Gino Vannelli – Brother To Brother


Gino Vannelli – Brother To Brother

Sul finire degli anni ’70 Gino Vannelli aveva già registrato cinque album, ognuno di essi di buon livello. Gino era ormai un artista di nicchia ma riconosciuto e amato, tuttavia nella sua discografia mancava ancora il capolavoro, ovvero il disco in grado di sintetizzare al meglio tutte le sue straordinarie doti di musicista e cantante. Ma proprio nel 1978 esce "Brother to Brother", il lavoro che probabilmente rappresenta l’apice della carriera musicale del cantautore italo-canadese. Le sofisticatissime architetture sonore di questo album storico lo rendono tutt’oggi una pietra miliare, in grado di spaziare magicamente tra jazz-rock, r&b, soul con la stessa, altissima, qualità. Già nei precedenti passaggi della sua discografia  Gino e suo fratello Joe si erano distinti dal resto della produzione per originalità ed innovazione. Di fatto su Brother To Brother si può trovare la consueta, impeccabile musicalità, unita ad una continua ricerca nello sperimentare con i sintetizzatori e le tastiere più all’avanguardia, coniugandole al meglio con il processo di creazione della musica. Alla base resta, fortunatamente, l’amore ed il rispetto per il jazz non più contaminato dalle influenze del progressive rock di qualche precedente capitolo. Anche a distanza di quasi 50 anni dalla sua pubblicazione questo album mantiene inalterata la sua freschezza, ma soprattutto dimostra di non temere il tempo, suonando ancora oggi moderno e pienamente godibile. Fin dall’inizio si capisce che Brother To Brother è un album potente e dinamico: basta ascoltare "Appaloosa" con la sua atmosfera R&B energica e impregnata di funky. Il cambio del batterista Graham Lear presente nei primi album, è stato superato brillantemente dal bravo Mark Craney, così da non avere alcun decadimento a livello ritmico. La produzione è palesemente firmata dal sound della famiglia Vannelli poiché sia i cori che le tastiere sono un marchio riconoscibile anche qui. Il chitarrista Carlos Rios è uno dei principali punti di forza dell’album: i suoi straordinari assoli sono una costante che vale la pena di sottolineare. "The River Must Flow" ha un groove pop contemporaneo che è brillantemente condito da vivaci esplosioni di percussioni ad opera di Manuel Badrena e proprio Carlos Rios sciorina un magico momento di chitarra aggressivo e jazzato. "I Just Wanna Stop" (scritto dall'altro fratello Vannelli, Ross) è la canzone più famosa di Gino Vannelli e non ha bisogno di presentazioni. Sguazza alla grande in quell’universo sofisticato e così fluidamente orecchiabile che stava prendendo piede in quegli anni e che qualcuno ha voluto chiamare AOR (adult oriented rock). È una melodia bellissima, gradevole e penetrante, un successo internazionale che ha finalmente dato a Gino l'attenzione mondiale che aveva faticosamente cercato per anni. Il sassofono solista che si ascolta nel brano è opera di Ernie Watts ed è un momento pieno di pathos. Il fratello Ross Vannelli ha anche scritto la canzone successiva, "Love & Emotion", un brano con qualche accento stile Bee Gees, ma più incisivo e potente, con un ardente assolo di chitarra di Carlos Rios. In Brother To Brother la batteria è tenuta maggiormente in primo piano nel missaggio rispetto al solito, evitando al contempo che le melodie risultino troppo rilassate, in più il canto di Gino non è travolgente come in passato, permettendo alla musica di avvolgere la sua voce in modo più confortevole. Due aspetti notevolmente migliorati della produzione che hanno fatto funzionare meglio tutto il lavoro nel suo insieme. L'aggiunta del basso elettrico di Jimmy Haslip (di solito si affidavano alle linee di sintetizzatore di Leon Gaer per fornire quel servizio) sulla bellisssima "Feel Like Flying" introduce un'aura ancora diversa nel sound. La progressione di accordi ben costruita di Gino, il sottile vibrafono di Victor Feldman e l'elegante giro di sax di Watts spostano il baricentro di questa canzone in un contesto maggiormente legato al jazz. E poco importa se il coro finale è forse un po’ troppo chiassoso. Ma il pezzo clou dell’album è proprio la title track "Brother to Brother": è qui che Gino e la band raggiungono davvero il top. La performance della sezione ritmica di Craney e Haslip risalta splendidamente in questa canzone dall’andamento incalzante di oltre 7 minuti. C’è poi quell’intrigante segmento centrale che interrompe la potenza del motivo principale andando a pescare nelle atmosfere avventurose e stravaganti che Gino aveva sperimentato all’inizio della carriera. In dettaglio va notato come la chitarra elettrica solista di Carlos Rios sia davvero eccezionale ed anche il modo in cui i sintetizzatori e le tastiere di Joe Vannelli spingono la traccia perfino nel territorio del prog e di più ancora del jazz/rock. "Wheels Of Life" è una lussureggiante ballata R&B, che non diventa affatto sdolcinata, e personalmente è un pezzo che apprezzo moltissimo. Sembra quasi teatrale nel suo incedere ed il ritornello ha uno spessore artistico e compositivo notevolissimo. Non a caso ha dato a Gino l'opportunità di interpretarla superbamente quando la portava sul palco in concerto. "The Evil Eye" è l'unico vero rock dell'album dove peraltro Gino sembra rilassarsi quel tanto che basta per divertirsi e non prendersi troppo sul serio. Non si eleva sopra il già altissimo livello dell’album, ma vale la pena di concentrarsi sull'infuocato assolo di Carlos Rios, scoprendo una volta di più quanto questo chitarrista meriti attenzione e rispetto. A chiudere c’è un’altra ballata, "People I Belong To", che pur partendo da una fluidità simile a "I Just Wanna Stop", non è così memorabile come la popolare hit forse perché manca proprio di quell’importantissimo ritornello. Brother To Brother è un capolavoro assoluto e se ha una colpa è che, proprio a causa dell'aumento di popolarità e di successo di massa che questo disco ha provocato, da qui in poi Gino Vannelli adottò un approccio più commerciale. Il cantante canadese forte di un  ottimo riconoscimento di pubblico e di classifica si ritagliò una comoda nicchia nel mezzo di una musica più facile ed easy listening. I suoi giorni da audace pioniere che combinava insieme coraggiosamente rock, jazz, prog e pop erano alle sue spalle, ma di sicuro non si può denigrare mai l'uomo e l’artista Vannelli per aver accettato il destino che gli era stato assegnato nel panorama musicale ed aver fatto ciò di cui aveva bisogno per sopravvivere. Lui e suo fratello Joe sono stati determinanti per la ridefinizione o addirittura la creazione del genere jazz/pop e andrebbero sempre elogiati per il loro coraggio e la loro lungimirante audacia. Loro, nel loro piccolo, hanno fatto davvero la differenza. Brother To Brother non rappresenta solamente il più importante traguardo nell’ottima discografia di Vannelli, è anche una delle più alte vette mai raggiunte dal genere cui appartiene e Gino possiede una delle voci più belle che si possono ascoltare. Imperdibile.

George Duke – Dream Weaver


George Duke – Dream Weaver

Ho una particolare ammirazione per George Duke: mi ha sempre entusiasmato il suo modo di suonare ogni genere di tastiera. E non di meno mi ha colpito anche il suo originale approccio con la composizione musicale e in ultimo con la produzione discografica. Ora George Duke non c’è più e il vuoto che ha lasciato è davvero incolmabile. Una fine arriva per tutti noi con la sola variante del quando e del come, per George il quando è stato davvero troppo presto. Dream Weaver è un album che gravita intorno alla perdita, alla guarigione e alla speranza del futuro, uscito poco prima della sua scomparsa. George Duke perse sua moglie Corine nel 2011, e poco prima mancò anche la sua amica  e cantante r&b Teena Marie, proprio mentre collaborava con Duke ad un album di jazz. Nonostante l’atmosfera di dolore che inevitabilmente doveva incombere sulla registrazione, Dream Weaver non è certo un album cupo e triste. Al contrario emana il buon umore, la giocosità e la raffinata capacità di Duke di non prendersi troppo sul serio, probabilmente retaggio di un uomo che ha condiviso parte della sua carriera con un genio ironico come Frank Zappa. Registrato con molti musicisti diversi e qualche ospite di rilievo, l'ultimo album di Duke in assoluto è, a tratti, non troppo omogeneo, ma George non perde in nessun caso la direzione giusta. Come produttore il George Duke era abile quanto il George Duke musicista ed in più era profondamente consapevole di quali fossero i suoi punti di forza e di debolezza in entrambi i ruoli. Se è vero che è stato il funk della vecchia scuola di "Reach For It" e "Dukey Stick" a consentire a Duke di raggiungere il successo planetario come artista solista, un brano come "Ashtray" è un degno richiamo diretto a quei giorni. E’ curioso ma non del tutto imprevedibile che sia lo stesso Duke, con i suoi sintetizzatori, ad occuparsi del basso del brano, e lo fa così bene che potrebbe essere guardato con ammirazione da Bootsy Collins o dal suo vecchio amico Stanley Clarke. Proprio Clarke appare qui in "Stones of Orion" mostrando tutta la suà abilità al basso in un brano, peraltro bellissimo, che è uno dei momenti topici di tutto Dream Weaver. "Missing You" è cantata da Duke e dalla bravissima Rachelle Ferrell. La struggente e commovente ballata è un  omaggio accorato e passionale alla moglie Corine. La bella canzone intitolata "You Never Know" intende diffondere un messaggio profondo con un tono leggero e disinvolto: fare tesoro di ogni momento perché non sai mai quando ogni cosa potrebbe cambiare. "Jazzmatazz" e "Round the Way Girl" non aggiungono molto a questo album, se non per gli assoli sempre esaltanti di George. Lo strumentale intitolato "Brown Sneakers" con Michael Manson al basso è invece un bel pezzo fusion degno di nota. Quasi come un segno del destino Duke ha composto ed inserito nel suo ultimo album un brano come "Change the World" che ha quell’andamento solenne e positivo che ricorda la più famosa "We Are the World". Il coro di voci è formato da stelle del canto R&B come Jeffrey Osborne, Lalah Hathaway, BeBe Winans e Freddie Jackson che danno alla canzone lo spessore necessario e sottolineano la sincerità e la profondità del messaggio. "Ball & Chain" è stata registrata dalla brava Teena Marie poco prima della sua morte: stava lavorando con Duke su un album di impronta jazzistica e se è un'indicazione di quale avrebbe potuto essere il prodotto finito, abbiamo la certezza di aver perso qualcosa di molto interessante. Teena aveva evidentemente il fraseggio di una cantante jazz e in proiezione una sua evoluzione più impegnata avrebbe di certo dato grandi risultati. In qualità di produttore, Duke aveva la capacità di far emergere i punti di forza di un artista piuttosto che obbligarli dentro una gabbia sonora preconfezionata. "Burnt Sausage Jam" è è una sorta di jam session suonata da Jef Lee Johnson alla chitarra, dal bassista Christian McBride e dal batterista John Roberts. Senza svilupparsi in particolari vette musicali è tuttavia un’interessante registrazione di un momento quasi ludico, dove la maestria degli strumentisti viene evidenziata per ben 15 minuti. L’Incisione era stata fatta originariamente per l’album Face the Music del  2002 ed infatti ricorda la jam simile intitolata "Ten Mile Jog" di quel disco. Dream Weaver si conclude con "Happy Trails", profeticamente un addio che voleva essere spensierato. Un mese dopo l'uscita di questo album, George Duke morì di leucemia: aveva solo 67 anni. Spesso ci si chiede se sarà possibile ascoltare dell’altro materiale inedito di Duke, ma questa è una domanda che per ora non ha una risposta. Per il momento possiamo godere di quello che abbiamo, pescando nella sua vasta discografia. George era un artista versatile e talentuoso che era ugualmente a suo agio con molteplici stili e generi e ci ha lasciato una ricca eredità musicale. Dream Weaver è un degno capitolo finale di una grande carriera.


 

Norman Connors – Dance Of The Magic


Norman Connors – Dance Of The Magic

Norman Connors è di certo un grande batterista, tra i molti emersi nei primi anni ’70, sicuramente uno tra i più originali. Norman cominciò ad interessarsi al jazz da bambino cominciando presto ad esercitarsi col il suo strumento. Ha poi studiato musica alla Temple University e alla Julliard. Partendo dal jazz d’avanguardia, attraverso le collaborazioni con Archie Shepp e Pharoah Sanders, con il tempo ha cambiato radicalmente il suo stile, virando progressivamente verso un genere più commerciale. La sua musica ha profondamente influenzato molti artisti sia jazz-funk che R&B. Durante la sua carriera ha collezionato diverse fortunate hit, ma la sua produzione dei primi anni ’70 si distingue per lo spirito di sperimentazione e l’originalità delle sue proposte. Il primo album di Norman Connors come leader è un bellissimo esempio di innovazione e coraggio in cui si assiste ad una fusione tra il jazz elettrico e quello spirituale del suo mentore Pharoah Sanders declinato attraverso i ritmi e le armonie della musica latina. Un’occhiata alla formazione di Dance Of The Magic ti fa capire che i musicisti coinvolti sono l’elite di quel periodo storico. E’ curioso notare come quasi tutti i protagonisti di questo lavoro, compreso lo stesso Connors, avrebbero finito per sconfinare nel giro di pochi anni in una fusion influenzata dal jazz con accenti disco e r&b. Tuttavia nel periodo dal 1972 al 1975 la ricerca e la creazione di nuove forme ibride di jazz elettrico era particolarmente affascinante e in questo album ci sono diversi musicisti che si sarebbero in seguito resi protagonisti di svariate forme di crossover più o meno sperimentale. Si può dire che il viaggio intrapreso a partire da queste sessioni sia stato foriero di una serie di interessantissimi lavori. I successivi due meravigliosi album di Norman Connors ad esempio: "Dark of Light" e "Love from the Sun". "Children Of Forever" di Stanley Clarke e "Black Love", "Journey To Enlightenment" e "Let This Melody Ring On" di Carlos Garnett. Inoltre ci sono Herbie Hancock, Eddie Henderson e Billy Hart della band Mwandishi con lo storico "Crossings". Il sassofonista Carlos Garnett in particolare è un punto focale nei primi tre album di Connors, e i suoi album successivi possono essere visti come una ideale continuazione di questa particolare fusione di jazz elettrico ed elementi latini. E’ innegabile la forte influenza di Garnett nelle tracce di "Dance Of Magic", in più è proprio lui che ha arrangiato la title track, un brano lunghissimo (21 minuti) che occupa tutta la prima parte dell’album. Herbie Hancock, che è il tastierista di questo album, in quel momento stava esplorando in modo più esteso il piano elettrico rhodes integrando gli effetti di delay, distorsione, wah-wah e modulazione che la popolare tastiera offriva. A breve indirizzerà il suo interesse sui sintetizzatori, che poi saranno i suoi strumenti prediletti, pianoforte a parte. Non ascoltavo questo album da alcuni anni ma oggi sono le percussioni che mi colpiscono in maniera particolare. Norman Connors si è assicurato la collaborazione del prodigioso percussionista brasiliano Airto Moreira ed insieme a lui altri 6 specialisti. Il risultato è impressionante: il ritmo e l’energia che scaturiscono da questa orgia percussiva è un piacere dinamico e stimolante. Dance Of The Magic tuttavia è un album spigoloso e ostico. Non mancano momenti più rilassati e morbidi come Morning Sun e Blue, ma gli assoli sono spesso intricati, acidi, al limite del free. Tutto è comunque dominato dalla batteria e dalle percussioni che sono il vero motore di tutto l’album, perfino quando le melodie si fanno più dolci. E’ una sorta di muro ritmico all’insegna del sound latino e con qualche eco afro. La spiritualità che infarciva in quel periodo tutta una generazione di musicisti, Norman Connors compreso, è anch’essa presente, ritagliandosi spazio dentro alle articolate e complesse melodie di Dance Of The Magic. La cosa che più impressiona a posteriori è che nel giro di 3 o 4 anni Connors farà suo un linguaggio molto più commerciale, davvero comparabile con la più sofisticata disco music: ovvero uno stile che appare lontano anni luce dalle atmosfere selvagge e cerebrali che si possono ascoltare qui.

Project TH3M – Project TH3M


Project TH3M – Project TH3M

Alla base dei Project TH3M c’è un vibrafonista che risponde al nome di Mark Sherman. Questo serio ed esperto professionista è tuttavia uno di quegli artisti che sembrano non trovare mai una conclamata notorietà. La sua indubbia esperienza ed il suo talento contrastano con una carriera in sordina sebbene Sherman sia sulla scena del jazz fin dalla fine degli anni '70. Nato come batterista, Sherman, che è anche un buon pianista, ha studiato musica classica alla Juilliard School insieme a Wynton Marsalis. Dopo aver registrato nel 1980 un album fusion notevolmente innovativo, intitolato Fulcrum Point, ha dato seguito a questo debutto qualche anno dopo con A New Balance. In quegli anni Mark Sherman era impegnato in ambito classico sinfonico, ad esempio con la New York Philharmonic, la Brooklyn Philharmonic e la Joffrey Ballet Orchestra. Ma al contempo ha lavorato anche con cantanti famosi come Mel Torme, Peggy Lee e Liza Minnelli. Quella jazzistica come vibrafonista era una sorta di carriera parallela arricchita dalle collaborazioni con Ruth Brown, i cantanti Jackie e Roy e i chitarristi Larry Coryell, Joe Beck e Rodney Jones. Project THEM è in sostanza uno pseudonimo che, come suggerisce il nome, è più uno sforzo di collettivo che un album solista. L’onere delle composizioni è infatti distribuito tra quasi tutti i membri della band. Project TH3M è composto dallo stesso Sherman al vibrafono, dal batterista Adam Nussbaum, dal pianista e tastierista Mitchel Forman e inoltre  dal sassofonista Bob Franceschini, dal bassista Martin Gjakonovski e da un altro pianista: Paolo Di Sabatino. Il sound dei  Project TH3M è un jazz moderno, aggressivo e con qualche connotazione d’avanguardia, pur senza sconfinare nel free o in sonorità estreme. Non mancano alcuni tocchi di fusion, ma fondamentalmente l’architettura complessiva è una rivisitazione contemporanea del lessico dell’hard bop, prevalentemente acustico.  Quasi come ascoltare i gruppi di Art Blakey o McCoy Tyner mediati attraverso il feeling dei giorni nostri. Ciò è particolarmente evidente in brani ritmati e ad alto contenuto energetico come "Submissive Dominants" e "Angular Blues". Guardando ai dinamici musicisti coinvolti nel progetto, non è certo una sorpresa. Tutti approcciano questa musica con grande intelligenza focalizzandosi su una eccellente energia creativa in grado di suscitare emozioni. Anche una ballata come "Close Enough for Love" rivela un palpabile senso di modernità che aggiunge tensione, facendo emergere la malinconia intrinseca del pezzo. Allo stesso modo "We 3" di Nussbaum scava in profondità nell’interpretazione delle ballate ed il risultato è convincente. Una nota particolare la merita il sax di Bob Franceschini che in ogni momento dell’album si rivela graffiante e intenso. "The South Song" di Gjakonovski ha un'atmosfera introspettiva e molto cool che ricorda le incisioni della storica etichetta ECM. Per gli amanti del vibrafono la presenza di uno specialista come Mark Sherman è una garanzia: il suo tocco sapiente e la sua sensibilità sono una costante della band, così come le sue complesse composizioni. Project TH3M è un pregevole esempio di jazz mainstream con una spiccata tendenza alla modernità. Ogni brano è suonato con quell’energico dinamismo che eleva la musica di questa band  ben al di sopra del banale. C’è un solidissimo interplay tra i musicisti che si accompagna alle eccellenti composizioni ed all’interno di queste spiccano in particolare le improvvisazioni di alto livello. Project TH3M è una proposta alternativa alla solita musica stereotipata e spesso costretta dentro canoni fin troppo rigorosi alla quale il mercato discografico ci ha abituato. Non è un album facile ed a volte può anche risultare ostico ma è un interessante ascolto che tuttavia è consigliabile preferibilmente agli appassionati di jazz.

Tom Grant - Mystified


Tom Grant - Mystified

Tom Grant è un uno dei più rinomati e popolari tra gli artisti di quella moderna variante del jazz che ormai tutti conoscono come Smooth Jazz. Pianista e cantante, suo padre era un ballerino di tip tap che possedeva un negozio di dischi a Portland e suo fratello era un pianista di jazz d'avanguardia. In giovane età, Grant ha imparato a suonare il piano e la batteria. Dopo essersi laureato all'Università dell'Oregon, si è recato a New York City nel 1970 con il sassofonista Jim Pepper. Il soggiorno nella metropoli americana ha portato Grant a fare tournée e registrare con grandi musicisti jazz come Woody Shaw, Charles Lloyd e Tony Williams. Nel 1976, Grant ha inciso il suo primo disco da solista ma l'album fu pubblicato solo due anni dopo, dall'etichetta jazz olandese Timeless Records.  Nel 1979 ha formato la sua band e poi, a partire dal 1980, Tom Grant ha iniziato a pubblicare una serie di album pop influenzati dal jazz che possono essere classificati come appartenenti al filone dello "Smooth Jazz", contribuendo a rendere popolare questo genere. Tornando al disco di debutto, questo era intitolato Mystified e nella band figuravano, oltre a Tom Grant alle tastiere, Joe Henderson al sassofono tenore, Rick Laird al basso e Ron Steen alla batteria. Mystified ha avuto una genesi particolare: fu registrato nella stessa data, con gli stessi musicisti e durante la stessa sessione dell'album Soft Focus del bassista della Mahavishnu Orchestra, Rick Laird. Entrambi gli album sono stati prodotti da Joe Henderson e contengono cover di alcune sue composizioni, inoltre condividono una copertina concettualmente simile. Mystified è un album fortemente caratterizzato da sonorità jazz fusion, nel quale si può ascoltare una musicalità pungente e abrasiva, dal tono decisamente impegnato. Chi conosce il Tom Grant degli album di maggior successo commerciale resterà sorpreso dalla sostanziale differenza che distingue questo debutto della metà degli anni ’70 dai lavori pubblicati dal pianista a partire dal decennio successivo. Come detto Mystified è un disco dove le sonorità sono molto più marcatamente orientate al jazz, sia pure elettrico. L’album inizia con una delle composizioni scritte da Henderson, No Me Esqueca, un brano tratto da una delle sue sessioni con l’etichetta Milestone dei primi anni settanta. Questo è uno dei momenti più delicati di Mystified, che è comunque un lavoro prevalentemente costruito sul pianoforte elettrico e acustico del leader. Come è naturale che sia, le tastiere hanno il loro spazio preminente e Tom Grant si mette in luce spesso con i suoi assoli declinati dalla sonorità ruvida e fluente del suo Rhodes, in qualche modo simile a quella di George Duke. Il brano Caribbean Firedance è giocato su un registro completamente differente: una sorta di brano jazz dance dai connotati vivaci nel quale oltre ad un perfetto uso degli accordi del leader si può ascoltare il basso spigoloso di Rick Laird. Il bassista alimenta la ritmica di tutto l'album con il suo stile pulsante e sempre molto particolare. Per gli amanti del piano elettrico la title track è un piatto prelibato, nel quale Grant esprime al meglio il suo pianismo virtuoso. Anche in questo caso va sottolineata la presenza del sax di Joe Henderson con le sue sonorità acide e aggressive. Tom Grant ha inserito nell’album ben tre brani suonati in perfetta solitudine al pianoforte: uno di questi è un coraggioso omaggio a Thelonious Monk attraverso il suo famoso Pannonica. Mystified è il primo capitolo di una lunga carriera e rappresenta un unicum nella discografia di Tom Grant. Di fatto già con l’album successivo il pianista, che è anche un cantante di discreto livello, abbandonerà il jazz per tuffarsi in un universo decisamente più accessibile e certamente più commerciale. Il successo gli arriderà, tuttavia la musica impegnata e graffiante dell’esordio resta di un altro livello, ed è un ottimo esempio di jazz elettrico: per gli appassionati del quale Mystified risulterà sicuramente un album molto interessante.

The Crusaders – Free As The Wind

The Crusaders – Free As The Wind

Probabilmente i Crusaders non hanno bisogno di grandi presentazioni. Sono uno dei gruppi fusion di maggior successo e nel corso dei molti anni della loro lunghissima carriera hanno raggiunto anche un notevole riscontro a livello commerciale. Dal 1961, anno della loro fondazione, hanno pubblicato più di quaranta album, dei quali i primi diciannove sotto il marchio The Jazz Crusaders, nome che fu abbandonato dal gruppo nel 1971. Sono stati un gruppo musicale importante sia nella fase più puramente jazzistica, concentrata negli anni ’60, sia in quella successiva, grazie soprattutto al loro stile caratterizzato dalla fusione di jazz, soul e pop. La loro influenza è stata grandissima per tutta una generazione di musicisti che hanno tratto ispirazione dal loro inestimabile lavoro fin dai primi anni ’80. Ovviamente non è facile scegliere di quale lavoro parlare tra i tanti capolavori pubblicati dalla band, ma Free As The Wind, uscito sul finire del 1976, è per me un po' speciale, soprattutto perché è stato quello attraverso il quale li ho conosciuti. Nel corso degli anni, anche grazie a questo disco ho capito quanto fosse importante la sotto variante jazz-funk per il genere funk nel suo insieme. In termini di jazz-funk i Crusaders furono dei maestri quasi senza paragoni per tutto il periodo aureo di questa corrente musicale. All’interno della loro architettura sonora spiccava soprattutto il tastierista e leader Joe Sample che ne ha delineato lo stile con il suo pianoforte acustico e soprattutto con il piano elettrico Fender Rhodes. Free As The Wind è proprio il perfetto esempio della loro estetica musicale. E’ un momento chiave della carriera della band, ma lo è soprattutto per il filone musicale che più tardi prenderà il nome di contemporary jazz. I Crusaders degli anni ’70 sono uno di quei gruppi con cui è difficile sbagliare la scelta e Free As The Wind non tradisce davvero. I ritmi funky sono una costante dall’inizio alla fine, così come il groove che accompagna ogni brano. La formazione in quel momento era la seguente: Robert "Pops" Popwell – basso, Stix Hooper – batteria, Arthur Adams, Dean Parks, Larry Carlton e Roland Bautista – chitarra, Joe Sample – tastiere e pianoforte, Paulinho Da Costa e Ralph MacDonald – percussioni, Wilton Felder – sassofono. Era una band formata da grandissimi musicisti, ognuno con una personalità artistica ben definita. Di certo ha rappresentato una vetrina fantastica per il pianoforte di Joe Sample: il suo sound ti entra dentro per non lasciarti più, come ribadito dalla sua carriera da solista. 'Free As The Wind' è dominato da un coerente filo conduttore incentrato sul funk jazz che i musicisti della band interpretano benissimo. Come l’estrazione jazzistica dei componenti farebbe supporre, nell’album c’è molto spazio per gli assoli, ad esempio nella veloce "Sweet 'N Sour" che dà a Larry Carlton la possibilità di brillare, oppure nella memorabile "Night Crawler" dove è invece Wilton Felder a mostrare le sue indubbie qualità di sassofonista. "Feel It" è invece un funky insolitamente duro rispetto al taglio degli altri brani, bellissimo nelle sue sfumature quasi rock. Free As The Wind è il pezzo con l’arrangiamento più sofisticato, senza però andare a discapito del groove: una sorta di manifesto di ciò che i Crusaders produrranno nel futuro. E’ noto che esiste un nucleo di critici (un po’ snob, in verità) che è sempre pronto a condannare senza appello qualsiasi musicista jazz si avventuri al di fuori del lessico tradizionale e canonicamente acustico. Tuttavia "Free As Wind" e così la maggior parte del catalogo dei Crusaders dei ‘70s sfugge a questa regola, forse perché il gruppo manteneva una forte propensione verso l’improvvisazione jazz ed una superba chimica musicale collettiva anche suonando elettrico. Per quanto riguarda gli arrangiamenti orchestrali, Joe Sample ha fatto un ottimo lavoro integrando il groove dei singoli brani esattamente con quello di cui avevano bisogno: ovvero il classico tocco in più. Questo album è davvero un'esperienza omogenea, senza momenti noiosi, da ascoltare dall’inizio alla fine. L’atmosfera e le sonorità sono quelle, incomparabili, del funk degli anni ’70, ma lo spirito e l’essenza del jazz sono tanto presenti quanto forti. Nella discografia dei Crusaders Free As The Wind è senza dubbio un album imperdibile, ma va detto che rappresenta in assoluto un lavoro di importanza rilevante per tutto il movimento jazz-funk, in grado di essere attuale ancora oggi.


 

Yellowjackets – Jackets XL + WDR Big Band


Yellowjackets – Jackets XL + WDR Big Band

Premesso che il formidabile sassofonista Bob Mintzer riveste ormai da anni il ruolo di direttore della superba orchestra jazz  tedesca WDR Big Band di Colonia, ma è anche membro degli Yellowjackets da circa 30 anni, questa registrazione sembrava solo questione di tempo. Il lavoro di Mintzer ha incrementato moltissimo la notorietà della rinomata big band e la collaborazione con i mitici Yellowjackets non è altro che una naturale conseguenza di questo rapporto professionale ed artistico. Intitolata Jackets XL la registrazione coincide con il 25° album della band. Il progetto è semplice: combinare il versatile ed innovativo sound della piccola band con quello imponente della grande orchestra tedesca. Il tutto avviene reinterpretando i più famosi tra gli originali degli Yellowjackets attraverso dei nuovi dinamici arrangiamenti che offrono all’ascoltatore una visione diversa e al contempo ricca di  inaspettate trame e colori, inattese armonie e il solito immancabile bagaglio di audaci assoli. L'attuale formazione degli Yellowjackets include ovviamente il fondatore della band, il tastierista Russell Ferrante, il batterista Will Kennedy e il bassista elettrico Dane Alderson alla sua terza registrazione per il gruppo. Ferrante ha accolto con grande favore il progetto ed è stato coinvolto negli arrangiamenti insieme a Bob Mintzer, cosa che peraltro era già successa nel corso degli anni. L'idea di base era quella di scegliere i brani più popolari tra i fan della band e rivisitarli in modo creativo, offrendo qualcosa di innovativo. Bob Mintzer ad esempio ha riarrangiato "Mile High" [da Four Corners del 1987], un pezzo che gli Yellowjackets non suonavano da anni. Lo stesso Mintzer ha anche rielaborato il famoso brano “Revelation” ( daShades del 1986) riportandolo, 37 anni dopo la sua uscita, alle sue radici gospel con un arrangiamento perfettamente adattato all’esecuzione contemporanea di questa bella melodia. Il sassofonista e direttore d’orchestra si è occupato della rielaborazione di sette dei dieci brani  dell’album ma ci sono anche due arrangiamenti di quel Vince Mendoza che della WDR Big Band è il compositore fisso. I due pezzi presi in carico da Mendoza sono la gemma lirica "Even Song" con la sua carica rock [da Run for Your Life del 1993] e la stupenda "Downtown" [da Live Wires - Live at the Roxy del 1991] con i suoi accenti squisitamente swing. Russell Ferrante ha invece  scritto un nuovo arrangiamento per la sua composizione "Coherence" dall'album Coherence del 2016 dandogli un tocco più orchestrale che andasse oltre il semplice suono di una big band. Ne è scaturita un’affascinante declinazione del brano animata da una strumentazione diversa, come la tromba con sordina, il corno francese ed i tromboni. 'Coherence' è diventata così più ricca e morbida. Il bello di Jackets XL è che oltre ai numerosi cavalli di battaglia del repertorio classico della band, Ferrante ha aggiunto due nuove canzoni: l'allegra "One Day", con Mintzer impegnato sul sempre evocativo EWI (Electronic Wind Instrument). Il pezzo era stato originariamente scritto per l'album del 2018 Raising Our Voice, ma poi non aveva trovato spazio nella registrazione. In più c’è anche "Tokyo Tale", originariamente scritta per la piccola band degli studenti della USC, ma che qui viene trasformata per essere eseguita dal grande ensemble di oltre 20 membri della WDR Big Band. Sebbene la big band crei come è naturale un muro sonoro squillante e colorato, il caratteristico suono elettro-acustico degli Yellowjackets riesce a risaltare ugualmente negli espressivi assoli dei suoi quattro membri. Bob Mintzer fa la parte del leone con suoi i numerosi interventi, ma non vanno sottovalutati i contributi di tutti gli altri componenti degli Yellowjackets. Le tastiere di Ferrante in "Mile High" o il basso di Alderson in "Even Song", solo per fare due esempi. La sfida è stata quella di rinunciare alla libertà che deriva dalla formula del quartetto, imponendo un rigore che fosse comunque creativamente interessante. In una band si possono facilmente gestire i ruoli e giocare con le partiture. Ma con una big band gli arrangiamenti sono necessariamente vincolati, non ci possono essere battitori liberi. Nonostante il gruppo tratti composizioni che conosce benissimo, gli arrangiamenti di una big band obbligano tutti a leggere la musica ed essere veramente concentrati. Proprio come ci si aspetta da un gruppo come gli Yellowjackets, la musica di questo album è molto energica, piena di groove, a tratti gioiosa ed esuberante. In qualche misura la dimensione allargata finisce per giovare all’architettura sonora abituale del quartetto, espandendo e migliorando quello che già di per se è un livello qualitativo elevatissimo. Si potrebbe dire: stesso corpo ma abiti completamente diversi. Espresso in un altro modo, è come un dipinto che assume una connotazione completamente nuova se montato su una cornice diversa. Un particolare che consente allo spettatore di concentrarsi ancora più chiaramente sull’essenza di un’opera d’arte. Questo è ciò che fa la WDR Big Band per gli Yellowjackets: la miglior cornice per il già perfetto suono della band, qui addirittura più brillante e peculiare che in passato.

Gavin Harrison - Cheating the Polygraph


Gavin Harrison - Cheating the Polygraph

Con Gavin Harrison siamo al cospetto di uno dei più formidabili batteristi dei nostri giorni. Se la sua militanza nel miglior gruppo neo progressive degli ultimi 30 anni, i Porcupine Tree, è già di per se un biglietto da visita più che sufficiente, in termini di credenziali assolute, quella arrivata subito dopo con mitici King Crimson è una consacrazione ancora più importante. Harrison si è unito a loro nel 2014 come parte di un incredibile terzetto di batteristi. Se un musicista è degno di prendere in mano le bacchette per delle leggende come i King Crimson, significa che il talento è totale. Sebbene lui sia altrettanto tecnicamente virtuoso e spettacolare è certamente meno invadente di un Mike Portnoy, ma in più ha dalla sua una versatilità di gran lunga superiore. Detto questo, il suo secondo album da solista “Cheating the Polygraph” è un lavoro davvero molto interessante. E’ possibile utilizzare come base la musica rock progressiva per creare un lavoro di jazz ? La risposta è sì, e qualche esperimento è stato fatto (ad esempio con i Genesis e con i King Crimson) in verità con buoni risultati. Per questo progetto di otto tracce, Gavin Harrison è partito proprio da questo complicato presupposto: rielaborare, per non dire stravolgere, i brani classici dei Porcupine Tree e riarrangiarli per una lettura in chiave jazzistica, nel formato inusuale  di una big band. Un’impresa impossibile? No, perché con grande intelligenza musicale, Harrison ha capito che non era il caso di rimaneggiare nota per nota i brani dei Porcupine Tree. Ecco dunque che il nostro Gavin sconvolge nella sostanza ogni pezzo, al punto che praticamente risulta difficile riconoscere gli originali. Tuttavia allo stesso tempo Harrison riesce a mantienere le parti migliori dei brani del grande Steve Wilson, in modo tale che siano comunque identificabili, sebbene completamente rivisitati. "The Sound of Muzak" e "So Called Friend" sono mescolati a formare un unico pezzo, dove la ritmica fondamentale di ciascuno di essi  viene mantenuta mentre sono i fiati portare la musica verso nuove, entusiasmanti direzioni. Sorprendentemente, in queste versioni declinate in scala big band alcune parti si trasformano in qualcosa addirittura migliore degli originali stessi. Ad esempio la linea vocale di "The Start of Something Beautiful" funziona brillantemente quando viene eseguita dagli ottoni, suonando come se la partitura fosse stata scritta direttamente per degli strumenti e non come una imitazione della voce. La saggia selezione di brani operata da Harrison sicuramente aiuta questo esperimento di elaborazione del progressive rock in jazz per big band. Ne esce un’architettura sonora molto evocativa, estremamente profonda e molto originale. Il parallelo sonoro tra Cheating the Polygraph e la musica di Frank Zappa è più che mai calzante e pertinente. Fatta questa valutazione è evidente che ci troviamo al cospetto di qualcosa di eccellente. I sassofoni di "Halo", ad esempio, rievocano il dinamismo ritmico e gli stravaganti riff che Zappa era così bravo a creare. Ascoltando questo incredibile album, appare ovvio che Gavin Harrison avrebbe potuto tranquillamente far parte della band del genio di Baltimora. Grazie al sapiente lavoro di arrangiamento ed alla tecnica  sopraffina di Harrison il passaggio dal rock progressivo a questa sorta di jazz molto particolare funziona a meraviglia. C’è un brano in Cheating the Polygraph, intitolato "Heartattack in a Layby" (originalmente su In Absentia dei Porcupine Tree) dove in mezzo alle seducenti esplosioni ritmiche risalta un’atmosfera dark, quasi da jazz club: l’effetto è degno di nota. Ma è soprattutto in brani pirotecnici come The Pills I’m Taking (Anesthetize), Cheating The Polygraph / Mother & Child Divided e Futile che si può scoprire la bravura di Gavin come batterista e non di meno il suo eccellente lavoro di arrangiatore.  Qui, come in tutto il disco non c’è traccia di progressive rock, questo è jazz orchestrale pieno di potenza ed energia: un sound da big band in piena regola scolpito a colpi di batteria e  fiati. Ripensando all’idea di fondo che ha portato alla realizzazione di questo album, ci sono molti fattori che avrebbero potuto inficiarne il risultato finale. Ma così non è stato: Harrison ha evitato il copia e incolla evitando la vera grande insidia di un progetto così ambizioso. Inoltre non si è fatto prendere da un eccesso di presenza, evitando il protagonismo a tutti i costi. Di più, il batterista inglese ha dato libero sfogo alla sua inventiva su queste canzoni, non per una vuota operazione nostalgia verso i Porcupine Tree, bensì perché ha visto in questi pezzi una opportunità creativa di reinventarsi. In un colpo solo ha definitivamente sancito la sua straordinaria abilità come batterista di livello mondiale ed ha al contempo mostrato a tutti una padronanza totale degli arrangiamenti ma soprattutto del linguaggio del jazz. Interssantissimo.

Ben Webster - Soulville


Ben Webster  - Soulville

Quando, molti anni fa, mi stavo accostando timidamente al jazz, alcuni personaggi mi colpirono quasi immediatamente, tra questi molti erano sassofonisti e in mezzo a loro rimasi impressionato particolarmente da Ben Webster. Webster è considerato uno dei "tre grandi" tra i sax tenori di formazione swing, insieme a Coleman Hawkins (la sua principale influenza) e Lester Young. Aveva una timbrica potente e roca caratterizzata dai suoi personalissimi fraseggi aspri e modulati, attraverso i quali plasmava un suono corposo e fremente piuttosto che roboante. Tuttavia sulle ballate suonava con straordinario calore e sentimento, utilizzando abbondantemente il soffiato, con una sensuale sinuosità che egli contribuì ad associare in maniera quasi imprescindibile al sassofono tenore. Nel 1940 (dopo brevi periodi nel 1935 e nel 1936), Ben Webster divenne il primo grande tenore solista di Duke Ellington. Durante i tre anni successivi ha partecipato a molte registrazioni famose del geniale Duca del jazz. Ben Webster, ormai maturo e brizzolato, con il suo sound unico e riconoscibile ebbe il suo momento d’oro all’epoca della sua militanza con la storica etichetta Verve. Durante un periodo che va dal 1953 al 1959, l'alunno prediletto di Ellington mise in mostra il suo stile eccellente  pieno di raffinatezza e arguzia sia che suonasse con piccoli gruppi sia quando si esibiva con grandi orchestre. Questo album del 1957, registrato con l'Oscar Peterson Trio è uno dei momenti più significativi di quel periodo aureo per il jazz che furono gli anni '50. Ricordo quando curiosando tra i vinili di un noto negozio milanese, mi ritrovai tra le mani Soulville: era uno dei miei primi dischi di jazz, lo comprai ed a casa  subito lo misi sul giradischi. Da lì in poi, non ho mai più pensato a questo genere musicale nello stesso modo. Mai prima di quel momento avevo sentito suoni così pieni di sentimento, sensuali e blues, e da allora fu una passione infinita. Fu proprio il tono aspro, roco e ringhiante di Webster che attirò la mia attenzione di adolescente avido di nuova musica. Come detto, in questa sessione, il grande sassofonista viene accompagnato dal gruppo di Oscar Peterson, che comprendeva il bassista Ray Brown, il chitarrista Herb Ellis e il batterista Stan Levy. Il loro modo di accompagnare il solista è incredibilmente sintonizzato con lo stile di Webster, con Peterson che ebbe il buon senso di limitare la naturale esuberanza che metteva nei suoi assoli (con l'eccezione di "Late Date") in favore di un approccio più defilato. L'album inizia con un paio di blues originali, "Soulville" e "Late Date", che non possono non evocare quelle romantiche immagini in bianco e nero di fumosi club o bar che siamo abituati a vedere ormai solo nei vecchi film. E poi finalmente arrivano le proverbiali ballate di Ben Webster. Lui era un vero maestro della ballata: soffiava nel suo sax con quel timbro così particolare, sensuale, dai toni caldissimi. E’ tutto così saturo di sentimento e sensibilità che non può non rimanerti nel cuore. Così come Billie Holiday faceva con la voce, Webster poteva trasformare una banale canzone d’amore in un toccante affresco di pura bellezza. Nelle adorabili "Time On My Hands" e "Where Are You", Webster dipinge le emozioni con poche note, ma quella essenzialità ti colpisce nell'anima, al contrario di altri sassofonisti che ti sommergono di musica. E’ incredibile sapere che quando registrò Soulville lo stile di Webster era in qualche misura considerato fuori moda. I giovani leoni della musica afroamericana stavano definitivamente prendendosi la scena, mettendo in ombra gli artisti della generazione precedente. Ma in ultima analisi il sax di Ben Webster è una voce senza tempo ed ancora oggi è in grado di toccare le corde dell’emozione. Ascoltare "Makin 'Whoopee", qui magistralmente interpretata,  fa capire alla perfezione cosa intendo: il confronto con la versione classica di Ray Charles non solo non sfigura ma addirittura ci guadagna. Se siete dei jazzofili esperti Ben Webster non sarà certo una scoperta, ma se invece siete dei neofiti e volete cominciare con qualcosa che possa convincervi ad iniziare il viaggio nel mondo del jazz, non esitate: Soulville e Ben Webster sono il punto giusto da cui partire.

Porcupine – Look But Don’t Touch


Porcupine – Look But Don’t Touch

Il pianista Bill Cunliffe ed il batterista Bernie Dresel, entrambe musicisti di grande esperienza e talento, alla fine degli ’80 formarono un gruppo chiamato Porcupine, orientato al jazz con una chiara connotazione stilistica verso il genere smooth. Una band piuttosto sconosciuta che produsse due soli album, entrambe di notevole valore. Il fatto che lo stile dei Porcupine sia quello che ormai comunemente viene definito smooth jazz non deve trarre in inganno ed allontanare gli appassionati. In realtà i Porcupine hanno espresso una qualità musicale che può convincere anche i più scettici verso la declinazione più contemporanea del jazz. Infatti il progetto artistico di questo gruppo è quanto di più vicino alla perfezione stilistica che il jazz contemporaneo possa offrire. Le melodie accattivanti ed originali sono la chiave di volta, ma è un po’ tutto il complesso degli arrangiamenti e dell’esecuzione che rende questo album speciale, così come il precedente. Proprio quando un ritornello sta diventando troppo prevedibile, o una struttura armonica potrebbe risultare banale ecco che è il ritmo a tenere alta l’attenzione. Oppure un assolo del sax di Bob Sheppard, o magari le percussioni puntuali di Kurt Rasmussen, la brillante chitarra di Thom Rotella o la tromba di Clay Jenkins. E’ così che le tracce spiccano il volo e splendono di creatività. Questo secondo lavoro dei Porcupine è esattamente quello che i due fondatori del gruppo sostengono che sia: un album musicalmente accessibile che però mantiene una sufficiente dose di interesse da catturare anche l'orecchio di un purista del jazz. Le composizioni di Cunliffe e Dresel sono affini al loro modo di suonare: melodicamente ricche e piene di inaspettati slanci ed aperture. "Moonwatchers" è rappresentativa di questa mentalità, con il suo vivace tema che lascia il posto agli assoli sulla base di un ritmo di samba su cui Cunliffe esibisce le sue doti al pianoforte. Il chitarrista Thom Rotella lavora sapientemente sia con l’acustica che con l’elettrica. Meglio ancora è l'introduzione stravagante di "Armed Response" o le melodie mutevoli di "If Not Now". . . When?, nella quale la tromba di Clay Jenkins riecheggia il maestro Miles Davis di Tutu. Bernie Dresel mantiene il ritmo in tensione senza eccedere in complicati controtempo. La sua batteria conferisce profondità agli arrangiamenti, anche quando le melodie non sono poi così impegnative. E’ assolutamente degno di nota il lavoro del sassofonista Bob Sheppard nella brillante title track in cui va sottolineato anche il gioco di sintetizzatori. Ottimo anche il raffinato basso di Jimmy Johnson in "Los Angeles". C’è posto anche per un ospite d’eccezione come il sassofonista Gerald Albright che suona su tre delle migliori selezioni del disco. Nonostante la sua interpretazione del jazz contemporaneo sia sempre sofisticata, la sua presenza non aggiunge molto all’album che probabilmente si sarebbe presentato ancora più interessante se avesse lasciato più spazio per l'improvvisazione. Su Look But Don’t Touch è eccellente il lavoro di batteria di Bernie Dresel ma è il pianista Bill Cunliffe a fare la parte del leone. Facendo leva sulle sue influenze classiche ed un indubbio talento, suona con grazia  ed inventiva con un approccio innovativo del pianoforte jazz. La mirabile produzione è di Kazu Matsui il quale si avvale dell’esperienza maturata al fianco della moglie, la straordinaria pianista Keiko. Il secondo album (e anche l’ultimo) dei Porcupine è stato un significativo passo avanti nel panorama appiattito dello smooth jazz, ma purtroppo il gruppo oggi non esiste più e perciò non c’è stata la possibilità di assistere ad un ulteriore e auspicabile crescita artistica di questo interessante progetto.

Tommy Flanagan – The Cats


Tommy Flanagan – The Cats

Thomas Lee Flanagan, nato a Detroit il 16 marzo 1930 e deceduto a New York il 16 novembre 2001, è stato un pianista jazz statunitense particolarmente noto, oltre che per l'intensa attività di leader, anche per essere stato l'accompagnatore più assiduo di Ella Fitzgerald in occasione di numerosi concerti e registrazioni. Flanagan inoltre suonò il pianoforte in alcuni album storici e molto importanti nella storia del jazz come Giant Steps di John Coltrane, Saxophone Colossus di Sonny Rollins o The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery. La sua presenza in questi capolavori certificherebbe già di per sé la grandezza del musicista. Ma analizzando più in concreto lo stile pianistico di Tommy Flanagan, questo può essere definito equilibrato ed al tempo stesso eccezionalmente musicale. Sebbene non possa essere considerato un innovatore assoluto dello strumento, come Bill Evans, Herbie Hancock o McCoy Tyner, Flanagan è stato un musicista di primordine che diede sempre prova di possedere molte delle più importanti qualità di un grande jazzista: swing, raffinatezza armonica, invenzione melodica e amore per il blues. Sul finire degli anni ’50 ci fu un fermento unico nel panorama discografico del jazz e Detroit era in quel periodo un vero e proprio punto focale, un fulcro per molti grandi musicisti nativi della città dell’automobile ma anche per altri che furono residenti lì per breve tempo, come i geni John Coltrane e Miles Davis. Fu qui che Tommy Flanagan entrò in contatto con Trane e registrò questo fondamentale album hard bop intitolato “The Cats”. Nella band oltre a John Coltrane c'erano, come ovvio, alcuni amici di Detroit come il batterista Louis Hayes, il bassista Doug Watkins, il chitarrista Kenny Burrell e, a completare la band, il bravo trombettista Idrees Sulieman. Fin dall’inizio l’album sembra riservare qualcosa di speciale e il classico "Minor Mishap", è il brano che fa capire come stia prendendo forma la magia del grande jazz. Flanagan è energico, suona linee melodiche luminose e vivaci, alterna l’accompagnamento e gli assolo come meglio non si potrebbe. Un artista al massimo della sua forma, lucido e preciso. Coltrane è effervescente ed ispirato, fresco dell’influenza assorbita dalla militanza nel Miles Davis Quintet e alla continua ricerca del suo lessico più espressionista. Sappiamo quali gemme usciranno dal sax tenore del genio di Hamlet nel giro di qualche anno. The Cats è focalizzato sul migliore hard bop possibile: gli altri originali come "Eclypso" e "Solacium", bruciano di un fermento creativo di livello superiore, rilasciando vibrazioni ed emozioni in grado di entusiasmare facilmente l’ascoltatore. Lo stesso Tommy Flanagan appare come  un vero catalizzatore: basta ascoltare il suo straordinario assolo su "Eclypso". Ma non c’è solo questo, il blues di quasi 12 minuti di lunghezza intitolato "Tommy's Tune" è il veicolo perfetto per la chitarra di Kenny Burrell, e suona quasi come un preludio per i suoi classici dello stesso periodo "All Day Long" e "All Night Long". Nell’album è registrata un’unica sessione in trio, lo standard "How Long Has This Been Going On?", che può essere considerata a tutti gli effetti come la quintessenza del pianismo di Tommy Flanagan: eleganza, destrezza, musicalità e swing riunite nelle sapienti dita di questo fantastico musicista. Come detto Detroit era, in quel momento, un punto di riferimento per il jazz e la musica che si faceva in città in quel periodo fu di grande rilevanza non solo per tutto il movimento contemporaneo ma anche per quello a venire. Non c’è dubbio che sessioni di registrazione come questa rivestirono un ruolo cruciale ed importantissimo per la storia del jazz. The Cats non è altro che un antipasto di moltissimi capolavori che tutti questi maestri avrebbero scritto, suonato e registrato nel breve volgere di qualche anno. L’album non può che essere caldamente raccomandato, così come suggerisco un attento ascolto di un pianista come Tommy Flanagan, il quale probabilmente meriterebbe anche oggi una fama maggiore di quella che gli viene peraltro riconosciuta.

Otooto – This Love Is For You


Otooto – This Love Is For You

Quando si parla di jazz fusion, smooth o contemporary jazz che dir si voglia non esistono solo gli USA o magari il Regno Unito. la Danimarca, i Paesi Bassi, o più in generale la Scandinavia sono un ottimo serbatoio alternativo di nuove proposte, spesso molto interessanti. Ecco dunque un giovanissimo e talentuoso quintetto danese che arriva al suo debutto discografico con un album intitolato This Love Is For You, pubblicato nel 2021. Otooto, questo è il curioso nome del gruppo guidato dal trombettista Jonas Due e dal sassofonista Oilly Wallace: il suono della band è incentrato su delle morbide atmosfere create con originalità su un’architettura di matrice affine al contemporary jazz ma scevra da banalità e facili concessioni al commerciale. Ne esce un album autentico e ricco di belle sonorità, ma anche ottime vibrazioni. Un lavoro moderno, sintonizzato con i tempi e tuttavia legato ad alcuni dei principali stilemi del jazz e della migliore fusion. Si percepisce la volontà di trasmettere emozioni positive. La band, coadiuvata da una valida sezione ritmica, perfettamente a fuoco con il sound voluto e guidata dai fiati sempre molto ben arrangiati, debutta nel migliore dei modi e promette di intraprendere un viaggio piuttosto interessante. L'album si compone di 11 tracce ed è anche e soprattutto la testimonianza della eccellente formazione musicale ricevuta dai membri, tutti provenienti dal conservatorio. Il groove è leggero, raffinato e concettualmente distribuito sull'intera strumentazione nonchè sul gioco dei contrappunti e degli arrangiamenti. Gli inglesi hanno un termine che definisce bene il feeling dell’album che è "mellow", vale a dire qualcosa che suona come vellutato e dolce. Una sorta di versione jazzistica e strumentale del pop della West Coast americana degli anni d’oro. Prendiamo ad esempio la traccia di apertura, "Dissolving Parts": un brano che potrebbe facilmente essere parte di una compilation estiva di smooth jazz, ma ad un ascolto attento rivela l'incredibile bravura e la perfetta interazione di tutti e quattro i musicisti. "0 To 1" e "Mayday Greyday" danno una visione più complessa e meno immediata in cui le trame sonore appaiono maggiormente ardite ma pur sempre orecchiabili. Va sottolineato in particolare il lavoro del batterista Andreas Svendsen e del bassista Matthias Petri. A dimostrazione di una ricerca musicale non standardizzata ed anzi originale, nelle seguenti tre tracce si può trovare un po' del primo Quincy Jones che incontra un giovane Robert Glasper: in particolare nella bella title track, "This Love Is For You" è evidente il costante cambiamento armonico, trainato dalla qualità degli assoli. Ugualmente i due brani "Sun Fish" e "Token" si distinguono per il loro cool sound di un livello completamente nuovo. Difficile determinare che gli Otooto sono danesi e non americani. La band sa chiaramente come orientarsi negli arrangiamenti, posizionando lo strumento solista come uno strato melodico aggiunto piuttosto che al centro della scena. Le linee di fiati sono il punto di forza di questi ragazzi e sono semplicemente deliziose in tutto l'album. Ma gli assoli di Wallace e Due brillano particolarmente con i loro accenti vibranti e rilassati, pur mantenendo un dialogo musicalmente aperto e paritario con gli altri membri. E’ proprio il sound corale che ci si aspetterebbe da una giovane generazione di jazzisti. Qui è percepibile un grande potenziale, in particolare se la band dovesse ulteriormente allontanarsi dal più tipico smooth jazz in favore di scelte ancora più ardite. Di fatto una delle ultime tracce dell'album, "The Space Replacement", è quella dove il giovane quintetto probabilmente mette in scena il suo talento migliore. E’ un brano dove si trova tutto, da una bella e commovente melodia a degli assoli dinamici e tecnicamente perfetti, fino ad una sezione ritmica che sa essere groovy ma non invadente. Un brano che permette alla band di sperimentare esattamente quel tipo di suono che è indicativo di un futuro davvero molto promettente. Questo è un album molto particolare che offre sonorità molto rilassate, mai affaticanti eppure sempre interessanti. Niente da dire, This Love Is For You è un impressionante album di debutto per una giovane band come gli Otooto. Qualcosa chi mi sento di consigliare caldamente.

Eliane Elias - Quietude


Eliane Elias - Quietude

Bambina prodigio nata a San Paolo in Brasile e diventata fatalmente una grande pianista jazz e magnifica interprete della bossa nova, Eliane Elias è senza dubbio una delle donne musiciste più talentuose dei nostri giorni. Con Quietude, il suo 31° album come leader, che segue il suo lavoro Mirror, Mirror (Candid Records, 2021), vincitore del Grammy Award,  lascia momentaneamente il jazz e ritorna ancora alle sue radici musicali. Registrato proprio nel suo Brasile, “in casa” a San Paolo, ma anche a New York, in questo album Elias propone undici delle sue canzoni preferite del repertorio della bossa nova. Aveva già percorso strade simili in passato e quindi questo Quietude non è da considerare come un episodio isolato. Semmai la Elias ribadisce il suo grande amore per la bossa e per le sue origini e l’artista ne approfitta per mettere maggiormente in mostra la sua sensuale voce, cantando esclusivamente in portoghese. Forse stupisce di più l’aver relegato il suo talento al pianoforte ad un ruolo più secondario, tranne che in brani come " So'Tinha Que Ser Com Voce" e la commovente "Brigas Nunca Mais". Riconosciuta come la regina brasiliana contemporanea della bossa nova, Elias presenta la musica di alcuni dei grandi nomi del genere, tra cui le composizioni di Antonio Carlos Jobim e Vinicius de Moraes, Haroldo Barbosa e Dori Caymmi, che partecipa con un suo intervento sulla canzone "Saveiros". L'album non avrebbe potuto essere pubblicato in un momento più appropriato per gli appassionati del genere, poiché il 2022 segna il 60° anniversario del classico "Jazz Samba" (Verve Records, 1962) di Stan Getz e Charlie Byrd, ovvero di quello che è considerato il punto d’inizio del genere bossa nova jazz. Ovviamente questo Quietude non è un omaggio diretto a quella registrazione, ma il contributo della Elias al popolare sound brasiliano resta palese ed anche molto importante. Il programma dell’album inizia con "Voce e Eu" (You and I) di Carlos Lyra/Vinicius de Moraes: la cantante è ben accompagnata dalla chitarrista Lula Galvão e dal percussionista Emilio Martins con un delicato arrangiamento per una classica canzone d'amore. Il tenore romantico continua con un altro brano caldo e morbido come "Marina", a ribadire una cifra orientata verso il lato più tranquillo e leggero della bossa nova. Non a caso la Elias ha cercato di mantenere il medesimo feeling molto carioca per tutta la registrazione, avvalendosi della collaborazione degli amici Oscar Castro-Neves, Marcus Teixeira e Lula Galvao: tre autentici maestri della chitarra acustica. In "Eu Sambo Mesmo (I really Samba) va in scena un intimo duetto tra la chitarra di Teixeira ed il pianoforte di Eliane Elias: uno dei molti raffinati e garbati momenti  che si trovano in questo album. Tuttavia non tutto è così pacatamente tranquillo. Non manca infatti un mini medley di due pezzi del repertorio della bossa: nel Bahia Medley ci sono le allegre “Saudade da Bahia” e “Você Já Foi á Bahia” dove Eliane canta come sempre benissimo, accompagnata semplicemente da una chitarra. "Bolinha de Papel" (Little Paper Ball) presenta la cantante e la sua band in uno dei pochi pezzi veloci del set, un classico esempio della migliore bossa nova contemporanea. A seguire ci sono altri due brani vivaci ed orecchiabili come "Tim-Tim Por Tim-Time" con Paulo Braga alle percussioni e Castro-Neves alla chitarra acustica e il delizioso "Brigas Nunca Mais" (No More Fighting). Su quest’ultimo abbiamo anche il piacere di ascoltare il talento della Elias al pianoforte, strumento che, come è noto la cantante padroneggia in modo davvero notevole anche in ambito jazzistico. La canzone finale riporta l'artista al tema principale dell'album, con una bellissima ballata d'amore brasiliana in cui è affiancata dalla voce profonda di Dori Caymmi, per uno splendido epilogo di questa collezione delle migliori canzoni romantiche carioca. Quietude tiene fede al suo titolo con il suo suadente andamento pigro e rilassante così  tipicamente brasiliano. Con grande garbo e la sua seducente voce la bella Elaine Elias è il veicolo perfetto per trasmettere i sentimenti d’amore, le malinconiche emozioni e l’autentica atmosfera brasiliana catturati con classe ed eleganza da una delle migliori artiste dei nostri tempi. Per gli appassionati della bossa nova e della musica brasiliana in genere Quietude è un album da non perdere e piacerà anche ad una platea più vasta in cerca di un sottofondo rilassante ma sofisticato. Per gli irriducibili del jazz probabilmente è meglio cercare altre gemme nella discografia della Elias, come ad esempio Cross Currents, Portrait of Bill Evans, So Far So Close oppure l’album d'esordio dello storico gruppo Steps Ahead, di cui Eliane è stata tastierista per un breve periodo. In ogni caso, che si tratti di jazz, di fusion o di bossa nova l’eclettica Eliane Elias è un riferimento di qualità importante in mezzo all’anonimo panorama musicale odierno.

Herbie Hancock – Fat Albert Rotunda


Herbie Hancock – Fat Albert Rotunda

Herbie Hancock non ha certo bisogno di presentazioni. E’ un’icona della musica moderna che travalica i confini del jazz. C’è un momento nella sua carriera, ovvero gli anni tra il famoso album Maiden Voyage del 1965 e il classico funk-jazz Head Hunters del 1973, durante i quali Hancock registrò alcuni tra i lavori meno conosciuti e forse sottovalutati della sua grande discografia. E’ stato un lungo viaggio musicale quello che ha condotto Herbie da “Dolphin Dance” a “Chameleon” ma forse il percorso in sé è spesso più interessante della destinazione. In mezzo al processo evolutivo di Herbie Hancock, che lo ha trasformato da importante jazzista post-bop ad icona del jazz funk, ad un tratto è arrivata una sorta di colonna sonora composta per un cartone animato di Bill Cosby,  initolato "Fat Albert". Ad un primo ascolto sembra che il tastierista si sia improvvisamente innamorato dei groove in stile Motown e Stax, lasciandosi alle spalle i lavori più difficili, cerebrali e smaccatamente non commerciali come Empyrean Isles. Approfondendo la disamina di questo album, tuttavia, sono più propenso a pensare che Fat Albert Rotunda del 1969 sia per molti versi una progressione naturale dei suoi ultimi due dischi Blue Note, ovvero Speak Like a Child e The Prisoner. Infatti in Fat Albert Rotunda, Hancock ripropone la stessa formula tromba/trombone/sassofono con Johnny Coles, Garnett Brown e Joe Henderson. Il cambio di direzione di Hancock è avvertibile dall’allontanamento dalle complesse strutture precedenti in favore di strutture melodiche più semplici e dirette. Questo è probabilmente il momento che ha contribuito a spianare la strada alla sua transizione verso il rock e soprattutto verso la fusion. E di certo non si può ignorare il fatto che Hancock era stato parte integrante dei due album di Miles Davis in cui avvenne lo storico passaggio dal jazz classico a quello elettrico: Filles de Kilimanjaro e In A Silent Way. Così, quando nel 1969 ricevette la chiamata da Bill Cosby per la stesura  della colonna sonora di “Fat Albert”, Herbie Hancock era già pronto. L’album piacque molto alla Warner e sembrava che Herbie fosse destinato a diventare subito una star del crossover, ma in realtà Fat Albert Rotunda fu una falsa partenza. Il vero successo commerciale arrivò molto più avanti, con il citato Head Hunters. Ma va sottolineato un altro importante dettaglio, Herbie Hancock ha qui optato per il piano elettrico Fender Rhodes per la maggior parte dell'album, segnando la prima volta in cui le tastiere elettroniche sono entrate nei suoi dischi. Si può dire che non ne siano più uscite. A tutto ciò aggiungiamo che Buster Williams suona il basso elettrico sulla quasi totalità dei brani, contribuendo ulteriormente alla sensazione di un cambio di rotta. "Wiggle-Waggle" è il brano d’apertura e subito propone una caratteristica chitarra elettrica a dettare il ritmo. Joe Henderson e Joe Newman (alla tromba per questa traccia) si esibiscono in assoli spumeggianti prima che Hancock si palesi sul suo nuovo piano Rhodes. Ciò che dà a "Wiggle-Waggle" la sua peculiarità sono comunque i fiati. È funky un pò come lo sono molti brani di James Brown. Il pezzo finale "Lil Brother" è un altro numero fortemente influenzato dalla Motown, con l'incomparabile Eric Gale che fornisce alcuni formidabili tocchi di chitarra. "Fat Mama" ha un groove potente, sostenuto dalla chitarra e dal basso per una volta acustico. "OH! OH! Here He Comes" è un brano funky mid-tempo pilotato dal groove del basso elettrico di Williams e Hancock suona tutto fluidamente col piano Fender. La title track è un altro momento dell’album illuminato dal solito eccezionale lavoro al sax di Henderson. "Jessica" ritorna ad una forma più gentilmente acustica rievocando i due album precedenti. È una melodia adorabile che ha un po’ il sapore di una breve tregua dalla cifra musicale orientata al ritmo che impera quasi ovunque in Fat Albert Rotunda. Probabilmente la traccia più notevole di questo disco è "Tell Me a Bedtime Story", che è poi anche il brano di gran lunga più conosciuto dall'era "perduta" di Herbie Hancock. Guidata dal flauto di Henderson e dalla dolce tromba di Coles, è forse una delle canzoni più melodiche nella discografia di Herbie. Il tema viene ripetuto più e più volte e la sezione dei fiati gli conferisce un'atmosfera maestosa, non troppo dissimile da "Speak Like a Child". "Tell Me a Bedtime Story" è  un piccolo paradosso, diversa dalle altre tracce ma tuttavia sembra essere davvero il fulcro dell'intero album. Il materiale registrato in quel lontano e forse dimenticato 1969 contribuisce a rendere Fat Albert Rotunda un oggetto unico nel grande e diversificato catalogo di Herbie Hancock. Le incursioni nell'R&B e soprattutto nel funk sono un territorio che il pianista avrebbe visitato più assiduamente e con più convinzione solo quattro anni dopo, perciò si può dire che hanno un sapore completamente diverso. Inutile dire che l’album è suonato molto bene e anche se i contenuti non raggiungono le vette di Maiden Voyage, resta una testimonianza molto importante di una transizione epocale che di lì a poco sconvolgerà i già alterati equilibri del jazz contemporaneo. Herbie Hancock sembra essersi divertito moltissimo in questo lavoro, forse mai così tanto dal suo disco di debutto del 1962 “Takin’ Off”. E in fondo lo sappiamo bene: quando Herbie Hancock si diverte in prima persona, di solito è un grande piacere anche per tutti gli ascoltatori.

Ramon Morris – Sweet Sister Funk


Ramon Morris – Sweet Sister Funk

Ramon Morris è stato un eccellente sassofonista e flautista che nella sua carriera ha suonato anche con Art Blakey e Woody Shaw, ma di lui purtroppo non abbiamo alcuna registrazione ad eccezione di un singolo album pubblicato per l’etichetta Groove Merchant nel lontano 1972. Ebbene, questo straordinario e rarissimo lavoro ufficiale da solista che ci rimane di Ramon Morris è uno dei dischi jazz funk più notevoli del suo tempo. Il sassofonista tenore, dal sound agile e passionale, si dimostra perfettamente a fuoco nell’interpretare al meglio l'idioma del jazz-funk, e Sweet Sister Funk (il titolo del disco) raggiunge un equilibrio quasi perfetto tra le sue due anime artistiche: quella più tradizionale e quella  maggiormente sperimentale. L’album è forgiato su una serie di formidabili groove che suonano tanto fantasiosi quanto accessibili. Si tratta di una vera gemma nel vasto archivio dei rare grooves e del vintage sound. La band di supporto scelta per questa registrazione include il trombettista Cecil Bridgewater e il percussionista Tony Waters, il bassista Mickey Bass, il chitarrista Lloyd Davis, il batterista Mickey Roker ed il tastierista Albert Dailey. L'album, come spesso succedeva in quei favolosi anni ’70 irradia un’energia positiva ed è pervaso dal ritmo e dal groove. Viene immediatamente da pensare che sia un vero peccato che Ramon Morris non abbia mai più registrato un singolo lavoro come solista, perché Sweet Sister Funk fa intuire delle enormi potenzialità. Questo gioiello dimenticato e tra l’altro molto difficile da reperire, è stato registrato durante quello che viene considerato il periodo d’oro per questa particolare evoluzione del jazz, a cavallo tra il funk ed il soul. Ramon Morris entrò nella scuderia Groove Merchant non molto tempo dopo la sua militanza con Art Blakey e i suoi famosi Jazz Messenger e quella immediatamente successiva nel gruppo di Woody Shaw. Sweet Sister Funk è ricco di interessanti spunti melodici ed arrangiamenti molto indovinati, frutto di un'alchimia perfetta tra il jazz ed il funk, tali da poterlo considerare un disco di riferimento del suo tempo. Il sound di Morris è una miscela del soul-jazz dello Stanley Turrentine dell'era CTI e del pirotecnico Joe Henderson, con in più una palpabile propensione ad esplorare anche sonorità al limite del free. Il suo breve assolo in "First Come, First Served" (scritto dal tastierista Albert Dailey) ad esempio è una chiara dichiarazione di intenti. Il trombettista Cecil Bridgewater, che ha molte affinità con il mito Freddie Hubbard, è eccellente in tutto l'album. La musica appare molto cinematografica senza però sconfinare in una mera clonazione del famoso blaxploitation sound (le colonne sonore dei film black di quel periodo). Certo il tenore generale rispecchia una evidente propensione al funky con in più uno spessore ed una creatività non comuni. La band denota quanto questi musicisti siano sintonizzati su delle coordinate artistiche condivise. Un esempio è un brano come "Wijinia" dove l’eccellente interplay di gruppo è particolarmente in evidenza, cosa che in realtà sottende poi alla buona riuscita dell’intero album. Come sottofondo ad una scarna e diretta melodia, le trame di chitarra e piano elettrico si distinguono per la loro brillantezza. E’ molto interessante anche "Sweat", una sorta di ibrido boogaloo/funk che rimanda subito a Fat Albert Rotunda (1970) di Herbie Hancock. C’è anche del jazz più tradizionale con la swingante "Don't Ask Me" che è un omaggio alle composizioni di Wayne Shorter del suo periodo alla Blue Note della metà degli anni Sessanta. Il momento clou dell'album è probabilmente "Lord Sideways", un'altra composizione di Albert Dailey. E’ fantastico come Ramon Morris danzi sulle variazioni armoniche con grande ispirazione, rilasciando vibrazioni evocative, mentre l'assolo di Rhodes dello stesso Dailey è sfolgorante nella sua semplice bellezza. L'album si chiude con un'eccellente cover del classico del popolare gruppo soul The Stylistics, 'People Make The World Go 'Round': il brano gode di per se di una piacevole orecchiabilità ma in questa esecuzione strumentale di Morris resterà in testa al primo ascolto. Sweet Sister Funk è un piccolo capolavoro davvero da scoprire: l’unico problema con una registrazione di questo livello è che se ne vorrebbe ancora e rendersi conto che invece resterà un episodio unico ed irripetibile lascia l’amaro in bocca. Questo è il vintage sound nella sua espressione migliore.

Wes Montgomery - The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery


 Wes Montgomery - The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery

John Leslie "Wes" Montgomery è stato uno dei chitarristi jazz più influenti del ventesimo secolo. Iniziò il suo percorso di musicista nel 1943, lavorando per molto tempo come accompagnatore di artisti come Lionel Hampton, almeno fino alla fine degli anni Cinquanta. Poi finalmente iniziò una vera e propria carriera da solista. Innovatore eccelso della chitarra, al punto che tutti i musicisti venuti dopo gli devono certamente qualcosa, Wes può vantare un modo di suonare davvero unico. Invece di usare un plettro, Wes suona con il pollice, il che crea un tono caldo e avvolgente come nessun altro possiede. Proprio quel magico sound insieme ad una maestria tecnica senza pari, crea una combinazione meravigliosa: un misto di dinamismo, velocità e delicatezza. Ecco dunque che ogni singola nota che esce dal suo strumento è suonata perfettamente, con chiarezza e perfezione. E anche quando sostituisce il pollice con un plettro questo non ostacola affatto la sua tecnica. Wes può padroneggiare la partitura e l’improvvisazione con proverbiale velocità mantenendo il medesimo approccio all'uso delle ottave e degli accordi anche nei suoi assolo. The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery, del 1960, è il primo album da solista di Wes  e fu registrato per l'etichetta Riverside: è considerato come uno dei suoi migliori lavori. Un’affermazione che non può che essere confermata. Qui il Wes Montgomery Quartet è così composto: Wes Montgomery – Chitarra, Tommy Flanagan – Pianoforte, Albert "Tootie" Heath – batteria, Percy Heath – Basso. In tutto l'album appare chiaro come lo stile di Wes Montgomery sia straordinariamente originale ed unico. Il disco si compone di quattro originali e quattro cover, che mantengono una grande coerenza stilistica e che pervadono di un sapore particolare e stimolante tutta la registrazione. I brani più veloci e allegri sembrano avere una struttura simile tra di loro, con il ripetersi piuttosto canonico di una melodia o di un riff, poi un assolo di chitarra, quindi un assolo di piano, ancora un assolo di basso o un breve assolo di batteria, ed infine nuovamente la melodia. Tuttavia tutto ciò non deve essere interpretato come ripetitivo o noioso. Questi sono album che non invecchiano mai, forti di una classe ed una creatività così palpabili da essere diventati dei classici senza tempo. Airegin, la composizione di Sonny Rollins che apre l'album, ne è un esempio. Wes modifica l’orecchiabile melodia apportandovi alcune piccole variazioni. Molto bello il momento alla fine degli assoli, quando Wes suona ripetutamente brevi frasi, poi si ferma, lasciando una o due misure ad Albert Heath per mostrare le sue abilità suonando alcuni stacchi di batteria. Anche in D-Natural Blues troviamo un altro esempio della tecnica compositiva di Montgomery. È una canzone più dolce, dove il blues gioca un ruolo importante nel segno del buon gusto e della misura. Polka Dots and Moonbeams, una delle due ballate dell'album, è ovviamente un pezzo più tranquillo e morbido. Il pianoforte ha un suono molto delicato e nell'assolo Tommy Flanagan si destreggia splendidamente. E’ evidente l’interplay tra Tommy e Wes in una sorta di mutuo completamento. In Your Own Sweet Way, la seconda delle ballate dell'album, segue una struttura simile a Polka Dots e Moonbeams ma è un po' più decisa. L'album raggiunge il suo apice con le due tracce centrali Four on Six e West Coast Blues. Questo sembra essere davvero il momento clou della creatività di Montgomery. Four on Six inizia con un vivace riff di basso, con Wes che entra e suona una melodia. L'assolo di Mr. Montgomery è bello e scorrevole. Dopo la fine della parte di chitarra, Tommy Flanagan si prende la scena scaricando sul pianoforte tutta l'energia della canzone. Prima che la melodia ritorni sul finire del brano, c'è un breve assolo di batteria in cui Albert Heath mostra il suo talento. West Coast Blues, il brano successivo, è probabilmente la traccia più interessante. La band è perfettamente a fuoco e Wes sembra molto a suo agio su questo tempo in ¾ moderatamente veloce. Il suo assolo non è solo uno dei migliori dell'album, ma uno dei migliori che abbia mai sentito. La scelta delle note è straordinariamente azzeccata ed è fenomenale  come il chitarrista sia perfetto alternando delicatezza nel tocco  e puntuali e rapidi accordi o ottave. Mr Walker differisce leggermente dagli altri pezzi dell'album. Ha un'atmosfera latina ed è caratterizzato da un ritmo più marcato. La band risponde benissimo, mentre l'assolo di Wes è ancora una volta magistrale. L'album si conclude poi con Gone With The Wind, brano con un piacevole tocco swing che è il modo migliore per chiudere un disco. Nel complesso, The Incredible Jazz Guitar of Wes Montgomery è un lavoro fantastico, in primo luogo per gli amanti della chitarra e ovviamente per gli appassionati di jazz. Se invece non mastichi il genere o non lo capisci, questo è comunque un album caldamente consigliato. Accattivante ed accessibile, resta una pietra miliare nella storia della chitarra e pur nella sua integrità e purezza jazzistica è una registrazione in grado di soddisfare un ampio ventaglio di ascoltatori.

George Coleman - Amsterdam After Dark


George Coleman - Amsterdam After Dark

Sono molti i musicisti di valore che nella storia del jazz sono stati troppo spesso sottovalutati.  George Coleman è probabilmente uno di questi. Giunto in questi giorni all’età di 88 anni, questo grande sassofonista statunitense nato a Memphis l’8 marzo del 1935 è noto soprattutto per le sue collaborazioni con Miles Davis e Herbie Hancock negli anni sessanta, ma vanta anche una carriera da solista di tutto rispetto. Miles Davis disse di lui che era "perfino troppo perfetto" e gli album da lui incisi con Davis (messi ingiustamente in ombra da quelli registrati nel periodo del secondo quintetto) lo fanno risaltare come un sassofonista di indubbia qualità. E infatti nella sua tardiva carriera da solista ci sono opere di valore tra iquali l’album del 1998 I Could Write a Book, dove si cimenta anche al sax soprano, oltre che al contralto e al tenore, oppure il suo secondo disco intitolato Amsterdam After Dark, di cui vi parlo oggi. La bellezza della vita notturna nella capitale d’Olanda era rimasta presumibilmente nella mente di Coleman, che ha però registrato Amsterdam After Dark, a New York City  (città nata col nome di New Amsterdam), dopo aver vissuto per un periodo proprio ad Amsterdam alla fine degli anni settanta. Come altri grandi musicisti jazz americani, ad esempio Don Byas, Dexter Gordon, Johnny Griffin, Benny Bailey, Coleman era innamorato dei Paesi Bassi, paese ricco di club e abitato da un pubblico appassionato e competente. Amsterdam After Dark è stato registrato nel 1978. All'inizio della sua carriera George Coleman avrebbe dovuto registrare molto di più come leader, ma piuttosto inspiegabilmente, considerando il suo talento e la sua reputazione, godette di un ritardato debutto solo nel 1977. Ovviamente, Coleman è di gran lunga più conosciuto per la sua collaborazione con Miles Davis, che reclutò il sassofonista nel 1963 come parte integrante della sua band di giovani leoni: gli altri membri erano infatti Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams. In proposito, Coleman in seguito disse che era stato il magro stipendio della band di Miles Davis a giustificare la sua fuoriuscita dal quintetto. Resta il fatto che George Coleman era ed è un musicista di enorme talento, di un livello paragonabile a quello dei suoi compagni dell'epoca. In particolare è un artista capace di giocare magnificamente sull’equilibrio, dove la sostanza della tradizione e la furia creativa rivoluzionaria della fine degli anni Sessanta riescono a convivere in uno splendido connubio. Un sassofonista eccellente, un misconosciuto punto fermo della storia del jazz e ancora oggi della scena musicale di New York City,  con una grande influenza sui musicisti contemporanei. Coleman si è sempre diviso tra la musica più all'avanguardia e quella più tradizionalmente legata alle radici del jazz, suonando ad esempio con alcuni dei più grandi organisti quali Jimmy Smith, Reuben Wilson, Charles Earland e Brother Jack McDuff. Amsterdam After Dark è un album ricco di groove,  ma è anche stratificato e variegato su più livelli  creativi diversi. C'è il ritmo latino della title track, in cui il batterista Billy Higgins mostra le sue doti. Vi si possono trovare gli echi immancabili del John Coltrane Quartet in un brano come  New Arrival, composto dal bassista Sam Jones. Le melodie sono fantastiche e la mescolanza di armonia e ritmo, pause e riprese, e non ultimo del giusto swing è particolarmente eccitante in tutto il disco come su Apache Dance composta dallo stesso Coleman. L’altro membro della band, il pianista Hilton Ruiz è al top della forma e si abbina alla perfezione con il sound del sassofono di Coleman. Amsterdam After Dark ha uno sviluppo molto articolato, declinato da staccate sul ritmo e frasi vorticose che mantengono alta l’attenzione: efficace come solo un colpo da maestro può essere. Il timbro, il fraseggio ed il lirismo di George Coleman sono quelli di un vero genio del sax  tenore. L’invito è dunque quello di riscoprire questo misconosciuto sassofonista a cominciare da questo bell’album per poi esplorare in profondità la sua discografia sia come leader che come session man.

Nimbus Sextet – Forward Thinking

Nimbus Sextet – Forward Thinking

I Nimbus Sextet sono uno dei gruppi di maggior talento della nuova scena jazz britannica e attualmente sono sotto contratto con l’iconica etichetta Acid Jazz Records. Questo giovane gruppo di jazz contemporaneo fonde influenze jazz, world, hip-hop e funk in una potente miscela melodica che li distingue dalla maggior parte dei loro contemporanei. Il nucleo del sound della band è principalmente frutto della vena artistica del leader della band Joe Nichols (tastiere/armonica). La formazione completa include Euan Allardice (tromba), Michael Butcher (sassofono), Honza Kourimsky (chitarra), Stephen Jack (basso) e Alex Palmer (batteria). I Nimbus Sextet sono  ovviamente tra i principali protagonisti dei festival jazz in Scozia ma si esibiscono anche nei migliori locali jazz del Regno Unito e d'Europa. Il loro primo tour in Inghilterra si è svolto  tra febbraio e marzo del 2020 ed ha riscosso un grande successo, terminando con un'esibizione da tutto esaurito al Servant Jazz Quarters di Londra. Va sottolineato che mentre molte band promettono di possedere influenze variegate e multi-genere, poche in realtà possono realmente dire di averle davvero. I Nimbus Sextet offrono invece un’esperienza d’ascolto che non solo affonda le sue radici nel jazz, ma riesce a trovare il giusto ed equilibrato mix tra quest’ultimo e le più moderne declinazioni che la musica esprime al giorno d’oggi. Il secondo album del gruppo, "Forward Thinker" arriva meno di due anni dopo il suo predecessore, quel "Dreams Fulfilled" che suscitò già nel 2020 un discreto clamore. Quello era in qualche misura un progetto introduttivo che però mostrava già tutti i prodromi di una band di valore, supportata da una maturità artistica inusuale. I membri dei Nimbus non si sono adagiati sugli allori: sull’onda creativa del primo album e di una serie di singoli e remix di notevole qualità i ragazzi di Glascow  hanno dimostrato anche in questo frangente la loro eccellente professionalità, che li ha condotti a pubblicare questo nuovo "Forward Thinker”. I sette brani dell'album hanno il comune denominatore del jazz nella sua declinazione più contemporanea e tuttavia non rinunciano ad introdurre contaminazioni ed influenze diverse. I punti salienti  dell’album includono lo stile neo-soul del primo brano, "High Time", con l'unico intervento vocale dell’ospite Charlotte de Graaf. C’è il jazz-funk in stile HeadHunters di "To The Light" che è un’esplosione di energia che rimanda agli anni ’70. La title track dell'album, Forward Thinking, in poco più di otto minuti, attraversa magistralmente i regni sonori  che richiamano ancora una volta la scintillante estetica del jazz-funk con spruzzate di elettronica. Nel lavoro ci sono anche composizioni che accarezzano corde più introspettive come "From The Shadows", un brano davvero ispirato ed emozionale. "Forward Thinker" porta con se molti degli elementi che erano presenti anche nel precedente "Dreams Fulfilled", ma Nichols e compagni, partendo da quegli stessi presupposti si lanciano ora in un viaggio verso nuove ed entusiasmanti direzioni. Sulla base di quanto espresso fino a questo punto possiamo ipotizzare un futuro molto interessante per i Nimbus Sextet: questi ragazzi scozzesi sono destinati a stupire ancora. Anche nel 2023 l'acid jazz di qualità ha qualcosa da dire.


 

Wayne Shorter – Speak No Evil


Wayne Shorter – Speak No Evil

Wayne Shorter è stato un leggendario sassofonista jazz e compositore americano, nato a Newark, New Jersey, nel 1933. E’ mancato a 89 anni lasciando un grande vuoto nel mondo del jazz e non solo. Wayne è giustamente considerato uno dei musicisti più importanti e influenti nella storia del jazz moderno. E’ incontestabile la rilevanza di Wayne Shorter tra le figure di spicco del jazz della fine del XX e dell'inizio del XXI secolo, sia come compositore che come sassofonista. Figlioccio artistico del genio John Coltrane, con il quale si esercitò a metà degli anni Cinquanta, Shorter sviluppò presto una propria voce e un proprio stile con il sax tenore, ma anche con il sax soprano. Conservò per molto tempo l'intensità e la sonorità del suo sound puro, per poi in anni più recenti, aggiungere elementi di funk e un afflato di modernità. Al soprano, incredibilmente, Shorter è quasi completamente un altro musicista. Il suo timbro diventa delicato ed intimo, la sua scelta di note più scarna e sembra quasi essere più in sintonia con i momenti lirici e meditativi che la sua fede buddista probabilmente gli hanno trasmesso. Come compositore, scriveva melodie complesse ed articolate, decisamente originali, molte delle quali ora sono standard. Shorter ha iniziato a suonare il sassofono all'età di 15 anni, per poi avviarsi alla carriera professionale negli anni '50, quando si trasfertì a New York City. Ha lavorato con alcuni dei più grandi nomi del jazz dell'epoca, tra cui Art Blakey (Jazz Messengers), Maynard Ferguson e Miles Davis, con il quale ha registrato alcuni degli album più iconici del jazz, come "Kind of Blue", In a Silent Way e "Bitches Brew". La sua partecipazione nello storico gruppo dei Weather Report lo ha consacrato anche ad un pubblico più vasto, complice la formula che la band ha sintetizzato in anni di attività, contaminata dal funk e dal rock progressivo. Shorter è anche conosciuto per la sua carriera solista, durante la quale ha pubblicato numerosi album come leader, spesso in collaborazione con altri grandi musicisti jazz. Tra i suoi album più famosi si possono citare "Speak No Evil", "The All Seeing Eye", "JuJu" e "Native Dancer". Oltre al suo lavoro come sassofonista, Shorter è anche un prolifico compositore ed è egli stesso autore di molte delle sue canzoni più famose, tra cui "Footprints", "JuJu", "Nefertiti" e "Speak No Evil". Shorter ha ricevuto numerosi premi e riconoscimenti per la sua carriera, tra cui dieci Grammy Awards, il NEA Jazz Masters Award, e la medaglia di merito della città di New York. "Speak No Evil" è l’album di cui vorrei parlarvi, rendendo a modo mio a Wayne Shorter un doveroso omaggio a seguito della sua scomparsa: fu pubblicato nel 1966 dalla Blue Note Records. È stato uno dei primi album di Shorter come leader ed è uno dei suoi lavori più importanti. L'album presenta un'atmosfera misteriosa e sognante, con melodie fortemente influenzate dal blues e dall'hard bop. La band che accompagna Shorter è formata da alcuni dei migliori musicisti dell'epoca, tra cui il pianista Herbie Hancock, il bassista Ron Carter, il batterista Elvin Jones e il trombettista Freddie Hubbard. Giunto alla sua terza registrazione per la Blue Note nel corso stesso anno, Wayne Shorter decise di cambiare il gruppo dei precedenti dischi, riuscendo finalmente a convincere i critici ed i fan di jazz del suo talento come sassofonista. Forse per le sue precedenti collaborazioni con McCoy Tyner, Elvin Jones e Reggie Workman, Shorter era stato ingiustamente etichettato come "solo un altro discepolo di Coltrane", nonostante le sue composizioni fossero molto originali e insolite. Niente di più sbagliato e riduttivo. Infatti qui su Speak No Evil, con il solo Elvin Jones rimasto ed i suoi nuovi compagni del Miles Davis Quintet, Shorter finalmente trovò la consacrazione che meritava. Da qui scaturì un'importante rivalutazione anche del suo lavoro precedente. Il primo brano, "Witch Hunt", inizia con un ostinato basso di Carter, seguito dalle note inquietanti di Shorter al sax tenore. La melodia è scandita da brevi pause e da un ritmo lento ma deciso, con assoli di Hancock e Hubbard che si alternano con il sassofonista. Le strane strutture armoniche utilizzate per comporre "Fee-Fi-Fo-Fum", con la sua architettura da ballad nella quale il blues e l’hard bop sono sviluppate secondo schemi modali, creano l'illusione di una band molto più grande. "Dance Cadaverous", è caratterizzato da un'atmosfera sognante e da un'armonia complessa, con un interplay impeccabile tra tutti i musicisti. Nella title track, la linea melodica orientata al post-bop  e costruita su un'ampia tavolozza cromatica di accordi minori in unione con il pianoforte di Hancock ad occuparsi dei contrappunti, ci dimostra come Shorter (qui al sax soprano) riesca ad unire l'avanguardia con l'hard bop degli anni '50. "Infant Eyes", il brano successivo, ha un'atmosfera delicata e intima, con un tema semplice ma toccante che sembra cullare l'ascoltatore. Il set si conclude con la bellissima "Wild Flower", una ballata cadenzata dagli accenti spigolosi di Hancock al piano. Lo swing è gentile ma evidente e permette di cogliere appieno il singolare lirismo di Shorter sia come sassofonista che come compositore. In generale, "Speak No Evil" è un album eccezionale che rappresenta uno dei capolavori di Wayne Shorter. L'atmosfera misteriosa e sognante dell'album, insieme alla grande abilità dei musicisti coinvolti, lo rendono un must-have per tutti gli amanti del jazz. Inutile dire che il grande Shorter ci mancherà: è il ciclo della vita, ma la sua musica ci accompagnerà per sempre. Ha continuato a suonare ed a registrare fin quasi all’ultimo e la sua influenza sulla musica jazz e sulla cultura musicale in generale è straordinaria. Nam Myoho Renge Kyo, Wayne.