il classico ed immortale hard bop, ed è un disco da scoprire assolutamente.

Yaz Band - You Can't Say It In Public


Yaz Band - You Can't Say It In Public

Yaz Band non è altro che lo psudonimo di Yasuyuki Takagi, un sassofonista giapponese trapiantato a a New York dal 1992. Autodidatta Yaz ha imparato a suonare il sax da solo, a casa. Acquisita una buona pratica con il suo strumento, nel 2000 ha iniziato a suonare nelle stazioni della metropolitana, (senza accompagnamento) per cercare visibilità ed essere, se possibile, coinvolto nella scena musicale della metropoli americana. Nel giugno 2001, stava suonando all’interno della Penn Station, quando un uomo che lo stava ascoltando gli chiese il numero di telefono. Prima di andarsene, gli disse: "Ricordati di me: berretto dei Mets e e T-shirt degli Yankees". Quell’uomo misterioso era il tastierista, compositore e produttore Eric Smith che in seguito invitò Yaz ad unirsi ad un gruppo di smooth jazz chiamato " Since When?". L'inizio della collaborazione tra Yaz e Eric Smith è stato esattamente così, casuale e fortuito. E poiché l’ammirazione di Yaz per lo stile smooth jazz di Eric Smith è rimasta, nel tempo, grandissima, quando ha deciso di formare la propria band non ha avuto la minima esitazione nello scegliere come suo tastierista proprio Eric. Nello stesso periodo nel quale Yaz ha conosciuto Eric Smith, un altro produttore ascoltò il sassofonista giapponese suonare nella metropolitana chiedendogli di accompagnarlo in un club chiamato "Club 101". Qui suonava la band "Joy Ryder and the New York Rhythm Allstars”. Il batterista Dave Dawson e il bassista Sly Geralds erano in quel gruppo e colpirono a tal punto Yaz da fargli sperare di poter suonare un giorno con una sezione ritmica di gran talento come quella. Il suo sogno si è avverato molto presto: Yaz cominciò ad esibirsi con i Joy Rider nei loro concerti e successivamente gli fu chiesto di diventare un membro regolare della band. La storia professionale vera e propria di Yaz inizia nel maggio del 2002 quando finalmente il progetto solista di Yasuyuki prende forma con il nome di Yaz Band. Il sassofonista chiese immediatamente a Eric Smith e Sly Geralds di unirsi al gruppo rispettivamente come tastierista e bassista, raggiunti subito dopo da Dave Dawson e Shinya Miyamoto quali batteristi. Il lineup della Yaz Band è stato poi completato dal talentuoso chitarrista Eiji Obata, un formidabile artista conosciuto a New York qualche tempo prima. La Yaz Band continuò ad esibirsi nelle stazioni della metropolitana e in molti altri eventi di tutta l'area metropolitana di New York, non perdendo mai quello spirito artigianale e un po’ naif che è la sua caratteristica. La scelta di Yaz di avere questi bravi musicisti in questo suo secondo album è stata dettata non solo dalle loro intrinseche abilità tecniche, ma anche e soprattutto dall’amicizia che si è instaurata tra un gruppo di artisti che sono cresciuti musicalmente e professionalmente nello stesso contesto e con le stesse passioni e obiettivi. You Can't Say It In Public è uscito nel 2005 ed è fondamentalmente un album di smooth jazz gioioso, brillante e vivace, a forti tinte funk. Rispecchia la grande passione di  Yaz e dei suoi colleghi per la musica ed in particolare per questo particolare sotto genere di jazz leggero. La title track indica la strada: funky groove, basso slap, ritmica trascinante e riff orecchiabile di sax fino al bell’assolo di Yaz a prendersi tutta la scena in 8 minuti di puro divertimento. “First And Goal” passa ad atmosfere più rilassate, in pieno stile smooth jazz. La melodia è accattivante  così come il bell’arrangiamento. Carina la cover del classico di Stevie Wonder “I Wish”, molto rispettosa dell’originale. Contemporary jazz da radio fm per “Thirty”, tuttavia impreziosita da un assolo molto interessante del chitarrista Eiji Obata. Non manca la ballata, qui rappresentata dalla suadente “Sweet Smell Of Love”. Yaz fa valere la liricità del suo timbro in un brano romantico che ricorda a tratti le uscite più leggere di Gato Barbieri. Il celeberrimo “Low Down” di Bozz Scaggs è riproposto con maggior enfasi su quello che è il già evidente funky feeling dell’originale: data la bellezza della canzone si tratta di una cover che è sempre ben accetta. “Yaz In The House” riporta tutto sul più genuino funky style, ascoltando il quale mi ritorna in mente il primo Fishbelly Black. Yaz e la sua band si cimentano poi in un’interpretazione molto personale di un bellissimo brano di Herbie Hancock quale “Dolphin Dance”. Il territorio resta quello dello smooth jazz ma è apprezzabile l’approccio che Yaz propone con un tema impegnativo come quello del classico jazz del pianista di Chicago. Yasuyuki Takagi può vantare una timbrica ed un fraseggio molto gradevoli, il suo intervento è davvero notevole per fluidità e controllo. You Can't Say It In Public non è certo un capolavoro tuttavia è un album che non delude e per certi versi sorprende in positivo. E’ diretto, solare e positivo, in ogni nota si coglie l’entusiasmo del giovane Yaz e della band di suoi coetanei giapponesi (trapiantati a New York) che con semplicità ed energia intrattengono l’ascoltatore senza annoiare. 58 minuti di un buon contemporary jazz suonato con la giusta dose di classe e equilibrio.

Sadao Watanabe – Round Trip


Sadao Watanabe – Round Trip

Sadao Watanabe è un sassofonista giapponese con una lunghissima esperienza professionale iniziata addirittura nel 1960. Il suo stile spazia dal be bop alla fusion, passando per il funk, la bossa ed il pop. La sua è una personalità musicale forte ed è sempre stata divisa tra le diverse anime della sua sensibilità artistica. Alterna infatti eccellenti produzioni jazz ad altre più smaccatamente commerciali. Watanabe ha studiato clarinetto e sax contralto al liceo, quindi nel 1950 si trasferì a Tokyo, unendosi al gruppo bop di Toshiko Akiyoshi nel 1953. Quando Akiyoshi decise di trasferirsi negli Stati Uniti, Sadao prese il timone della band, diventandone il leader. Nel 1962 si trasferì a sua volta negli States dove frequentò il Berklee College  per tre anni. Questo gli diede l'opportunità di lavorare con Gary McFarland, Chico Hamilton e Gabor Szabo. Tuttavia, nel corso della sua carriera Watanabe è rimasto legato al Giappone, ritornandovi molto spesso e risiedendo nel suo paese natale per  lunghi periodi. In patria è uno dei musicisti più importanti e ancora oggi esercita una fortissima influenza sulle giovani leve del jazz nipponico. La fonte d’ispirazione più evidente di Watanabe è certamente Charlie Parker, ma un’ulteriore grande passione del sassofonista è senza dubbio la bossa nova, genere che ha più volte abbracciato. A fronte di un indubbio talento e di una classe riconosciuta da molti suoi colleghi, Sadao Watanabe ha registrato più di una volta degli album che si possono definire deludenti. In effetti, alcuni dei suoi dischi più radio-oriented, tesi a compiacere le necessità commerciali delle case discografiche, sono probabilmente da dimenticare. Ma quando il terreno diventa quello del jazz “serio” e le sue scelte sono dettate più dal cuore e dalla vera passione, Watanabe sa essere un sassofonista davvero elettrizzante. Round Trip del 1970 è una delle sue migliori realizzazioni: un album di post bop coraggioso e senza compromessi che vede la partecipazione di tre autentiche stelle come Chick Corea (piano), Miroslav Vitous (contrabbasso) e Jack DeJohnette (batteria). Il lavoro è difficile e nervoso, spesso al confine del free jazz e non contiene nulla che sia musicalmente prevedibile. Si spazia da un brano come "Pastoral" dove è forte l’influenza dei Weather Report ma si ascoltano anche echi celtici, per arrivare al contemplativo "Nostalgia", nel quale Sadao mette in luce la sua abilità di flautista.  Ci si ritrova poi al cospetto dei venti minuti di quella sorta di ipnotica e frenetica suite jazzistica intitolata "Round Trip: Going and Coming": una composizione complicata e molto articolata che rispecchia bene anche le tendenze musicali dell’inizio degli anni ‘70. Non manca un richiamo alla musica brasiliana, (di cui Sadao è da sempre un convinto estimatore) come nella ritmata “Sao Paulo” che è il brano complessivamente più abbordabile di Round Trip.  Sadao Watanabe si esibisce con disinvoltura al sax alto, ma anche al soprano ed al flauto con i medesimi eccellenti risultati, mentre la super-band che agisce a suo supporto è una garanzia di qualità ed inventiva. Round Trip resta tuttavia un album piuttosto ostico che richiede un ascolto attento e che a tratti può anche risultare pesante. Le sue pubblicazioni degli anni ’80 sono indubbiamente molto più abbordabili e, cercando con attenzione, anche nella sua produzione “smooth jazz” più recente si possono trovare dei lavori di gran classe. Round Trip resta comunque una testimonianza significativa del jazz di quel periodo, un disco che segna una svolta nella carriera di Sadao Watanabe: il più bravo e talentuoso tra i jazzisti nipponici di tutti i tempi.

Bill Laurance - Aftersun


Bill Laurance - Aftersun

Bill Laurance  è un pianista, compositore, arrangiatore e produttore inglese, probabilmente sconosciuto alla maggior parte del grande pubblico. La sua formula musicale è un complesso intreccio di jazz e fusion con echi di elettronica e classica. Dopo aver studiato presso l'Università di Leeds, Laurance ha lavorato con diversi artisti tra cui il trio hip-hop Morcheeba, il sassofonista Chris Potter e il chitarrista africano Lionel Loueke. Come attività parallela, guida il duo elettronico Fix ed è soprattutto uno dei membri fondatori dell’eclettico collettivo jazz di Brooklyn Snarky Puppy. Nel 2014, Laurance ha pubblicato il suo primo album da solista, Flint, per l’etichetta GroundUp. A cui ha fatto seguito l'anno seguente con Swift. Aftersun del 2016, è quindi il terzo album da solista di Laurance. Ispirato dal suo interesse per l'astronomia e l'esplorazione dello spazio, l'album è caratterizzato dalle partecipazioni dei suoi colleghi Snarky Puppy: Michael League e Robert "Sput" Searight, e da quella del percussionista Weedie Braimah. Quelli di voi che hanno seguito questo blog negli ultimi mesi, sapranno quanto ogni attività correlata al gruppo degli Snarky Puppy rappresenti per me un motivo di grande interesse. Aftersun è di fatto il progetto più essenziale di Bill Laurance, a differenza dei suoi due dischi precedenti che sono stati invece concepiti come lavori di ampio respiro, pensati per restituire una grande atmosfera e un forte impatto. Laurance ha ridimensionato le sue ambizioni per questo nuovo album, lasciando da parte archi e ottoni, in favore di un semplice quartetto, con  il deus ex machina degli Snarky Puppy Michael League al basso, Robert 'Sput' Searight alla batteria e Weedie Braimah alle percussioni. Aftersun rappresenta dunque una nuova direzione nello stile compositivo di Bill. Il suo obiettivo principale è fondere i ritmi dance, un certo fusion groove e le percussioni africaneggianti con l’approccio originale che Laurance applica da sempre al jazz. Questi cambiamenti hanno portato ad un prodotto finale che è veramente speciale. Nessun album è perfetto, e questo ha certamente qualche neo, ma ciò che in ultima analisi ne esce è la creazione di un suono che è del tutto nuovo ma al contempo intrigante e familiare. Il disco si apre con “Soti”, un brano che introduce benissimo il sound complessivo di Aftersun. Un bizzarro effetto di fade-in (che ritroveremo più volte nel corso della registrazione) produce una sorta di emersione della musica, quasi come se provenisse dalle profondità degli abissi. Ma ciò che è immediatamente evidente, è l'uso massiccio di ritmi sincopati che, combinato con la forte presenza delle percussioni e delle potenti linee di basso di League, contribuisce a dare quella sensazione dance che sembra pervadere il progetto. Un altro degli elementi più divertenti di Aftersun è la mirabile manipolazione delle texture musicali. Tuttavia, a mio parere è nelle tracce incentrate sul pianoforte, come “The Pines” e “Madeleine” che questo disco esprime il meglio. In questi brani la propensione di Laurance per la fusion raggiunge l’apice della sofisticazione e della qualità, unitamente ad uno slancio emotivo impressionante. Sulla trascinante The Pines sia il basso che le percussioni sono meno abrasive e più rotonde, mentre il pianismo di Laurance è chiaro e pulito, ricco di sfumature, ma certamente non manca di dinamica e virtuosismo. Madeleine è invece tutta giocata sul contrasto: il piano elettrico sale alla ribalta su una ritmica persistente dal sapore afro e l'uso di suoni elettronici si fa più evidente. Tutto questo apre la strada per un ottimo assolo di basso di Michael League. E’ molto particolare la sensazione contrastante che questi brani suggeriscono all’ascoltatore;  suonano quasi come brani dance, ma non si percepiscono come tali. Non sono mai prevedibili: sono chiaramente disseminati di sensibilità jazzistica ma al contempo ci si rende conto che non sono facilmente codificabili. Madeleine è l'esempio perfetto di ciò che Laurance ha creato qui: un jazz ibrido, pieno di contaminazioni e suggestioni diverse che richiede la massima attenzione per essere veramente compreso. L’album è pieno di bei ritratti musicali e vi si coglie una vena positiva e serena, quasi impressionista. “Time To Run” è il brano più lungo del disco ed è indubbiamente una traccia dallo stile quasi minimalista: è ripetitiva, ma contiene un sacco di elementi complessi che mantengono vivo l’interesse, come ad esempio la ritmica ed i particolari riff di tastiere e clavinet. Purtroppo, anche un album accattivante come Aftersun ha qualche difetto. Ad esempio il brano “Bullet”, che ad onor del vero è fin troppo ripetitivo e banale, un pezzo che suona molto meno “cool” del resto dell’album. Ma il livello non tarda a risalire con la successiva “Aftersun”, un numero particolarmente evocativo e d’atmosfera con una bella progressione armonica ed un enigmatico e affascinate uso del moog. “First Light” suona ancora una volta spiazzante ed originale, con le tastiere del leader a giocare tra loro ed un intervento anche del vocoder. Il tema della ballata è svolto in modo mirabile con “Golden Hour” dove a prevalere è la bella melodia suonata dal piano acustico e nella quale l’atmosfera è rilassata e sognante. La traccia finale dell'album “A Blaze” è una canzone fantastica, che potrebbe essere la colonna sonora di un film thriller con il suo andamento nervoso ed irregolare: Bill Laurance usa i synth per simulare la chitarra distorta mentre la ritmica sincopata sottolinea energicamente la complessa struttura del brano. In ultima analisi, Aftersun è un gran disco che nasce da una sintesi tra l’esplorazione del nuovo e la tradizione a noi più familiare. Bill Laurance  ha realizzato un progetto creativo di grande fascino e concretezza mutuando in questa sua ultima fatica anche l'esperienza della collaborazione con gli Snarky Puppy. Aftersun è la dimostrazione che Laurance è un musicista molto intelligente da tenere in grande considerazione: egli non è solo il tastierista del gruppo cult del momento ma è senza dubbio una delle voci più interessanti del jazz britannico di oggi.

Al Jarreau – My Old Friend (Celebrating George Duke)


Al Jarreau – My Old Friend (Celebrating George Duke)

Di Al Jarreau ho già parlato qualche tempo fa, quando ho scritto del suo bellissimo album We Got By. In realtà sul personaggio c’è poco da aggiungere dato che è senza dubbio uno degli artisti più popolari ed amati anche al di fuori del circuito jazzistico.  Posso  però sottolineare il fatto che Al è l'unico vocalist nella storia ad essersi aggiudicato tre Grammy Awards in tre diverse categorie (jazz, pop e R & B, rispettivamente). Al Jarreau è nato a Milwaukee, Wisconsin, il 12 marzo del 1940 ed è figlio di un prete protestante, ragione per la quale ha avuto le sue prime esperienze canore come membro del coro della chiesa del padre. Dopo aver conseguito una laurea in psicologia, Jarreau ha in realtà iniziato una carriera professionale come assistente sociale, ma alla fine ha deciso di trasferirsi a Los Angeles e lanciarsi nel mondo dello spettacolo, esibendosi in piccoli club qua e là in tutta la California. Ed è esattamente così che Al Jarreau ha iniziato a cantare accompagnato da un trio jazz guidato proprio dal grande pianista/tastierista George Duke, contesto nel quale è nata una profonda amicizia. E’ quindi naturale che Jarreau abbia sentito la necessità e forse anche l’obbligo morale di rendere omaggio al suo collega ed amico Duke, scomparso nel 2013, con questo suo album “My Old Friend: Celebrating George Duke” pubblicato l'anno successivo. La storia racconta che Jarreau abbia dato il via alla sua collaborazione artistica con il trio di Duke sul finire degli anni '60 mentre lavorava come consulente di riabilitazione vocale in un ospedale di San Francisco. Le leggendarie carriere soliste di entrambe sono probabilmente decollate anche grazie  al successo di questi primi spettacoli, oltre che per l'innegabile talento di tutti e due gli artisti. Su My Old Friend: Celebrating George Duke, Jarreau compie un’operazione di approfondimento e reinterpretazione di una serie di composizioni di Duke utilizzando un gruppo selezionato di ospiti, molti dei quali hanno avuto a loro volta in carriera dei contatti con il formidabile pianista. È così che Al si ritrova ad essere supportato da una nutrita schiera di fenomenali musicisti e cantanti, tra i quali Gerald Albright, Lalah Hathaway, Jeffrey Osborne, Dianne Reeves, Marcus Miller e molti altri. Nel corso degli anni  Jarreau si è sempre circondato di un superbo gruppo di grandi esponenti del mondo della musica jazz e fusion che puntualmente appaiono tra i protagonisti di questa accalorata celebrazione del genio di George Duke. Il bassista Stanley Clarke ad esempio (che ha anche prodotto l'album), i tastieristi John Beasley e Patrice Rushen, il chitarrista Paul Jackson, Jr. e il batterista John "J.R." Robinson. In realtà, Duke stesso fa la sua inaspettata apparizione in questo album attraverso l’utilizzo delle meraviglie della tecnologia moderna su un brano: la languidamente romantica "Bring Me Joy" sulla quale suona anche Boney James. Tutto il lavoro è ovviamente incentrato sulle composizioni di George Duke, che oltre che essere un pianista di livello eccezionale, era un compositore raffinato e sensibile non solo in ambito jazzistico ma anche nel soul, nell’r&b e nel funky, tutti terreni molto congeniali agli infiniti colori  ed alle raffinate sfumature della vocalità unica di Jarreau.  L’album risente molto positivamente di questo feeling profondo tra i due grandi artisti e si alimenta della passione e del sincero trasporto con il quale il cantante celebra il suo amico prematuramente scomparso.  Le canzoni di Duke sono tutte molto belle, orecchiabili ed immediate: è un repertorio vocale in parte dimenticato e non popolare ma estremamente sofisticato, che riesce a spaziare attraverso vari stili mantenendo ben saldo il timone della qualità e andando dritto al cuore dell’ascoltatore.  Il tributo comincia con la stupenda “My Old Friend” che apre l’album con il suo perfetto arrangiamento e la partecipazione del sax di Gerald Albright a dare quel tocco in più. E cosa dire della successiva “Someday” ? Un brano nel quale l’ospite d’eccezione è la grande cantante Dianne Reeves: il duetto con Jarreau è magnifico e valorizza al meglio una melodia soul jazz senza tempo. Churchyheart (Backyard Ritual)  si avvale della presenza di Marcus Miller (al clarinetto basso) ed è un brano diverso e quasi irregolare ma proprio per questo molto affascinante. George Duke era un appassionato cultore della musica brasiliana e “SomeBossa (Summer Breezin’)" è il perfetto esempio di come il compositore interpretava la cultura carioca. “Sweet Baby” è la classica ballata r&b ma è anche una delle canzoni più famose di George Duke, alla quale viene data nuova vita dalla calda voce di Lalah Hataway in duetto col maestro Jarreau. L’album insiste molto sulla formula del duetto tra cantanti, dove Al rappresenta il punto fermo e l’ospite è di volta in volta diverso. Così è sulla delicata “No Rhyme, No Reason” con Kelly Price o su un'altra hit del passato come “Every Reason To Smile” dove a duettare è uno dei re della black music degli anni ’80: Jeffrey Osborne. Il secondo brano di atmosfera brasiliana è Brazilian Love Affair (brano che dava il titolo ad un album storico di George Duke). In ultima analisi, My Old Friend: Celebrating George Duke è un sentito e commosso omaggio ad un grande musicista e ad un amico di vecchia data di Jarreau: come molti altri album del cantante di Milwaukee e tanti anche dello stesso George Duke suona meravigliosamente scorrevole, caldo e pieno di amore e passione. Al è una garanzia, difficile che sbagli il colpo.

Steve Gadd - Gadditude


Steve Gadd - Gadditude

Considerato uno dei batteristi più importanti ed influenti di tutti i tempi, è conosciuto soprattutto per la sua raffinatezza ed il suo gusto, oltre che per la sua notevole capacità tecnica. Da anni è uno dei più richiesti e pagati session man ed in carriera ha partecipato a moltissimi dischi di successo. Ecco in sintesi chi è Steve Gadd, l’uomo che nel corso di una vita dedicata alla musica ha dettato il ritmo per quasi tutti: dagli Steely Dan a James Taylor, da Chick Corea a Paul Simon. Un’attività molto intensa, spesso alla corte di altri artisti, così predominante da oscurare le proprie legittime velleità da solista. Una cosa che evidentemente deve aver toccato anche la sensibilità dello stesso Steve, perchè un po’ a sorpresa, in un arco di soli tre anni, il batterista è riuscito a dare alla luce ben quattro album in grado di mettere in risalto tanto la sua versatilità quanto una mai sopita vena compositiva. Gadditude, del 2013, è il titolo (non bellissimo) di questo lavoro che vede la partecipazione della stessa band che è stata di supporto ai tour di James Taylor per molti anni. Un gruppo di musicisti in grado di offrire un programma che è al tempo stesso ricco di divertimento, di atmosfera e di intensità. Il bassista Jimmy Johnson, il trombettista Walt Fowler, il chitarrista Michael Landau e il tastierista Larry Goldings sono tutti specialisti estremamente dotati e condividono gli stessi valori musicali, cosa che li rende ideali per questo progetto del formidabile Steve. Il quintetto agisce in scioltezza su un brano divertente e orecchiabile come "The Windup" ma è in grado di mostrare estrema sensibilità e delicatezza quando la musica richiede una diversa e specifica colorazione del suono come ad esempio su "Scatterbrain". Gadditude si sposta con apparente facilità dal terreno della musica ariosa e brillante a quello più complesso e intimo dei brani più impegnati. All’inizio dell’album, troviamo la fusion illuminata di "Africa", brano scritto da Michael Landau che colpisce subito per la struttura armonica e ritmica molto complessa ed intrigante. Il chitarrista mette in mostra tutta la sua qualità in questo pezzo atmosferico che a tratti ricorda il Miles Davis di In A Silent Way. "Ask Me Now" resta nell’ambito di una jazz fusion molto misurata ma sempre interessante ed intensa dove è in bella evidenza il suono caldo del flicorno di Walt Fawler, senza dimenticare lo stupendo assolo di piano elettrico di Larry Goldrings, davvero degno di nota. Ancora più riflessiva l’interpretazione della bellissima "Country" di Keith Jarrett dove Gadd e la sua band entrano nel cuore della composizione con grandissima sensibilità e misura. "Cavaliero", è invece una strana composizione di ispirazione latina venata di tango impreziosita dal gran lavoro di chitarra di Landau. Da sottolineare come il prezioso e raffinato lavoro di batteria del leader si mantenga sempre in sottofondo, senza manie di protagonismo o eccessi virtuosistici. Gadditude non può prescindere dalla forte impronta blues che ha caratterizzato tutta la carriera di Steve Gadd, ed infatti  la troviamo ben espressa in "Green Foam", che tuttavia rilegge lo stile classico con originalità.  Un pizzico di vecchia scuola soul fa capolino in  "The Mountain" firmata dal pianista Abdullah Ibrahim ed anche in questo caso non si può non notare quanta misura ed equilibrio vengano usati per approcciarsi alle tematiche del soul jazz.  Si ritorna al blues con il brano “Who Knows The Blues” per poi chiudere con i due numeri più jazzistici di tutto l’album quali sono le già citate “The Windup” e la sorprendente “Scatterbrain” dei Radiohead, che la band rivisita stravolgendone lo spirito rock ma esaltandone il valore compositivo. Steve Gadd con il suo Gadditude non riempie le orecchie dell’ascoltatore con roboanti e tecnicissimi assoli, ne va alla ricerca di facili soluzioni pop. Semplicemente propone quello che sa fare meglio: creare dei perfetti groove ritmici con raffinatezza e senso della misura, partendo con classe dalle imprescindibili fondazioni che sostengono tutta la musica e sottolineano i concetti fondamentali di ogni genere, sia esso il jazz, il blues, il soul o la fusion. Gadditude è sufficientemente vario, intelligentemente suonato ed ispirato quanto basta per farne un album degno di attenzione e rispetto.

Frank Zappa – The Grand Wazoo


Frank Zappa – The Grand Wazoo

Se Frank Zappa viene considerato da molti uno dei più grandi geni musicali del '900, nonché uno dei maggiori artisti contemporanei una ragione ci sarà. Nel corso della sua prolifica carriera il mitico musicista di Baltimora ha spesso sfiorato il jazz e la fusion, ma nella sua produzione si staglia una sorta di ideale trilogia jazzistica che è composta da tre album: Hot Rats, Waka Jawaka e The Grand Wazoo. In occasione dell’anniversario della sua prematura scomparsa (4 Dicembre 1993) voglio dedicare qualche riga proprio a lui e ad uno dei suoi capolavori: The Grand Wazoo cioè l’album che probabilmente è entrato di più e meglio nelle dinamiche e nelle architetture musicali del jazz. L'impianto strumentale di The Grand Wazoo è costituito in gran parte da un ibrido tra una big band orchestrale ed il classico combo rock-progressive. Diciamo che è una produzione imponente che vede un ampio uso di ottoni, ma anche di altri strumenti quali la marimba/vibrafono e un variegato set di tastiere. Si tratta del terzo disco della trilogia jazz zappiana e fu pubblicato in un periodo nel quale Zappa era confinato su una sedia a rotelle a seguito dell'aggressione subita sul palco da un fan che lo aveva scaraventato nella buca dell'orchestra durante un concerto a Londra. A dispetto del suo incidente, con The Grand Wazoo  Zappa decise di avventurarsi in un nuovo progetto stilistico, e in un ulteriore tour di otto date, con concerti da tenersi principalmente in Europa. Zappa utilizzò dunque una grande orchestra con molti musicisti, la maggior parte dei quali provenienti dalla scena jazz, come il sassofonista Ernie Watts, Anthony Ortega, e il trombonista Billy Byers. Il suo biografo Alain Dister scrive in proposito: «Zappa scelse questo assetto di formazione da big band per le ampie possibilità di sfumature musicali che gli avrebbe permesso, infinitamente più sottili e sofisticate rispetto al gruppo limitato con cui di solito si esibiva». Frank Zappa stesso è il vero e proprio direttore d’orchestra in questo singolare lavoro che, nonostante contenga pezzi quasi del tutto strumentali, narra in musica una sorta di bizzarra e fantasiosa epopea bellica. Un esercito di 5000 strumenti d'ottone, 5000 diversi percussionisti, e 5000 svariati strumenti elettronici  è impegnato in un'eterna lotta contro l'esercito delle forze della mediocrità musicale, in una rappresentazione surreale della realtà del mondo dello show business. Un mondo, quello della musica commerciale, che Zappa odiava profondamente. Il brano che da il titolo all’album, “The Grand Wazoo” è una summa stilistica del meglio della creatività di Frank: sulle ali degli arrangiamenti complicatissimi ideati dal maestro si ascolta quasi stupefatti i vari assoli alternarsi uno dopo l’altro mentre la grande orchestra di ottoni sottolinea ogni passaggio, accentuando il pathos e l’epicità del brano. Il tema rimane impresso nella memoria, il giro è un rock-blues e due splendidi assoli caratterizzano questa mini suite. Bill Byers al trombone e Sal Marquez alla tromba con sordina. Due interventi differenti per approccio e filosofia: morbido e di matrice be bop quello di Byers, acido e più moderno quello di Marquez. Totalmente avulso dal concept del resto del disco è l'unico brano a contenere una traccia vocale sull'album, “For Calvin (and His Next Two Hitch-Hikers)”, che però concede comunque spazio ad un lungo sviluppo orchestrale. Lo Zappa compositore-arrangiatore si esprime qui con grande perizia e genialità, ponendo le percussioni, il trombone, il Mini-Moog, la sezione fiati, e il rullante della batteria a creare una sorta di affresco impressionista di grande suggestione. “Cletus Awreetus-Awrightus” riprende il filo del discorso proiettando l’ascoltatore nelle sonorità di uno stralunato jazz al confine tra l’avanguardia ed il cabaret, ironico e davvero molto originale, in un pezzo che non potrebbe che essere stato scritto da Zappa. Da notare il breve assolo di piano di George Duke, l’energetico intervento di Ernie Watts al tenore ed il consueto vivace contrappunto della sezione fiati. Una intro di Rhodes distorto (George Duke) conduce alla successiva “Eat That Question” che vede l’esplosivo ingresso della ritmica, cui fa seguito un nuovo assolo di piano elettrico ad opera di quel genio che è George Duke. La spinta potente della batteria di Dunbar e del basso di Erroneous ci trasporta all'assolo di Zappa con la chitarra elettrica, giusto per ricordarci che Frank non era solo un grande compositore ma anche uno splendido chitarrista. Per concludere al meglio ecco il finale “Blessed Relief” che è il mio brano preferito in assoluto.  Si apre con una breve introduzione che prosegue esponendo il tema la cui cristallina melodia appare quasi cantabile ed è meravigliosamente orchestrata in puro stile jazzistico. Magnifico l’assolo di flicorno di Sal Marquez e fantastico il lavoro di piatti di Ansley Dunbar. Poi tocca a George Duke, di nuovo al piano elettrico, che sciorina una performance delicata ed intensa, davvero da brividi, che risulta perfettamente propedeutica all'assolo di Zappa, qui impegnato alla chitarra semi-acustica. Frank sembra pervaso da una certa riflessiva malinconia, con l’uso del wah wah che a tratti lascia apparire quegli strani passaggi di "tarantella lenta" tipici del musicista. La coda strumentale è impreziosita nuovamente dai fiati mentre la melodia sembra dissolversi nell'aria. Con questo lavoro concettuale Zappa diede continuità alle sue precedenti produzioni discografiche che già risentivano di forti influenze jazzistiche ed il suo linguaggio si fece in questa circostanza più delineato, distanziandosi almeno temporaneamente dal rock e orientandosi verso una formula molto sofisticata di fusion jazz. Questo esperimento, però, fu di breve durata, i musicisti che parteciparono alla registrazione di questo album, erano diversi da quelli che andarono in tour nello stesso anno, e Zappa avrebbe poi proseguito su altre strade stilistiche. Il linguaggio compositivo di The Gran Wazoo raggiunse nuove ed altissime vette, in grado di valorizzare gli arrangiamenti e la fantasiosa e policroma strumentazione che il maestro mise insieme per l’occasione. The Grand Wazoo ci consegna il genio di Frank Zappa all’apice della sua vena creativa, qualcosa che probabilmente nessun musicista rock riuscirà mai più ad eguagliare.

Vinnie Colaiuta - Vinnie Colaiuta


Vinnie Colaiuta - Vinnie Colaiuta

Vinnie Colaiuta è un musicista statunitense di lontane origini italiane (la sua famiglia proviene da un paesino in provincia di Cosenza) ed è tra i più apprezzati e richiesti batteristi al mondo. Ha cominciato a suonare da bambino riuscendo però ad avere una sua batteria solo a quattordici anni. Dotato di estrema versatilità e di tecnica ineccepibile, ha i suoi maggiori punti di forza nella straordinaria potenza e velocità di esecuzione. Riconosciuto come uno dei pochi batteristi in grado di suonare indifferentemente ogni stile con un linguaggio appropriato e la giusta tecnica, passa dal jazz al progressive, dal metal al rock, dal latin alla fusion con estrema naturalezza.  E’ uno dei session man più presenti nelle registrazioni nella storia della musica moderna. Dopo aver frequentato il Berklee College of Music a Boston per un anno, Colaiuta si trasferì a Los Angeles (dove risiede tuttora), arrangiandosi a suonare dove c‘era la possibilità di farlo. Nell'aprile del 1978, all'età di ventidue anni, ebbe l'opportunità di fare un provino per Frank Zappa, eseguendo tra l'altro l'assolo di “The Black Page” (scritto in origine per Terry Bozzio) che è estremamente difficoltoso. L'audizione ebbe successo e Colaiuta lavorò con Zappa, sostituendo lo stesso Bozzio, dimissionario, come batterista principale nelle esibizioni dal vivo e in studio fino al 1982. Ma Colaiuta ha anche collaborato con una lista sterminata di altri illustri artisti: un elenco di celebrità e talenti infinito che sarebbe troppo lungo citare in dettaglio. Vinnie Colaiuta, è l'unico prodotto da solista del grandissimo batterista. L'album risale al lontano 1994 e leggere da quali musicisti è stato suonato è già un indizio della sua qualità. La registrazione contiene nove tracce piuttosto eterogenee e non certo di facile ascolto che richiedono l’attenzione di orecchie fini e preparate. La struttura musicale è complessa e non manca un certo gusto per i tecnicismi sperimentali. L’album inizia con un forte accento progressive: “I'm Tweeked/Attack Of The 20lb Pizza” è un favoloso brano che richiama alcune sonorità dei King Crimson, ma reinterpretati da una batteria che sembra agire contro tempo, con uno strano effetto che però si rivela una scelta ritmica del tutto voluta dal grande Colaiuta. Non inganni l’inizio roboante e piuttosto rock, l'album è molto interessante proprio per la varietà dei generi proposti nelle varie tracce. Un retaggio della lunghissima carriera di Vinnie attraverso quasi tutti i generi musicali esistenti. “Private Earthquake: Error 7” è un ottimo brano fusion che riesce a mescolare in un unico contenitore funky, psichedelia, jazz, e sperimentazione, il sound del sax non può non ricordare i Weather Report mentre la ritmica riporta alle sonorità cosmic jazz degli anni ‘70. Un sound che continua anche sulla successiva “Chauncey” in cui una batteria dal ritmo monotono è sostenuta da una strana sonorità di basso per un effetto fusion-psichedelico piuttosto inquietante, ma echi di Joe Zawinul e dei Weather Report sono comunque presenti. “John's Blues” suona quasi angosciante e molto strana, uscendo da qualsiasi canone stilistico. Probabilmente il brano più bello e articolato è “Slink”, un numero jazzistico elaborato e vivacissimo quasi scoppiettante per via del suo complesso apparato ritmico e del mirabile fraseggio tra le tastiere ed il sax. Colaiuta è semplicemente mostruoso per velocità, tecnica ed inventiva, una prestazione la sua che lascia letteralmente stupefatti. “Darlene's Song” arriva come una sorta di oasi rilassante, anche se la sua solo apparente semplicità nasconde in realtà un pezzo molto complesso, musicalmente evoluto ma anche emozionante. A spiazzare ancora una volta l’ascoltatore ci pensa l’enigmatica “Momoska (Club Mix)” che è una sorta di escursione nella tecno-fusion-latina: qualcosa di davvero inusuale e tuttavia piacevole e convincente. Fantastico e grintoso, pulsante e scattante il brano intitolato “Bruce Lee”, quasi una didascalia in musica della dinamicità del maestro del kung fu. “If One Was One” chiude l’album nello stesso modo di come era cominciato e cioè con un pezzo di progressive rock geniale e molto “Zappiano”. Una complessa struttura di tempi e ritmi sincopati che è un’evidente citazione del genio di Baltimora. Vinnie Colaiuta non ha solo messo in mostra tutta la sua monumentale e pirotecnica bravura ma ha anche dato vita ad un album innovativo, che mette insieme il jazz e la fusion contaminandola con quella parte più progressiva del rock che fa capo ai King Crimson ed a Frank Zappa. Su tutto si delinea la favolosa sperimentazione che il grande Vinnie fa con la sua batteria: questo suo unico lavoro (ad oggi)  rappresenta un vero must per ogni batterista, ma risulta molto interessante per ogni appassionato della grande musica. E' lecito attendersi al più presto un nuovo album.

Sonny Emory - Hypnofunk


Sonny Emory - Hypnofunk

Nativo di Atlanta, Georgia, Sonny Emory  era ed è un predestinato: ebbe in regalo il suo primo set di batteria all'età di quattro anni e mostrò immediatamente di avere un talento innato. Meno famoso a livello globale di altri mostri sacri del drumming, è tuttavia a mio parere uno dei più bravi in assoluto. Dopo la laurea presso la Georgia State University in “Jazz Performance”, Sonny si è lanciato nel mondo del professionismo arrivando presto a suonare con Joe Sample e i Crusaders. Sonny vanta oltre 20 anni di duro lavoro sia dal vivo che in studio, dove continua ad essere impegnato come richiestissimo session man sia in ambito jazzistico che in molti altri contesti. Di fatto Emory è conosciuto principalmente per la sua militanza, lunga tredici anni, con i mitici Earth Wind And Fire, ma la verità è che, grazie alle sue doti, si è esibito con un numero enorme di artisti della musica leggera e del jazz tra cui Stanley Clarke, David Sanborn, Bette Midler, Al Jarreau, Paula Abdul, Jean-Luc Ponty, gli Steely Dan e Boz Scaggs. Sonny è anche noto per il suo pittoresco ed innovativo uso di alcuni spettacolari numeri di abilità con le bacchette durante le sue esibizioni dal vivo, che includonoanche le tecniche di back-sticking (gergo tecnico che significa battere il tamburo con il manico della bacchetta in luogo della testa). Emory ha vinto un Grammy Award, ed è considerato dagli addetti ai lavori uno dei più grandi batteristi degli ultimi 15 / 20 anni. Stile inconfondibile, grande competenza, tecnica sopraffina ed un groove feeling fantastico sono il marchio di fabbrica di questo straordinario musicista. Nel 1996 ha finalmente dato alla luce il suo progetto solista: un album di puro funk jazz intitolato Hypnofunk, prodotto dal fondatore degli EW&F e batterista a sua volta, Maurice White. Hypnofunk è la perfetta vetrina per mettere in mostra la bravura, il senso del ritmo e l’inventiva di Sonny Emory alla batteria, ma anche un certo talento per la composizione ed il buon gusto musicale. Diciamo subito che si tratta di funk contaminato a sprazzi da atmosfere jazzistiche, da un tocco di hip hop e da una qualche venatura di smooth jazz. E poi naturalmente c’è quell’ispirazione che viene direttamente dal retaggio degli Earth Wind And Fire, palpabile in più di un’occasione. Su tutto domina il sound della batteria di Emory, sempre precisa, pulita e potente eppure mai sopra le righe. Dopo un brevissimo brano introduttivo, l’album inizia con “Hypnofunk”: un funk che più funk non si può. A seguire un altro brano dal groove profondissimo ed irresistibile intitolato appropriatamente “Funky Swing” in cui un riff di fiati ripetuto ossessivamente sottolinea una ritmica trascinante. “Scratch” rimanda ad atmosfere quasi da acid jazz intervallate da un bel rap. Anche la successiva “In The Pocket” si configura come un sofisticato hip hop all’interno del quale trova posto un bell’assolo di piano di matrice jazzistica. “Travellin’” ha grande affinità con le ritmiche degli EW&F e la cosa non sorprende di certo. Tranquilla e rilassata è invece “Be Still My Beating Heart”, caratterizzata da un bellissimo sax soprano e dai toni tipici dello smooth jazz. “Mo Go Go” riporta tutto al cuore del funk, in un numero tutto ritmo scandito quasi esclusivamente da un bel basso slap e dai favolosi fraseggi e stacchi della batteria di Sonny. Il pezzo più bello dell’album è però “Napoleon’s Run” che, alla consueta favolosa batteria del leader, affianca una struttura armonica e melodica davvero notevole ed è impreziosita dai puntuali interventi dei solisti: sax, piano e tromba entrano splendidamente in gioco sul magnifico tappeto ritmico di Sonny. “Tribal Phunk” è un brevissimo intermezzo per sola batteria e percussioni. Orecchiabile e fluida “Mimosa” rientra nei canoni dello smooth jazz più leggero tenendo sempre ben in evidenza il drumming sofisticato di Emory. Funky/rap colorato di Earth Wind & Fire infine per “Let Me Talk”. Entrare nello “showroom” di Sonny Emory con questo suo Hypnofunk non vi porter al cospetto di un capolavoro, tuttavia vi consentirà di scoprire tutta la maestria, la capacità tecnica e la creatività di un batterista dal talento cristallino e dalla tecnica sublime. Emory è in grado di suonare con nonchalance e naturalezza tutti i generi musicali siano essi il jazz, il funk, la fusion, l’r&b o il rock poco importa, la sua grande versatilità lo fa passare sopra gli stili in scioltezza.  Qui offre anche un saggio delle sue ottime doti di compositore: il risultato è un album piacevole che non delude e tra l'altro è ancora attuale nonostante siano passati vent'anni. Il suo ascolto sarà un piacere per qualsiasi appassionato della batteria e della buona musica.

Dave Weckl - Transition


Dave Weckl - Transition

Dave Weckl è uno dei più acclamati batteristi del mondo, un vero fenomeno dal suo strumento per tecnica, velocità, precisione ed inventiva. Weckl è un vero e proprio punto di riferimento per chiunque si voglia confrontare con la batteria ed è da annoverare senza dubbio tra i migliori cinque drummer contemporanei al mondo. Di sicuro questa fama è figlia di una lunga gavetta e di un perfezionismo maniacale ma la sua reputazione è maturata anche per merito della sua celebrata militanza, durata sei anni, con le band di Chick Corea. Weckl è nato a St. Louis ed è cresciuto ascoltando soul e jazz; ha ricevuto il suo primo set di batteria all'età di otto anni e ha quindi forgiato il suo inconfondibile stile attraverso l'ascolto di un mito della batteria jazz come Buddy Rich, ma anche prendendo a piene mani dalle ritmiche del funk e dell’R&B. Diplomatosi in musica jazz presso l'Università di Bridgeport, si è poi spostato a New York per godere delle grandi possibilità offerte dalla metropoli.  E’ qui che si è unito ad un gruppo fusion chiamato Nitesprite,  attirando finalmente l'attenzione di un grande batterista e produttore quale  Peter Erskine.  L’ex Weather Report è stato determinante per il prosieguo della carriera di Dave Weckl, che ottenne da quel momento in poi un forte slancio verso il successo. Transition è  il terzo album di Dave Weckl per l'etichetta Stretch Records e come indica lo stesso titolo riflette una nuova direzione nella proposta musicale del batterista, un momento di transizione e di passaggio foriero di inediti approcci tecnici ed di una band aggiornata. Sono sette i brani che compongono questa registrazione del 2000, nella quale il batterista si avvalse della presenza di un amico di lunga data  come il bravo sassofonista Brandon Fields. Insieme a quest'ultimo, con il quale Dave aveva ed ha un rapporto di amicizia ed un intenso e proficuo interplay,  l’album vedeva la partecipazione del bassista Tom Kennedy e della più recente acquisizione della band in quel momento, il formidabile tastierista Steve Weingart. Weckl si presenta in grande spolvero e si cimenta con nuove tecniche percussive che prevedono ad esempio un inusuale utilizzo dei bongos e di varie percussioni metalliche che arricchiscono e colorano la nuova configurazione della sua già ricca batteria. Transition mette in mostra la mostruosa abilità tecnica del leader, il quale come d’abitudine fornisce generose dosi di ritmo ad altissima energia ed una raffinata gestione della velocità e del controllo: un marchio di fabbrica che ha caratterizzato Dave Weckl sia nella Elektric Band che nella Akoustic Band di Chick Corea. In questo album vediamo che i due approcci  (elettrico e acustico) vanno nella direzione di una certa convergenza. Se da un lato infatti il drumming di Weckl resta potente e carico di groove, dall’altro è evidente anche una ricerca stilistica orientata ad una maggiore leggerezza. "Mild Hysteria"  ad esempio propone la batteria in un veloce poliritmo sul quale la band suona con un tempo diverso: così la melodia sembra cambiare ad ogni singola sezione solistica.  "Group Therapy", scritta da Brandon Fields, mette in luce la sua bella voce di sax ed un ottimo funky groove di tutto il gruppo. Strutturalmente molto interessante è anche la sinuosa "Passion" con Steve Weingart e le sue magnifiche tastiere a giocare in tandem con la delicata atmosfera percussiva di Weckl. Fields è ancora affascinante nel suo assolo che contribuisce ad accrescere l'impatto sull'ascoltatore. "Crossing Paths" è un altro grande pezzo dalla melodia orecchiabile, in questo caso contrassegnato dalla prominente presenza del potente  basso di Tom Kennedy. Nel suo insieme, la Dave Weckl Band è un gruppo jazz rock piuttosto particolare, per certi versi unico nel suo genere. La sua identità musicale fatta di tecnica sopraffina e tanta energia sembra aver felicemente abbattuto il confine tra solista e accompagnatore creando una stratificazione sonora molto intrigante e di grande suggestione. Una formula che può appagare in egual misura sia gli appassionati di jazz che quelli più orientati verso la fusion.

Fertile Ground - Perception


Fertile Ground - Perception

La band soul-jazz chiamata Fertile Ground è probabilmente tra i collettivi musicali più visionari, originali ed innovativi che possa capitare di ascoltare. La ragione? I Fertile Ground fanno quello che vogliono e non pagano tributo ad alcuna delle correnti o delle tendenze in voga. Sono afrocentrici, politicamente impegnati nella comunità, esteticamente evoluti ed artisticamente avanzati. Non sono ascrivibili a nessuna delle attuali "categorie" (leggi: prigioni) della musica nera fin dal lontano 1998. Facciamo dunque un passo indietro e vediamo che la band fu fondata a Baltimora dal tastierista James Collins nel 1998 come un mini gruppo di tre elementi con la vocalist Navasha Daya ed il batterista Marcus Asante. Il progetto era implementare la canzone soul americana con i ritmi di varie parti del mondo senza canoni precisi e restrizioni.  Nel 1999 alla band si sono aggiunti il percussionista Ekendra Das, il veterano trombettista Freddie Dunn e il virtuoso sassofonista Craig D. Alston. Collins creò anche un’apposita etichetta discografica, la Blackout Studios ed i Fertile Ground ebbero la possibilità di auto prodursi così i primi due album (Field Songs e Spiritual War). Nel 2000, il proprietario dell'etichetta Counterpoints Records, Jake Behnan, scoprì la band e ne divenne un fan entusiasta, al punto da voler riunire il meglio dei primi due album in una compilation intitolata “Perception”. Fu un successo immediato in Asia ed in Europa. Seguirono un cambio di batterista (il nuovo fu Mark Prince), un lungo tour e anche due nuovi album, entrambe molto interessanti (Seasons Change del 2002 e Black is… del 2004). Successivamente a livello discografico ci furono solo un album di remix (Remixed) e una riedizione del primo storico album Field Songs Revisited. All'inizio del 2010, i membri di Fertile Ground decisero di prendersi una pausa per concentrarsi sui loro progetti personali, il risultato è stato una disdetta per tutti gli appassionati perché da quel momento di fatto il gruppo non ha pubblicato più nulla.  Sarebbe bello se questa stasi creativa dei Fertile Ground finisse al più presto. Nel frattempo non ci resta che goderci quello che è il segno più tangibile e completo del loro talento e cioè questa compilation intitolata come detto prima Perception. Un mix indovinato dei primi singoli della band e molti brani selezionati dai loro primi due album. Il set si apre con il canto/poesia afro di "Libations" sostenuta solo da percussionisti. Un inizio che non deve ingannare sulla natura musicale del gruppo che infatti è seguito dal brusco cambio di stile di “Spiritual War”, un profondo groove soul-jazz che, pur se pilotato da un ritmo afro, mette subito in evidenza la splendida vocalità di Navasha Daya ed evidenti echi di jazz e blues. Un brano che è influenzato sia da Gil Scott-Heron che dalla musica più matura di Marvin Gaye ed anche dai primi lavori di Jon Lucien. Con un sound però decisamente moderno. “Broken Branches” è una canzone molto accattivante, arricchita da un arrangiamento funky soul ricco di fiati su un medio tempo molto articolato. Bellissimi gli assoli di sax di Alston e di Freddie Dunn alla tromba. Una strana ritmica ci accoglie in “Be Natural”, anch’essa dominata dai fiati e dalla convincente voce di Navasha. Atmosfera latineggiante per la veloce “Peace & Love” con le percussioni ancora sugli scudi.  Bellissima poi “Let The Wind Blow” una canzone sofisticata e di ampio respiro che corre, si ferma, riparte e mette nel cocktail anche un altro bell’assolo di sax. Groove latino e linee di basso ipnotiche per “Colors Of The Night” che Freddie Dunn impreziosisce con un intervento di tromba di stampo jazzistico. “Patches In The Shade (Stay Strong)” è invece uno funky shuffle molto black: bello l’assolo di synth di James Collins.  Altri punti salienti dell'album sono i brani più jazz-oriented proposti dai Fertile Ground: "Ghetto Butterflies", "Homage (Yesterday)" e "My Friend the Moon" tre canzoni che esaltano le ottime doti vocali afro black di Navasha Daya, ma soprattutto le qualità strumentali dei musicisti. In realtà, nelle 16 tracce contenute in Perception, non c'è un vero momento di debolezza. La profonda anima soul, la presenza di un filo conduttore jazzistico, lo spirito world/afro genuino unito alle atmosfere semplici e dirette ma originalissime rendono questa compilation in qualche misura l’album definitivo dei Fertile Ground. Questa band è un segreto molto ben custodito della scena soul-jazz.  La speranza è che tornino presto a farsi sentire con produzioni attuali per confermare le stesse fantastiche vibrazioni che hanno saputo trasmettere in passato ma proiettandosi nel 21° secolo con nuovo slancio e la medesima passione. Se riuscissero ad avere più risonanza a livello mediatico il (meritato) successo questa volta potrebbe essere davvero planetario.

Eric Gunnison - Voyageur


Eric Gunnison - Voyageur

Quando non ascolto musica dalla mia personale discoteca mi piace molto esplorare il web a caccia di novità, artisti sconosciuti e giovani o meno giovani talenti di cui la rete è davvero piena. Qualche volta si fanno degli incontri interessanti e ne esce materiale anche per questo blog. E’ questo il caso del pianista e compositore Eric Gunnison, di cui ignoravo l’esistenza ma che, dopo un ascolto su You Tube, ha attirato la mia attenzione e mi ha spinto a cercare maggiori informazioni e testare la sua produzione discografica. Nativo di New York, ma con residenza stabile nella città di Denver in Colorado fin dal lontano 1980, Eric ha portato avanti una brillante carriera musicale durante la quale si è affermato come uno dei pilastri della vibrante scena jazz della Mile High City in veste di strumentista, di bandleader e di educatore.  Attivo da più di 30 anni come sideman e pianista/tastierista di studio, Gunnison è stato anche un insegnante presso la Lamont School Of Music di Denver e al Conservatorio  del Colorado. Gunnison  grazie alla sua competenza ed alla sua bravura ha avuto l’opportunità di esibirsi con artisti jazz di fama internazionale con una particolare specializzazione per le cantanti.  Dopo due album di estrazione jazzistica tradizionale, pubblica ora questo nuovo lavoro che vede una sterzata decisa verso una fusion raffinata e non commerciale, caratterizzata da un sound che recupera atmosfere vintage e fa uso del piano elettrico e del sintetizzatore. Voyageur, questo è il titolo dell’album, resta comunque un disco di jazz, sia pure jazz elettrico. Le contaminazioni con il funk o se volete con la fusion sono evidenti, dettate anche dalla scelta della strumentazione, ma il cuore della musica di Eric Gunnison è prevalentemente radicato nel contesto della migliore tradizione sia per quanto riguarda la tecnica dell’improvvisazione, sia per la struttura armonica dei brani. Per questa registrazione il pianista è affiancato da un gruppo di musicisti piuttosto sconosciuti ma non per questo meno validi. Bijoux Barbosa, Matt Houston, Christian Teele, Randy Chavez, Kirwan Brown, Mike Marlier sono i compagni d’avventura scelti da Gunnison per questo progetto. Il disco inizia con quello che probabilmente è il brano più fusion di Voyageur: ”Journey To Akumal” è dominato dal synth che detta la melodia su un ritmo latineggiante. L’atmosfera è un mix affascinante di new age, fusion e progressive e l’assolo centrale di Eric è assolutamente degno di nota per inventiva e originalità. Come il titolo lascia presagire “G-Funk” si sposta più decisamente verso il funk groove, mentre la melodia è condotta prima da un magistrale piano acustico e poi, sempre in pieno territorio jazzistico, da un Rhodes che farà la gioia dei molti seguaci del piano elettrico. “Tribute” affronta il tema della ballata jazzistica in modo piuttosto canonico, il trio piano – basso – batteria è la formula scelta da Gunnison per questo rilassato brano, etereo e molto gradevole. Il pianista di Denver si cimenta anche con un numero in stile bossa con “Midnight Samba” ed anche in questo caso la scelta cade sul classico pianoforte. Su di una base ritmica brasilianeggiante, Gunnison si esibisce in uno splendido assolo, dimostrando una notevole padronanza di questo particolare stile. Il pezzo forse più interessante dell’album è “Lodo Blue”, veicolato da una ritmica sincopata e scoppiettante, Eric fa sfoggio di talento e tecnica con il piano elettrico, ricreando un feeling jazz rock da anni ’70 che al mio orecchio suona irresistibile. Evidenziando una predilezione per le ritmiche latin funk, Gunnison si mette nuovamente al pianoforte acustico per proporre un altro bel brano intitolato “Five Years Ago”, colorato da un ulteriore saggio di bravura e fantasia nell’improvvisazione. “Eurasian Lullaby Redux” è animata da una particolare tensione emotiva, con continui cambi di ritmo e di atmosfera, ma a fronte di un’eco quasi new age suona come una rilassata ballata jazzistica. A chiudere questo album  ci pensa un brano per piano solo intitolato “Lost Soul”, perfetto per le indubbie doti strumentali di Gunnison. Una menzione particolare deve però essere doverosamente assegnata anche al bassista Eduardo “Bijoux” Barbosa ed al batterista Matt Houston che si distinguono in tutto l’album per la ritmica puntuale ed alcuni assoli piuttosto pregevoli.  Voyageur è decisamente una proposta interessante ed una bella scoperta nel mare magnum delle pubblicazioni musicali di questi ultimi tempi. Eric Gunnison dimostra di essere un pianista di tutto rispetto, che oltre ad un’ottima tecnica individuale, riesce ad esprimere anche delle notevoli doti di compositore. Senza particolari ambizioni o manie di protagonismo offre del buon jazz contemporaneo colorato di forti tinte fusion. Al giorno d’oggi può bastare così.

Bob Mintzer – All L.A. Band



Bob Mintzer – All L.A. Band

Bob Mintzer è uno dei più straordinari ed importanti sassofonisti in attività. Il suo sound pieno e vigoroso, il suo fraseggio sapiente e la sua fluida espressività ne fanno certamente uno degli esponenti più in vista del sassofono contemporaneo a livello internazionale. La “voce” degli Yellowjackets, è un musicista super impegnato: è quasi sempre in tour con la popolare band fusion, con il proprio quartetto, o magari con le big band, formula jazzistica di cui è diventato un vero e proprio punto di riferimento. Nonostante ciò Mintzer non perde occasione per scrivere musica jazz di qualità per tutte le situazioni che lo vedono coinvolto. Mintzer è anche docente di composizione presso la University of Southern California a Los Angeles, ruolo che condivide con gli amici di lunga data Peter Erskine, Alan Pasqua, Vince Mendoza e Russell Ferrante. Partecipa anche a laboratori musicali in tutto il mondo, scrive libri su una varietà di argomenti inerenti la musica, è presente in molteplici registrazioni in qualità di solista ospite o direttore artistico. In sostanza Bob è uno di quei musicisti che vivono la loro professione a 360 gradi con una grande passione e con encomiabile impegno. “All L.A. Band” è la sua ultima fatica come direttore della più recente versione della sua Big Band: quella che ha sede a Los Angeles e annovera tra i suoi membri tutti musicisti dell’area Californiana.  Anche se il nome del sassofonista Bob Mintzer figura quale titolare solitario del progetto, l'All L.A. Band è in realtà una reciproca collaborazione con il celebre batterista Peter Erskine, ovvero quella che fu la ritmica dei Weather Report. Oltre al ruolo di batterista, Erskine ha prodotto l'album, mentre Mintzer  si è occupato delle dieci belle composizioni e degli arrangiamenti. Tra gli stili musicali più vicini al cuore di Bob ci sono l’afro-cubano ed il funk, ed è naturale che vi sia abbondanza di entrambi su All L.A. Band. Per questo album Mintzer ha scelto la crema dei musicisti ed i risultati sono prevedibilmente eccellenti. Basti sapere che la sezione trombe è affidata a Wayne Bergeron, mentre quella dei tromboni è sotto la supervisione di Bob McChesney. È interessante notare che, Mintzer ha scelto di utilizzare solo tre sassofoni: il contralto di Bob Sheppard, il baritono di Adam Schroeder e lui stesso stesso al tenore. Per quanto riguarda la sezione ritmica, troviamo il pianista Russell Ferrante, il chitarrista Larry Koonse, il bassista Edwin Livingston ed il percussionista Aaron Serfaty pilotati abilmente dalla batteria del navigato e sempre straordinario Peter Erskine. L’apertura dell’album è affidata ad un primo omaggio di Mintzer alla musica cubana, il latin jazz solare e contagioso di "El Caborojeno" ci porta subito in atmosfera caraibica, nello stesso modo in cui più avanti la big band ci delizia con brani  come "Ellis Island" e "Latin Dance". Virata funk per "Slo Funk" che fu scritta una quarantina di anni fa per la band di Buddy Rich, e poi anche per "Home Basie" e "New Rochelle", composta in origine per gli Yellowjackets. Tutti brani che se da un lato evidenziano una ritmica più marcata e aggressiva, nella sostanza restano intrinsecamente jazzistici per quanto concerne gli arrangiamenti e gli assoli.  "Havin 'Some Fun" è un numero in pieno stile Count Basie, ed è un piacere ascoltare un big band dei giorni nostri esibirsi in uno swing orchestrale così magistralmente suonato. "Original People" ricalca ugualmente le orme dei classici  dello swing. Straordinaria la veloce, roboante "Runferyerlife", (precedentemente ascoltata in Old School dello stesso Mintzer) dove è possibile ascoltare uno dei migliori assoli di Mintzer ed uno scoppiettante intervento di trombone di McChesney. L'album si chiude con "Tribute", un sentito omaggio al trombettista Thad Jones ed ai molti altri eccellenti musicisti che hanno militato nella mitica big band di Count Basie. E’ evidente che il fulcro di questo album e dell’intera orchestra sia proprio Bob Mintzer con il suo sax tenore: i solisti più in evidenza oltre al leader sono sicuramente Bob Sheppard,  Adam  Schroeder,  Bob McChesney e Russell Ferrante al pianoforte. Tuttavia al di là dei singoli è il suono della L.A. Band che riesce nell’intento di affascinare l’ascoltatore con un repertorio vivace e sempre interessante, mai noioso o eccessivamente pesante. Nel solco della migliore tradizione ma con un tocco di modernità e leggerezza che non stonano affatto, Bob Mintzer e Peter Erskine hanno messo insieme un progetto straordinario, condensato in questo bellissimo album che può vantare tra le altre cose una coerenza impressionante. Questo è jazz di alto livello che dovrebbe catturare sia l’appassionato che l’ascoltatore occasionale. A mio parere All L.A. Band è una delle migliori pubblicazioni del 2016.

Don Sebesky – Giant Box


Don Sebesky – Giant Box

Don Sebesky è un nome che alla maggior parte dei lettori non dirà quasi nulla, ma agli appassionati più attenti risulterà invece molto più popolare. Sebesky fu infatti l’arrangiatore di fiducia del produttore Creed Taylor e dunque il responsabile del sound di molti degli album della Verve, della A & M, e della quasi totalità delle produzioni della CTI/KUDU.  Don è il musicista la cui maestria orchestrale ha contribuito a rendere artisti come Wes Montgomery, Paul Desmond, Freddie Hubbard, e George Benson  più popolari e meglio accettati al pubblico al di fuori del jazz. Pur avendo subito critiche per il suo approccio particolare verso un genere che non ha mai amato l’uso delle orchestre, va detto senza remore che Don Sebesky è un musicista e compositore tra i più eleganti e completi del suo campo, un artista con una solida conoscenza dell'orchestra ed una coraggiosa visione dell’uso che se ne può fare nel jazz e nella fusion. Sebesky ha letteralmente creato uno stile, attingendo con intelligenza dal grande jazz delle big band, dal rock, dalla musica etnica, da quella classica di tutte le epoche, e perfino dall'avanguardia. Egli stesso ha citato Bela Bartok come suo compositore preferito, ma nel suo lavoro si sentono anche forti echi di Stravinskij. Don Sebesky ha iniziato la sua carriera professionale come trombonista mentre era ancora studente alla Manhattan School of Music, lavorando con Kai Winding, Claude Thornhill, Tommy Dorsey, Maynard Ferguson, e Stan Kenton. A partire dal 1960 ha lasciato il trombone per concentrarsi sull’arrangiamento e la conduzione d’orchestra. La svolta decisiva nel suo percorso artistico fu l’incarico di arrangiare l’album di Wes Montgomery “Bumpin'” (1965) che resta uno degli esempi più interessanti del suo lavoro nel jazz insieme a “The Shape of Things to Come” di George Benson,  “From the Hot Afternoon”  di Paul Desmond, e “First Light” di Freddie Hubbard. Tuttavia fu proprio questo originale  ed articolato album intitolato “Giant Box” che attirò i riflettori di pubblico e critica: infatti il cast messo a disposizione da Creed Taylor per l’occasione consente di ascoltare all’opera un vero concentrato di star. In effetti Giant Box può essere considerato il più ambizioso tra i numerosi progetti di Taylor per la CTI ed è indicativo il fatto che fu affidato in prima persona al prezioso lavoro di Don Sebeky. Il successo planetario della 2001 Space Odissey di Deodato (arrangiata proprio da Don) aveva fatto affluire copiose ed impreviste quantità di denaro nella casse della CTI e Taylor decise di utilizzare quasi tutti i migliori musicisti che aveva a disposizione nel  suo “roster”, mettendo alla guida di tutto Don Sebesky. La all-star band era così composta: Freddie Hubbard, Randy Brecker, Hubert Laws, Paul Desmond, Joe Farrell, Grover Washington, Jr., Milt Jackson, George Benson, Bob James, Ron Carter, Jack DeJohnette, Billy Cobham, Airto Moreira, Jackie Caino e Roy Kral, una cosa mai vista su un unico album. Il risultato è una vera e propria opera di ampio respiro che condensa e sublima tutto il sound distintivo e l’identità unica che ha caratterizzato la storia dell’etichetta CTI.  Un album che propone degli adattamenti classici (Firebird di Stravinsky ad esempio è unita in modo sorprendente con "Birds of Fire" di John McLaughlin), alcune orchestrazioni elaborate ed ardite, delle cover di brani pop, ed il giusto spazio per i solisti per mostrare tutto il loro talento. Ed infatti tutte le stelle riunite in questa registrazione riescono a brillare al loro meglio. Desmond suona particolarmente ispirato in una scintillante e romantica "Song To A Seagull" che esprime al contempo, in modo chiaro, il concetto di orchestrazione jazz che il maestro Sebesky ha nelle sue corde artistiche. Hubbard e Washington si esibiscono da par loro sul brano, appropriatamente intitolato, "Free as a Bird": lo stile è quello delle big band e qui sono i fiati a caratterizzare il sound.  Sebesky fu lasciato libero di sperimentare ed il suo talento nell’arte dell’arrangiamento orchestrale si delinea splendidamente (e con grande inventiva) ad esempio sulla citata "Firebird/Birds Of Fire" o sulla particolare "Fly/Circles" che vive le sue due anime contrastanti in modo molto originale. “Semi-Touch” va toccare il cuore del jazz dei seventies attraverso un sound funky quasi da blaxploitation ed è un tripudio di ritmica e groove. Che si tratti di atmosfere jazzistiche, di rivisitazioni di brani classici o che l’atmosfera viri sulla fusion, Sebesky riesce a mantenere un perfetto equilibrio, sintetizzando in modo magistrale le molteplici anime della musica moderna. L’album uscì in origine come doppio LP all’interno di un elegante box, con all’interno un libretto di fotografie e un'intervista esclusiva a Don Sebesky, mentre la ristampa su CD condensa tutto in un singolo disco, in accordo con la maggiore capacità di registrazione del supporto più recente. Giant Box rappresenta ancora oggi un’opera musicale in qualche misura sensazionale e mantiene viva la memoria di quanto forte ed importante fosse la CTI all’apice della sua parabola.

Joe Beck - Beck


Joe Beck - Beck

Il chitarrista Joe Beck ha goduto di un grande credito nell’ambiente fusion fin dall’inizio degli anni ’70. Le sue credenziali come session man comprendono anche le collaborazioni con artisti del calibro di Miles Davis, James Brown, Paul Simon, Frank Sinatra e Gil Evans. Durante gli anni '80 ha poi realizzato una serie di ottimi album fusion e pop-jazz per la DMP, e successivamente ha proseguito la sua carriera continuando a produrre numerosi cd, fino al 2008 quando gli fu diagnosticata una grave malattia ed in seguito morì a soli 62 anni. Beck ottenne il suo vero, primo successo nel 1975 con questo album omonimo concepito in stretta collaborazione con David Sanborn e registrato per la CTI, l’etichetta del produttore Creed Taylor che dominava la scena fusion dell’epoca. “Beck” non è mai stato pubblicato su CD, e risulta disponibile solo attraverso il canale  dell’importazione giapponese. Il disco è sicuramente un capolavoro di metà degli anni '70, il cui focus artistico è incentrato su un formidabile mix tra funky jazz e fusion. Fondamentale per la riuscita della registrazione furono senza alcun dubbio i musicisti coinvolti, che vanno da un giovane David Sanborn al sax  al grande Don Grolnick alle tastiere, passando per il basso di Will Lee e la batteria di Chris Parker. Tutte le otto tracce dell'album sono state registrate in solo due giorni di sessioni di studio. (In origine sul vinile erano solo sei, mentre la versione cd prevede due inedite bonus tracks). Alcune sovraincisioni sono state inserite  in un’ulteriore giornata di lavoro ed infine ci fu l’aggiunta di un minimo di archi arrangiati da Don Sebesky. "Star Fire" apre il set con un bell’unisono tra la chitarra di Joe Beck ed il sax di Sanborn: il sound è inequivocabilmente fusion e il dipanarsi del brano mette in risalto l’alto livello  di interplay tra i due solisti ed il resto della band.  Il groove è potente in un inseguirsi di stretti fraseggi di sax e cavalcate chitarristiche. Bellissima ed intensa “Cactus” firmata da Don Grolnick, un brano che diventerà un classico con il quale si cimenteranno molti chitarristi in seguito. "Texas Ann"  è un altro pezzo originale di Beck, dove Sanborn si mette in luce con un sentore di blues mentre lo stesso  chitarrista sciorina un assolo di pregevole fattura sulla base delle tastiere di Don Grolnick.  In "Red Eye" si respira aria di funk: su un medio tempo la discreta orchestra d’archi di Sebesky offre uno splendido sottofondo per l’assolo del sax acido di David Sanborn, il quale dimostra di essere già il fenomeno che in un decennio conquisterà le classifiche internazionali di contemporary jazz. La chitarra di Beck è al solito un misto di psichedelia, rock e jazz tanto affascinante quanto originale. Il brano più funk dell’album è "Café Black Rose", un numero che mette in mostra l'impegno del gruppo nel produrre un groove jazz graffiante ed energetico sulla base di una ritmica estremamente sincopata e nervosa. L’ospite Steve Khan aggiunge un tocco particolare con la sua slide guitar, incrementando la sensazione di funky alla Sly Stone. “Brothers And Others” gioca su tre distinte fasi: l’iniziale e la conclusiva molto blueseggianti e la sezione centrale che con un cambio di ritmo sposta repentinamente il baricentro nel territorio della fusion;  sia la chitarra di Joe che il sax di David ben si adattano alla situazione. Chiude i giochi l’altra bonus track “Spoon’s Theme”, un brano suonato ad alta velocità che è  un vero concentrato di puro jazz elettrico anni ’70, il feeling è esattamente quello delle serie tv poliziesche di quel periodo che tanto ci entusiasmavano. “Beck” è un ascolto essenziale per chiunque sia interessato al funk jazz della metà degli anni '70. Gli ingredienti classici sono tutti lì, in bella mostra: la tecnica, le idee e le composizioni sono proprio come dovrebbero essere. E di più, Joe Beck conduce al meglio l’amico David Sanborn e tutta la band in un viaggio fantastico tra vibrazioni positive, arrangiamenti essenziali ma efficaci ed un genuino spirito funk fino al cuore del tipico CTI sound. Quello di cui personalmente sono un ammiratore incondizionato.

Idris Muhammad – Power Of Soul


Idris Muhammad – Power Of Soul

Idris Muhammad è stato un ottimo batterista che in carriera ha avuto molteplici esperienze musicali: dal jazz al soul, dal funky alla fusion il barbuto drummer ha attraversato con disinvoltura e padronanza ogni variante stilistica. Tecnicamente ineccepibile e famoso per la potente e precisa scansione ritmica ha trovato il suo momento di maggior splendore durante la sua militanza con CTI di Creed Taylor. Diventato professionista a soli sedici anni, Muhammad ha suonato principalmente soul e R & B all’inizio degli anni ‘60 per poi passare al jazz dopo il 1965, quando divenne  membro della band di Lou Donaldson. In seguito, sotto contratto per la Prestige Records tra il 1970 e il 1973, è comparso come sideman  su moltissimi album registrati dalla famosa etichetta jazz. Idris Muhammad, dopo essersi ritirato a New Orleans nel 2011, è venuto a mancare nel luglio del 2014 all'età di 74 anni.  Power Of Soul, insieme con un pugno di altre registrazioni per la CTI è una delle ragioni per cui Idris Muhammad è passato alla storia come uno dei batteristi più dotati di genuino groove feeling. La band è tra le migliori che si possano desiderare:  alle tastiere Bob James, al sassofono Grover Washington, Jr., alla chitarra Joe Beck, alla tromba Randy Brecker, ed infine alle percussioni Ralph MacDonald. La magnifica produzione  di Creed Taylor, così tipicamente seventies è la ciliegina sulla torta: l'anima jazz sublimata da un genuino funky groove. Ed è proprio il funk a volare veloce e potente su tutto il disco, in particolare sulla title track (brano di Jimi Hendrix), con gli stupendi assoli di Grover Washington e Bob James, perfettamente a loro agio sulla ritmica scandita da Idris Muhammad. Particolare ed entusiasmante l’assolo di chitarra di Joe Beck che è speciale anche per il suo andare in leggero controtempo. Quattro brani per soli 34 minuti complessivi sono fin troppo pochi per i contenuti di Power Of Soul: ma è una sorta di concentrato emozionale di quello che era capace di esprimere Muhammad in quel particolare momento storico. Siamo a metà degli anni’70 (1974), questo album rappresentava il debutto del batterista per l’etichetta parallela KUDU all’interno del più vasto universo della CTI, un esordio che non avrebbe potuto essere più felice. Non c’è una traccia debole in Power Of Soul: “Loran’s Dance" di Grover Washington è dark ed intensa, perfino inusuale per gli standard compositivi del grande sassofonista a ribadire che da lì in avanti il suo ruolo nella musica internazionale sarà di primo piano sia come compositore che come straordinario esecutore.  Bellissima “Pieces Of Mind” di James che suona fantasiosa e leggera ma non banale, ed è da incorniciare l’assolo di soprano di Grover Washington, come il successivo intervento di tromba offerto dal magico Randy Brecker. Se siete appassionati di piano elettrico è imperdibile anche il solo di James. “The Saddest Things”  con la sua atmosfera rilassata ed orecchiabile  non fa che confermare la sensazione di qualità e ottime vibrazioni che pervade tutto l’album.  Ogni musicista ha qui piena libertà creativa e Idris Muhammad mantiene saldamente la barra del ritmo con quel suo stile sobrio ed asciutto da metronomo vivente. Power Of Soul è un approccio al jazz che è sì leggero e abbordabile, ma al contempo  è anche musicalmente complesso. C'è una  grande forza in queste quattro tracce: può intrattenere, può far riflettere o semplicemente farvi battere il tempo con il piede con un sorriso di soddisfazione  sulle labbra. Questo è il luogo dove il jazz ed il soul si incontrano, si uniscono e si esaltano, spinti da un’anima funk, e a me piace moltissimo.

Hank Crawford - Wildflower


Hank Crawford - Wildflower

Hank Crawford, ovvero un sax alto dalla voce inconfondibile, piena di emozione ed intensità, che interpreta in modo completo ed esaustivo entrambe le anime della tradizione afroamericana: quella jazz e quella blues. Nato a Memphis, Crawford è cresciuto nel segno del blues fin dalla più tenera età. Ha iniziato suonando il pianoforte, ma è passato al sassofono contralto quando suo padre gliene regalò uno. Tra le sue principali influenze lo stesso Hank cita Louis Jordan, Earl Bostic, e Johnny Hodges. Le sue registrazioni degli anni '60 per la Atlantic Records lo hanno reso a buon diritto uno dei sassofonisti più importanti del genere soul-jazz. Grazie ad un fraseggio di classe cristallina e ad un feeling unico, Hank Crawford è indubbiamente da considerare alla stregua dei grandi maestri del suo strumento. Ed infatti quando il grande produttore Creed Taylor lanciò  la sua rivoluzionaria etichetta CTI nel 1970, volle ingaggiare immediatamente proprio un fuoriclasse come Crawford. Wildflower, registrato nel 1973, è uno degli otto album pubblicati a suo nome tra il 1971 e il 1978, ed è probabilmente il migliore per la CTI e uno dei più rappresentativi della carriera di Crawford.  Come spesso accade quando si tratta di produzioni della CTI,  i puristi del jazz potrebbero non apprezzare completamente un album come Wildflower, a causa delle sue evidenti contaminazioni con il funk e la fusion, ma questa opinione non è a mio parere del tutto condivisibile. Il disco è infatti di pregevole fattura e validi contenuti ed in ogni caso non nasconde affatto la sua natura soul funk. Prodotto e arrangiato da Bob James con un cast stellare di musicisti che comprende Joe Beck, Idris Muhammad, Richard Tee e Bob Cranshaw e supportato da una straordinaria sezione fiati di specialisti newyorkesi di altissimo profilo, Wildflower è un album che Crawford aveva cercato di fare fin dal suo arrivo nella scuderia di Creed Taylor. Registrato in soli due giorni, tutta la band offre una perfetta tavolozza per le variopinte pennellate melodiche di Crawford, il quale affonda le sue radici proprio nella sapienza e nel controllo del fraseggio. Ne esce un lavoro fresco e moderno che ancora oggi risulta perfettamente godibile, nonostante i quarantatre anni trascorsi. Si inizia con "Corazon" e subito il groove domina la scena, su un ritmo latino, i fiati roboanti introducono Crawford ed il suo sax; immediatamente dopo è il turno del magnifico Rhodes di Richard Tee, infine rientra Hank per piazzare il suo irresistibile assolo. Sulla bella title track troviamo un accattivante coro in sottofondo sul quale Crawford  trasforma una semplice melodia pop in un torrente di emotività e ottime vibrazioni soul. "Mr. Blues" dice tutto già nel titolo, infatti l’atmosfera è profondamente bluesy sia per l’arrangiamento che per la tipica ritmica. Il buon Hank nuota nel suo elemento naturale con fluidità e disinvoltura rendendo il brano davvero molto piacevole. Gli arrangiamenti di Bob James sono grandiosi ma mai invadenti, misurati al punto giusto e soprattuto  puntano in una sola direzione: evidenziare la bellezza del suono soul blues del contralto di Crawford.  Fantastico il modo in cui  Hank dispone a piacimento della melodia in "You’ve Got It Bad Girl" di Stevie Wonder, supportato dal suono di una grande band. Come si fa a non apprezzare il tipico sound delle produzioni di Creed Taylor? Oltre al talento di goni singolo musicista sono gli arrangiamenti che fanno la differenza e rendono tutto così unico e spettacolare.  Chiude l’album la romantica "Good Morning Heartache", con un Crawford intimista e passionale a ricamare fraseggi raffinati. Questo Wildflower è un disco così caldo e ricco di groove che l'unica forma di soul-jazz contemporaneo che gli si può accostare è quella altrettanto valida del Grover Washington, Jr. di Feels So Good e Mister Magic. In altre parole, è un album indispensabile, in particolare perché rappresenta, al meglio, un fulgido esempio di quello che era il vero jazz groove degli anni '70.