Shaun Martin – Focus


Shaun Martin – Focus

Gli Snarky Puppy sono una delle realtà più interessanti del panorama internazionale. Oltre ad aver pubblicato degli album eccellenti, nelle fila di questo particolarissimo collettivo musicale militano alcuni musicisti dotati di un grande talento e di un’innata abilità compositiva. Gli Snarky Puppy si sono dimostrati di fatto una vera fucina di artisti pronti a brillare di luce propria. Tra i veterani della formazione spicca il tastierista Shaun Martin, uno di quei musicisti talmente personali da essere riconoscibile anche semplicemente nel ruolo di sideman. Shaun Martin, dopo l'acclamata uscita del suo debutto discografico Seven Summers è tornato in studio per registrare un progetto concettualmente più semplice e sicuramente più agile ed asciutto. Quando c’è Shaun, che sia in una band o che agisca da solista, lo si riconosce subito. Ci puoi percepire il suo stile, la sua influenza, la sua presenza. Diviene subito parte fondamentale di ogni realtà nella quale opera. Ma qui si tratta di un classico trio jazz, con il pianoforte acustico come centro focale, e non a caso l'album s'intitola Focus. Martin opta dunque per il pianoforte anziché mettere mano sulle sue abituali tastiere, dando alla musica nel suo complesso una decisa virata verso il jazz. La band è completata da due suoi collaboratori abituali come AJ Brown e Jamil Byron, ma non mancano gli ospiti speciali nelle figure di Keith Taylor e Robert 'Sput' Searight. A proposito del nuovo disco lo stesso Shaun dice: "Volevo tornare ad innamorarmi del pianoforte". In effetti il pianista sembra trarre una grande ispirazione dal formato del trio: nel cuore e nella mente Martin tiene salde le sue dichiarate fonti d’influenza, vale a dire alcuni grandi maestri come Bill Evans, Oscar Peterson e Keith Jarrett. L'atmosfera particolare del classico trio jazz, nel quale l’interplay fra i musicisti diventa spesso quasi magnetico è per Shaun Martin la base perfetta sulla quale tessere e ricamare uno dopo l’altro i sette brani dell’album. L’ispirazione e la reverenza verso i suoi modelli stilistici è forte ma Shaun Martin, come d’abitudine, si impossessa dell’architettura per lui inedita con grande personalità, esprimendosi in assoluta scioltezza.  Ne viene fuori un jazz scattante, vibrante e moderno, comunicativo ai massimi livelli; in questo caso, mancando i fiati, lo si troverà giusto un po’ meno funky ed arrembante rispetto al modello in formato orchestrale al quale ci hanno abituati gli Snarky Puppy. Nel disco ci sono due standard come Recorda-me e Body And Soul a fare da cornice alle cinque composizioni originali del pianista, che rappresentano il fulcro del progetto. La bella melodia di Joe Henderson "Recorda-me" viene interpretata in modo entusiasmante ed anche la classica "Body And Soul" viene trattata con perizia, delicatezza e molto rispetto per uno standard celeberrimo come questo. "Festina Lente" è ottimista e avvincente, ma anche ipnoticamente attraente nella sua particolarità. "Focus" è un brano che aggiunge molta intensità, sostenuto da una ritmica più marcata che va quasi a sfiorare le dinamiche della fusion. "Triad" è decisamente più compassato ed intimista ma non per questo meno interessante. "Miss Genell" è un pezzo pieno di swing ed ironia che dona un tocco di leggerezza in più. Già durante la sua presenza negli Snarky Puppy sono rimasto molto impressionato dallo stile, dalla grazia e, non ultima, dalla versatilità che Shaun Martin mette in mostra con le sue tastiere, doti qui confermate da un più che positivo ritorno all’uso esclusivo del pianoforte acustico. Peccato che il lavoro abbia una durata complessiva di soli 30 minuti, al giorno d’oggi praticamente un mini-album, francamente troppo poco. Le sensazioni sono così piacevoli che davvero se ne vorrebbe molto di più. Al bravo Shaun Martin probabilmente manca ancora un piccolo step per padroneggiare fino in fondo le complesse sfaccettature del jazz classico e conseguentemente  per arrivare alle vette dei grandi del passato. Tuttavia con questo “Focus” Martin fa capire di essere sulla strada giusta  ed il tempo è di sicuro dalla sua parte. Consigliato.

Gary Bartz – Music Is My Sanctuary


Gary Bartz – Music Is My Sanctuary

Gary Bartz è un sassofonista afroamericano con una lunga carriera alle spalle ed un curriculum artistico pieno di collaborazioni molto prestigiose. Tra queste importantissime furono quelle con Charles MIngus, Art Blakey, McCoy Tyner e perfino Miles Davis. Come solista e specialista del sax alto e del soprano, ha al suo attivo 30 album che spaziano dal bop al free jazz, passando attraverso parentesi nel funk e nel soul-jazz. Mi voglio soffermare su un disco in particolare che vide la luce nel 1977 intitolato Music Is My Sanctuary.  Questo lavoro di Bartz è un interessante esempio di jazz funk e uno dei più indovinati tra gli album prodotti dai Mizell Brothers negli anni '70. Questi ultimi sono stati un team di produzione (erano due fratelli) molto importante nel decennio che va appunto dal 1970 al 1980. Un periodo durante il quale collaborarono con Donald Byrd, i Blackbyrds ma anche i Jackson’s Five, Michael Jackson, Bobbi Humphrey, Edwin Starr e molti altri. I due erano dei formidabili maghi dello studio di registrazione, in grado di concentrare anche su un artista jazz tradizionale, come era Gary Bartz, il loro tocco leggero e funk in un modo intelligente e non banale. Queste produzioni molto curate erano in grado di espandere le possibilità espressive di un artista legato a mondi più conservativi con un uso sapiente delle tastiere, delle percussioni e degli arrangiamenti vocali per arrivare ad un sound soul jazz molto stimolante. In realtà questo album di Gary Bartz è la seconda collaborazione tra il sassofonista ed i Mizell Brothers, probabilmente è anche quella che ha ottenuto più consensi di critica e di pubblico. "Music Is My Sanctuary"  è diventato un classico del funk jazz in moltissime collezioni di dischi, mettendo in mostra il suo connubio tra le caratteristiche tastiere di Mizell affiancate al sax alto di Gary, qui diventato ovviamente più soul che bop. A completare il quadro c’è sempre una parte vocale arrangiata in maniera sapiente. Va sottolineato come Gary Bartz fosse coadiuvato da un gruppo di musicisti disco-jazz-fusion di livello assoluto, cosa che gli consentì di imboccare la stessa rotta di Donald Byrd, portando con se anche un carico di nuovi elementi di funk, soul e una sorta di anticipazione della disco mania che da lì a poco diventerà una realtà in tutto il mondo. Considerata la naturale leggerezza intrinseca di un prodotto come questo è normale allora che i puristi manifestassero la consueta disapprovazione se non addirittura disprezzo per la nuova direzione intrapresa da Bartz (che poi era la stessa che già altri musicisti jazz avevano adottato nello stesso periodo). A fronte delle critiche, tutti quelli che avevano una visione un po’ più aperta del jazz, di fatto meno elitaria, trovarono nell’accoppiata Bartz / Mizell un formidabile motivo di interesse. Certo il materiale era fortemente orientato verso il soul jazz e ovviamente suonava molto più facile e meno impegnato del classico hard bop, ma non per questo non vi si possono trovare spunti di coinvolgimento. E non poco contribuì all’operazione l'aggiunta della bella voce di Syreeta Wright. La guida produttiva del Mizell Brothers portò Bartz in territori inusuali per lui  come per altri  musicisti jazz, anche se molti di loro esploravano con passione vera le stesse strade già da qualche anno. I risultati di questa “sperimentazione” sono stati molto validi avendo generato le pubblicazioni discografiche più raffinate del periodo funky di Gary Bartz. Music Is My Sanctuary è un classico del funky perduto, un revival di suoni vintage e rare grooves tra i migliori degli anni ‘70. Se vi piacciono gli album di Donald Byrd o di Bobby Humphrey di quel periodo, anche questo lavoro di Gary Bartz sarà di vostro gradimento. Si tratta di quel groove jazz funky soul che pur essendo ormai piuttosto lontano dal jazz classico ha pur sempre una sua ben precisa connotazione stilistica ed una affermata personalità. Un sassofonista come Gary Bartz ha saputo trovare una sua collocazione all’interno di questa corrente, attraversando la sua fase di musica funk jazz con profitto, anche se di fatto non abbandonerà mai completamente il jazz mainstream, stile per il quale il musicista è più rinomato. Gli assoli all’interno del disco sono eccellenti, così come è lecito attendersi da un maestro del sax alto come Bartz. Se c’è un punto debole in questo disco è proprio da ricercare nel fatto che Gary non indugiò abbastanza sui suoi momenti da solista, sciorinando con maggiore libertà quei fraseggi brucianti di cui sappiamo che è capace. Gary Bartz è un grande maestro del sassofono contemporaneo ed anche uno dei più sottovalutati. Iniziando da un album leggero come Music Is My Sanctuary si può poi ripercorrere idealmente le tappe della sua lunga carriera, andando ad ascoltare i lavori più classicamente jazzistici, come “Libra” o “Another Earth”. Nella sua discografia c’è sia la qualità che la varietà.

Lindsay Webster – A Woman Like Me


Lindsay Webster – A Woman Like Me

C’è un vasto pubblico che richiede uno stile di musica adulto, sofisticato e piacevolmente orientato verso il jazz contemporaneo. In passato alcune cantanti dominavano con continuità la scena in un contesto di questo tipo: ovviamente il primo nome che viene in mente è quello di Sade. Ma la bravissima star Afro-Londinese non da segni di attività da un po’ di tempo. Ecco allora che la brava Lindsey Webster ha saputo conquistare il suo spazio per soddisfare questa (forse) temporanea carenza. Ho già parlato della cantante di New York in un precedente post (Love Inside) ma mi piace ricordare che nel breve volgere di un paio d’anni la Webster è passata dall’essere pressoché sconosciuta al ruolo di nuova grande protagonista del crossover jazz. E ora, con l’uscita del nuovo album A Woman Like Me, Lindsay sembra potersi prendere una posizione ancora più preminente. Tutto iniziò nel 2016 con un singolo intitolato "Fool Me Once" che inaspettatamente raggiunse il numero 1 della classifica Contemporary Jazz di Billboard. Fatto significativo, visto che parliamo di una hit parade che dopo la Soldier Of Love di Sade, per sei anni consecutivi era stata dominata solamente da brani strumentali. Il successo da quel momento non ha più conosciuto pause e ha dimostrato che la ragazza non era stata solo fortunata, ma la sua bravura e la sua classe erano frutto di talento e lavoro duro. Probabilmente la Webster si è trovata con un repertorio apprezzabile al momento giusto ma la sua rapida scalata è ampiamente meritata. Il motivo è presto detto: parte dalla sua voce che è sensuale, naturale, senza alcuna forzatura. Una vocalità che seduce senza l’uso di una tecnica esasperata, ma piuttosto con un tono confidenziale e amabilmente regolare. Inoltre A Woman Like Me si avvale della presenza di alcuni musicisti di livello assoluto che nei precedenti lavori della cantante non erano nemmeno immaginabili. Avere una sezione ritmica con Nathan East (basso), Vinnie Colaiuta, (batteria) e Luis Conte (percussioni) è una straordinaria base per mettere insieme un disco di valore. Questi autentici fuoriclasse della musica contemporanea non fanno altro che aggiungere un tocco in più alla musicalità complessiva di Lindsay Webster: in sostanza arricchiscono ulteriormente una formula vincente che ancora una volta vede la produzione del suo tastierista ed ex marito Keith Slattery. La brava cantante ha dunque deciso di procedere nel segno della continuità, ponendo A Woman Like Me in un contesto indubbiamente ben conosciuto dai suoi fan e di conseguenza non troppo lontano dai due precedenti dischi registrati per la Shanachie Records. Con coerenza e rimarcando i suoi punti di forza la Webster da oggi alla luce un album molto soddisfacente ed ancora una volta molto accattivante per una vasta platea di ascoltatori. Una canzone come "Feels Like Forever" conferma perché era saggio attenersi alla formula già sperimentata. Come d’abitudine, si tratta di una melodia dagli echi pop ma sostenuta da una tessitura sofisticata di accordi jazz: il tutto è ovviamente eseguito con strumenti reali e degli ottimi cori  (di cui la bella Lindsay si occupa personalmente). I temi trattati sono l’amore ed il romanticismo ma senza banalità, vale a dire la più classica delle basi su cui imbastire una canzone. La coppia Webster-Slattery trae spesso ispirazione dalla premiata ditta Bacharach-David, tuttavia "Close To You" non è una cover ma un bel pezzo funky declinato in mid-tempo. Il brano si avvale di un bell’assolo di chitarra in stile George Benson del chitarrista abituale della Webster, Mike DeMicco. Anche "Running Around" ha lo stesso tipo di groove, ma in questo caso la chitarra di Tony DePauolo ha il morso del rock anziché del jazz. Gli arrangiamenti sono indovinati, puliti, freschi e non invadenti. Interessante anche la base musicale su cui è costruita "Only You": si lascia molto spazio per l’esecuzione della cantante e si mettono in risalto i suoi testi. Ancora meglio è "One Step Forward" pezzo nel quale risultano in evidenza sia Nathan East che Luis Conte, con il piano di Slatterly che delicatamente si adatta al ritmo rilassato della canzone. Se tutto l’album non è obbligatoriamente da considerare jazz contemporaneo, il feeling è però chiaramente orientato su di esso  esaltando così Lindsay Webster, che dimostra di avere una grande confidenza con quello stile. C’è anche lo spazio per gustarci un assolo di basso di Nathan East che tra l’altro ci vocalizza sopra in stile scat. L'album si chiude con l'unico non originale, l'onnipresente "Somewhere Over The Rainbow". "A Woman Like Me" ci dice che la Webster possiede un’innata abilità nel dispensare emozioni, ma non manca di grinta e personalità, dosando perfettamente ogni ingrediente nelle sue canzoni. Non mi dispiacerebbe ascoltare la cantante impegnata in qualcosa di ancor maggiormente orientato verso il jazz, ma non è da escludere che nei prossimi lavori questo possa succedere. Lindsay Webster è una cantante che rifugge la sterile rincorsa alle tendenze attuali, preferisce padroneggiare la sua consolidata ricetta musicale: per lei questo è la garanzia di vedere sulla sua proposta apprezzata sia oggi che tra molti anni. Lindsay sarà la reginetta del palcoscenico del contemporary jazz ancora per molto tempo.

Miles Davis – Rubberband


Miles Davis – Rubberband

Miles Davis è indubbiamente una delle figure più importanti della storia della musica del ‘900. Lui è stato prima di tutto un grandissimo compositore, un innovatore rivoluzionario ed un leader carismatico. Secondariamente fu anche il trombettista che tutti conoscono e che ha praticamente inventato il suono denominato "cool jazz". Un peculiare stile jazzistico che ha scosso la scena musicale tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60. Dal punto di vista estetico ed esecutivo Miles privilegiò sempre il ruolo dello spazio e della sottrazione, quasi a incarnare la frase fatta inglese "less is more" (meno è di più).  Tuttavia, non molto dopo aver pubblicato diversi album storici durante il suo periodo d’oro, tra cui "Round About Midnight e Kind of Blue", Davis abbandonò quella strada per seguire il suo instancabile desiderio di reinventarsi pur mantenendo il sound controllato ed etereo della sua tromba che lo ha reso famoso. Ad esempio abbracciò tra i primi la svolta elettrica nel jazz come nel celeberrimo In A Silent Way, o nel discusso Bitches Brew. Non certo gli unici esempi di ibridazione tra il jazz e l’elettronica, ma sicuramente tra i più significativi. La volontà di Davis di adottare le tendenze contemporanee gli ha fatto attraversare 50 anni di storia della musica stando sempre un passo avanti alla maggioranza dei musicisti jazz. Almeno fino agli anni '80, quando i suoi lavori, forse troppo carichi di sintetizzatori ed altre sofisticazioni non acustiche, finiranno per diventare più pop che jazz, rendendo oggi  tutto inevitabilmente datato. Con la sola eccezione dell’eccellente Tutu del 1986. D'altra parte è nota l'idiosincrasia che l'artista maturò a partire dagli anni '70 verso ogni forma di jazz classico. Miles Davis è mancato nel 1991 e da allora a suo nome sono uscite solo compilation ed antologie. Questo fino al Settembre del 2019 quando inaspettatamente è stato pubblicato un album postumo intitolato Rubberband, la registrazione dimenticata di Miles Davis. Il trombettista iniziò Rubberband nel 1985, quindi prima di Tutu, ma abbandonò il progetto lo stesso anno. Da lì a poco sarebbe passato allo storico album condiviso con Marcus Miller e nessuno pensò più a Rubberband per oltre 30 anni. Ora i produttori originali Randy Hall e Zane Giles, insieme al nipote di Davis, Vince Wilburn, Jr., che suonò la batteria su Rubberband nel 1985, si sono uniti per completare il progetto e pubblicare finalmente il risultato finale. Miles Davis aveva stabilito di inserire le voci di Chaka Khan e Al Jarreau, ma questo non è stato possibile in fase di produzione e così al loro posto sono stati scelti Ledisi, Lalah Hathaway e lo stesso Randy Hall. In più laddove Miles Davis non aveva completato una canzone, Hall, Giles e Wilburn, Jr. l'hanno finita al suo posto. Ebbene, dopo l’ascolto del disco, diciamo subito che, anche se il risultato non convince del tutto, manifestando qualche lacuna di troppo, emana comunque un fascino ipnotico e intrigante. Solo a tratti l'album suona come dovrebbe essere un lavoro di Miles Davis, questo è vero, e tuttavia il discorso cambia parecchio nei pezzi strumentali, quelli in cui possiamo riassaporare le traiettorie della tromba davisiana che emergono da una distesa di suoni sintetizzati. Per fortuna la produzione ha dato spazio anche al leader e sia pure su basi ritmiche funky ed elettroniche ci restituisce le sue improvvisazioni libere e di gran classe. Tra i brani cantati il più convincente è Rubberband Of Life, protagonista la brava Ledisi. Qui c’è il tipico Davis con le sue fulminanti incursioni di tromba: emozioni estreme in poche note. Giudicando l’album senza pregiudizi si sente come Miles interpretasse a modo suo le varie tendenze degli anni '80. E’ risaputo che la musica che lo circondava lo incuriosiva e ne era attratto: "Give It Up" è il jazz visto attraverso l'obiettivo del funk di Prince miscelato con George Clinton, mentre "This Is It" mostra lampi di glam rock alla Scritti Politti (un’altra delle fisse del Miles di quegli anni). Certo il fatto che Davis avesse preferito i sintetizzatori rispetto ai fiati ed i sintetizzatori o i campionamenti rispetto agli strumenti veri è sempre qualcosa di difficile da digerire, ieri come oggi. Le idee musicali, non molte in verità, ci sarebbero pure anche se nel complesso appare tutto piuttosto leggerino, specialmente nei brani cantati. Ascoltare il contributo di Miles a See I See mette a nudo come un singolo assolo del trombettista sia stato tagliato ed allungato per raggiungere i 4 minuti del pezzo. Il timbro della tromba si fa più opaco e fragile, rilevando le sofferenze dell’ultima parte della carriera di Davis, e tuttavia non manca di fascino. La classe in lui non è mai mera tecnica o virtuosismo strumentale, ma piuttosto un raffinato lirismo che si coniuga con geniali intuizioni nell’organizzazione delle idee musicali. "Echoes in Time / The Wrinkle" dura addirittura nove lunghi minuti e pur lasciando trasudare gli echi seducenti della tromba spaziale di Davis, una maggiore sintesi avrebbe giovato al brano. Di sicuro lo stesso Miles Davis avrebbe gradito inserire un proprio esteso assolo, ma dubito fortemente che lo avrebbe confezionato con così poche variazioni. La produzione molto presente e barocca tende a risultare un po' invadente e forse avrebbe beneficiato di soluzioni più agili ed asciutte. Ovviamente i seguaci più estremi di Miles Davis troveranno irrinunciabile Rubberband poichè ci troveranno il tassello mancante dell’ultimo tratto della carriera del genio di Alton. Per gli ascoltatori meno addentro nella produzione del maestro e soprattutto per i più giovani è potenzialmente un punto più facile e contemporaneo da cui partire alla scoperta dell`enorme tesoro davisiano, più lontano nel tempo ma inestimabilmente prezioso. Partire dalla fine non è mai una buona idea, ma a volte può essere uno stimolo per l’esplorazione di nuovi e straordinari territori. Per coloro che amano solo il Miles acustico questo album così come molti altri dagli anni ’70 in poi è praticamente inascoltabile. Trent’anni dopo la sua scomparsa, la tentazione di uscire con un prodotto targato Miles Davis era irresistibile, ed eccoci qui con il Rubberband datato 2019, introdotto da un apprezzabile dipinto del Maestro in copertina. Non è uno dei capolavori degli anni Cinquanta o degli anni Sessanta, questo è certo. In quel periodo si potrebbe scegliere a colpo sicuro e la qualità sarebbe sempre garantita. Potremmo definirla, senza far torto a nessuno, una sofisticata operazione di rianimazione musicale. Niente di più e niente di meno.

Ledisi - Feeling Orange but Sometimes Blue


Ledisi - Feeling Orange but Sometimes Blue

Ledisi Anibade Young meglio conosciuta semplicemente come Ledisi, è una vocalist americana di soul e jazz. Nativa di New Orleans ma trapiantata in California, il suo nome significa "portare avanti" in lingua Yoruba, un dialetto africano. Dopo essere stata una promessa del soul e dell’r&b, si è presto affermata anche a livello internazionale grazie alle sue innegabili doti di cantante e cantautrice. La sua voce è melodiosa e brillante, l’intonazione perfetta così come il suo controllo ed il suo fraseggio. Quando uscì il suo album di debutto Soulsinger, molti critici affermarono, non a torto, che lei apparisse "più una cantante jazz che una vocalist di soul". Concordo con questa valutazione perchè si avvertiva sicuramente un chiaro sapore jazz nell’approccio di Ledisi in Soulsinger. Tuttavia il primo lavoro della cantante era certamente un album soul molto interessante nel quale erano semmai iniettate le giuste quantità di jazz. Con la pubblicazione del suo attesissimo secondo disco intitolato Feeling Orange but Sometimes Blue si può tranquillamente dire che Ledisi diede alla luce un vero e proprio album di jazz. A questo punto tutti coloro che non amano il genere e si aspettano qualcosa di soul, r&b o funk possono passare la mano e optare per le successive uscite discografiche della cantante; a partire magari dal successivo Lost & Found che rientra a pieno titolo nelle più orecchiabili e commerciali categorie sopra citate. Ma qui, su Feeling Orange but Sometimes Blue, il territorio battuto da Ledisi è quello del jazz, magari moderno, forse declinato in maniera contemporanea, l’ambito è profondamente jazzistico. Devo ammettere che sono davvero soddisfatto che Ledisi abbia avuto il coraggio di fare questo non facile passo. Prima di tutto scegliendo una strada così difficile dal punto di vista tecnico ha dimostrato di possedere la personalità ed il talento perfettamente adeguati ad affrontare questa sfida sempre complicata per chiunque. Ed in più Ledisi ha dato a tutte le canzoni quel suo tocco speciale, esattamente quella sorta di magia che solo poche cantanti possono esibire. Tra i classici standard jazz proposti, il top è Round Midnight, in cui Ledisi interpreta meravigliosamente il classico di Thelonious Monk, usando anche lo scat vocal e dando un saggio della versatilità della sua splendida voce. Ma una menzione va fatta anche per l’arrangiamento del brano, dove spiccano Nelson Braxton al basso elettrico a sei corde, autore anche di un breve ma intenso assolo, Brian Coller alla batteria e Sundra Manning al Fender Rhodes. Round Midnight non è certo l’unico standard presente nell’album: ci sono anche Straight No Chaser, In A Sentimental Mood e Autumn Leaves: tutte covers di classici davvero eccellenti. E tutte interpretate molto bene dalla brava Ledisi: con grande personalità ed una accattivante gamma vocale. Anche se non è esattamente uno standard, Ledisi trova posto anche per uno dei pezzi più belli di D’Angelo, vale a dire la sua famosa Brown Sugar che viene proposta leggermente più lenta e appena un filo più jazzata. Curiosamente la canzone di D’Angelo viene mescolata con Sugar di Stanley Turrentine, per una combinazione inusuale e stuzzicante. Meeting Marcus On A Thursday è un originale della stessa Ledisi che ci porta in un’atmosfera di autentico jazz anni ’50: roba da club fumosi con i tavoli addossati al palco e la cantante che ammicca al pubblico. Bellissima canzone ed ottimo arrangiamento con Ron Belcher al contrabbasso e Khalil Shaheed alla tromba che dispensano emozioni. Un’altra traccia degna di nota è la stessa Feeling Orange but Sometimes Blue che è un esempio riuscito di latin jazz con Pete Escovedo e Karl Peraza alle percussioni, e una Ledisi perfettamente a suo agio su questo tipo di groove. Meritano una menzione speciale anche le suadenti ballate soul/jazz inserite nell’album: Land of the Free e il brano di apertura So Right, che ha un moderno stile alla Erykah Badu. Molto bella anche la vibrante I Got it. Feeling Orange but Sometimes Blue nel 2001 riscosse un grande successo presso la critica. E’ stato definito "il miglior album di jazz vocale degli ultimi anni" e ha vinto anche numerosi premi. Sono valutazioni da condividere in pieno perché anche a distanza di quasi venti anni questo rimane effettivamente un piccolo capolavoro di una grande cantante. Quindi è meglio assicurarsi di non perdere questo album semplicemente perché è ormai diventato un vero classico del jazz. E la storia ha poi testimoniato che Ledisi non ha più registrato un disco così schiettamente orientato verso il jazz. Di fatto dal 2002 fino ad oggi la cantante ha optato per una via più commerciale ed indirizzata al soul e all'r&b, lasciando da parte, almeno per il momento il suo impegno nel jazz. Personalmente aggiungo che ciò è un vero peccato: la signora ha le carte in regola per essere una protagonista della musica afroamericana per eccellenza.

Sonny Rollins – Plays For Bird


Sonny Rollins – Plays For Bird

Charlie Parker morì tragicamente il 12 marzo 1955. Fu una grande perdita per il jazz e per la musica tutta. Di Parker non ho ancora scritto, lo farò quando sentirò di poter esprimere le mie idee in modo adeguato al valore del personaggio e dell’artista. Ma nel frattempo vorrei dedicare un pezzo ad un altro gigante del sax: Sonny Rollins. Dopo la scomparsa prematura di Bird (il soprannome di Charlie Parker) ci furono moltissimi tributi al grande sassofonista, sia da parte della critica che da parte di altri musicisti dell’universo jazzistico. Omaggi e dediche che da allora non hanno mai smesso di essere pubblicati con una certa regolarità. Tra i tanti riconoscimenti discografici che furono registrati, probabilmente uno dei più validi ed interessanti fu quello proposto dal sassofonista Sonny Rollins. Pur non utilizzando il sax contralto come Parker, Rollins era forse l’erede naturale del genio di Kansas City. Sonny aveva per certo una perfetta padronanza del linguaggio del be bop, anche se, ancor prima della morte di Parker si stava già allontanando da quell’idioma jazzistico per esplorare nuovi territori. Sonny Rollins raccolse dunque l’eredità di Bird e utilizzando le nuove architetture dell’incipiente movimento hard bop, insieme alla sua raffinatezza armonica, stava già mostrando i prodromi del suo personalissimo stile. Senza alcuna fretta di registrare il suo tributo a Parker, ma con meditata devozione, lasciò trascorrere più di un anno per lanciarsi nel progetto. Fu infatti solo nell'ottobre del 1956 che Sonny entrò in studio per registrare quello che sarebbe stato pubblicato per la Prestige Records come Rollins Plays For Bird. Il colosso del sax si mise alla guida di un quintetto composto da Kenny Dorham alla tromba, il pianista Wade Legge, George Morrow al basso e il formidabile batterista Max Roach. Roach era stato anche il batterista scelto dal Rollins per il suo album capolavoro Saxophone Colossus. Nella scelta del repertorio da inserire nel suo omaggio, Rollins ha deciso di evitare le composizioni originali di Parker, andando a pescare invece tra gli standard storicamente associati a Bird. I brani selezionati sono poi stati eseguiti sotto forma di un mix che riuniva sette standard per la ragguardevole durata di ventisette minuti. Al pianista Wade Legge venne affidato il difficile lavoro di cucire le sette composizioni attraverso delle transizioni da una melodia all'altra senza soluzione di continuità. Inutile dire che Sonny Rollins brilla di una classe cristallina in questa lunga ed emozionante dedica al maestro: i suoi assoli sono stimolanti e vari, e va lodata la personalità con la quale decise di seguire il suo percorso piuttosto che tentare una inutile replica di Parker. Il medley prende il via con Rollins che suona la frase di apertura di "Parker's Mood" e poi, come sottolineato da Ira Gitler nelle note originali della copertina dell'LP, intona la melodia di I Remember You. Ovviamente c’è lo spazio per l’ improvvisazione ed un momento di dialogo con il batterista Max Roach prima che Rollins ritorni sempre al tema. Lo schema è identico per sei dei sette blocchi del medley, fino al diciottesimo minuto circa. A questo punto, Rollins nell’evidente desiderio di concedersi qualche libertà in più, lo fa sul penultimo tassello del puzzle: My Little Suede Shoes. Che è poi l’unica composizione originale di Charlie Parker inserita in questo contesto. "Star Eyes" chiude questa lunghissima cavalcata dove il sassofonista ci delizia con il suo assolo pieno di tutti i connotati tipici della sua meravigliosa tecnica e della sua mirabile creatività. Ogni singola sezione di questo mix di canzoni memorabili è impreziosito dai pregevoli assoli di Wade Legge al piano e Kenny Dorham alla tromba. E sotto a tutto spicca il motore ritmico alimentato dal duo Roach – Morrow, il cui lavoro è sempre di altissimo livello. Il resto dell’album (la side B sul vinile) è composto da un originale di Sonny Rollins intitolato "Kids Know" anch’esso piuttosto lungo. Il brano oltre alla consueta maestria espressa dal sax tenore del leader presenta una splendida esecuzione di Max Roach e il bell’assolo di Kenny Dorham, come sempre rilassato e melodico. Rollins Plays For Bird si chiude con "I Grown Accustomed To Her Face", una famosa canzone tratta dal musical My Fair Lady della quale Rollins propone una cover molto interessante. Il sassofonista rivela in questa ballata il suo apprezzamento per alcuni grandi musicisti come Coleman Hawkins, Lester Young e ovviamente Charlie Parker e fa capire come si fa a dare un tocco bluesy anche ad un pezzo lento e romantico come questo. Il quinquennio tra il 1954 ed il 1959 fu magico e molto prolifico per Sonny Rollins. Aveva già pubblicato numerosi e validissimi album e, da poco, il suo capolavoro Saxophone Colossus. Rollins Plays For Bird è un altro pezzo della storia del jazz. Più avanti, a partire dagli anni ’60, Sonny esplorerà nuovi linguaggi, fino a sfiorare il free jazz, come fecero molti altri suoi colleghi. A chi, come me, preferisce il più confortante territorio del jazz classico (quello che gravita tra Be Bop, Hard Bop e Cool Jazz) non resta che goderselo così come testimoniano le sue registrazioni (quasi tutte straordinarie) di quel periodo. Ancora oggi, a quasi 65 anni di distanza ascoltare questa musica è un grande piacere, che ci spinge ad essere per sempre grati a tutti gli artisti straordinari che furono protagonisti di un epoca irripetibile. Musicisti immortali in grado di regalare splendide e grandissime emozioni. Rollins Plays For Bird è senza dubbio uno di questi album. Sono sicuro che anche lo stesso Charlie Parker lo avrebbe apprezzato. Imperdibile.

Red Garland - Soul Junction


Red Garland - Soul Junction

La storia professionale del pianista jazz Red Garland è piuttosto particolare. Red è un artista dai grandi meriti che, ingiustamente, è rimasto all’ombra dei grandi jazzisti con i quali ha suonato (Miles Davis e John Coltrane in primis, vale a dire i più grandi…), confinato ad un ruolo di comprimario che non ha mai realmente messo in luce il suo valore. Ma se un genio come Miles lo volle con se per almeno un triennio non è difficile capire che ci troviamo davanti ad un musicista di enorme spessore sia tecnico che artistico. In verità Garland è stato effettivamente un talentuoso ed innovativo maestro del suo strumento, in grado di influenzare molti dei pianisti jazz venuti dopo di lui con il suo stile complesso, caratterizzato da un fraseggio articolato e dall'estensivo uso degli accordi  a blocchi. Per Red Garland la notorietà arrivò nel 1955 con l'assunzione nel famoso primo quintetto (in seguito sestetto) di Miles Davis, assieme a John Coltrane, Philly Joe Jones e Paul Chambers, con cui registrò i famosi album della Prestige: Workin', Steamin', Cookin' e Relaxin' with the Miles Davis Quintet. Il suo approccio pianistico impreziosisce tutte queste registrazioni con le sue tipiche sonorità, i trilli, le sequenze di note veloci. Il suo contributo a questa band, così seminale nella storia del jazz, va anche oltre il mero connotato stilistico. Garland figura anche sul primo disco del quintetto per la Columbia 'Round About Midnight inciso nel 1956 quasi in contemporanea con i quattro album Prestige. Poi però il suo rapporto col leader iniziò a deteriorarsi e già nel 1958 la sua partecipazione al quintetto fu più occasionale. Davis finì inspiegabilmente col licenziarlo, per poi riassumerlo nel sestetto (che era composto dalla formazione precedente più Julian Cannonball Adderley) con cui registrò Milestones. Negli anni successivi, dal 1958 in poi Garland si allontanò definitivamente da Davis per formare il suo trio e negli anni successivi si esibì e registrò con molti altri jazzisti di grande levatura. Soul Junction è probabilmente il migliore dei lavori di Red Garland, sia per i contenuti musicali che per la formazione, che vede il pianista a capo della sua nuova band con un giovanissimo Donald Byrd alla tromba, George Joyner al contrabbasso ed Art Taylor alla batteria. Come sideman Garland chiamò niente di meno che John Coltrane, anch'esso come lui reduce dalla militanza (peraltro ancora in corso in quel momento) nel quintetto storico di Miles Davis. Il mitico ingegnere del suono Rudy Van Gelder disse nel 2007 a proposito di quella registrazione, a 50 anni dalla sua pubblicazione: “mi ricordo molto bene quelle sessioni, mi ricordo di come i musicisti volevano suonare e rammento le reazioni quando si riascoltavano. Oggi mi sento di dire che fui il loro messaggero”. Quello era un periodo di particolare fermento per i jazzisti della corrente denominata hard bop. Red Garland, che di quello stile era uno dei massimi interpreti, con questo disco giunge alla sua terza prova da leader, ed il risultato è appunto "Soul Junction", uscito per la Prestige. Un titolo importante, che fa riferimento al collegamento tra le anime dei musicisti e quelle degli ascoltatori.  E così si intitola anche il lunghissimo pezzo che apre il disco, firmato dallo stesso Garland: dal punto di vista compositivo si tratta di un blues classico ma sotto l’aspetto concettuale ed esecutivo è un brano intenso ed espressivo. Emergono le radici sudiste di Garland, che è nativo di Dallas ed ottime sono le interpretazioni di Coltrane e Byrd: i due con i loro assoli fanno sì che un brano di questa lunghezza ed in più relativamente semplice, non finisca per annoiare. In ogni caso dopo la lunga volata di Soul Junction arrivano due bellissimi pezzi di Dizzy Gillespie: numeri che aggiungono immediatamente spessore e varietà a tutto l’album. Prima "Woody'N You", un pezzo molto amato in gioventù da Red Garland nel quale un Coltrane in forma sfoggia un gran fraseggio, potente e rabbioso come la sua interpretazione dell’Hard Bop ci ha abituati. Subito dopo è il turno di "Birk's Works", forse il momento topico del disco, dove il livello si alza ulteriormente per toccare l’apice della creatività. Il brano si presenta con una intro di Garland realizzata con un giro di piano di pregevole fattura per poi sfociare in un accattivante tema esposto all'unisono da uno smagliante Byrd e dal sempre prezioso Coltrane. La continuità del vivace flusso sonoro viene interrotta dall'unica ballad di Soul Junction, "I've Got it Bad" di Duke Ellington: questo è il territorio jazzistico dove Garland può maggiormente dare libero sfogo al suo raffinato tocco. Al contempo anche Coltrane riconferma nelle ballate la sua straordinaria capacità di fraseggio e la bellezza del suo sound, dandone un saggio davvero notevole proprio qui, nel classico del 1941 firmato dal Duca del jazz. L’album si conclude con "Hallelujah", un brano spumeggiante, aperto da uno straordinario Donald Byrd: il giovane trombettista fa sentire in questo numero tutta la sua classe cristallina, che verrà confermata da una lunga e prestigiosa carriera. Soul Junction è un buonissimo disco, con un’ottima scelta dei brani oltreché suonato in maniera superba. La purezza dell’hard bop di questo album va comunque al di là dell'evidente competenza tecnica della band: consente a Soul Junction di brillare di una propria bellezza trascendente. Ed è la conferma che il fin troppo dimenticato Red Garland può davvero essere considerato un vero mito del pianoforte Jazz.

George Freeman - Man & Woman


George Freeman - Man & Woman

George Freeman è un chitarrista jazz americano del 1927, nativo di Chicago, che quindi ha attualmente ben 93 anni. I suoi fratelli Von Freeman ed Eldridge Freeman hanno avuto a loro volta una carriera nel jazz, così come suo nipote, Chico Freeman, probabilmente il più famoso della famiglia. La storia musicale di Freeman iniziò negli anni '40 con il trombettista Joe Morris, e quindi con Tom Archia. In seguito ha lavorato come sideman per Lester Young e Charlie Parker, quando queste star del sassofono passavano in tour da Chicago. Con Charlie Parker ha anche registrato alcune sessioni discografiche. Freeman è uno dei tanti chitarristi jazz che hanno animato la scena nel corso dei decenni dal dopo guerra sino ad oggi, tuttavia è meno famoso e popolare di altri colleghi quali ad esempio Wes Montgomery, Barney Kessel, Joe Pass o George Benson. Probabilmente la sua scarsa notorietà è dovuta al fatto che ha pubblicato solo una decina di album da solista, dedicando gran parte della sua carriera a fare da spalla ad altri jazzisti. Questo è un peccato perché il suo stile è caldo e sobrio, moderatamente orientato al soul jazz e influenzato anche dal funk, sempre tenendo ben saldo il legame con il blues così caro alla sua città natale. Vi parlo di lui perché è un musicista dimenticato e sottovalutato ma anche perché il suo nome è legato ad un episodio che mi capitò moltissimi anni fa. Nel lontano 1978 mi trovavo a New York per la prima volta nella mia vita. Ero deciso a portarmi a casa quanti più album avessi potuto e così entrai da Sam Goody, il famoso negozio di dischi sull’ottava strada, e lì comprai un buon numero di vinili, alcuni senza sapere minimamente chi fossero gli artisti e come suonassero veramente. Uno di questi era proprio Man & Woman di George Freeman: in questi giorni di forzato ritiro casalingo mi sono ritrovato tra le mani questo disco e così ho deciso di riascoltarlo. O forse dovrei dire più precisamente ascoltarlo, perché all’epoca probabilmente non lo misi nemmeno una volta sul giradischi. Come lo stile sexy della copertina potrebbe in effetti già suggerire (l’avrò comprato per quella?) il suono qui è un soul jazz relativamente semplice. La band è comunque di tutto rispetto ed immagino sia più seriamente il motivo dell’acquisto: ci sono Harold Mabern al piano acustico, Kenny Barron al piano elettrico, Bob Cranshaw al basso e Buddy Williams alla batteria. Un gruppo di eccellenti strumentisti tutti votati al sostegno di Freeman e della sua chitarra semiacustica. I ritmi sono delicati, ma non manca il groove tipico di quegli anni. Man & Woman è datato 1974 ed è uno degli album più rilassati di George Freeman. Tuttavia è sufficientemente intrigante da mettere in mostra il lato più dolce del chitarrista di Chicago. Il suono di George è leggermente meno caratterizzato rispetto ad altri dischi, ma è pur sempre innegabilmente personale: è già un segno distintivo rispetto a molti altri chitarristi piuttosto banali. Man & Woman ha un approccio anche più morbido di altre pubblicazioni dello stesso Freeman registrate con l’etichetta Groove Merchant: questo non significa che sia un disco solamente da sottofondo per serate intime, come suggerirebbe la sua copertina. Siamo nel territorio del soul jazz, con meno influenze funk della media dei lavori dello stesso periodo. L’esperto chitarrista fa sua una accattivante preferenza per i ritmi lenti  e per una spiccata sensualità della sua musica. Detto questo i suoi assoli sono fantasiosi come sempre, con quel continuo richiamo al blues che è il suo marchio di fabbrica. Al contempo riesce ad esprimere una coinvolgente sinuosità e una gradevole avvolgenza, non così presente nei suoi precedenti dischi. Man & Woman non è un album essenziale, i capolavori sono un’altra cosa, però è estremamente piacevole e non privo di validi spunti musicali. Nella peggiore delle ipotesi resta un ascolto di sottofondo di gran classe che può avere comunque i suoi estimatori, anche al di fuori del jazz.

Thelonious Monk – Brilliant Corners


Thelonious Monk – Brilliant Corners

Quando, da giovane studente, stavo piano piano scoprendo il jazz, Thelonious Monk sembrava incarnare tutta l'originalità artistica, l'indifferenza verso le regole e l’innocente eccentricità che amavo nella musica afroamericana. Il grande critico musicale Arrigo Polillo e la sua Storia del Jazz me lo decantavano come un gigante, un genio, eppure io faticavo a comprenderlo fino in fondo. Gli assoli di piano di Monk mi apparivano pieni di dissonanze, presentavano dei salti improvvisi oppure si chiudevano in pause inopinate. Era qualcosa di affascinante e al tempo stesso spiazzante, soprattutto paragonandolo allo stile di altri grandi jazzisti dell’epoca.  E ci volle del tempo perché imparassi ad amarlo veramente. Ma le sue sorprendenti composizioni (ora riconosciute come punti di riferimento musicali moderni, indipendentemente dal genere) avevano in sé una strana, inelegante bellezza che reinventava improvvisamente la melodia, ricostruiva il concetto stesso di armonia e anche quello del ritmo. Un jazz tutto particolare, meno pirotecnico e spettacolare di altri e tuttavia straordinariamente creativo. Nel 1956 Thelonious aveva appena perso tutto nell’incendio della casa dove aveva vissuto per 35 anni. Tutto: quadri, arredi, il pianoforte, le partiture, insomma ogni cosa che avesse realmente valore per lui. Era in un momento cruciale della sua carriera in quanto pur avendo già registrato una ventina di album, non era ancora riuscito a conquistare veramente il pubblico. Era considerato troppo duro, troppo spigoloso, addirittura c’era chi lo riteneva un modesto musicista. Ma Monk era un uomo ostinato e caparbio per cui decise di non mollare e tirare dritto, ripartendo da un momento difficile per lanciarsi di petto verso il suo progetto musicale e in qualche misura verso il suo destino di genialità. Nasce così Brilliant Corners, il suo capolavoro. Un album registrato per l'etichetta Riverside nel 1956 con una band di prima categoria che comprendeva tra gli altri il sassofonista Sonny Rollins e l'ex batterista di Charlie Parker, Max Roach oltre che Oscar Pettiford al basso e Clark Terry e Thad Jones alla tromba. Si tratta del terzo disco di Monk registrato per l'etichetta Riverside ed il primo, sempre per la Riverside, ad includere brani di sua propria composizione. Per merito della sua rilevanza storico-musicale, l'album è stato incluso nella Hall of Fame dei Grammy nel 1999. E’ da considerare come la sessione più ambiziosa dal punto di vista compositivo nella decennale carriera jazz del grande Monk. La complessa title track dell'album, richiese più di una dozzina di tentativi di registrazione in studio, ed è considerata una delle composizioni jazz più difficili di sempre a causa dei suoi continui cambi di tempo. Il tema musicale era così infido nel suo inusuale fraseggio e nelle sue variazioni ritmiche che anche una band pur eccellente come quella di quei giorni ebbe grandi difficoltà nell’eseguire il brano, al punto che la versione finale fu possibile solo combinando insieme due take. Di più, tutta la registrazione fu leggendariamente frammentaria a testimonianza della tremenda complessità delle idee musicali di Thelonious. Però va sottolineato che Brilliant Corners non è affatto un mero esercizio di tecnica e virtuosismo, ma è invece un’opera audace ed avventurosa che non ha mai perso il suo potere di sorprendere e sedurre anche col trascorrere dei decenni. Monk introduce il pezzo iniziale con degli accordi che sono come pugnalate, le note scuotono il corpo, le armonie dei fiati sono inusitate, i temi si rincorrono. Brilliant Corners è avvincente, così come le bizzarre e dissonanti improvvisazioni del compositore. Il colosso Sonny Rollins sviluppa le idee con i suoi toni profondi di sax tenore. E poi tutto l’album è caratterizzato da un’accattivante varietà: come il groove urbano di Hornin' In o il rilassato incedere di Let's Cool One. Pannonica con il suo mix surreale tra la schiettezza del piano e la timida sonorità di un glockenspiel. La bellezza sfolgorante del meraviglioso blues Ba Lue Bolivar Ba Lues Are, che è quasi  un richiamo diretto alle radici stesse della musica afroamericana. Questo album arrivava poco prima degli sconvolgimenti del free jazz e delle avanguardie di fine anni '50: quelle di Ornette Coleman, John Coltrane e Cecil Taylor. Era ancora pienamente bop, ma mostrava già quanto potessero armonizzarsi la più semplice forma delle canzoni con un nuovo e più avanzato idioma jazzistico. La grande musica del ‘900 è passata anche dai solchi di Brilliant Corners e molto anche dalle dita quasi impacciate di Thelonious Monk. Vi consiglio di dedicare un po’ di tempo all’ascolto di questo album bellissimo ed importante. Scoprirete un mondo inedito di melodie, armonie e ritmi in grado di parlare direttamente al vostro spirito. Questo è il grande jazz, questa è la inestimabile eredità del genio di Thelonoius Monk. Imperdibile.

Sam Rivers - Contours


Sam Rivers - Contours

Quella tra il ’60 ed il ’70 fu una decade di cambiamenti rivoluzionari. Nel mondo, certo ma altrettanto nel jazz. In questo periodo, probabilmente, è stato dato troppo poco risalto ad una intera generazione di musicisti che hanno sommessamente ma molto concretamente trasformato l’idioma del be bop e del post bop in qualcosa di diverso, senza arrivare però alle estreme soluzioni del free jazz. Non si può definire esattamente questo movimento come avanguardia ma di certo alcuni di questi jazzisti ci sono andati molto vicino. Il sassofonista Sam Rivers, ad esempio, va ad inserirsi in questo contesto, nel quale la rivoluzione del jazz parte dal punto di vista della tradizione. Il suo modo di suonare sa essere caldo e liricamente melodico ma al contempo può sconfinare in sonorità inusuali e ardite, senza dimenticare le sue provocatorie capacità compositive. Lo stile di Rivers aveva dunque le sue radici nel bebop,  anche se soprattutto negli anni sessanta e settanta, egli prese parte, seppur non facendone espressamente parte, al movimento del free jazz, adottandone esteriormente i dettami. Il suo album Fuchsia Swing Song, ad esempio è considerato un capolavoro dello stile “dentro e fuori”. Ciò significava introdurre elementi nuovi nel tradizionale uso bebop dell'armonia: in questo Rivers fu meno radicale di altri solisti suoi contemporanei e mantenne nei suoi lavori una struttura narrativa (ciò che Lester Young chiamava la capacità di raccontare una storia). Figlio di un cantante gospel, Samuel Carthorne Rivers. Arrivò a registrare la sua musica piuttosto tardi, poiché solamente nel 1964 firmò per la Blue Note Records di New York, cioè quando aveva 41 anni. Il musicista è di assoluto rispetto considerando che Sam Rivers suonava, con identica abilità, il sax soprano, il sax tenore, il flauto traverso, il clarinetto basso ed il pianoforte. Decisiva fu la collaborazione con Miles Davis per un tour in Giappone. Il divino Miles ebbe a dire più tardi: "Ha cambiato il suono del gruppo", “Ha portato un nuovo suono nella band. Ha reso le figure ritmiche e le armonie del gruppo più libere di prima”. Vincolato da altri impegni musicali, Rivers rimase con Miles solo per il tour giapponese  tuttavia l'associazione di Rivers con il grande trombettista, nonostante la sua brevità, aumentò la sua credibilità nella comunità jazz e, di conseguenza gli fu offerto un contratto discografico. Il risultato fu Fuchsia Swing Song, pubblicato nell'aprile del 1965. Poco dopo l'uscita di quell'album, nel maggio 1965 Alfred Lion ingaggiò Rivers per dare un seguito al primo album: quella registrazione sarebbe diventata Contours, l’album di cui parliamo oggi. Sam Rivers scrisse tutto il materiale e si avvalse del famoso trombettista Freddie Hubbard, oltre a Herbie Hancock e Ron Carter della band di Miles Davis, mentre alla batteria sedette Joe Chambres.  Alternando i sassofoni soprano e tenore più il flauto, su Contours Rivers ha ampliato il concetto musicale precedentemente usato in Fuchsia Swing Song e si è lanciato in un approccio molto più libero dai dettami del post bop, in cui le armonie e i ritmi erano più avanzati ed innovativi. Il suo stile musicale unico e molto personale è vividamente dimostrato dall’entusiasmante 'Point Of Many Returns'. Troviamo qui un nervoso riff interpretato all'unisono da Rivers al sax soprano e dalla tromba di Hubbard che fluttua sopra un feroce incedere swing alimentato da Ron Carter al contrabbasso e dalla cinetica batteria di Chambers. E’ Hubbard a prendersi il primo assolo, seguito da un lungo intervento di piano di Herbie Hancock. Il pianista mette in vetrina quella formidabile tipologia di improvvisazione spaziale e fluida che aveva già fatto sentire nel Quintetto di Miles Davis e nei suoi LP da solista per la Blue Note. L'assolo di sassofono soprano di Rivers è straordinario perchè pervaso da una sorta di rabbiosa libertà espressiva, sempre in bilico tra tradizione e avanguardia. "Dance Of The Tripedal" vede Sam Rivers imbracciare il sax tenore per un brano che dopo l’introduzione iniziale, si interrompe per un crudo ma emozionante assolo che è disseminato di urla e grida strane e angoscianti. È tutto ferocemente all'avanguardia ma sotto questo forte lamento, la sezione ritmica mantiene un senso di elegante normalità. Il solo di Hubbard è una lezione di virtuosismo. Quello di Hancock crea un inquietante senso di suspense. E’ ancora il gentile pianoforte di Herbie Hancock ad iniziare "Euterpe" che è un pezzo più lento, dal sapore orientale, costruito su una ripetuta figura di basso e un sommesso lavoro di batteria. Presenta un Rivers questa volta al flauto e Freddie Hubbard che suona la tromba con sordina. Sam dispensa idee a piene mani e al contempo cambia umore passando in un niente da selvaggio a lirico. Il brano fluisce ipnotico mentre la musica diventa sempre più morbida. Poi il volume aumenta gradualmente, consentendo a Rivers di mostrare tutta la sua abilità con il flauto. Il quarto e consclusivo pezzo di Contours si intitola"Mellifluous Cacophony", il quale dopo un'introduzione al limite del free jazz, si trasforma in un brano animato da un groove pulsante che ritrova Sam Rivers al sassofono tenore. Il lavoro ritmico di Carter e Chambers è delizioso per vivacità e precisione  e letteralmente spinge i solisti, Rivers, Hancock e Hubbard a nuove vette di creatività. Contours non fu pubblicato subito ma rimase al palo per oltre un anno per vedere la luce finalmente nel 1967. L’album mostrò l'indubbio progresso di Sam Rivers come compositore, come strumentista e anche come innovatore del jazz. Contours accese la luce, senza mezzi termini, sul genio di Sam Rivers, facendo avanzare il linguaggio del jazz post-bop e contribuendo a costruire un nuovo modo di pensare alla melodia, all’armonia ed alla struttura stessa delle composizioni. Questo non è un album facile, anzi è spigoloso e complesso. Richiede attenzione ed impegno, se lo si capisce a fondo è in grado però di regalare momenti di grande musica.

Bud Powell – The Insible Cage


Bud Powell – The Insible Cage

Earl Rudolph "Bud" Powell (New York, 27 settembre 1924 – New York, 31 luglio 1966) è stato uno dei più grandi pianisti e compositori della storia del jazz. La sua più grande fonte di ispirazione fu un altrettanto geniale pianista come Art Tatum. Insieme ad altri mostri sacri come Charlie Parker, Thelonious Monk e Dizzy Gillespie, Powell è stato un musicista centrale e imprescindibile per la nascita e lo sviluppo dello stile denominato be-bop e più in generale di tutto il jazz moderno. Bud Powell è stato uno splendido virtuoso del pianoforte ma al contempo anche un notevolissimo compositore: senza ombra di dubbio il suo pianismo e le sue creazioni hanno dato uno slancio grandissimo a tutta l’espansione del concetto di armonia nel jazz. In verità gran parte del pianismo moderno gli è enormemente debitore: da Hank Jones a Bill Evans, fino a Herbie Hancock e Chick Corea. Ci sono due aspetti importantissimi che riguardano la musica di Bud Powell che spesso vengono confusi. In primo luogo abbiamo visto come sia stato un musicista originale, un innovatore ed un autorevolissima fonte d'ispirazione per generazioni di pianisti. Il secondo aspetto è che tra tutti i grandi del be bop, egli fu senza dubbio il più spiritualmente vicino a Charlie Parker. Powell non a caso interpretò il ruolo del pianoforte alla stregua di quello di un sax o di una tromba, smarcandosi dalla schiavitù dell’uso della mano sinistra in funzione ritmica e delegando a questo ruolo la coppia basso e batteria. In più era affascinato dalle dissonanze, dalle alterazioni, sostituzioni ed estensioni delle sequenze di accordi. Ed è proprio da queste pionieristiche esplorazioni che sono venute fuori le frasi poi divenute il clichè dello stile be bop. Sfortunatamente la mente di Bud Powell era pericolosamente ed inesorabilmente instabile. Lui era ed è rimasto un enigma: tanto brillante musicalmente quanto minato profondamente per tutta la sua vita da una malattia mentale che lo costrinse a lungo in ospedale.  Era come se fosse separato dal mondo da una gabbia invisibile. Ecco perché uno dei suoi ultimi album porta il titolo The Invisible Cage: una sorta di riassunto del suo stato mentale sintetizzato in tre parole. E’ proprio di The Invisible Cage che vorrei parlarvi dopo aver speso qualche parola in più per descrivere doverosamente il personaggio e l’uomo. Il disco, registrato nel 1964 a Parigi poco prima della scomparsa di Bud Powell, è noto anche con un altro titolo: Blues for Bouffemont. E’ stata una delle sue ultime registrazioni, probabilmente l’ultima davvero valida. A causa dei suoi problemi di salute mentale infatti i suoi album possono essere piuttosto incoerenti e spesso deficitari. Considerando quindi che The Invisible Cage è arrivato praticamente alla fine della sua carriera, è sorprendentemente buono, anche se  forse non esattamente una rappresentazione di Bud Powell al suo meglio. Tra i lati positivi, Powell qui suona molto rilassato e la sua esibizione mostra anche, a tratti, quella bizzarra follia che si percepisce ugualmente in altre registrazioni e che lo rende ancora più unico. Questa vaga sensazione di tranquillità nelle sue esecuzioni è una sorpresa gradita rispetto ad alcune quasi schizofreniche registrazioni passate, ma allo stesso tempo, sembra quasi togliere a Powell la vetrina per le sue straordinarie abilità nei tempi ultraveloci e il gusto per la ricerca delle frasi complicate. Stilisticamente parlando The Invisible Cage regala molta varietà: si va dal be bop veloce alle ballate,  dallo swing al blues per arrivare persino al calypso jazz. Blues For Bouffemont parla da sola: è blues ma di più è anche quello che il blues dovrebbe sempre essere. Bud Powell mostra il suo umorismo nero su di un classico sentimentale come "Like Someone in Love" e ascoltare la sua folle sequenza di accordi è un buon modo per cercare di comprendere il suo talento impareggiabile. Una Noche Con Francis mostra una grande flessibilità ritmica, ma è sulle classiche gemme del bop come Moose The Mooche e Little Willie Leaps che il pianista ci delizia con le sue linee di note fluide e velocissime che enfatizzano i suoi assoli. In una ballata come My Old Flame possiamo poi apprezzare la profondità e la grande intensità con la quale in maturità Powell interpretava i brani lenti e romantici. Quasi una vivisezione armonica delle composizioni da cui il maestro traeva poi la linfa per trasformare e reinventare qualsiasi partitura. Per l'ascoltatore è quasi inevitabile percepire una sorta di tensione creativa e godere di una conseguente soddisfazione musicale: un fatto raro non solo nel jazz. Proprio come Jimmy Smith e Keith Jarret, Bud Powell è conosciuto per il suo "canticchiare" le frasi musicali in sottofondo, non lo faceva sempre e in molti album non compare, ma in questo lo si percepisce chiaramente.  Anche se qualche critico ha rimarcato che in alcuni brani il pianista sembra quasi svogliato, in realtà l’album non è affatto male e forse l’unico vero punto debole è l’esecuzione di "Relaxin at Camarillo", dove probabilmente Powell non era del tutto sobrio. Il trio che registrò questo album è completato da Michel Gaudry al contrabbasso e Art Taylor alla batteria. Il mondo di Bud Powell purtroppo era fatto di continui alti e bassi, addirittura durante una stessa sessione, di conseguenza così erano anche le sue registrazioni. Un momento poteva essere sublime, un attimo dopo sconfortante. The Invisible Cage appartiene alla via di mezzo, tuttavia se si pensa alle sue condizioni di salute può essere considerato un buon disco. L’arte di Powell volava altissimo e il suo prodigioso talento spesso riusciva a fare altrettanto, però nello stesso modo, la sua mente lo imprigionava in una “gabbia invisibile”, inchiodandolo alla più triste delle condizioni umane.

Fred Wesley - Amalgamation


Fred Wesley - Amalgamation

I puristi del jazz sostengono da sempre che il jazz ed il funk siano scarsamente compatibili ovvero che nel momento stesso in cui si inseriscono elementi funk o soul, quello che ne esce non sia più il vero jazz. E’ una considerazione che dal punto di vista strettamente formale non è sbagliata. Tuttavia il jazz è anche, per elezione, un genere aperto, libero e quel dogma così stringente è stato confutato molte volte, a partire dalla fine degli anni '60, da svariati e autorevoli musicisti. Elencarli tutti sarebbe impossibile, però citare alcuni  nomi significativi aiuta a capire meglio: Lou Donaldson, Eddie Harris, David Sanborn, Grover Washington, Jr., Charles Earland, The Crusaders, Ramsey Lewis per arrivare a Miles Davis, Herbie Hancock o Bob James. Tutti questi hanno dimostrato negli anni che si può fare jazz miscelandolo con il funk e farlo pure bene. A questa nobile parata di stelle che hanno fatto della contaminazione del jazz una sorta di marchio di fabbrica, si può aggiungere anche un personaggio come Fred Wesley, dato che anche lui è un musicista che ha dimostrato quanto possano essere valide ed interessanti le fusioni tra le correnti musicali. Se la qualità delle composizioni è elevata, se la musica è genuina e sincera, in effetti, i generi risultano solo apparentemente distanti e si completano magnificamente a vicenda. Nato a Columbus, Georgia, figlio di un insegnante e direttore di big band, da bambino prese lezioni di pianoforte e tromba, passando poi definitivamente al trombone all'età di 12 anni. Il suo stile molto ritmico e preciso lo ha consacrato come uno dei trombonisti funk di riferimento: insieme a Maceo Parker e Pee Wee Ellis era una delle colonne della sezione fiati dei gruppi di James Brown. Il suo album del 1994 Amalgamation è un mirabile esempio di un felice crossover tra il jazz ed il funk. Wesley è qui affiancato dal trombettista Hugh Ragin, dal sassofonista Karl Denson, dal tastierista Peter Madsen. Completa la band la sezione ritmica formata dal bassista Dwayne Dolphin e dal batterista Bruce Cox. Amalgamation è il classico album in cui la fruibilità e l’immediatezza del groove, intrinseco nel funk, non sacrificano nulla ad una solida struttura jazzistica. La spontaneità prevale e c'è ancora molto spazio creativo per l'improvvisazione, la quale è chiaramente marchiata a fuoco con il sigillo del jazz. L’album è dunque una bellissima corsa nei più coinvolgenti groove ritmici tesi ad alimentare le parti soliste che si alternano paritariamente. Il mood funky ovviamente imperversa: in particolare con i primi due brani No One e Peace Power.  Quest’ultimo in particolare risulta irresistibile anche per il riff molto orecchiabile, ma soprattutto per un arrangiamento ritmico praticamente perfetto e davvero accattivante. Il repertorio di Wesley non manca di deviare nel territorio afro-caraibico con un brano festoso e divertente come “Neighbourhood", mentre il lato romantico del trombonista si afferma con la cover del celeberrimo "Careless Whisper" dei Wham. Herbal Turkey Breast rimanda direttamente a quel sound dei mitici anni ’70 che ha riempito i polizieschi tv e i film della blaxploitation. Se qualche estremista del jazz mainstream non potesse fare a meno di ritrovare almeno un brano composto e suonato alla maniera della vecchia scuola, Wesley mette sul piatto una bellissima ballata dal titolo The Next Thing I Knew. La sonorità calda e pastosa del suo trombone trova qui un terreno fertile per dimostrare quanto il buon Fred possa soddisfare ogni gusto musicale. Trick Bag è l’unico brano cantato ed è una sorta di via di mezzo tra un tributo a James Brown e una citazione del Frank Zappa più leggero. La sintesi perfetta tra le due anime di Wesley, il jazz ed il funk, trova la sua chiave di volta nella lunga e articolata Soft Soul and All That Jazz. Il pezzo conclusivo del disco  propone una perfetta integrazione tra i due stili che si mischiano e si separano continuamente per un entusiasmante effetto finale. Quando Fred Wesley suonava con James Brown, era praticamente obbligato a fare le cose alla maniera del popolare cantante soul. Ma da solista ed in particolare in questo Amalgamation, afferma la sua grande personalità di compositore e trombonista con risultati spesso molto coinvolgenti e assolutamente convincenti. Ancora una volta è dimostrato che jazz e funk possono coesistere felicemente ed a volte (magari non sempre) lo fanno con ottimi risultati.

Karl Denson - The D Stands For Diesel


Karl Denson - The D Stands For Diesel

Ho da poco parlato dei Greyboy AllStars quindi resto, per così dire, all’interno della stessa scuderia ed anche nell’ambito del genere acid jazz. Vorrei quindi proporre alla vostra attenzione un musicista molto interessante che risponde al nome di Karl Denson. Lui è un sassofonista e flautista funk-jazz americano, nativo di Santa Ana in California che di fatto del gruppo The Greyboy Allstars è fondatore insieme al più noto DJ Greyboy. Forse la sua collaborazione più popolare è la militanza nella band di Lenny Kravitz, ma nel corso della sua carriera Denson ha suonato anche con artisti del calibro di Jack DeJohnette, di Dave Holland e con le star del rock The Rolling Stones. The D Stands For Diesel secondo me è uno dei migliori album di questo sassofonista, anche se è praticamente sconosciuto al di fuori della peraltro ristretta cerchia dei fan dello stesso Denson. Il motivo per cui un pur valido disco come questo non ha conosciuto una vasta popolarità va ricercato in parte nel fatto che è stato pubblicato su un'etichetta indipendente come la Greyboy Records e dunque non ha avuto la promozione di una major importante. In realtà questo album, insieme al suo “gemello” Dance Lesson # 2 rappresenta il top della produzione discografica di Karl Denson. I due lavori sono molto simili nelle sonorità ed anche le composizioni rispecchiano uno stile omogeneo. Da notare che la band impegnata su The D Stands For Diesel è composta principalmente dagli stessi musicisti che lavorano con Denson nei The Grey Boy Allstars ovvero Zak Najor alla batteria, Chris Stillwell al basso elettrico, Elgin Park alla chitarra e il grande Robert Walter alle tastiere. Un gruppo indubbiamente di alto livello in grado di fornire al sassofonista americano il supporto ottimale per le sue velleità da solista. Forse la differenza più marcata tra i due album è che su questo si percepisce un maggior senso di libertà e una spiccata tendenza alla jam session rispetto al più controllato e sofisticato Dance Lesson # 2. E’ quel tipo di sound che interessa coloro che apprezzano il grande soul jazz registrato negli anni ‘70 per l'etichetta Prestige, sotto l’egida del produttore Bob Porter, da  musicisti come ad esempio Melvin Sparks, Johnny "Hammond" Smith, Bernard Purdie, Rusty Bryant e Leon Spencer Jr. Ma il richiamo c’è anche verso gli Headhunters dei primi anni '70, e perché no, alle band più contemporanee come Medeski Martin e Wood. Karl Denson è un sassofonista che mette in mostra un suono di sax tenore piuttosto grasso e caldo, ma anche scuro e ruvido: probabilmente la sua caratteristica migliore come strumentista. Ogni tanto non disdegna di utilizzare anche il sax contralto col quale si destreggia altrettanto bene, ma con meno personalità. L’album vede la partecipazione in veste di ospite del cantante Andy Bey, un esperto pianista e vocalist che può vantarsi della stima di un genio come John Coltrane. Bey presta a Karl Denson la sua voce profondamente soul-blues in due brani. 8 sono i brani che compongono The D Stands For Diesel:si inizia benissimo con il titolo d’apertura Louis & Co in cui il sax tenore è in evidenza con tutto il suo sound caratteristico su un tappeto ritmico davvero molto stimolante. Bouganvillea è il primo dei pezzi cantati da Andy Bey: sulle prime suona come un brano blues, ma presto il ritmo funk si impossessa del mood grazie ad un bellissimo tappeto ritmico ed un valido arrangiamento. Si può apprezzare Karl Denson al flauto nel successivo The Grind e va sottolineata una certa personalità del musicista californiano anche con questo strumento. Sunday School è una nota più allegra e divertente, in stile soul-boogaloo. Russian Qualude vede di nuovo Denson impegnato al flauto con un atmosfera forse un po’ più smooth jazz. Il funk torna padrone della scena sulla bella Jam Sandwich, ottima anche per apprezzare una volta di più il grande Robert Walter al Rhodes. Steamed Waters ci porta in un territorio quasi fusion in cui sia la ritmica che i solisti danno un saggio di grande vigore. Il lungo assolo di sax e quello altrettanto bello di piano elettrico galleggiano su una base di batteria e basso impressionanti. L’ultimo brano è anche il secondo cantato da Andy Bey, il cui punto di forza è tuttavia soprattutto la parte di sax tenore di Karl Denson e l’arrangiamento di fiati del finale. The D Stands For Diesel è un bell’album di funk jazz, apprezzabile soprattutto da tutti i fan delle sonorità vintage e ovviamente dagli appassionati di acid jazz. Alimentato splendidamente da una band il cui affiatamento e la cui coesione rasentano la perfezione, suona asciutto, potente e schietto come la voce del sax di Karl Denson. Non mancherà di riservare piacevoli sorprese a chiunque sia alla ricerca di qualche nome diverso per staccarsi dall’appiattimento del contemporary jazz di questi ultimi tempi.

Greyboy Allstars - West Coast Boogaloo


Greyboy Allstars - West Coast Boogaloo

DJ Greyboy (nome d’arte di Andreas Stevens) è un Disk-Jokey californiano che può essere collocato a pieno titolo nel genere Acid Jazz. Le sue influenze musicali abbracciano l’hip hop, il soul, il funk, ed il jazz. È anche il co-fondatore del gruppo The Greyboy Allstars insieme al sassofonista Karl Denson. Oggi vorrei parlarvi proprio di questo collettivo. Greyboy ha pubblicato diversi album con questa band che annoverava tra i suoi componenti alcuni dei musicisti soul-jazz più interessanti della scena musicale americana. Per il suo debutto discografico il DJ si è ispirato alla sua musica preferita (funk, soul, jazz, r&b vintage) e gli Allstars lo hanno coadiuvato nell’intento di fondere il tipico suono acid jazz della nuova scuola con una sensibilità più vintage come quella soul/boogaloo. L’album fu registrato nel 1994 con alcuni strumentisti d’eccezione, come l’eccellente tastierista Robert Walters, il flautista Harold Todd (probabilmente uno dei più talentuosi specialisti della sua generazione), l'incredibilmente versatile chitarrista Elgin Park e l'infaticabile e poderoso sassofonista Karl Denson. Ospite d’eccezione per l’occasione fu Fred Wesley, membro storico della sezione fiati di James Brown, il quale contribuì in modo determinante a dare credibilità a tutto questo progetto. Molti di questi musicisti hanno poi intrapreso carriere soliste, pubblicando a loro volta degli album piuttosto interessanti. Dal punto di vista musicale West Coast Boogaloo è saldamente incentrato sul groove di riferimento di Greyboy, sul quale vengono sapientemente inserite delle intense sfumature jazz: insomma questo non è un semplice disco messo insieme con un po’ di funk e molte campionature. E’ senza dubbio molto di più ed è un ascolto che sa essere brillante e pieno di energia positiva. All’epoca della sua pubblicazione passò forse inosservato ma è invece un album eccezionale per tutti gli appassionati di Acid Jazz e può trovare estimatori anche tra i seguaci di un jazz più tradizionale e conservatore che siano in cerca di novità. La formula “più jazz meno funk” funziona a meraviglia nel caso dei Greyboy Allstars. La band trae ispirazione dal funk jazz della fine degli anni '60 e dei primi anni '70: questo lo si evince al primo ascolto. Così come appare evidente quanto il loro amore per questa musica sia totale: però i Greyboy non hanno paura di dare al loro progetto un’impronta moderna anche se giustamente rispettosa. L’idea non solo ha preso forma e concretezza ma riserva un’esperienza molto gratificante e in qualche misura sorprendente anche  grazie anche alla produzione pulita e alle performances davvero eccellenti dei musicisti. Oltre ai contributi dei vari solisti, molto del fascino è incentrato sulla straordinaria sezione ritmica fomrata dal bassista Chris Stillwell e dalla frizzante batteria di Zak Najor. Sono loro due a prendersi spesso la scena, in particolare il drumming pirotecnico di Najor che riempie di energia ogni solco. Nel disco ci sono delle bellissime cover, ad esempio le stupefacenti versioni del classico "Fire Eater" di Rusty Bryant, "Miss Riverside" di Leon Spencer e "Let The Music Take Your Mind" dei Kool & The Gang. Gli Allstars sono abili con le cover ma non sono certo da meno quando si parla di composizioni originali: molto interessante sono appunto "Soul Dream", la super funky "Fried Grease", che ricorda i Tower of Power o la potente e ritmata "Gravee". In tutti questi brani il leggendario Fred Wesley si distingue per l’apporto del suo fiammeggiante trombone, un plus che dà corpo e vigore a tutto il progetto. Chi ha potuto ascoltarli dal vivo parla di uno spettacolo formidabile. Probabilmente non li vedremo più su di un palco, almeno in questa formazione, ma ne abbiamo testimonianza attraverso un’ottima registrazione live e ovviamente con questo West Coast Boogaloo e gli altri album fin qui pubblicati.

McCoy Tyner - Sahara


McCoy Tyner - Sahara

Il maestro McCoy Tyner, ovvero uno dei più grandi pianisti jazz del dopoguerra, è mancato pochi giorni fa: voglio quindi rendergli il giusto tributo parlando di uno dei suoi album più importanti. La scelta non è stata facile, ma alla fine ho deciso per Sahara: cerebrale, intenso, quasi selvaggio nella sua creatività esplosiva. Probabilmente è questo l’apice della produzione discografica di questo formidabile pianista. Dopo la morte di John Coltrane, McCoy Tyner si venne a trovare in una sorta di dilemma artistico/musicale. Cercare di rimanere al passo con gli insegnamenti del suo mentore, continuando con le incredibili esplorazioni dei primi anni '60, o svoltare decisamente per affrancarsi dall’ingombrante personalità di Trane. Tyner in verità sembrava avere qualche difficoltà nel navigare in territori espressivi ancora più estremi di quelli esplorati nei due o tre anni prima della scomparsa di Coltrane, avvenuta nel 1967. I suoi album successivi come leader erano certamente solidi, validamente ancorati al linguaggio del jazz ma fin troppo tradizionali, quasi come se il pianista avesse bisogno di più tempo per interiorizzare e riorganizzare l’eredità che gli era stata tramandata. Nel 1972 arriva però il punto di svolta: con Sahara, McCoy Tyner trovò la sua "via di mezzo" sulla quale costruire il suo idioma, con tutta la forza del tardo Coltrane, ma espandendosi con una ferocia e una libertà di suono straordinarie. Per questo Sahara è semplicemente una delle più grandi registrazioni jazz pubblicate dopo il 1970. E non a caso nessuno degli altri membri del suo quartetto ha mai suonato così ispirato, così libero e creativo come avviene qui. Ascoltare il sax di Sonny Fortune ad esempio è già di per se una conferma di una dirompente e quasi rabbiosa vena artistica. Calvin Hill al contrabbasso è più solido di una roccia, sempre profondo e ispirato. E infine un giovane Alphonse Mouzon fa capire quanto fosse incendiario il suo modo di suonare il jazz giusto un soffio prima della sua conversione alla fusion. Ma è concentrandoci su Tyner che ci si accorge di quanto il pianista riesca ad esprimere energia pura, controllata ed incanalata con una precisione straordinaria e però al contempo quasi fisica, come un assalto al pianoforte. Insomma, per dirla in poche parole, Sahara è quel che si definisce un capolavoro. Lo stile di Tyner ricorda un fiume in piena o un vortice da cui è difficile sottrarsi. Una sorta di incredibile esperienza a cavallo tra la spiritualità e la concretezza terrena. Il disco prende il via alla grande con l’energia di "Ebony Queen", un brano modale il cui ritmo propulsivo è alimentato dal classico stile percussivo di Tyner, accentuato qui dai piatti di Alphonse Mouzon e dal frenetico lavoro di contrabbasso di Calvin Hill. "A Prayer for my Family" è un pezzo meditativo per solo piano che si sviluppa come un autentico flusso di coscienza, una sorta di sfogo emozionale canalizzato attraverso le due mani del maestro. "Rebirth" è piena di accordi fragorosi e improvvisazioni di alto livello, così complesse e veloci che fa quasi impazzire. Da sottolineare come Sonny Fortune sembri quasi far esplodere i polmoni sul suo sax contralto, costringendolo ad urlare e gemere come se stesse incanalando lo spirito stesso di John Coltrane. "Sahara", nel corso dei suoi 23 minuti, copre un vasto territorio musicale, replicando la maestosità e la miseria di quell’area geografica con uno spettro di sonorità tali da renderla una delle migliori composizioni di Tyner in assoluto. "Valley of Life", trasuda fascino e mostra una grande compiutezza nella forma. Qui stranamente Tyner rinuncia al suo pianoforte e utilizza il Koto (uno strumento tradizionale giapponese a corde) delineando una trama esotica sulla quale il flauto di Sonny Fortune e le percussioni di Mouzon fluttuano come sospesi nella nebbia. McCoy Tyner continuerà a pubblicare album di qualità nel corso degli anni, ma non raggiungerà più queste vette. Sahara è un’opera jazz incredibilmente valida e dovrebbe trovare un posto nella collezione di ogni appassionato di jazz. Intenso e cerebrale, è probabilmente uno degli album acustici definitivi dell’era post-bop e sicuramente è un ascolto consigliato anche se non vi piace il jazz. R.i.P. Mr. Alfred McCoy Tyner (Filadelfia, 11 dicembre 1938 – Filadelfia, 6 marzo 2020)

Vibes Alive - Vibrasonic


Vibes Alive - Vibrasonic

Al giorno d’oggi utilizzare il vibrafono e la chitarra come principali voci strumentali di un album non è solamente un insolito abbinamento per il jazz contemporaneo, ma è soprattutto una combinazione che sa essere tanto intrigante quanto seducente. C’è un gruppo, o meglio un duo chiamato Vibes Alive che fa di questo connubio di strumenti il proprio manifesto musicale. Ho già parlato tempo fa del precedente album dei Vibes Alive, After Hours, e oggi analizzerò il loro tanto atteso terzo album: "Vibrasonic": la copertina del lavoro è già abbastanza esplicita, dato che raffigura un vibrafono ed una chitarra. Ancora una volta ci troviamo di fronte ad un ascolto fresco e stimolante: il sound è quello di una fusion percorsa da forti influenze smooth jazz, dove la presenza di Jeff Lorber e delle sue tastiere si fa chiaramente sentire tra la chitarra ed il vibrafono. Ed in più l'impalcatura sonora è sorretta dalle basi  ritmiche più solide che si possano desiderare. Vibrasonic è scritto e prodotto dal vibrafonista Dirk Richter e dal chitarrista Randall Crissman, ovvero le due anime di Vibes Alive. Ma questo duo è praticamente un trio di fatto, dato che il citato Jeff Lorber, è stato (ed è) una presenza costante in tutti e tre gli album del gruppo. I Vibes Alive realizzano i loro album con la frequenza di un'eclissi totale, di conseguenza ogni uscita è carica di aspettative e in qualche misura speciale. E va sottolineato come la formazione del gruppo viene completata da altri 3 personaggi d’eccezione: infatti il leggendario batterista Vinnie Colaiuta alimenta ancora al meglio la sezione ritmica con Jimmy Johnson al basso e Luis Conte alle percussioni. Vibes Alive è un progetto che nasce principalmente dall'amicizia tra i due membri, iniziata ai tempi del college tra chitarre e organi. Ma con l’avvento del vibrafono nelle sapienti mani di Richter, le sue particolari sonorità, le sfumature uniche e le conseguenti possibilità di potenziamento armonico, il duo si è presto catapultato verso un livello più elevato. I Vibes Alive non nascondono la volontà di creare una musica viva, spontanea e creativa ma al contempo poggiata sull'idea di armonia con l’universo come pure sull'amore per il pianeta e per il prossimo. Ogni album dei Vibes Alive richiede anni per essere costruito, in parte anche perché Randall Crissman è un rinomato e prolifico compositore di colonne sonore televisive ed i suoi impegni condizionano la produzione discografica della band. Questo è confermato dal fatto che c'è stato un divario di 11 anni tra il loro omonimo debutto del 1997 e l'uscita del loro secondo set, “After Hours”. Ma oggi, 13 anni dopo, nel 2020, ecco che possiamo goderci un nuovo capitolo di questo gruppo che è un vero “must” per tutti gli amanti del vibrafono e più in generale del jazz contemporaneo. Sono 10 i brani che compongono Vibrasonic, tutti tesi ad un sound caratteristico e fluidissimo, sempre dinamico, mai banale e ricco di groove. "Sweet Vibes" è il pezzo d’apertura e va a chiarire subito il tenore del disco: il minimoog di Lorber si intreccia al vibrafono di Richter, aggiungendo dimensioni spaziali ad un atmosfera soul-jazz. "Vibrasonic" è un propulsivo brano gagliardamente lanciato dalla ritmica e concentrato sull’unisono tra vibrafono e chitarra. "Windchime" rallenta un po’ i ritmi con  Crissman e Richter a ricamare una melodia magnetica fino a che tutto si conclude con il bel synth di Jeff Lorber. Il vibrafono di Richter incanta e pervade "Earthtones", su una base batteria/basso firmata Colaiuta e Johnson che cattura subito l’attenzione dell’ascoltatore tanto quanto lo strepitoso intervento di Rhodes del meraviglioso Lorber. Per finire l’assolo di chitarra di Crissman sposta l’accento su toni jazz rock. E’ lo stesso Crissman ad usare una chitarra acustica per inondare di tonalità delicate e riflessive la successiva "Waterfall". "Going Home" è un brano rilassato e ottimista dalla melodia accattivante. Ancora il vibrafono e la chitarra sono impegnati in una fantasiosa e sofisticata composizione in stile smooth jazz intitolata "Daydream". Stesso tenore per la contemplativa "Rainy Day" dove una volta di più si apprezzano tutte le possibilità tonali del vibrafono e la qualità della tecnica chitarristica di Crissman. "Spy" è un divertente gioco "vibrafonico" che si rifà ai film di spionaggio e regala anche un meraviglioso stacco di puro e swingante jazz: qui l’organo di Lorber non manca di elargire momenti puro groove. Non è da meno l’energico assolo di chitarra elettrica. Spy è a mio parere il brano migliore di tutto il pur bellissimo disco. Album che si chiude con "Guitar Noir", pezzo dal sapore ipnotico, scritto da Crissman, declinato su un clima jazzistico, seppure più intimo. Anche questa volta Richter e Crissman sperimentano con successo  la connessione con i musicisti con cui collaborano per creare un interplay affascinante e ricco di contenuti. Questa è la migliore direzione per la musica, in un mondo dominato dal facile successo e dall’egemonia delle esigenze commerciali. Questi sono i Vibes Alive: buone vibrazioni e gioia di vivere nel rispetto della musica di qualità.

The Big Cheese All Stars – Prawns


The Big Cheese All Stars – Prawns

Era la fine degli anni ’80 quando lo stile denominato Acid Jazz si affacciò per le prime volte al pubblico. I londinesi probabilmente ne avevano ascoltato un assaggio nei club della capitale britannica, tuttavia il resto del mondo avrebbe conosciuto questo nuovo genere soltanto a partire dai primi anni ’90.  L’Acid Jazz partendo dal jazz incorpora elementi funk, soul e in parte r&b, unendoli alla musica elettronica, rielaborando così il concetto di fusion e puntando all’integrazione di numerosi elementi musicali contemporanei. Facciamo dunque ancora una volta un salto indietro a quel periodo fortunato, più precisamente al 1996 per ritrovare una gemma musicale tra le più straordinarie e al tempo stesso dimenticate. I responsabili di questo bel capitolo della storia dell’Acid Jazz sono i The Big Cheese All Stars: un gruppo inglese che proprio a metà degli anni ’90 diede alla luce un meraviglioso album intitolato Prawns. Per tutti coloro che hanno amato questo genere musicale Prawns è sicuramente un “must have” da non perdere. Caratterizzato da tutto quell’insieme di sonorità peculiari che vanno dalle ritmiche funk ai fiati, dal piano elettrico all’organo hammond, per arrivare alle chitarre wah wah ed alla classica voce black, Prawns è davvero un piccolo capolavoro che ha l’unico difetto di non aver avuto un seguito. Con una formazione estesa e ricca di ogni possibile colore, i Big Cheese All Stars sono composti da: Paul Soden batteria, Dr Gregory Rowland piano elettrico, Neil Yates flugelhorn e tromba, Andy Ross flauto e sassofono,  il leader Orlando "The Don" Lund alle chitarre e tastiere, alle percussioni Philip Harper e Simon "Palmskin" Richmond e ai fiati Woody, Chris Bowden, Martin Slattery, Isaac, Matt Coleman, Gilles C'Freak, Ralph Lamb. Per finire c’è la presenza della magica voce femminile di Sharon Scott che contribuisce anche alla scrittura di alcuni pezzi. Insomma quasi una big band. Partendo da una tale potenza sonora è lecito attendersi un risultato interessante ed infatti il disco non delude affatto. Anzi è una grande rivelazione. Se vi piace il groove della musica funk / soul / jazz, non si ha bisogno di cercare oltre, qui troverete esattamente ciò che desiderate. I brani strumentali sono la parte più importante e significativa di Prawns. Numeri come "Noo Improved Felcher", "Cheese Omelette", “10”, “Jurrassic Pig” o “Hovel Zombie” sono quelli che colpiranno di più gli appassionati di jazz. Ad una possente carica funk, peraltro sempre presente in tutto l’album, uniscono infatti una serie di assoli di pregevole fattura ed una complessità melodica molto apprezzabile. Atmosfere vintage che, per la gioia di chi vuole riassaporare il gusto ed il sound dei film e delle serie tv degli anni ’70, sono una vera manna. C’è una grande energia ed un senso di positività che pervade Prawns, probabilmente il riflesso tangibile della freschezza e della vitalità del movimento Acid Jazz in quegli anni d’oro. Però i Big Cheese All Stars non sono solo questo ed anche le melodie soul più lente come "I’Ve Got Mine" o la bellissima cover del classico di Barry White "I’m Gonna Love you" e Don't You Know" suonano alla grande. Sharon Scott è una bravissima vocalist e il suo apporto è determinante in questo contesto. Anche se questo gruppo purtroppo oggi non esiste più e questo è rimasto il suo unico album, la sua gagliarda ed originale proposta artistica sopravvive nel tempo ed il mio consiglio è quello di scoprirla senza esitazione. Una menzione particolare va alla copertina e soprattutto all'illustrazione interna che riproduce un caotico e fumoso party in stile blaxploitation dove i protagonisti sono tutti gamberetti (prawns in inglese) antropomorfi...bellissima.

The Phil Collins Big Band – A Hot Night In Paris



The Phil Collins Big Band – A Hot Night In Paris

Phil Collins che suona il jazz in stile big band? E’ successo davvero! Per una breve stagione dopo il 1996 il buon Phil percorse anche questa strada. Sì, proprio lui, il simpatico, poliedrico, formidabile batterista che ha fatto la storia del progressive-rock con i Genesis durante l’epoca di Peter Gabriel e anche dopo. L’incredibile musicista che mentre suonava e cantava con i grandissimi Genesis, riuscì a trovare il tempo ed il modo di dare vita ai mitici Brand X, creando un vertiginoso jazz rock che incantò immediatamente frotte di appassionati. Phil Collins, dicevo, ovvero l’artista che finite queste fasi della sua carriera se ne è inventata un’altra a suon di successi pop internazionali. Ebbene alla fine degli anni ’90 il buon Phil diede vita anche ad un altro progetto, meno riuscito dei precedenti ma ugualmente interessante e che comunque non ebbe (purtroppo) un seguito. In cosa consisteva questo nuovo capitolo della storia musicale di Collins ? Si trattava di una big band di stampo jazzistico che riproduceva parte del suo repertorio Genesisiano, pescava ovviamente in quello da solista ed infine proponeva cover, non solo pop, ma anche jazz. La creazione della Big Band ha avuto una spinta molto forte soprattutto dalla passione che Phil Collins ha avuto sin da quando, giovanissimo, ascoltò l’orchestra di Buddy Rich. Ma non bisogna dimenticare però un’altra motivazione determinante. Nella seconda metà degli anni '90, la carriera di Phil subì una battuta d’arresto, con la conseguenza di un sostanziale calo anche nelle vendite discografiche. Collins, invece di inseguire la via più semplice e cioè confezionare (senza vergogna) un altro singolo da primi posti in classifica, decise di cambiare passo e provare qualcosa di diverso. Ecco allora che decise di ritornare ad essere prima di tutto un batterista, e quindi di assemblare la sua personale Big Band, facendo rivivere il suono dei suoi idoli: artisti come Buddy Rich e Sonny Payne. Il progetto aveva delle premesse molto stimolanti e pur avendo i suoi momenti di interesse è rimasto qualcosa di incompiuto. Di sicuro è spiazzante per gli appassionati meno avvezzi ai suoni del jazz, ma purtroppo non è stato completamente gradito nemmeno da questi ultimi. Inizialmente il disco potrebbe risultare davvero strano e forse un po’ naif trovandosi al cospetto di pezzi come "Sussudio", "That's All", "Against All Odds" o “Los Endos” che risuonano molto diversi nei loro nuovi arrangiamenti. E’ anche vero che le melodie possono occasionalmente sembrare in parte inconsistenti in un contesto come quello di una jazz big band, ma una volta che la prima reazione è superata, A Hot Night in Paris non può non essere ritenuto quanto meno divertente. A Hot Night In Paris è rimasto l’unica testimonianza della big band di Phil Collins e come si intuisce dal titolo è una registrazione dal vivo, effettuata a Parigi. Brevemente vi dirò quale è stata la genesi dell’album e della stessa orchestra: tutto iniziò con un breve tour europeo nel 1996 (che ha visto la presenza di Quincy Jones come direttore artistico e Tony Bennett come cantante). In seguito Phil ha creato una nuova versione della band ingaggiando alcuni famosi musicisti jazz, in particolare spiccano tra gli altri il sassofonista alto Gerald Albright, il chitarrista Daryl Stuermer, l’altro sassofonista James Carter e i pianisti George Duke e Brad Cole. Quella band andò in tournée in America e in Europa nel 1998, ed è quella presentata sull'album A Hot Night in Paris, che si compone di dieci brani per 70 minuti circa di musica. In questa definitiva incarnazione della sua big band, Collins non prova nulla di nuovo dal punto di vista stilistico, mantenendo la formula tipica delle grandi orchestre jazz, semplicemente la aggiorna, introducendo le sue canzoni. Tra i brani troviamo quindi anche quelli dei Genesis come ad esempio un tanto inatteso quanto particolare "The Los Endos Suite" che ovviamente non mancherà di sorprendere, più di tutto per essere originariamente molto progressive. Ci sono le cover di un brano importante come "Milestones" di Miles Davis e quella del famosissimo pezzo funk degli Average White Band "Pick Up The Pieces". In quanto tale, è il tipo di disco che inevitabilmente forse irriterà i puristi, dal momento che è mirato proprio al pubblico del jazz tradizionale, d’altra parte tutti quelli che hanno amato il Phil Collins solista e pop star e ancor di più gli amanti del progressive potrebbero a loro volta storcere il naso. Però a mio parere bisogna valutarlo con più attenzione e con una certa apertura mentale, non ragionando per schemi o archetipi consolidati. E’ semplicemente diverso. Quelli che non hanno davvero familiarità con la musica di una big band, ma hanno almeno una vaga idea di come suona un’orchestra jazz e ovviamente chiunque non sia oltremodo esigente o intransigente sarà probabilmente piacevolmente sorpreso da A Hot Night in Paris. Il disco è strumentale e ha certamente la dote di trasudare entusiasmo ed energia: i temi musicali emergono abbastanza rapidamente e questo li rende immediatamente riconoscibili, ma presto scompaiono immersi in un roboante carosello di fiati e ritmo. La batteria di Collins è come sempre pirotecnica e precisa, in linea con lo stile dei suoi epigoni, in particolare con quello di Buddy Rich: non a caso viste le premesse. D’altra parte la musica ha dello swing, non ha grandi pretese ed è molto divertente e vivace. Sì è vero: non è mai più che semplicemente godibile e simpaticamente vigorosa, però ha tutto quello che deve avere. E’ ben suonata, gli arrangiamenti danno un sapore nuovo a brani conosciuti e in ultima analisi rappresenta un modo diverso per un grande artista come Phil di presentarsi al pubblico. La critica non ha amato questa declinazione del grande batterista, i fan ne sono rimasti sorpresi, tuttavia ritengo che l’album meriti un ascolto attento ed una valutazione meno severa di quanto è sembrato fare il mondo dei recensori. Anzi arrivo a dire che mi dispiace che questo progetto non abbia avuto un seguito, perché penso che con il tempo avrebbe potuto regalare anche qualcosa in più di un semplice bel concerto a Parigi. A Hot Night In Paris è migliore di qualsiasi disco Collins abbia prodotto in oltre un ventennio e ci suggerisce che questo sarebbe per lui un modo dignitoso ed anche affascinante per percorrere felicemente la sua maturità come musicista. Dai… provaci ancora Phil.