Joel Weiskopf – The Search

Joel Weiskopf – The Search

Per il pianista Joel Weiskopf, nell’ormai lontano 1999, dopo i lunghi studi classici e alcune importanti esperienze in ambito jazzistico, giunse il momento di intraprendere il suo viaggio artistico come leader, con questo primo album intitolato The Search. Ad oggi l’artista ha pubblicato sei lavori, tutti di alto livello. Noto per essere il fratello minore del più affermato sassofonista tenore Walt Weiskopf, le esperienze di Joel nella musica includono nove anni di formazione in pianoforte classico, la laurea al New England Conservatory of Music e concerti con Teddy Kotick, George Garzone, Tim Hagans e Woody Herman. Tutto questo in aggiunta ai suoi apprezzati contributi al catalogo del fratello Walt sull’etichetta Criss Cross ed in più alcune tournè dal vivo per la stessa casa discografica. Ciò che colpisce immediatamente nello stile di Joel è il suo totale controllo dello strumento, la sua fluida creatività che trova voce senza sforzo, con naturalezza e spontaneità. A tratti sa essere denso ed incendiario come McCoy Tyner, ma in un attimo può diventare equilibrato e rilassato, scarno e melodico come un Errol Garner o un Ahmad Jamal. Varietà e originalità sono alla base di un indovinato programma di standard e originali che vengono sapientemente mixati in questo album d’esordio, sorprendentemente maturo. Weiskopf  riesce infatti a riempire il suo portfolio di esecuzioni all’insegna della varietà senza trasformare il tutto in un incoerente guazzabuglio di musica. In fondo qui c’è tutto quello che si chiede ad un jazz che rappresenti al meglio il mainstream di oggi: swing, partecipazione emotiva, invenzione, coraggio, empatia. E nessun orpello, Joel va dritto al cuore della musica. Weiskopf è, insomma, un solista pieno e raffinato che sposa la sua connaturata eleganza ad una non trascurabile ricerca dell’imprevedibile. Una cosa che si riflette anche nel suo notevole lavoro autorale. "Edda" di Wayne Shorter fornisce il tipo di composizione che Weiskopf può fare sua con disarmante facilità. È anche abbastanza sicuro di sé da cimentarsi in un brano complesso come "Criss Cross" di Monk e lo fa in modo da mantenere intatto lo spirito del pezzo, lasciando tuttavia trasparire la sua identità poetica. La lunga title track The Search è un microcosmo di gusto e creatività, con l'interazione tra il solista ed il gruppo a rendere l'ascolto particolarmente seducente. In verità il bassista Peter Washington e il batterista Billy Drummond sono entrambi straordinari dall'inizio alla fine. La loro integrità musicale e la capacità di portare ispirazione sono un valore aggiunto che entrambi questi strumentisti di grande talento possono mettere al servizio di qualsiasi altro musicista con cui collaborino. Di certo come solista non si potrebbe desiderare di meglio di due formidabili specialisti come questi che spingono chiunque a dare il massimo. L’album presenta sia alcune ballate che brani ritmati, ma il trio riesce a gestire ottimamente anche il linguaggio più strettamente blues. Ciò è palesemente dimostrato in "Red's Blues". Non manca, in chiusura, una sorprendente lettura di Weiskopf di "My One and Only Love" in perfetta solitudine al pianoforte. E’ un debutto di grande spessore: ovviamente il pianoforte è dominante in The Search, ma va assolutamente sottolineato l’interplay prodigioso che il trio è in grado di spigionare. Joel Weiskopf dimostrò fin dall’inizio della sua carriera solistica che la sua sarebbe stata una voce importante nel panorama jazzistico contemporaneo. Un viaggio cominciato nel 1999 e che Joel prosegue ancora oggi con la stessa autorevole e talentuosa capacità di essere sofisticato, diretto e coerente.

Resolution 88 - Vortex


Resolution 88 - Vortex

Come avevo preannunciato torno a parlare del gruppo jazz-funk britannico Resolution 88, in occasione dell’uscita del loro quarto album in studio, Vortex. Questo nuovo lavoro contiene 8 brani che portano il sound della band in una nuova direzione compositiva. I Resolution 88 mantengono il loro sound distintivo, pilotato sapientemente dal Fender Rhodes e dai sintetizzatori, con uno stile affine a quello di Herbie Hancock e Toby Smith dei Jamiroquai. La band ha registrato questo materiale con l'usuale quartetto ma l'album presenta alcuni artisti ospiti come la cantante Vanessa Haynes e Tom Smith al sassofono e al clarinetto basso. Negli album precedenti, i Resolution 88 hanno aggiunto in post produzione  alcune sovraincisioni orchestrali ispirate ad album come Manchild di Herbie Hancock, ma in questo disco, le uniche aggiunte sono i soli suoni dei sintetizzatori. Il leader della band e principale compositore Tom O'Grady ha fatto di tutto per ricreare il mondo sonoro dei suoi personali punti di riferimento: i Mizell Brothers e chiaramente dell’idolo Herbie Hancock. "The Boss from Boston" apre il disco con uno stile potente: il basso virtuoso di Tiago Coimbra si intreccia con una linea melodica nel solco del grande Marcus Miller, per il quale i Resolution 88 hanno suonato come band di supporto al Ronnie Scott's Jazz Club. L'album passa rapidamente alla versione strumentale di "Love Will Come Around" (che riappare in una versione vocale alla fine del disco). La melodia si libra su una vera drum machine Roland CR78 (come quella usata da Hall & Oates e molti altri). "Sky High (for Larry & Fonce)" è un omaggio ai fratelli Mizell le cui produzioni degli anni '70 sono amate e celebrate in tutto il mondo, ma soprattutto nel Regno Unito. Tom O'Grady si è innamorato della loro musica non appena l'ha scoperta e questa ha avuto un'enorme influenza sulla sua ispirazione di musicista. Comporre una canzone è stato il modo più naturale per ringraziare i Mizell’s per l’influsso sulla sua carriera. Quando Larry Mizell in persona ha ascoltato questa traccia, la sua risposta ha, per così dire, dato un senso profondo all'ossessione per l'utilizzo di strumenti completamente originali. L’ha definita infatti  monumentale, facendo i complimenti a O’Grady anche per la sua abilità tecnica. "Never Ever Ever", si apre con un groove particolare, scarno ed essenziale, prima che un assolo dei synth catturi l'ascoltatore. C’è un crescendo entusiasmante, una vera delizia per gli amanti delle tastiere analogiche vintage. Di seguito si continua con un classico groove jazz funk, "Shriffty". Come suggerisce il nome, questa traccia è ricolma di riff. Tom Smith è l’ospite di questa traccia, nella quale è protagonista della partitura di sax tenore. Il brano finisce proprio con un assolo di sax potente e suggestivo. Da sottolineare, nella sezione centrale, come Tom O'Grady offra a sua volta un assolo di Rhodes molto pecualire, ispirato ai suoi musicisti preferiti Herbie Hancock e Patrice Rushen. "Final Approach" è piuttosto originale e si propone di dipingere in musica le luci che guidano gli aerei di notte sulle piste di atterraggio. Questo pezzo inusuale è un groove rilassato e notturno che evoca l'emozione di volare verso nuove mete. "Vortex" dà il titolo all'album ed è facile capire il perché: è un brano importante, di ben 8 minuti. Il basso iniziale è ripetuto ritmicamente mentre attorno ad esso orbitano tutti i tipi di suoni “cosmici”. Quando entra la batteria, il basso improvvisamente assume tutto un altro senso. Tom Smith suona una semplice melodia al sax soprano e al clarinetto basso aumentando la tensione, il tempo raddoppia e l'ascoltatore viene letteralmente risucchiato nel “vortice”. A completare il quadro sonoro arriva anche un assolo di sax soprano, nello stile di Bennie Maupin, che irrompe in una apparente tranquillità. Infine l'ascoltatore viene nuovamente catapultato al centro da un assolo di Rhodes di Tom O'Grady, accompagnato dall'energia frenetica e trascinante di Ric Elsworth alla batteria, dal basso jazz groove di Tiago Coimbra e dalle percussioni potenti di Oli Blake. All'improvviso, tutto si dissolve e l’atmosfera torna spaziale. "Love Will Come Around featuring Vanessa Haynes" è la versione vocale della seconda traccia dell'album. Vanessa Haynes è meglio conosciuta per aver cantato come solista con gli Incognito, le leggende del jazz funk del Regno Unito. In questo brano porta tutta quell'esperienza e la sua incredibile voce piena di passione e sentimento. Questa canzone (sia la strumentale che la vocale) vuole essere una sorta di riflessione su tutto ciò che sta succedendo nel mondo in questo momento. Di fatto è impossibile ascoltare le notizie oquotidiane senza provare un sentimento di sconforto: Tom O'Grady intende così proporre qualcosa di positivo attraverso un messaggio edificante dal quale trarre, se possibile, il meglio di noi stessi e degli altri. Ancora una volta questi ragazzi inglesi hanno fatto centro, Vortex è un gran bell’album, uno dei migliori usciti nel 2024, merita senza dubbio attenzione.

Hubert Laws – The Laws Of Jazz


Hubert Laws – The Laws Of Jazz

Quando si parla di uno strumento solista molto particolare per il jazz come il flauto traverso, ci sono tre nomi che vengono subito in mente: Eric Dolphy, Herbie Mann e Hubert Laws. Per i puristi del jazz i secondi due si portano dietro una fama non troppo positiva a causa della loro produzione più commerciale degli anni '70. Ma va detto anche che la loro abilità tecnica, il loro sound e la indubbia personalità rappresentano comunque i vertici per quanto riguarda il flauto. Se parliamo di Hubert Laws in effetti viene quasi istintivo associare l'artista ai suoi album per la CTI, ed alcuni di questi hanno effettivamente delle grandi qualità. Tuttavia ascoltando The Laws Of Jazz è altrettanto chiaro che il flautista di Houston (fratello del sassofonista Ronnie) ha uno spessore ed una profondità che vanno ben oltre il suo periodo alla corte di Creed Taylor, facendone davvero un personaggio di spicco del panorama jazzistico internazionale. D’altronde Hubert può vantare una carriera di oltre 40 anni nel jazz, nella musica classica e in altri generi musicali. Considerando l'abilità artistica del compianto Eric Dolphy e la popolarità del già citato Herbie Mann, Laws si trova ad essere in compagnia dei più famosi e rispettati flautisti di jazz della storia (di certo anche uno dei più imitati). Laws è uno dei pochi artisti di estrazione classica in grado di padroneggiare altri generi come appunto il jazz, ma anche il pop ed il rhythm and blues o il soul, muovendosi senza sforzo da un repertorio all'altro. La sua carriera inizia nel 1965 con l'Atlantic Records con la quale pubblicherà tre dischi di qualità, dei quali The Laws Of Jazz è il primo in assoluto. Si tratta di un hard bop piacevole, con Laws che resta molto compostamente in linea con la tradizione e veicola le sue composizioni e i suoi assoli con coerenza e rigore (è ovvio che qui non si può trovare l’ardore e la iconoclastica creatività di Eric Dolphy o Rahsaan Roland Kirk). I brani più accattivanti e memorabili sono in effetti quelli con i connotati più blues: "Bessie's Blues" e "Bimbe Blues", dove Laws si sbizzarrisce davvero con il suo flauto, innervandolo di un anima ricca di soul. Il gruppo che accompagna il leader in questa prima uscita annovera nomi noti ed importanti come Richard Davis, Jimmy Cobb e Chick Corea (qui presentato all'inizio della sua carriera come Armando Corea). Tutti i musicisti aggiungono ottimi assoli ed arricchiscono la sessione con grande maestria. Laws suona l'ottavino in due dei brani, uno strumento che forse funziona meno bene del traverso in questo contesto, probabilmente a causa del suo suono troppo stridente. Hubert Laws è di certo un magnifico strumentista, dotato di talento e di una tecnica sopraffina che gli ha consentito di avventurarsi con  successo con le grandi orchestre di musica classica. Come detto, nei primi anni Settanta ottenne un grande riscontro commerciale (e persino il plauso della critica) con la sua miscela unica di jazz e musica classica, registrando molti album per l’etichetta CTI, della quale divenne uno dei nomi di punta. Alcuni di questi dischi, in particolare Morning Star, Afro Classic e In The Beginning, sono davvero rivoluzionari nel combinare jazz, musica classica e pop in un'unica e coesa presentazione. Tuttavia, la natura easy going e il tenore di brani pop come "Fire and Rain" di James Taylor o il tema del film "The Love Story" hanno via via allontanato molti appassionati puristi del jazz, tanto all’epoca quanto ancora oggi. Non intendo esaltare a tutti i costi il valore di un disco come Laws Of Jazz, che può più o meno essere di gradimento a seconda dei gusti e dell’apprezzamento che si può avere per lo strumento flauto. In generale qualsiasi appassionato dell'hard bop e del jazz moderno avrà modo di godere di The Laws Of Jazz, sia come documento storico (l'esordio di Laws e  di un giovanissimo Corea) sia per la musica piacevole e di valore che offre.

Ramsey Lewis – Taking Another Look


Ramsey Lewis – Taking Another Look

Ramsey Lewis è salito ala ribalta a metà degli anni '60, proponendo una lettura del jazz in chiave strumentale funky e soul, in brani da top 40 come "The In-Crowd" e "Hang on Sloopy". La formula ha fatto guadagnare al suo trio (che includeva il futuro fondatore degli Earth Wind and Fire Maurice White alla batteria) un notevole successo e ha reso Lewis uno dei pianisti jazz di maggior successo di quel periodo. Tuttavia, all'inizio degli anni '70, si stancò del formato del trio acustico e conseguentemente abbracciò la fusion, l’R&B ed il funk più elettrico. All’apice di questa svolta artistica, unendosi nuovamente con Maurice White, raggiunse la sua piena maturazione nel 1974 con l'uscita del classico Sun Goddess. L’album presentava in diverse tracce molti componenti degli Earth Wind and Fire e vedeva il collaboratore di Miles Davis Teo Macero nel ruolo del produttore. Sun Goddess raggiunse il primo posto sia nella classifica di Billboard, nella categoria Black Albums che nella classifica degli album jazz. Di fatto è stato sia l'album di Lewis più venduto degli anni '70, che soprattutto una pietra miliare dell’emergente movimento dello smooth jazz. Chiunque abbia nostalgia di rievocare un po' delle calde sensazioni della metà degli anni '70 non dovrebbe esitare nello scegliere Sun Goddess come punto di partenza. Detto questo se facciamo un salto in avanti di circa 35 anni, scopriamo che in questo periodo Ramsey Lewis negli ultimi tempi non ha quasi mai riutilizzato un sintetizzatore o un piano elettrico Fender Rhodes, privilegiando quindi il jazz acustico. Poi, in modo del tutto casuale, il suo agente gli propose di riunire l'Electric Band e di rivisitare almeno in parte il materiale inciso su Sun Goddess. Inizialmente scettico, Lewis ha effettivamente rimesso insieme il gruppo "solo per vedere come si sente" ma subito scoprì che gli piaceva molto quello che veniva fuori. Così è nato Ramsey Taking Another Look, l'80° album di Lewis. Senza alcuna digressione sul viale dei ricordi, Ramsey Taking Another Look si reimpossessa di tutto ciò che c'è da apprezzare in Sun Goddess e lo traspone con forza qui ed ora. E dunque quattro delle sette tracce di Sun Goddess sono state ri-registrate da Lewis e dalla sua Electric Band con Charles Heath alla batteria, Joshua Ramos al basso, Henry Johnson alla chitarra e Tim Gant alle tastiere (mentre l’immortale "Sun Goddess" è una riedizione dell'originale e non un remake). Inoltre, ci sono cinque nuovi brani concepiti con un mood molto vicino a quello degli anni ‘70. Il brillante anche se anziano Lewis e i suoi complici appaiono comunque in gran forma. Come prova prendete ad esempio la loro versione di "Living for the City" di Stevie Wonder. Se vi è piaciuta su Sun Goddess, qui la adorerete. Ascoltate con attenzione le dinamiche del brano che colpisce immediatamente, con Heath e Ramos che propongono un magnifico groove funk, Lewis che lo fa suo con un assolo carico di blues. Come un Wes Montgomery che ha magicamente fatto sua "Round Midnight" e John Coltrane che ha reso unica la popolare "My Favorite Things", Lewis raccoglie la sfida con il classico di Wonder. Poco da dire anche sull'altro materiale che viene qui riproposto. "Jungle Strut", "Tambura" mantengono il fascino vintage degli anni '70 anche se il sound che ne esce è puro funk aggiornato al 2011. La splendida "Love Song" è quella che vede il restyling più importante tra il materiale di Sun Goddess. Ad alcuni potrebbe mancare la produzione lussureggiante dell'originale, ma una grande melodia è pur sempre una grande melodia. Uno degli aspetti più positivi di Ramsey Taking Another Look è il modo in cui suona fluido nonostante il divario di decenni nella concezione del materiale. Su "Betcha By Golly Wow" degli Stylistics lo Steinway di Lewis non ha mai suonato meglio e si sposa bene con le già citate "Love Song" e "Living for the City", mentre "To Know Her" combina il funk attualizzato con una melodia carica di pathos. Anche il chitarrista Henry Johnson contribuisce grazie ai suoi riff blues-bop. "Intimacy" apre il disco con un intro di Johnson alla chitarra, prima che il pianoforte maestoso di Lewis entri creando un groove melodico molto accattivante. "The Way She Smiles", è un veicolo che Mr. Lewis usa per condurci alle origini vere del funk. "Sharing Her Journey" conclude il tutto con un bel tocco di fusion vecchia scuola, ma se preferite potete chiamarlo smooth jazz. In realtà c'è ancora spazio per la riedizione di "Sun Goddess" (ridotta a cinque minuti dagli otto originali) che resta sempre un capolavoro (quell'assolo finale di Rhodes rimane uno dei punti più alti nel modo di utilizzare il piano elettrico). E tra l’altro ci ricorda che grande band fossero gli Earth Wind & Fire). Ramsey Taking Another Look è un album che pochi pensavano che Ramsey Lewis avrebbe realizzato (forse meno di tutti luistesso) e dimostra che a volte le cose migliori possono capitare dal nulla, quando non te le aspetti. Non a caso dopo la sua iniziale riluttanza a rivisitare il jazz elettrico, è proprio Ramsey Lewis a ritenere questo lavoro tra i cinque migliori che abbia mai realizzato. Bisogna credere al Maestro e ascoltando queste tracce, alla fine non si può che essere d’accordo con lui.

Jaco Pastorious – Jaco Pastorious


Jaco Pastorious – Jaco Pastorious

Jaco: fiume di parole, articoli, biografie, recensioni di ogni genere sono stati scritti sul personaggio Pastorious e sul suo incredibile talento. Ricorderò solamente che lui è stato un bassista, compositore e produttore discografico statunitense di jazz, fusion e funk, ma soprattutto un musicista da annoverare tra i più grandi bassisti di tutti i tempi e tra le figure più iconiche del secolo scorso. Suonava generalmente un basso elettrico fretless, ma sul palco usava anche un basso con i tasti. Nonostante la brevità della sua carriera, ha determinato una rivoluzione totale: col suo stile particolare è riuscito a caratterizzare lo strumento come nessun altro, ridefinendo il ruolo del basso elettrico come solista e suonando simultaneamente melodie, accordi, armonici ed effetti percussivi. Per numerosi bassisti anche non jazz (dal pop al rock) è stato e resta un importante punto di riferimento. Per qualsiasi serio appassionato di jazz fusion, dunque Jaco Pastorious rappresenta un mito di ineguagliata bravura. Per lo più autodidatta, a 22 anni insegnava però già il basso all'Università di Miami, dove strinse una forte amicizia con il chitarrista Pat Metheny, cosa che avrebbe portato i due a registrare insieme, pubblicando un LP poco conosciuto (semplicemente intitolato Jaco) nel 1974. Ma fu solo quando divenne membro dei Weather Report che il giovane virtuoso iniziò a lasciare il segno sulla scena mondiale. L’album di debutto da solista, pubblicato nel 1976, è una vetrina per gli incredibili talenti del bassista, per non parlare della sua maturità come compositore. A unirsi a lui in studio non c'erano altri che alcuni dei musicisti jazz più straordinari dell'epoca: Herbie Hancock, Wayne Shorter, Lenny White, David Sanborn, Hubert Laws e Michael Brecker. Anche le leggende del soul/R&B Sam & Dave fanno una sporadica apparizione. Iniziando l’album con una cover di "Donna Lee" di Miles Davis, Jaco mette subito tutte le carte in tavola, con un'interpretazione molto creativa di questo classico del be-bop. I già citati Sam & Dave contribuiscono con le loro voci al funky "Come On, Come Over", in cui Herbie Hancock e i fratelli Brecker aggiungono un certo colore e una consistenza tutta loro. "Continuum" indica quelli che saranno i suoi giorni futuri con i Weather Report, mentre nella collaborazione con Hancock  intitolata "Kuru/Speak Like A Child" i due si impegnano in una sorta di duello di talenti. Sei violinisti, tre violoncelli e tre viole vengono utilizzati per attirare l'attenzione dell'ascoltatore, ma incredibilmente, il tutto non suona mai troppo ridondante o pretenzioso. La ballata "Portrait of Tracy" è uno dei brani più noti dell'album, in cui Jaco riesce a dipingere un quadro impressionaista con il suo basso elettrico che è tanto tenero quanto intricato. Che si tratti del calypso che incontra la fusion di "Opus Pocus", di "Okonkolé Y Trompa" ispirato a Miles Davis (scritto insieme a Don Alias), con i suoi ritmi complessi di world music, o dell'esteso "(Used to Be a) Cha-Cha", con Hubert Laws al flauto e al flauto piccolo, Lenny White alla batteria e, naturalmente, lo stesso Herbie, Pastorius e i suoi amici non sbagliano mai un colpo, producendo musica che è sia rilassante che stimolante. Quella che era originariamente l'ultima traccia dell'LP, la quasi cinematografica "Forgotten Love", vede Jaco quasi soffocato da una pletora di violini, violoncelli e viole. Sebbene composta da lui stesso, è Hancock che in realtà si prende il centro della scena, offrendo un'esecuzione magistrale al pianoforte. L'edizione del 2000, pubblicata su CD, ha ricevuto la rimasterizzazione completa che l'album meritava, con le eccellenti note di copertina di Pat Metheny, e la sempre gradita inclusione di due tracce inedite. Una registrazione alternativa di "(Used to Be a) Cha Cha" e "6/4 Jam": brani che, a differenza di altri esempi di tracce bonus, in realtà migliorano l'esperienza di ascolto, arricchendola. Se non fosse già chiaro a tutti, Jaco Pastorius fu innegabilmente un grande maestro del basso elettrico fretless. Purtroppo anche a causa degli abusi di sostanze stupefacenti e alcol morì in circostanze tragiche nel 1987 all'età di soli 35 anni, lasciando un vuoto incolmabile. Ciò che questo album dimostra, senza ombra di dubbio, è che Jaco rimarrà per sempre uno dei bassisti più preminenti che il mondo abbia mai conosciuto (e ascoltato). Il solo fatto che avesse 24 anni quando lo registrò lo rende ancora più sorprendente. Da un certo punto di vista è impossibile ascoltare oggi l'album di debutto di Jaco Pastorius con lo stesso feeling di quando fu pubblicato nel 1976. Ma l'opera è comunque grandiosa ed ogni traccia prende una direzione diversa, ognuna è un piccolo capolavoro che rappresenterebbe qualcosa di cui andare fieri per qualsiasi musicista. Ciò che rende Jaco così eccezionale e in qualche modo immortale è il fatto di essere stato un precursore, un genio in grado di cambiare la storia di uno strumento come il basso, rompendo qualsiasi barriera e lasciando così un’eredità inestimabile. Oltre alla sua fenomenale tecnica e alle sue sorprendentemente mature capacità compositive, c'è da tenere conto dell'audacia dei suoi arrangiamenti. Per un uomo con questo tipo di precoce e caleidoscopica creatività, rimanere sano di mente forse era chiedere troppo; la sua graduale discesa nella follia e la sua tragica morte sono ormai una storia familiare, che rende la brillante promessa di questo glorioso album di debutto ancora più agrodolce.

John Patitucci – John Patitucci


John Patitucci – John Patitucci

Gli anni ’80 videro un fiorire di talenti del basso elettrico nel jazz. Complice la tendenza alle contaminazioni con il funk ed in parte anche con il rock ebbero modo di venire alla ribalta diversi musicisti di grande valore e di tecnica sopraffina. Erano un po’ come dei figli artistici, per così dire, di Jaco Pastorius, Stanley Clarke e altri capostipiti di un modo nuovo di interpretare il basso: più dinamico, più muscolare, financo più spettacolare. Da lì in avanti il basso elettrico si trasformò da semplice motore ritmico a qualcosa di diverso, per molti versi sovrapponendosi alla chitarra. Sulla scia dei primi ed insuperati geni, furono in molti ad affermarsi ed a caratterizzare la musica dei decenni a venire. Tra i tanti incredibili interpreti di questo affascinante strumento, del quale controllavano con perizia ogni sfumatura, va senza dubbio annoverato anche John Patitucci. Personaggio particolare con una vocazione quasi maniacale verso il basso fin dalla più tenera età, John aveva ben chiaro quale dovesse essere il suo destino già a dodici anni. Ad una età durante la quale la maggior parte di noi è di solito preoccupato per la scuola o magari fissato con uno sport, Patitucci si dimostrò determinato a diventare un musicista professionista. Non proprio una cosa usuale, in effetti. Ma Patitucci era più maturo della sua età, era consapevole di avere le capacità e la giusta attitudine per la musica. A questa caparbietà aggiunse il duro lavoro, la determinazione e lo studio costante ovvero quelle peculiarità che sarebbero poi diventate il suo vero biglietto da visita. Così John iniziò effettivamente a suonare il basso elettrico, ma a quindici anni unì a questo anche una viscerale passione e dedizione per il contrabbasso acustico. Il risultato è sotto gli occhi di tutti gli appassionati e ha portato il musicista newyorkese ad essere considerato da molti uno dei bassisti più talentuosi del pianeta. Con una nota di merito e di distinzione particolare, se si considera che è tra i pochi a padroneggiare sia l'elettrico che l'acustico con uno stupefacente livello di virtuosismo. D’altra parte ha forgiato la sua preparazione all’interno di un contesto tra i più stimolanti e creativi del secolo scorso: le Elektric e Akoustic band di Chick Corea. E’ proprio uscendo finalmente dall’ombra del gigante Corea e dei suoi formidabili compagni d’avventura che Patitucci ha dato alla luce nel 1987 il suo album d’esordio. Fu un brillante e piacevole debutto da solista, scandito con vigore e classe dal suo brillante modo di suonare il basso. Fuori dalle band di Corea, John espresse subito la sua tecnica sopraffina, caratterizzata da uno stile slap funk, del quale è un fantastico esponente, ma ricamando al contempo linee fluide e sofisticate sul suo basso a cinque corde. Patitucci, non è mai sopra le righe ed esibisce la compostezza ed il rigore di un grande bassista spingendo tuttavia spesso il suo strumento nella gamma della chitarra. Anche dal punto di vista compositivo i brani di John risultano interessanti, molto ben articolati e soprattutto non troppo legati ai cliché del jazz-rock o della fusion. Il jazz è ben presente ed anche se è virato con contemporaneità e sempre elettrico, non è un semplice sentore. Pezzi come Growing, Baja Bajo, Killeen, Searching, Finding o Wind Sprint descrivono in modo eloquente la bravura di Patitucci come solista e, sia pure con qualche influenza evidente derivata direttamente da Chick Corea, testimoniano l’originalità e la creatività del musicista. Di certo in questo suo album d’esordio Patitucci riceve un sostanziale aiuto da parte di un gruppetto di fantastici musicisti, tra i quali lo stesso sorprendente Chick Corea (che è anche il produttore del lavoro) ed un trio di batteristi che si alternano e che rappresentano il gotha mondiale dello strumento quali Dave Weckl, Peter Erskine e Vinnie Colaiuta. La ciliegina sulla torta è rappresentata dal sax tenore di Michael Brecker, che come sempre aggiunge qualcosa in più a qualsiasi progetto musicale. Non c’è alcun dubbio, che questa opera prima di John Patitucci accrebbe in modo esponenziale la reputazione di questo formidabile musicista, lanciandolo verso una luminosissima carriera. Non a caso John ha vinto in seguito molti sondaggi indetti dalle riviste specializzate proprio per le sue indiscusse capacità e lo stile originale che caratterizzano il suo approccio con lo strumento. È risultato tra l'altro "migliore bassista jazz" in un sondaggio dei lettori indetto dalla rivista Guitar Player Magazine nel 1992, 1994 e nel 1995 e "miglior bassista jazz" in quello della rivista Bass Player nel 1993, 1994, 1995 e 1996. Questo album omonimo, il primo da solista di un grande maestro del basso, è un lavoro storicamente importante, che era già avanti a fine anni '80 e tuttora si mantiene attuale ed interessante. E’ un disco per appassionati del basso come strumento, ovviamente è imperdibile per gli amanti della fusion ma risulta apprezzabile anche da coloro che amano il jazz: è sufficiente per consigliarlo caldamente, anche in virtù di una registrazione dalla qualità straordinaria.

Bob Baldwin – Songs My Father Would Dig


Bob Baldwin – Songs My Father Would Dig

Bob Baldwin è un pianista americano che fin dalla più tenera età è stato educato alla musica da suo padre, che era a sua volta pianista e insegnante. Come spesso accade, i suoi riferimenti sono stati le più iconiche tra le leggende del jazz: Miles Davis, Oscar Peterson, John Coltrane. Con un pianoforte verticale in casa, un impianto stereo sempre in funzione e gli insegnamenti paterni ebbe l’opportunità di studiare e suonare apprendendo la tecnica jazzistica, il fraseggio ed il groove della musica afroamericana, affinando così le sue doti ed il suo talento. Dal 1983 ha iniziato a produrre musica abbracciando lo stile fusion/smooth jazz e mantenendo questa connotazione artistica per circa 40 anni. Finalmente alla fine del 2023 ha deciso di registrare un album di rottura con la passata produzione, optando per un jazz moderno ma virato su una forma più tradizionale. Allo scopo ha riunito un trio con il batterista Tony Lewis, il bassista acustico Richie Goods e il percussionista Edson "Café" da Silva per dare alla luce un lavoro in onore di suo padre, nel frattempo scomparso. Il progetto risulta senza dubbio riuscito: da un lato per la scelta del materiale musicale, dall’altro perché consente finalmente di poter apprezzare Bob Baldwin come pianista acustico pieno di talento. L'intero album è stato registrato in un giorno. La scaletta è composta per metà da brani composti da John Coltrane, Miles Davis, Herbie Hancock e Stevie Wonder. L'altra parte è caratterizzata invece da una manciata di composizioni originali di Baldwin con un'eccezione: "To Wisdom, The Prize" che è stato scritta da suo cugino Larry Willis. Willis è stato anche lui un pianista di spessore e qualità, che ha suonato nella band dei Blood, Sweat & Tears e per lungo tempo con Roy Hargrove e Hugh Masekela. Il cool jazz degli anni ’60 fu il periodo preferito dal papà di Bob e ovviamente la parte più importante della sua formazione musicale. Il progetto che sta dietro Songs My Father Would Dig è di grande importanza per il pianista newyorkese perché rappresenta l’apice della sua carriera, ma anche il mezzo che gli ha consentito di rendere omaggio nel migliore dei modi alla sua importante figura paterna, attraverso la scelta dei brani che egli preferiva. Una parte del jazz degli anni '60, ad eccezione del free e dell’avanguardia, aveva anche un leggero tocco soul e pop ed era forse più facile per chi non masticava molto la musica. Era piacevole, a volte leggero e alla fine divenne il trampolino di lancio per il jazz contemporaneo negli anni '70. In una riflessione personale riguardo al suo nuovo album Baldwin ha detto: “Mio padre era un uomo del Rinascimento, un maestro della fotografia, della musica e del biliardo. Da bambino, ho assorbito la sua grandezza, trascorrendo innumerevoli serate nel nostro soggiorno, che era un santuario pieno dei suoni delle leggende del jazz: quello è stato il luogo in cui è sbocciato il mio amore per la musica. Immergendomi in brani classici e standard jazz come "In a Sentimental Mood", "Misty" e "A Night In Tunisia" ho cercato di imparare con naturalezza l’essenza di questo affascinante linguaggio musicale. Questo lungo viaggio artistico mi ha portato ai Samurai Studios, dove ho trovato un pianoforte Steinway di oltre 100 anni con un sound ricco e cristallino, che ha donato alla sessione di registrazione quasi una comunione spirituale con mio padre. Era come se fosse presente, guidandomi attraverso la musica che è diventata Songs My Father Would Dig.” Tutto ciò si riflette appieno in questo bellissimo lavoro di Baldwin, nel quale i 4 musicisti sembrano davvero raggiungere una dimensione trascendente, spinti dai ricordi e dalle esperienze personali. C’è una sorta di abbandono al fluire della musica, uno straordinario interplay tra i musicisti stimolati in ultima analisi anche dallo stupendo materiale scelto. Di fatto è un vero piacere ascoltare un pianista talentuoso come Bob Baldwin alle prese finalmente con il jazz acustico più classico, senza alcuna mediazione elettronica. Solo un pianoforte, un contrabbasso, una batteria ed una spruzzata di percussioni. Tra i brani sono degni di nota tutte le cover proposte, come Equinox di Coltrane, Nardis di Bill Evans, Dolphin Dance di Hancock, Star Eyes di Parker ed una meravigliosa interpretazione di Overjoyed di Stevie Wonder. Le composizioni originali di Bob sono parimenti interessanti e denotano da parte del pianista una notevole padronanza del linguaggio jazzistico. A ribadire lo spessore del personaggio, oltre alla sua prolifica carriera come tastierista smooth jazz, Bob dal 2008 è conduttore e produttore di NewUrbanJazz Radio, un programma radiofonico a diffusione nazionale di grande successo. Songs My Father Would Dig è un bellissimo album, uno dei migliori dell’ultimo periodo: è godibile, fluido e piacevolmente sofisticato. La speranza è che Bob Baldwin continui a proporre questo stesso tipo di musica anche in futuro. Consigliato a tutti.

Rickey Kelly – Limited Stops Only

Rickey Kelly – Limited Stops Only

Non sono poi molti i vibrafonisti che hanno animato il mondo del jazz nel corso della sua storia. Alcuni di loro hanno raggiunto una certa fama, scrivendo anche delle pagine memorabili: Lionel Hampton, Milt Jackson, Gary Burton, Bobby Hutcherson, Mike Mainieri o Cal Tjader, per citarne alcuni. Altri sono rimasti maggiormente nell’ombra, non arrivando mai ad un vero successo. Tra questi c’è senza dubbio il talentuoso vibrafonista di San Francisco Rickey Kelly. Nonostante tutto egli ha tenuto duro nel difficile mondo del jazz, riuscendo anche a registrare tre album a suo nome. Come molti prima di lui, Kelly necessitava di un lavoro giornaliero per sostenere finanziariamente se stesso e la sua famiglia, la musica da sola non bastava. Tuttavia, dopo aver suonato con il leggendario Bobby Hutcherson, Rickey si trasferì a Los Angeles per studiare e perfezionare la sua arte. Fondò il gruppo d'avanguardia Roots Of Jazz ed in seguito decise di oltrepassare l’oceano e approdare ad Amsterdam. La sua prima registrazione da solista “My Kind Of Music” fu pubblicata proprio al suo ritorno negli USA. Al contempo diventò un turnista molto richiesto, lavorando con Sun Ra, Kenny Burrell, The Jazz Crusaders, Billy Higgins, Hubert Laws, Ahmad Jamal e Marvin Gaye. Nel 1983,  pubblicò Limited Stops Only che è probabilmente il suo album più riuscito. Pubblicato per la Nimbus Records, presentava un quintetto con David E. Tillman (piano), Sherman Ferguson (batteria), James Leary III (basso) e Dadisi Komolafe (flauto). L’album è una raccolta tanto di composizioni originali quanto di cover: sei tracce che mettono in mostra il talento unico di Kelly. Il lavoro è incentrato su un classico ensemble jazz e presenta un evidente tocco hard bop. Il primo brano è una vivace composizione originale intitolata “Distant Vibes”, virata nel linguaggio dell’hard bop. Kelly si esibisce subito nel primo assolo mettendo in mostra velocità e tecnica, in perfetta sinergia con la sezione ritmica. Il flauto di Komolafe si libra con freschezza, spinto da un contrabbasso molto incalzante. Tillman, a sua volta si propone con il suo bell’assolo di piano. E’ un inizio molto promettente che dà all'intero album la giusta prospettiva. Si passa poi ad una interessante cover di “Flying Colors”, ricca di swing. Kelly segue il ritmo con un fraseggio sicuro e fluido, giocando con il pianista David Tillman ad un dinamico scambio di assoli. Kelly trasforma il popolare standard di Jerome Kern, “Yesterdays”, in un classico pezzo di jazz puro e semplice, come fatto da molti altri artisti prima di lui, (Charles Mingus, Art Tatum, Bud Powell, Billie Holiday e Sonny Rollins per citarne alcuni) la base melodica e armonica viene trasformata e plasmata con un tocco personale. Dadisi Komolafe offre un assolo di flauto flessuoso per poi dare spazio al bravo James Leary che si esibisce in un vivace assolo di contrabbasso. Alla ripresa Kelly continua la sua performance ribadendo il suo spettacolare talento. Viene naturale constatare che Kelly prenda anche un brano del suo idolo Bobby Hutcherson: "Same Shame" il vibrafonista ne dà una lettura particolare, virata con una risonanza più lenta e atmosferica. E’ un pezzo quasi ipnotico ma Kelly ne cattura le sfumature melodiche proponendo qualcosa di maggiormente etereo. Il contrappunto armonico e i dettagli sonori, come l'eco del vibrafono o il vibrato del flauto, sono accattivanti. Il punto culminante dell’album probabilmente è la lunga versione di “Dolphin Dance” di Herbie Hancock. Ritorna il gioco tra vibrafono  e flauto, il tempo accelerato propone una versione opportunamente libera, sganciata dall’originale ma ugualmente affascinante. Sono due gli assoli offerti da Kelly, entrambi molto interessanti ed il delicato fraseggio del pianoforte di Tillman gioca un ruolo sinergico estremamente efficace. Il gran finale è riservato ad una lenta rilettura della celebre “Lush Life” di Billy Strayhorn: un netto cambio di ritmo che inserisce un tocco di romanticismo e delicatezza al programma. Kelly evidenzia le sue evidenti abilità strumentali nelle ballate, con Leary al basso suonato in maniera tradizionale ed anche con l’archetto. Il batterista Sherman Ferguson lavora con le spazzole per completare l'atmosfera di questo brano che è l’unico registrato in trio. Limited Stops Only è un gran bell’album, invero una gemma nascosta che vale la pena di ascoltare. Sarà apprezzato non solo dagli appassionati di quell’affascinante strumento che è il vibrafono, ma anche dai cultori dell’hard bop, a dispetto della data di pubblicazione, il 1983, ovvero un momento storico nel quale questo stile non trovava più grande spazio. Rickey Kelly è un musicista molto valido e tecnicamente ineccepibile, al quale semmai si può solo rimproverare di non aver registrato molto di più. Tra l’altro dal punto di vista sonoro il lavoro della Nimbus è encomiabile, con un mix uniformemente bilanciato e con una buona separazione stereo e la tonalità e gli effetti del vibrafono che sono resi con chiarezza e profondità. 

Gary Bias – East 101


Gary Bias – East 101

Gary Bias, è noto principalmente per la sua militanza nel mitico gruppo degli Earth, Wind And Fire, con i quali ha scritto pagine importanti della storia della band. Lui è però un musicista con una grande esperienza, che ha avuto una carriera rilevante anche prima di entrare nel famoso complesso dei fratelli White. Ha iniziato a suonare il sassofono all'età di undici anni e con il tempo ha sviluppato un timbro passionale ed evocativo che fluttua in modo intrigante in un mix tra jazz, funk e soul. Nonostante la sua considerevole esperienza ha però all’attivo solamente due album come solista: il primo del 1981 ed il secondo del 1999. Gary infatti ha messo per molti anni il suo sax al servizio di grandi artisti come Stevie Wonder, Quincy Jones e Whitney Houston. Curiosamente Bias è stato compagno di scuola di Gerald Albright, Patrice Rushen e Ndugu Chancler ed in seguito, mentre perseguiva la sua laurea in musica presso la California State University di Los Angeles, fu assunto per un tour con la Quincy Jones Orchestra. Dopo il college si unì al famoso artista di jazz latino, Willie Bobo, e poi andò in tournée addirittura con la Duke Ellington Orchestra. All'epoca aveva solo 23 anni. Un momento culminante nella carriera di Bias fu quando compose la celebre canzone "Sweet Love" portata al successo planetario da Anita Baker nel 1985. La melodia in oggetto gli è valsa un Grammy Award per la canzone R&B dell'anno. Il 1987, fu infine l’anno della vera svolta perché entrò a far parte della leggendaria band degli Earth, Wind and Fire. Il suo passo verso la prima linea, questo veterano del sax, lo fece con East 101, un album dai contenuti piuttosto impegnati e quasi sperimentali, fortemente orientati verso un linguaggio jazzistico moderno e decisamente lontano dalle atmosfere morbide ed orecchiabili delle sue usuali collaborazioni artistiche. La prima traccia dell'album è la straordinaria "Asiki", un brano di atmosfera ma di gran classe con Bias impegnato al sax soprano accompagnato dal vibrafonista Rickey Kelly e con uno straordinario assolo di David Tillman al pianoforte. "Dear Violet" è un brano che Gary Bias dedica a sua nonna: un momento molto spirituale nel suo approccio con il solo sassofono ed il basso nello stile di Pharoah Sanders. Una canzone che sembra quasi non voler mai iniziare veramente. "Arthur's Vamp" inizia con un bel basso: qui Bias mostra un feeling simile alle sonorità di Arthur Blythe (a cui ovviamente è dedicata la traccia). Ogni assolo è di ottima fattura ed è quasi in contrasto con il rilassato antipasto iniziale dell'album. La title track East 101 è invece più leggera e vivace e la band trova spazio per gli interventi dei singoli strumenti. Infine troviamo la jazzistica “As Children Play” dove si può ascoltare il sassofonista suonare il flauto. È un tema impostato su una ritmica di valzer jazz che mette in risalto ancora una volta l’abilità di David Tillman al pianoforte, dello stesso Bias anche al sassofono soprano e del bassista Roberto Miranda. L’album esprime una bellissima e onirica forma di jazz spirituale, registrata in un'epoca in cui questo linguaggio era ormai completamente fuori moda. East 101 di Gary Bias rimane un lavoro poco conosciuto anche per gli standard dei cultori più informati del jazz, forse anche perchè il suo approccio non proprio facile richiede molta attenzione da parte degli ascoltatori. In effetti questo genere di musica cessò di fatto di esistere intorno alla fine degli anni '70, lasciando spazio per altre contaminazioni e suggestioni molto più funk ed elettriche. Registrato con un cast di supporto di tutto rispetto con il vibrafonista Rickey Kelly, il bassista Roberto Miranda, Fritz Wise alla batteria ed il pianista David Tillman, Gary Bias svela qui per la prima volta tutto il suo talento, rimasto nascosto dietro alle collaborazioni con altri artisti. Una manciata di composizioni originali intrise di sentimento e dai grandi orizzonti, molto evocative e profonde in grado di colpire l’ascoltatore. Il suo flauto e il suo sassofono creano un jazz complesso, spesso virato nello stile modale, che rappresenta tanto una sfida quanto un momento confortante e meditativo. Gary è una voce forte del panorama jazzistico che avrebbe meritato senza dubbio una maggiore notorietà.

Kirk Fischer - Friends


Kirk Fischer - Friends

Kirk Fischer è un pianista ed un compositore texano ed è davvero poco noto, soprattutto fuori dagli USA. La sua particolarità sta in primis nel fatto che non è un professionista della musica perchè di fatto per lui la carriera musicale è una sorta di hobby. Kirk è un professore universitario, e solo grazie ad un caso ha potuto registrare un album a suo nome. Fin dagli anni ’90 Fischer ha coltivato la sua passione suonando e registrando nel suo studio di casa ed esibendosi dal vivo praticamente solo a livello locale, nell’area di Austin. La possibilità di produrre un disco è venuta solo dopo essere entrato in contatto con l’affermato trombettista Greg Adams. Fischer mai avrebbe potuto immaginare che il risultato di questa conoscenza sarebbe stato la pubblicazione del suo primo cd: dieci brani che mettono insieme alcune interessanti cover con le sue stesse composizioni. Ma il lavoro è arricchito anche da bellissimi arrangiamenti d’archi, e dalla potenza dei fiati dell’East Bay Soul guidati in prima persona da Greg Adams, la cui sopraffina produzione ha reso “Friends” una delle uscite di jazz contemporaneo più interessanti del 2017. Kirk Fischer ovviamente suona le tastiere, ed è accompagnato da diversi musicisti: Herman Matthews (batteria), Kay-Ta Matsuno (chitarra), Dwayne "Smitty" Smith (basso), Johnny Sandoval (percussioni), Greg Adams (tromba, flicorno) , Lee Thornburg (tromba, flicorno, trombone), Greg Vail (sax) e il ROQ Goddess String Quartet. Tutti dimostrano grande dedizione ed un apprezzabile vigore nel creare un'atmosfera armoniosa, orecchiabile, estremamente godibile. Qualcosa che sta tra i momenti più strumentali di Burt Bacharach, David Foster ed a tratti certa musica da commedia all’italiana degli anni ’70. Spruzzate di jazz, arrangiamenti sontuosi e molto buon gusto. L’esempio lampante è il brano che da il titolo all’album, che viene letteralmente portato ad un altro livello da una un'orchestra magnificamente arrangiata dove gli archi suadenti e i fiati vellutati creano un mood veramente piacevole. Con Dis 'Sup Kirk sceglie un approccio più contemporaneo: la band viaggia gagliardamente groovy con l’orchestra che dà più sapore a tutto il contesto. Se poi parliamo di cover, Fischer fa un ottimo lavoro con una versione innovativa del classico di Hall & Oates "Kiss On My List": morbida e vellutata. Un’altra interpretazione decisamente particolare è quella della celebre "The Way It Is" di Bruce Hornsby, stravolta quanto basta per essere quasi difficile da riconoscere. E poi c’è la vivace e potente "Thunder and Lightning" di Chi Coltrane, che Fischer esegue all’organo Hammond B3 con Greg Vail al sax. Ma in ultima analisi è proprio con i suoi pezzi originali che Kirk centra davvero il bersaglio. Il groove torna sovrano con le atmosfere smooth di "Bast Majority" grazie anche ad un uso impeccabile del sound potente dei fiati dell’East Bay Soul. "Open The Eyes Of My Heart" è costruita attorno ad un'altra performance di classe del sax di Greg Vail, mentre in "Blame It On Your Own Self"  Kirk Fischer mette in piena luce la sua abilità di pianista armonizzando al meglio per la sezione fiati che qui esplode in tutta la sua potenza espressiva. “Shades Of Grey” ha una melodia romantica ed accattivante, suona quasi come una colonna sonora di un film: malinconica ed intrigante. Infine “Reach Into Your Heart” è un po’ la summa di tutto il contenuto di Friends, raccogliendo al suo interno ogni suggestione ascoltata in questo bellissimo album. Anch’essa cinematica ed orecchiabile, non fa che confermare come Kirk Fischer sia riuscito a produrre un lavoro tanto eccellente quanto inatteso. Una rara sinergia traspare attraverso l’intero progetto, cosa che sprigiona entusiasmo e serenità, regalando momenti di musica estremamente godibile. Anche se Kirk Fischer (o forse proprio per questo) è un artista praticamente sconosciuto, mi sento di raccomandare a tutti l’ascolto di Friends.

 

Ray Obiedo - Twist


Ray Obiedo - Twist

Ray Obiedo è un settantaduenne chitarrista statunitense di origine latina con 50 anni di carriera alle spalle e ancora molto da dire per il futuro. Ray ha trascorso la sua giovinezza nella zona della baia, intorno a San Francisco. Sono stati Miles Davis, Antonio Carlos Jobim, Henry Mancini ed il sound della Motown Records ad influenzarlo. Ma l'influenza più grande, oltre ovviamente a quella latina, venne dalla band di James Brown, sul cui suono di chitarra funky e percussiva, Ray costruì la sua particolare tecnica. Collaborò con l’organista Johnny "Hammond" Smith nel 1974, poi con il trombonista Julian Priester, e andò in tournée in tutto il mondo nientemeno che con Herbie Hancock nel 1978-79. Non stupisce la sua lunga amicizia con il percussionista Pete Escovedo, per la comune matrice latina, ma può vantare di aver lavorato anche con George Duke, Lou Rawls, Grover Washington Jr., Bill Summers, Brenda Russell, The Whispers e più recentemente con la Bob Mintzer's Big Band. Inoltre alcune sue composizioni sono state utilizzate da molti grandi artisti. Il suo primo album da solista fu pubblicato nel 1989 e ad oggi sono 11 i lavori a suo nome. Obiedo è uscito da poco con un nuovo album, intitolato Twist, che come sempre è caratterizzato da un sapore latino declinato in perfetta armonia con un sound di jazz contemporaneo. La firma caratteristica della sua chitarra elettrica è facilmente riconoscibile e si distingue per la raffinatezza e l’equilibrio del fraseggio. Il disco inizia subito con un tema di stampo caraibico e gioioso da titolo "Caribe Nuevo", nella quale a catturare l’orecchio sono le steel drums di Jeff Narell, fratello del più famoso Andy. Nella title track è accompagnato dal grande Bob Mintzer (Yellowjackets), che esegue un bell’assolo di sax tenore in un tema che è senza dubbio di atmosfera latina ma con venature più jazzistiche. Con "Curacao" torniamo in un’orbita caraibica, dove la cantante Lilan Kane si occupa di un intervento vocale. La bossa brasiliana di "The First Thing" è impreziosita dalla bellissima voce di Chloé Jean, in un brano che sembra uscito da un disco di Jobim o Joao Gilberto e Ray Obiedo dà il suo tocco distintivo con la sua magica chitarra. Un tocco di West Coast Music viene portato dalla cover di "All Day Music" dei War: sound rilassato e dolcezza racchiusi in 4 minuti di raffinatezza. Questa rielaborazione di un classico degli anni ’70 vede la partecepazione dello straordinario percussionista Pete Escovedo e del figlio Pete Michael Escovedo. In "Alquezar" si può gustare lo Steel Pan di Andy Narell, la cui maestria nel suonare questo affascinante e singolare strumento è senza pari. "Enotea" è un bellissimo brano lento e rilassante, con le voci in sottofondo di Chloé Jean, Lilian Kane, Leah Tysse e Michelle Hawkins ed un bell’assolo di trombone del bravo Jeff Cressman. "Zulaya" alza un po' il ritmo e qui a cantare sono sia Sheila E. che Chloé Jean. Di certo le atmosfere caraibiche e più in generale i sapori latini non mancano in questo album e nerappresentano la connotazione generale più di altre influenze. Anche 'Lucky Break' chiude il disco con lo stesso tenore e lascia una piacevole sensazione di allegria e positività. Ray Obiedo è assistito da validissimi strumentisti come il sassofonista e flautista Norbert Stachel, il citato trombonista Jeff Cressman, il tastierista Peter Horvath e il batterista Phil Hawkins. L'acclamato batterista dei Tower of Power David Garibaldi e il bassista Marc van Wageningen aggiungono un tocco funk con i loro caratteristici groove. La formazione è completata dal tastierista dei Santana David K. Mathews e dal percussionista Karl Perazzo, che ovviamente apportano all’album il loro peculiare stile latino americano. Con il suo ultimo lavoro Twist, Ray dimostra ancora una volta di essere un chitarrista di talento che riesce sempre a creare, con il suo tocco magico, un’intrigante atmosfera latina spruzzata di jazz contemporaneo. Buon gusto, misura, ottima tecnica ed un indubbia capacità compositiva sono le sue cifre stilistiche, che abbinate ad una produzione eccellente ed ai valenti musicisti coinvolti nel progetto, consentono un ascolto gradevole e non scontato. 

Alexander Zonjic – Seldom Blues


Alexander Zonjic – Seldom Blues

Confesso che c'è stato un tempo in cui mi piaceva ascoltare lo smooth jazz, forse per la sua atmosfera quasi sempre morbida e orecchiabile. Tra gli strumenti meno inflazionati in questo genere musicale va annoverato certamente il flauto, tuttavia non sono mancate le eccezioni, un pò come avviene nel più complesso e serioso jazz classico. A questo proposito vorrei prendere in considerazione un flautista di indubbia tecnica e di spiccata versatilità come il canadese Alexander Zonjic. La vita musicale di Alexander Zonjic è la prova che il vero destino di un musicista non sempre si definisce nel momento in cui un giovane prende in mano il suo primo strumento. Cresciuto a Windsor, Ontario, Alexander rimase affascinato dalla musica britannica, cominciando a coltivare i suoi sogni con una chitarra all'età di nove anni e poi al liceo dove suonava in una band R&B. La storia racconta che all'età di 21 anni, quando Zonjic era a casa durante una pausa da un tour, uno sconosciuto che lo aveva visto suonare gli offrì un flauto, molto probabilmente rubato, per 50 dollari. E Zonjic lo comprò per molto meno. "Mi piaceva come appariva nella sua custodia", ricorda Zonjic. “Padroneggiarlo fu subito una sfida e provai un desiderio irrefrenabile di suonarlo così come una passione immediata. Poi ho avuto il coraggio di tentare un'audizione per il programma musicale dell'Università di Windsor: in questo modo ho cominciato la mia avventura, e poi la mia formazione classica”. Per quanto riguarda il jazz, mentre suonava al Baker's Keyboard Lounge di Detroit, Zonjic incontrò Bob James, che rimase così colpito dalla sua bravura che chiese al giovane flautista di unirsi alla sua band. La collaborazione diede come frutto un decennio di tournée internazionali negli anni '80, sfociando infine in due registrazioni negli anni '90. Dopo aver inquadrato il personaggio, va detto che Alexander Zonjic è davvero  un bravo flautista, che tipicamente si circonda di talenti di prim'ordine e produce album di una certa raffinatezza. Zonjic non fece eccezione nel 2004 quando pubblicò Seldom Blues, forte di una valida schiera di collaboratori. L'elenco dei musicisti dell'album comprende dunque ben 16 artisti ospiti, tra i quali tastieristi/programmatori e cantanti ed altri strumentisti. Ci sono ad esempio i fratelli Kirk e Kevin Whalum, Angela Bofill, Earl Klugh, Jeff Lorber e Peter White, tra gli altri. Seldom Blues è un classico progetto smooth jazz degli anni duemila, ricercato e di classe, ma anche un po’ asettico e ripetitivo. Per contro è piacevole che per una volta sia il flauto lo strumento principale, piuttosto che il sempre popolare ma inflazionato sassofono. Inoltre Alexander Zonjic è un flautista esperto e di grande talento che riesce a creare una sensazione eterea e fluttuante in grado di dare una dimensione diversa e più attraente ai ritmi spesso un po' monotoni delle programmazioni elettroniche. Tuttavia, è esattamente questo il difetto principale di un album altrimenti di buona fattura: l’approccio stereotipato alle tracce ritmiche. In fondo non c'è niente di sbagliato nell'usare strumenti moderni per migliorare le proprie idee musicali, ma un uso massivo dell'elettronica può diventare a volte banale e troppo piatto. Lo stile di Zonjic è eccellente ovunque, così come le voci e gli assoli degli altri musicisti, ma le ritmiche create dalla tecnologia trasmettono decisamente un senso di mancanza di originalità, il che sminuisce la qualità complessiva del suono. In ultima analisi l’album è una mezza occasione perduta, però Seldom Blues sa comunque farsi apprezzare, complice il sempre ottimo fraseggio del flauto di Zonjic, che dello strumento è un vero maestro. E i cantanti ospiti arricchiscono il menù. Prendiamo ad esempio Kem, impegnato nella title track dell'album: la sua voce calda e rilassante, in contrapposizione al flauto di Zonjic, crea un'atmosfera intrigante. Un altro esempio di buona qualità nella combinazione tra flauto e voce è rappresentato da "Spill the Wine". E’ Kevin Whalum ad accompagnare Zonjic in questo bel brano che lascia comunque il segno per orecchiabilità e piacevolezza. Il maestro Bob James è il principale artefice della programmazione, ma Zonjic impiega anche il talento di James Lloyd dei Pieces of a Dream. Tra gli altri  pezzi forti ci sono "Isabela", con influenze latine e "Under the Moon and Over the Sky" con  la vocalist Angela Bofill, che contribuisce magnificamente con la sua voce caratteristica. Certo una sezione ritmica reale, con un basso ed una batteria, avrebbero fatto un’enorme differenza tra un album al più orecchiabile e un lavoro di ben altro spessore. Alla fine ogni brano del disco, valutato per quello che è, ha un bel groove e può essere gradevole ed adatto a molti stati d'animo. Seldom Blues è un album non essenziale, ma risulta sufficientemente accattivante per una fruizione di facile ascolto, senza impegno.

Resolution 88 - Revolutions


Resolution 88 - Revolutions

I Resolution 88 sono una giovane band inglese di cui mi sono già occupato qualche tempo indietro, parlandone in termini assolutamente lusinghieri. Ad oggi possono vantare già quattro album al loro attivo, dei quali l’ultimo “Vortex” è uscito ieri e sarà oggetto di una recensione non appena ne verrò in possesso. La loro musica è dominata dal suono setoso e fluido del piano elettrico Fender Rhodes. Ma il loro valore non è racchiuso solo in questo, anzi c’è molto di più: questi ragazzi di Cambridge sono un gruppo genuino, sono una ventata di freschezza e vera spontaneità musicale. In un panorama artistico sempre più dominato dalla musica liquida online e da fin troppo banali video più o meno virali, sanno distinguersi per la loro perizia tecnica, ma anche per la creatività. I Resolution 88 sono amici che amano suonare insieme e forgiare la propria musica secondo le inclinazioni personali: questa sincerità è evidente sia nelle loro canzoni che nella palese chimica reciproca sul palco. Già con l'uscita dei loro primi due album e gli spettacoli dal vivo a supporto di Snarky Puppy, Roy Ayers, Marcus Miller, Larry Mizell & the Blackbyrds, Butcher Brown e degli Yellowjackets, i Resolution 88 si sono affermati come uno dei gruppi più interessanti nel panorama del funk jazz nel Regno Unito. I giovani musicisti hanno pubblicato nel 2019 il loro terzo album in studio, intitolato Revolutions ed ancora una volta sono riusciti a combinare la loro passione per il classico jazz-funk degli anni '70 con un sound  moderno ed al passo con i tempi. Il tastierista Tom O'Grady ha talento ed inventiva da vendere, essendo inoltre la figura chiave del gruppo. Ha composto e arrangiato l'intero album, a parte i testi della sesta traccia Dig Deep, che sono scritti ed eseguiti dal cantante Marcus Tenney. O'Grady utilizza inoltre un favoloso set di tastiere classiche come Rhodes, Wurlitzer e Clavinet D6, che quando vengono impiegate aggiungono il classico calore vintage a qualsiasi brano. Sono strumenti che hanno letteralmente definito il sound del jazz funk attraverso il lavoro di alcuni grandi musicisti come George Duke, Chick Corea e Herbie Hancock, o ancora Ramsey Lewis e Bob James. A testimonianza di una reverente ammirazione, la band arriva a citare direttamente il mitico Herbie Hancock, ringraziandolo, nelle note di copertina del disco. Il modo di suonare il sax di Alex Hitchcock apporta un grande elemento melodico, cosa palese in particolare nel primo pezzo, Pitching Up, e poi nel riff tortuoso, ispirato al bebop, della title track. Ogni traccia di "Revolutions" rappresenta un aspetto della musica quando viene riprodotta su vinile. La sezione ritmica è eccezionalmente serrata, con Tiago Coimbra al basso, Ric Elsworth alla batteria e il percussionista Oli Blake che creano una sinergia molto efficace, arricchita proprio dai colori delle percussioni. I cinque ragazzi si circondano nell'album di alcuni musicisti ospiti, inclusa una sezione di archi che appare in modo discreto e non continuo. I fiati vengono utilizzati nella quarta traccia Runout Groove, contribuendo con lampi luminosi e funky. "Sample Hunter", non troppo inaspettatamente, è letteralmente intrisa del piano elettrico Rhodes. E’ il tipo di feeling che i produttori cercavano quando l'hip hop era una delle correnti più stimolanti degli anni '90. La produzione è eccellente ed in tutto Revolutions alcuni deliziosi effetti elettronici si fondono con un'acustica sempre frizzante e calda. Matrix è uno dei pezzi forti, con un basso potente che sostiene il suono brillante dei sintetizzatori: si ispira ai messaggi nascosti, a volte celati nelle matrici delle stampe dei dischi. In "Tracking Force" puoi sentire il ritmo torcersi e trasformarsi mentre lo stilo del giradischi scorre sul disco. Infine "Warped Memories" chiude l'album con una melodia malinconica e vagamente enigmatica. "Revolutions" si porta dietro alcune novità per il gruppo: è la prima volta che i Resolution 88 registrano su un mixer multitraccia, la prima volta che hanno incluso in un album una vera sezione di archi e ottoni ed anche la prima volta che hanno incluso ospiti speciali in un loro disco. Inoltre hanno finalmente reso disponibile anche una versione su vinile di un loro lavoro, il che ha un senso visto il tema dell’album. Immaginate una combinazione tra un ipotetico album inedito di Herbie Hancock della metà degli anni '70, qualche tocco preso dall'era d'oro dell'hip hop e del drum’n’bass ed il nuovo sound londinese di band come Yussef Kamaal. Revolutions è un lavoro fantastico ed in più riesce a definire anche uno standard elevato per l'attuale jazz-funk britannico e non solo. Non resta che accomodarsi in poltrona, davanti al proprio impianto hi-fi, rilassarsi con ciò che più ci piace e far partire questo album, godendoselo dall'inizio alla fine. Le stesse buone vibrazioni elargite dai primi due album sono ancora ben presenti anche su Revolutions, confermando i Resolution 88 come una delle realtà più interessanti dell’intero panorama musicale.

Citrus Sun - Anaconga


Citrus Sun - Anaconga

La formazione dei Citrus Sun è un progetto parallelo di Jean-Paul 'Bluey' Maunick, noto per aver fondato la band acid jazz degli Incognito, che tuttora guida con grande successo. Questo straordinario collettivo musicale, a differenza dei più popolari “cugini”, permette a Bluey di esplorare una jazz-fusion molto più strumentale e complessa, operazione che conduce insieme ad alcuni dei suoi più fidati collaboratori. Sebbene i Citrus Sun non abbiano una formazione fissa, come nei precedenti album, anche questo ultimo lavoro intitolato Anaconga, presenta molti degli stessi musicisti che militano negli Incognito. Il progetto Citrus Sun è nato nel 2000 con un primo album intitolato Another Time Another Space: non ci fu un seguito fino al 2014, cosa che fece sembrare il gruppo come un esperimento destinato a non avere futuro, schiacciato dal successo planetario degli Incognito. Invece dal 2014 in poi sono stati pubblicati altri 4 lavori con una cadenza piuttosto regolare: Citrus Sun non è stato dunque qualcosa di effimero ed anzi appare oggi una band dinamica ed in piena fase crescente. I musicisti conivolti sono: Jean-Paul 'Bluey' Maunick (chitarra, leader), Richard Bailey (batteria), Tony Momrelle e Deborah Bond (cori), Natalie Duncan (voce), Dominic Glover (tromba, flicorno), Charlie Allen (chitarra), Kevin Robinson (tromba e flicorno), Rega Dauna (armonica) e Graham Harvey alle tastiere. I Citrus Sun approdano con Anaconga al loro quinto album e molti dei brani sono un omaggio ad alcuni importanti artisti sia del passato che più recenti. Le atmosfere come al solito sono sofisticate, raffinatissime, curate in ogni dettaglio e caratterizzate dal classico sound che Bluey riesce ad infondere in ogni sua produzione. Ovviamente, pur mantenendo un’affinità con la musica degli Incognito, i Citrus Sun danno molto più spazio agli strumentali ed inoltre gli arrangiamenti, peraltro bellissimi, vedono un uso più limitati delle sezioni fiati.  L'album si apre con la canzone Mister Mellow. Questa è una traccia strumentale tratta dall'album "Conquistador" di Maynard Ferguson del 1977. Questo brano eccezionale presenta addirittura George Benson alla chitarra come ospite d'onore. Bluey rende omaggio alla leggenda del jazz con la sua cover, scegliendo una struttura interpretativa moderna ma fedele alla melodia originale, proponendo la stessa progressione armonica in modo tale che la canzone mantenga il suo carattere. Un’altra cover eccellente è Honey di Erykah Badu: la cantante soul britannica Natalie Duncan dona alla canzone un nuovo timbro, perfettamente supportata da Kevin Robinson alla tromba e al flicorno. Anche Mystic Brew è un remake: si tratta di un brano jazz funky del tastierista Ronnie Foster. La versione di Bluey anche in questo caso riprende l’atmosfera originale del brano e la ridefinisce in una veste contemporanea. Ma non si ferma qui infatti nell'ultima parte della canzone sviluppa ulteriormente il tema con il suo stile personale ed inconfondibile. Il piano elettrico del formidabile Graham Harvey è la ciliegina sulla torta. Non manca un omaggio al compianto ed indimenticato cantante Bobby Caldwell. La sua canzone Down For The Third Time è stata pubblicata nel 1978 ma corrisponde alle idee contemporanee della band sia in termini di approccio stilistico che di strumentazione. Natalie Duncan coglie l'occasione per portare la propria personalità vocale nel remake. Ma anche gli interventi strumentali di Dominic Glover e Charlie Allen donano alla canzone nuovi lampi di brillantezza. Twilight Reimagined è finalmente un originale firmato dal collettivo: è caratterizzato dal suono morbido della tromba, che conferisce al tutto un carattere etereo, onirico e scintillante. The Boy Beneath The Sea è nel pieno territorio dello smooth jazz strumentale con una venatura di jazz fusion. We Fight We Love è un brano armonioso in cui la tromba è al centro della scena. Il titolo In Search of the Blue Note evoca un viaggio nel mondo del jazz: la ricerca dell'inafferrabile “nota blu”che ogni musicista jazz insegue sempre. Dominic Glover al flicorno e Graham Harvey alle tastiere sono gli strumentisti principali di questo brano, che secondo Bluey è "ispirato alla storia del jazz e alla vita notturna di New York City". Entrambi sono presenti anche nella interessante Sing To My Beat, che è principalmente strumentale. La traccia finale Santiago si distingue per via dello strumento protagonista che in questo caso è l’armonica. L'artista in primo piano è la giovane armonicista indonesiana Rega Dauna, che è già apparsa nella hit strumentale della band Hard Boiled, presente nel loro ultimo album Expansions & Visions. Una menzione speciale va attribuita alla sezione ritmica che, complice la presenza del fenomeno Richard Bailey e del bravissimo bassista Francis Hylton, fornisce un supporto dinamico straordinario, tanto preciso quanto gagliardo. Il quinto album dei Citrus Sun, Anaconga, è un tributo alle leggende del jazz funk e del soul, che da sempre hanno portato loro una inesauribile fonte d’ispirazione. Pur differenziandosi leggermente dal loro approccio precedente, la formazione guidata dal vulcanico Bluey conserva il suo carattere stilistico inimitabile e sottolinea le sue eccezionali qualità con un eccellente livello di esecuzione e di raffinatezza. Per i fan degli Incognito è ovviamente un album imperdibile, ma è un’ottima alternativa anche per tutti gli amanti della buona musica.

Brandford Marsalis - Renaissance


Brandford Marsalis - Renaissance

In generale sono in molti a credere che il jazz abbia raggiunto il suo apice tra l’inizio e la fine degli anni '60, ovvero prima della sua controversa svolta elettrica sfociata all’inizio nelle contaminazioni funk e rock e poi più avanti nello smooth jazz. In realtà verso la fine degli anni ’80 emersero alcuni nuovi e giovani talenti come, tra gli altri, i fratelli Marsalis, i fratelli Brecker o Chico Freeman e Joshua Redman che abbracciarono lo spirito dei bei tempi del jazz. Inoltre molti veterani, a lungo affascinati  dalla fusion, come Freddie Hubbard, Joe Henderson o lo stesso Herbie Hancock, tornarono alle radici della musica afroamericana optando per le classiche soluzioni acustiche. In queste ultime il jazz ritrovò  una nuova e forse mai sopita serietà e integrità artistica, tanto apprezzata quanto forse inattesa. Brandford Marsalis, il più giovane dei due fratelli, sassofonista di talento, rappresenta al meglio questa nuova tendenza, ponendosi ai vertici di una fresca ventata di ritorno alla tradizione, pur non disdegnando escursioni in varianti più leggere e contemporanee (famosa è la sua collaborazione con Sting, ad esempio). Branford deriva il proprio stile da John Coltrane e dal post bop, ma è dotato di una propria personalità ed inventiva musicale che si rivela soprattutto quando improvvisa o suona dal vivo. Siamo nel 1988 e l’uscita di un album come Renaissance non ha fatto altro che ribadire la bravura e la creatività del giovane Brandford. In quel preciso momento storico, questo disco rappresentò una delle uscite più entusiasmanti per quanto riguarda il sassofono: un degno seguito al precedente Royal Garden Blues del 1986. I due fratelli Wynton e Branford, quando quest'ultimo lasciò il quintetto del primo, scelsero di intraprendere carriere separate con i propri quartetti: a ciascun dei due venne a mancare lo strumento dell’altro. Le band con un solo strumento a fiato (tromba o sassofono) creano una musica intima, vulnerabile e molto rivelatrice, con una grande responsabilità affidata al solista. Wynton sembrava sempre più un razionale e iper tecnico tradizionalista, sia nelle sue registrazioni classiche che in quelle jazz, con una sua personale ossessione per il suono ed il ritmo assolutamente canonici. Branford, per contro, forse con non meno tecnica, si esprimeva molto più spontaneamente, proprio per la gioia di suonare. Le sue registrazioni erano più libere, più rilassate, meno tese: semplicemente più swing e più groovy. Renaissance inizia con la vertiginosa "Just One of those Things", seguita da "Lament" di J.J. Johnson, una melodia sofisticata in cui Marsalis fa sua la malinconia di Dexter Gordon senza però indulgere alla tristezza. Dopo il breve assolo di piano di Kirkland, Marsalis ritorna con un’altra performance di spessore. Ciò che segue è "The Peacocks" di Jimmy Rowles, la vera chiave di volta dell'album, un brano di 15 minuti dai toni impressionisti, in cui Marsalis esibisce tutta la sua poesia musicale e la sua lirica espressività. Herbie Hancock e Buster Williams lo accompagnano in questo lungo assolo, riempiendo con discrezione e delicatezza la composizione. E’ un pezzo che emana grande pace e ariosità ma con un alone di mistero: il sax soprano di Marsalis tratteggia una mutevole e sensuale melodia dove le sorprese armoniche abbondano. Si può dire senza esagerare che "The Peacocks" sia proprio allo stesso livello di "Naima" di Coltrane e "Footsteps" e "Penelope" di Wayne Shorter, giusto per inquadrarne meglio l’atmosfera. Il proseguimento dell'album è tutto più movimentato e dinamico. "Love Stone" di Tony Williams alterna con grazia il ritmo e qui il tono caldo e morbido del tenore di Marsalis compensa meravigliosamente il tortuoso turbinio di note del suo assolo. "Citadel", sempre di Williams ricorda le melodie più spigolose di Shorter degli ultimi Weather Report, inizia con il tenore e finisce con il soprano. Marsalis, che è un vero maestro del sax soprano, nel suo "The Wrath (Structured Burnout)" evidenzia come i suoi assoli siano danzanti, liquidamente geometrici, intricati e fluidi al tempo stesso. In ultimo c’è il tributo a Sonny Rollins con la popolare "St. Thomas": il brano è stato registrato dal vivo su un portatile Sony e suonato con un'ancia molto rigida. eseguito senza accompagnamento, mette in mostra tutta la perizia di Marsalis nell’interpretare un brano complesso in perfetta solitudine. In tutti i sette brani, tranne due, la band di base è Marsalis sax, Kirkland piano, Hurst basso e Tony Williams batteria. La sezione ritmica è molto solida e viva: Kenny Kirkland è un pianista che ormai da molto tempo è tra i jazzisti più talentuosi sulla piazza. Tony Williams rimane un grande batterista come sempre, irrequieto e dinamico come pochi. Bob Hurst è parimenti un poderoso contrabbassista in grado di offrire un accompagnamento serrato e pulsante. Sul finire degli anni '80, in mezzo ad un mare di jazz smaccatamente commerciale, fortemente contaminato dal funk, dall’r&b e dalla musica easy listening, Renaissance fu un album straordinario, in grado di consacrare lo straordinario talento jazzistico del giovane Brandford Marsalis. Insieme ad altre nuove leve, rampanti ed ambiziose rappresentò al meglio una nuova tendenza che ricollocava il jazz nella sua giusta dimensione. E’ un ascolto che consiglio caldamente.

George Duke - The George Duke Quartet Presented By The Jazz Workshop 1966 Of San Francisco


George Duke - The George Duke Quartet Presented By The Jazz Workshop 1966 Of San Francisco

George Duke è stato senza ombra di dubbio uno dei principali esponenti del movimento jazz fusion, in particolare negli ’70. Fu inoltre il tastierista di Frank Zappa negli album "The Grand Wazoo", "Over-Nite Sensation" e "One Size Fits All" e collaborò nel 1969 con il violinista Jean -Luc Ponty. In seguito intraprese una strada musicale via via  sempre più commerciale, in ogni caso all'insegna della raffinatezza e della classe. Sebbene Duke fosse principalmente un tastierista, egli padroneggiava anche il sassofono, il flauto, il basso e il trombone, strumenti tuttavia mai più utilizzati personalmente negli anni del grande successo discografico. George è stato un artista solista piuttosto prolifico e ha pubblicato la bellezza di 35 album prima della sua prematura scomparsa avvenuta all'età di 67 anni nel 2013. Qui mi occuperò del suo album di debutto, dal titolo piuttosto lungo: The George Duke Quartet Presented By The Jazz Workshop 1966 Of San Francisco. Prima di qualsiasi svolta elettrica, molto tempo avanti anche dell’incontro con Zappa, questa registrazione ci permette di ascoltare un George Duke che suonerà inedito e probabilmente anche inatteso. Impegnato in un contesto di puro hard bop, questa fu davvero l’unica registrazione di jazz mainstream di Duke, in quel momento ventenne e perciò ha un valore particolarmente significativo e si rivela piuttosto interessante. L’album, per la verità registrato non proprio al top dal punto di vista della presa sonora, è nato dalla collaborazione del tastierista con un famoso jazz club della San Francisco degli anni '60, che si chiamava proprio Jazz Workshop. L'intero progetto si materializzò in modo repentino mentre Duke studiava al Conservatorio di San Francisco: stava esibendosi nel club, quando una sera è stato avvicinato dal proprietario della Saba Records, Hans Georg Brunner-Schwer che gli chiese espressamente di registrare un album. Il giovane George non voleva crederci, ma firmò un contratto e questa registrazione è il risultato di quell'incontro. Il quartetto era composto da Duke, qui esclusivamente al pianoforte acustico, David Simmons alla tromba, John Heard al contrabbasso e George Walker alla batteria. Le sessioni di registrazione furono incredibilmente rapide: se ne giova la spontaneità e la freschezza, stimolata anche dalla gioventù dei musicisti. Il nostro Duke avrà tempo nel suo futuro per produrre dischi molto più patinati ed estremamente raffinati. Ma qui siamo in un altro territorio: c’è un evidente tributo al grande John Coltrane dei suoi anni post-bop. Nonostante ciò questo album suona molto più vicino al jazz in voga tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60.  In verità il progetto fu organizzato dal pianista senza esperienza e nessun materiale preparato in anticipo, anche per questo il sound che viene fuori offre un jazz dal suono serrato ma piuttosto tradizionale per l’epoca. E’ interessante sapere che la registrazione ha richiesto solo sei ore per essere completata, la qual cosa lo rende in effetti una sorta di album dal vivo in studio in cui tutto accade di getto, senza pensarci troppo. Sebbene George Duke abbia sempre affermato che questo è il suo album più debole, tuttavia non è affatto un brutto lavoro, va preso per quello che è, in realtà un frettoloso inizio di carriera. Certo le performance immortalate in quel lontano 1966 sono tutt'altro che sconvolgenti, ma si tratta di un debutto, organizzato e suonato in fretta e furia. Però fu proprio così che George Duke riuscì  ad attirare l'attenzione di cui aveva bisogno per far avanzare la sua carriera abbastanza rapidamente. Ci sarebbero comunque voluti altri tre anni prima che la collaborazione con Luc-Ponty prendesse forma, ma da quel momento (fine anni ’60) per Duke cominciò un flusso ininterrotto di album come solista, corroborato dalle collaborazioni con il genio di Frank Zappa, che avrebbero tenuto occupato il nostro grande George per il resto dei suoi giorni. La musica da lui suonata e composta si allontanerà presto in maniera quasi definitiva dal jazz, abbracciando molti generi: di sicuro il funk, la fusion, il rock, financo la disco ed in ultimo lo smooth jazz. The George Duke Quartet Presented By The Jazz Workshop 1966 Of San Francisco non è certo il tipo di album per il quale la critica si entusiasma, ma propone la prospettiva appropriata di un artista emergente, proprio come "Takin' Off" di Herbie Hancock. (Lavoro che appare comunque più consistente e rifinito). Ci consente di ascoltare gli esordi mainstream di un paladino del jazz funk alle prese con un set acustico, esclusivamente con il pianoforte, in una collezione di sei brani hard bop tutti ottimamente eseguiti, per lo più ad alta velocità. Sfortunatamente l’album è privo di un timbro artistico memorabile ed è sicuramente un po’ grezzo: il meglio di se stesso Duke lo diede in seguito, in un ambito fusion, evidentemente in quella che era la sua naturale e più congeniale dimensione. Tuttavia la registrazione è apprezzabile e di certo rappresenta un unicum nella lunga carriera di un personaggio come George Duke, che è stato uno straordinario artista ed un uomo di grande sensibilità.

Brad Mehldau - The Art of the Trio Volume Three


Brad Mehldau - The Art of the Trio Volume Three

Brad Mehldau, musicista statunitense classe 1970, è salito alla ribalta giovanissimo, addirittura ventenne, negli anni novanta. Pianista di formazione classica, si è presto convertito al jazz. Cresciuto artisticamente sulle orme e sotto l'influenza del famoso e straordinario pianista Bill Evans, a cui palesemente si ispira, da lui ha ereditato una spiccata capacità armonica ed una marcata sensibilità introspettiva. Mehldau è senza dubbio una delle voci più liriche ed intime del pianoforte jazz contemporaneo: ha forgiato un percorso unico, che incarna l’essenza dell’esplorazione jazzistica, del romanticismo classico e del fascino pop. La personalità musicale di Mehldau si estrinseca in una sorta di dicotomia artistica. È prima di tutto un improvvisatore e apprezza in particolare la bellezza che può derivare dall’esprimere un'idea musicale spontaneamente, così come viene, in altre parole quasi in tempo reale. Ma Mehldau nutre anche un profondo fascino per l'architettura formale della musica, e questa filosofia  permea tutto ciò che esegue. Nel suo modo di suonare sempre ispirato, la struttura del suo pensiero musicale è  più che altro un veicolo espressivo. Mentre tocca i tasti del suo pianoforte, ascolta come si sviluppano le idee e perfino l'ordine in cui esse si rivelano. Ogni suo brano ha un arco narrativo definito, sia che abbia un inizio ed una fine determinati, sia che appaia come qualcosa di intenzionalmente aperto ed indeterminato. I due lati della personalità di Mehldau, l’improvviszione e la forma, si contrappongono creando a volte un effetto simile ad una sorta di caos controllato. "Art of the Trio Vol. 3" è il terzo album della serie "Art of the Trio" del pianista, pubblicato nel 1999 ( dunque a 29 anni). Detto che il contesto del trio è anche quello dove probabilmente Mehldau si esprime al suo massimo, qui è accompagnato dal bassista Larry Grenadier e dal batterista Jorge Rossy, ovvero il duo di musicisti che più di altri hanno collaborato con lui. L'album è considerato uno dei lavori più significativi di Mehldau ed è uno tra i più acclamati dal pubblico: senz’altro un momento saliente nella sua carriera. Le tracce dell'album sono un mix di composizioni originali di Mehldau più alcune cover di canzoni di altri artisti, comprese pezzi dei Beatles, Nick Drake e Paul Simon. L'esecuzione di Mehldau  è evidentemente caratterizzata dalla sua tecnica virtuosistica e dalla sua capacità di improvvisare in piena libertà. Il pianista mette in mostra anche una profonda comprensione dell'armonia e della melodia e la capacità di costruire un'interpretazione unica delle composizioni di altri artisti. Uno dei momenti di picco dell'album è la sua versione di "River Man" di Nick Drake, in cui  trasforma la canzone del cantautore in una ballata contemplativa ed introspettiva, mettendo in piena luce la sua sensibilità musicale. Un'altra traccia interessante è la sua composizione originale "Unrequited", dove crea un'atmosfera malinconica ed evocativa che mette in risalto il suo virtuosismo e la sua creatività. "Art of the Trio Vol. 3" è stato un successo commerciale e di critica fin dalla sua uscita, e si è poi confermato nel corso degli anni come un perfetto esempio di jazz pianistico. Mehldau ha quindi consolidato la sua reputazione come uno dei pianisti più importanti della sua generazione. L'influenza di queste bellissime tracce è viva nelle opere di molti pianisti jazz cresciuti negli anni successivi. Insieme a Michel Petrucciani, dal quale tuttavia si distingue abbastanza chiaramente, Brad Mehldau va considerato come il principale erede del genio di Bill Evans, avendone colto tutta l’eredità tecnica e soprattutto gran parte della proverbiale sensibilità artistica. Il suo è un post-bop dalle tinte cool, segnato da un brillante estro melodico ed echi di new age: è un ascolto imperdibile per qualsiasi pianista e più in generale per ogni appassionato di jazz. 

Anthony Jackson/ Yiorgos Fakanas - Interspirit


Anthony Jackson/ Yiorgos Fakanas - Interspirit

Anthony Jackson viene considerato uno dei grandi maestri del basso elettrico. A lui si deve anche lo sviluppo del moderno basso a sei corde, da lui definito "chitarra contrabbasso". L’elenco delle sue collaborazioni è così lungo che non è possibile sintetizzarlo in poche righe. Per brevità citerò solamente Dizzy Gillespie, Buddy Rich, Paul Simon, Roberta Flack, Michel Petrucciani, Mike Stern, Quincy Jones, Madonna, Pat Metheny, Michel Camilo e gli Steely Dan. Considerato una figura leggendaria della musica moderna, ha mosso i suoi primi passi con il pianoforte e la chitarra, per poi passare al basso elettrico, influenzato dal bassista della Motown James Jamerson. Jackson ha partecipato a oltre 3.000 sessioni di registrazione e si può quindi affermare che sia uno degli artisti più prolifici di sempre. Tuttavia, in una carriera lunga quattro decenni, ha sempre rifiutato le offerte di registrare un album da solista fino all'incontro con il greco Yiorgos Fakanas, avvenuto nel 2010, che gli ha proposto di produrre un album cointestato. Il risultato è Interspirit, un lavoro di fusion dal suono originale, che riunisce i migliori musicisti greci con i più quotati artisti americani specializzati nel genere, tra i quali Mitchel Forman alle tastiere, Frank Gambale alla chitarra e l’eccezionale batterista Dave Weckl. Quindi Anthony Jackson dopo una lunghissima carriera da sideman di lusso, ha finalmente deciso di registrare a suo nome un disco del quale condivide la titolarità con il collega bassista Yiorgos Fakanas. Quest’ultimo ha scritto tutta la musica di Interspirit e si prende carico di tutti e cinque gli assoli di basso. La musica, tuttavia, è stata composta pensando al formidabile talento di Jackson, e le sue folte schiere di ammiratori saranno comunque deliziate dalle linee di basso che qui è possibile apprezzare pienamente. Il suo modo di suonare richiede un attento ascolto al cospetto di una orchestrazione multi strumentale, con il risultato di un’architettura sonora fusion e funk ricchissima di complesse linee melodiche e armoniche. La musica di Interspirit spazia dall'intensità dei Return to Forever ad un terreno più accessibile ispirato ad uno smooth jazz in stile Bob James. La maggior parte delle composizioni sono arrangiate con l’utilizzo di una sezione di ottoni ed il sound ha i connotati di una piccola big band, che a tratti vede impegnati contemporaneamente fino ad un massimo di quattordici musicisti. Sia Jackson che Fakanas sono interessati alla musica classica e ciò è confermato da "Cuore Vibes Part 1", che presenta la Kinisis String Quartet of Colors Orchestra. E’ un bellissimo pezzo d'atmosfera che fonde viola, violino e violoncello, con l'aggiunta di Tasos Kazaglis al double bass. Fakanas è poi intrigato dalla commistione tra la musica classica ed il jazz e infatti "Cuore Vibes Part 2" unisce l'ensemble d'archi con una formazione completa di musicisti jazz fusion. E’ particolare il fatto che in questo brano si possano ascoltare tre bassisti contemporaneamente, con Kazaglis che suona nelle ottave superiori, a differenza di Jackson e Fakanas che si occupano di quelle gravi. Il trombettista Mihail Iosifov esegue un delizioso assolo con la  sordina e il formidabile Mitchel Forman si distingue al pianoforte: tuttavia questo è un pezzo principalmente corale. Anthony Jackson non si prende alcuno spazio per esibirsi in assoli e di fatto non rompe con la sua tradizionale cifra stilistica. Il suo ruolo in Interspirit, così come è avvenuto sempre nel corso degli anni, è quello di abbellire la musica, di rifinirla ma anche di strutturarla. Le tessiture del suo basso come accompagnatore hanno tutto il carattere di assoli funzionali al ritmo ed all’armonia dei brani. La musica di Interspirit spazia in territori ampi e variegati. Si va dalla tipica fusion della impressionante "Inner Power", con una sezione di ottoni di sette elementi, al funk di "Interspirit", al già citato mix classico/jazz di "Cuore Vibes Part 2" e "Seviglia". Quest'ultimo numero presenta l'ottima chitarra acustica di Frank Gambale ed un assolo molto intrigante del sassofonista tenore Tony Lakatos. L'unico brano non originale è una nuova reinterpretazione del classico di Wayne Shorter "Footprints", con un impressionante esecuzione all'unisono tra Jackson e il flautista Takis Paterelis, che suona anche il sax alto ed il soprano. E’ una proposta musicale molto originale quella che scaturisce da questo cd d’esordio come solista di Anthony Jackson. Sebbene nel complesso l’album possa essere classificato a grandi linee come fusion, è la melodia ad essere in primo piano, e i numerosi ed impressionanti assoli sono per contro piuttosto brevi e sono funzionali ad esaltare piuttosto il quadro d’insieme. Il greco Fakanas, sia che utilizzi il basso elettrico jazz o il fretless, regge il confronto con il suo leggendario collega. La prestazione di Jackson è sempre melodica e precisa ma al contempo profonda e brillante, a testimonianza di un talento straordinario finalmente libero di esprimersi non soltanto da session man così come da sfavillante solista. Interspirit è una delle registrazioni fusion più originali degli ultimi tempi e una valida alternativa nel piatto panorama musicale attuale.