Ray Obiedo - Twist


Ray Obiedo - Twist

Ray Obiedo è un settantaduenne chitarrista statunitense di origine latina con 50 anni di carriera alle spalle e ancora molto da dire per il futuro. Ray ha trascorso la sua giovinezza nella zona della baia, intorno a San Francisco. Sono stati Miles Davis, Antonio Carlos Jobim, Henry Mancini ed il sound della Motown Records ad influenzarlo. Ma l'influenza più grande, oltre ovviamente a quella latina, venne dalla band di James Brown, sul cui suono di chitarra funky e percussiva, Ray costruì la sua particolare tecnica. Collaborò con l’organista Johnny "Hammond" Smith nel 1974, poi con il trombonista Julian Priester, e andò in tournée in tutto il mondo nientemeno che con Herbie Hancock nel 1978-79. Non stupisce la sua lunga amicizia con il percussionista Pete Escovedo, per la comune matrice latina, ma può vantare di aver lavorato anche con George Duke, Lou Rawls, Grover Washington Jr., Bill Summers, Brenda Russell, The Whispers e più recentemente con la Bob Mintzer's Big Band. Inoltre alcune sue composizioni sono state utilizzate da molti grandi artisti. Il suo primo album da solista fu pubblicato nel 1989 e ad oggi sono 11 i lavori a suo nome. Obiedo è uscito da poco con un nuovo album, intitolato Twist, che come sempre è caratterizzato da un sapore latino declinato in perfetta armonia con un sound di jazz contemporaneo. La firma caratteristica della sua chitarra elettrica è facilmente riconoscibile e si distingue per la raffinatezza e l’equilibrio del fraseggio. Il disco inizia subito con un tema di stampo caraibico e gioioso da titolo "Caribe Nuevo", nella quale a catturare l’orecchio sono le steel drums di Jeff Narell, fratello del più famoso Andy. Nella title track è accompagnato dal grande Bob Mintzer (Yellowjackets), che esegue un bell’assolo di sax tenore in un tema che è senza dubbio di atmosfera latina ma con venature più jazzistiche. Con "Curacao" torniamo in un’orbita caraibica, dove la cantante Lilan Kane si occupa di un intervento vocale. La bossa brasiliana di "The First Thing" è impreziosita dalla bellissima voce di Chloé Jean, in un brano che sembra uscito da un disco di Jobim o Joao Gilberto e Ray Obiedo dà il suo tocco distintivo con la sua magica chitarra. Un tocco di West Coast Music viene portato dalla cover di "All Day Music" dei War: sound rilassato e dolcezza racchiusi in 4 minuti di raffinatezza. Questa rielaborazione di un classico degli anni ’70 vede la partecepazione dello straordinario percussionista Pete Escovedo e del figlio Pete Michael Escovedo. In "Alquezar" si può gustare lo Steel Pan di Andy Narell, la cui maestria nel suonare questo affascinante e singolare strumento è senza pari. "Enotea" è un bellissimo brano lento e rilassante, con le voci in sottofondo di Chloé Jean, Lilian Kane, Leah Tysse e Michelle Hawkins ed un bell’assolo di trombone del bravo Jeff Cressman. "Zulaya" alza un po' il ritmo e qui a cantare sono sia Sheila E. che Chloé Jean. Di certo le atmosfere caraibiche e più in generale i sapori latini non mancano in questo album e nerappresentano la connotazione generale più di altre influenze. Anche 'Lucky Break' chiude il disco con lo stesso tenore e lascia una piacevole sensazione di allegria e positività. Ray Obiedo è assistito da validissimi strumentisti come il sassofonista e flautista Norbert Stachel, il citato trombonista Jeff Cressman, il tastierista Peter Horvath e il batterista Phil Hawkins. L'acclamato batterista dei Tower of Power David Garibaldi e il bassista Marc van Wageningen aggiungono un tocco funk con i loro caratteristici groove. La formazione è completata dal tastierista dei Santana David K. Mathews e dal percussionista Karl Perazzo, che ovviamente apportano all’album il loro peculiare stile latino americano. Con il suo ultimo lavoro Twist, Ray dimostra ancora una volta di essere un chitarrista di talento che riesce sempre a creare, con il suo tocco magico, un’intrigante atmosfera latina spruzzata di jazz contemporaneo. Buon gusto, misura, ottima tecnica ed un indubbia capacità compositiva sono le sue cifre stilistiche, che abbinate ad una produzione eccellente ed ai valenti musicisti coinvolti nel progetto, consentono un ascolto gradevole e non scontato. 

Alexander Zonjic – Seldom Blues


Alexander Zonjic – Seldom Blues

Confesso che c'è stato un tempo in cui mi piaceva ascoltare lo smooth jazz, forse per la sua atmosfera quasi sempre morbida e orecchiabile. Tra gli strumenti meno inflazionati in questo genere musicale va annoverato certamente il flauto, tuttavia non sono mancate le eccezioni, un pò come avviene nel più complesso e serioso jazz classico. A questo proposito vorrei prendere in considerazione un flautista di indubbia tecnica e di spiccata versatilità come il canadese Alexander Zonjic. La vita musicale di Alexander Zonjic è la prova che il vero destino di un musicista non sempre si definisce nel momento in cui un giovane prende in mano il suo primo strumento. Cresciuto a Windsor, Ontario, Alexander rimase affascinato dalla musica britannica, cominciando a coltivare i suoi sogni con una chitarra all'età di nove anni e poi al liceo dove suonava in una band R&B. La storia racconta che all'età di 21 anni, quando Zonjic era a casa durante una pausa da un tour, uno sconosciuto che lo aveva visto suonare gli offrì un flauto, molto probabilmente rubato, per 50 dollari. E Zonjic lo comprò per molto meno. "Mi piaceva come appariva nella sua custodia", ricorda Zonjic. “Padroneggiarlo fu subito una sfida e provai un desiderio irrefrenabile di suonarlo così come una passione immediata. Poi ho avuto il coraggio di tentare un'audizione per il programma musicale dell'Università di Windsor: in questo modo ho cominciato la mia avventura, e poi la mia formazione classica”. Per quanto riguarda il jazz, mentre suonava al Baker's Keyboard Lounge di Detroit, Zonjic incontrò Bob James, che rimase così colpito dalla sua bravura che chiese al giovane flautista di unirsi alla sua band. La collaborazione diede come frutto un decennio di tournée internazionali negli anni '80, sfociando infine in due registrazioni negli anni '90. Dopo aver inquadrato il personaggio, va detto che Alexander Zonjic è davvero  un bravo flautista, che tipicamente si circonda di talenti di prim'ordine e produce album di una certa raffinatezza. Zonjic non fece eccezione nel 2004 quando pubblicò Seldom Blues, forte di una valida schiera di collaboratori. L'elenco dei musicisti dell'album comprende dunque ben 16 artisti ospiti, tra i quali tastieristi/programmatori e cantanti ed altri strumentisti. Ci sono ad esempio i fratelli Kirk e Kevin Whalum, Angela Bofill, Earl Klugh, Jeff Lorber e Peter White, tra gli altri. Seldom Blues è un classico progetto smooth jazz degli anni duemila, ricercato e di classe, ma anche un po’ asettico e ripetitivo. Per contro è piacevole che per una volta sia il flauto lo strumento principale, piuttosto che il sempre popolare ma inflazionato sassofono. Inoltre Alexander Zonjic è un flautista esperto e di grande talento che riesce a creare una sensazione eterea e fluttuante in grado di dare una dimensione diversa e più attraente ai ritmi spesso un po' monotoni delle programmazioni elettroniche. Tuttavia, è esattamente questo il difetto principale di un album altrimenti di buona fattura: l’approccio stereotipato alle tracce ritmiche. In fondo non c'è niente di sbagliato nell'usare strumenti moderni per migliorare le proprie idee musicali, ma un uso massivo dell'elettronica può diventare a volte banale e troppo piatto. Lo stile di Zonjic è eccellente ovunque, così come le voci e gli assoli degli altri musicisti, ma le ritmiche create dalla tecnologia trasmettono decisamente un senso di mancanza di originalità, il che sminuisce la qualità complessiva del suono. In ultima analisi l’album è una mezza occasione perduta, però Seldom Blues sa comunque farsi apprezzare, complice il sempre ottimo fraseggio del flauto di Zonjic, che dello strumento è un vero maestro. E i cantanti ospiti arricchiscono il menù. Prendiamo ad esempio Kem, impegnato nella title track dell'album: la sua voce calda e rilassante, in contrapposizione al flauto di Zonjic, crea un'atmosfera intrigante. Un altro esempio di buona qualità nella combinazione tra flauto e voce è rappresentato da "Spill the Wine". E’ Kevin Whalum ad accompagnare Zonjic in questo bel brano che lascia comunque il segno per orecchiabilità e piacevolezza. Il maestro Bob James è il principale artefice della programmazione, ma Zonjic impiega anche il talento di James Lloyd dei Pieces of a Dream. Tra gli altri  pezzi forti ci sono "Isabela", con influenze latine e "Under the Moon and Over the Sky" con  la vocalist Angela Bofill, che contribuisce magnificamente con la sua voce caratteristica. Certo una sezione ritmica reale, con un basso ed una batteria, avrebbero fatto un’enorme differenza tra un album al più orecchiabile e un lavoro di ben altro spessore. Alla fine ogni brano del disco, valutato per quello che è, ha un bel groove e può essere gradevole ed adatto a molti stati d'animo. Seldom Blues è un album non essenziale, ma risulta sufficientemente accattivante per una fruizione di facile ascolto, senza impegno.

Resolution 88 - Revolutions


Resolution 88 - Revolutions

I Resolution 88 sono una giovane band inglese di cui mi sono già occupato qualche tempo indietro, parlandone in termini assolutamente lusinghieri. Ad oggi possono vantare già quattro album al loro attivo, dei quali l’ultimo “Vortex” è uscito ieri e sarà oggetto di una recensione non appena ne verrò in possesso. La loro musica è dominata dal suono setoso e fluido del piano elettrico Fender Rhodes. Ma il loro valore non è racchiuso solo in questo, anzi c’è molto di più: questi ragazzi di Cambridge sono un gruppo genuino, sono una ventata di freschezza e vera spontaneità musicale. In un panorama artistico sempre più dominato dalla musica liquida online e da fin troppo banali video più o meno virali, sanno distinguersi per la loro perizia tecnica, ma anche per la creatività. I Resolution 88 sono amici che amano suonare insieme e forgiare la propria musica secondo le inclinazioni personali: questa sincerità è evidente sia nelle loro canzoni che nella palese chimica reciproca sul palco. Già con l'uscita dei loro primi due album e gli spettacoli dal vivo a supporto di Snarky Puppy, Roy Ayers, Marcus Miller, Larry Mizell & the Blackbyrds, Butcher Brown e degli Yellowjackets, i Resolution 88 si sono affermati come uno dei gruppi più interessanti nel panorama del funk jazz nel Regno Unito. I giovani musicisti hanno pubblicato nel 2019 il loro terzo album in studio, intitolato Revolutions ed ancora una volta sono riusciti a combinare la loro passione per il classico jazz-funk degli anni '70 con un sound  moderno ed al passo con i tempi. Il tastierista Tom O'Grady ha talento ed inventiva da vendere, essendo inoltre la figura chiave del gruppo. Ha composto e arrangiato l'intero album, a parte i testi della sesta traccia Dig Deep, che sono scritti ed eseguiti dal cantante Marcus Tenney. O'Grady utilizza inoltre un favoloso set di tastiere classiche come Rhodes, Wurlitzer e Clavinet D6, che quando vengono impiegate aggiungono il classico calore vintage a qualsiasi brano. Sono strumenti che hanno letteralmente definito il sound del jazz funk attraverso il lavoro di alcuni grandi musicisti come George Duke, Chick Corea e Herbie Hancock, o ancora Ramsey Lewis e Bob James. A testimonianza di una reverente ammirazione, la band arriva a citare direttamente il mitico Herbie Hancock, ringraziandolo, nelle note di copertina del disco. Il modo di suonare il sax di Alex Hitchcock apporta un grande elemento melodico, cosa palese in particolare nel primo pezzo, Pitching Up, e poi nel riff tortuoso, ispirato al bebop, della title track. Ogni traccia di "Revolutions" rappresenta un aspetto della musica quando viene riprodotta su vinile. La sezione ritmica è eccezionalmente serrata, con Tiago Coimbra al basso, Ric Elsworth alla batteria e il percussionista Oli Blake che creano una sinergia molto efficace, arricchita proprio dai colori delle percussioni. I cinque ragazzi si circondano nell'album di alcuni musicisti ospiti, inclusa una sezione di archi che appare in modo discreto e non continuo. I fiati vengono utilizzati nella quarta traccia Runout Groove, contribuendo con lampi luminosi e funky. "Sample Hunter", non troppo inaspettatamente, è letteralmente intrisa del piano elettrico Rhodes. E’ il tipo di feeling che i produttori cercavano quando l'hip hop era una delle correnti più stimolanti degli anni '90. La produzione è eccellente ed in tutto Revolutions alcuni deliziosi effetti elettronici si fondono con un'acustica sempre frizzante e calda. Matrix è uno dei pezzi forti, con un basso potente che sostiene il suono brillante dei sintetizzatori: si ispira ai messaggi nascosti, a volte celati nelle matrici delle stampe dei dischi. In "Tracking Force" puoi sentire il ritmo torcersi e trasformarsi mentre lo stilo del giradischi scorre sul disco. Infine "Warped Memories" chiude l'album con una melodia malinconica e vagamente enigmatica. "Revolutions" si porta dietro alcune novità per il gruppo: è la prima volta che i Resolution 88 registrano su un mixer multitraccia, la prima volta che hanno incluso in un album una vera sezione di archi e ottoni ed anche la prima volta che hanno incluso ospiti speciali in un loro disco. Inoltre hanno finalmente reso disponibile anche una versione su vinile di un loro lavoro, il che ha un senso visto il tema dell’album. Immaginate una combinazione tra un ipotetico album inedito di Herbie Hancock della metà degli anni '70, qualche tocco preso dall'era d'oro dell'hip hop e del drum’n’bass ed il nuovo sound londinese di band come Yussef Kamaal. Revolutions è un lavoro fantastico ed in più riesce a definire anche uno standard elevato per l'attuale jazz-funk britannico e non solo. Non resta che accomodarsi in poltrona, davanti al proprio impianto hi-fi, rilassarsi con ciò che più ci piace e far partire questo album, godendoselo dall'inizio alla fine. Le stesse buone vibrazioni elargite dai primi due album sono ancora ben presenti anche su Revolutions, confermando i Resolution 88 come una delle realtà più interessanti dell’intero panorama musicale.

Citrus Sun - Anaconga


Citrus Sun - Anaconga

La formazione dei Citrus Sun è un progetto parallelo di Jean-Paul 'Bluey' Maunick, noto per aver fondato la band acid jazz degli Incognito, che tuttora guida con grande successo. Questo straordinario collettivo musicale, a differenza dei più popolari “cugini”, permette a Bluey di esplorare una jazz-fusion molto più strumentale e complessa, operazione che conduce insieme ad alcuni dei suoi più fidati collaboratori. Sebbene i Citrus Sun non abbiano una formazione fissa, come nei precedenti album, anche questo ultimo lavoro intitolato Anaconga, presenta molti degli stessi musicisti che militano negli Incognito. Il progetto Citrus Sun è nato nel 2000 con un primo album intitolato Another Time Another Space: non ci fu un seguito fino al 2014, cosa che fece sembrare il gruppo come un esperimento destinato a non avere futuro, schiacciato dal successo planetario degli Incognito. Invece dal 2014 in poi sono stati pubblicati altri 4 lavori con una cadenza piuttosto regolare: Citrus Sun non è stato dunque qualcosa di effimero ed anzi appare oggi una band dinamica ed in piena fase crescente. I musicisti conivolti sono: Jean-Paul 'Bluey' Maunick (chitarra, leader), Richard Bailey (batteria), Tony Momrelle e Deborah Bond (cori), Natalie Duncan (voce), Dominic Glover (tromba, flicorno), Charlie Allen (chitarra), Kevin Robinson (tromba e flicorno), Rega Dauna (armonica) e Graham Harvey alle tastiere. I Citrus Sun approdano con Anaconga al loro quinto album e molti dei brani sono un omaggio ad alcuni importanti artisti sia del passato che più recenti. Le atmosfere come al solito sono sofisticate, raffinatissime, curate in ogni dettaglio e caratterizzate dal classico sound che Bluey riesce ad infondere in ogni sua produzione. Ovviamente, pur mantenendo un’affinità con la musica degli Incognito, i Citrus Sun danno molto più spazio agli strumentali ed inoltre gli arrangiamenti, peraltro bellissimi, vedono un uso più limitati delle sezioni fiati.  L'album si apre con la canzone Mister Mellow. Questa è una traccia strumentale tratta dall'album "Conquistador" di Maynard Ferguson del 1977. Questo brano eccezionale presenta addirittura George Benson alla chitarra come ospite d'onore. Bluey rende omaggio alla leggenda del jazz con la sua cover, scegliendo una struttura interpretativa moderna ma fedele alla melodia originale, proponendo la stessa progressione armonica in modo tale che la canzone mantenga il suo carattere. Un’altra cover eccellente è Honey di Erykah Badu: la cantante soul britannica Natalie Duncan dona alla canzone un nuovo timbro, perfettamente supportata da Kevin Robinson alla tromba e al flicorno. Anche Mystic Brew è un remake: si tratta di un brano jazz funky del tastierista Ronnie Foster. La versione di Bluey anche in questo caso riprende l’atmosfera originale del brano e la ridefinisce in una veste contemporanea. Ma non si ferma qui infatti nell'ultima parte della canzone sviluppa ulteriormente il tema con il suo stile personale ed inconfondibile. Il piano elettrico del formidabile Graham Harvey è la ciliegina sulla torta. Non manca un omaggio al compianto ed indimenticato cantante Bobby Caldwell. La sua canzone Down For The Third Time è stata pubblicata nel 1978 ma corrisponde alle idee contemporanee della band sia in termini di approccio stilistico che di strumentazione. Natalie Duncan coglie l'occasione per portare la propria personalità vocale nel remake. Ma anche gli interventi strumentali di Dominic Glover e Charlie Allen donano alla canzone nuovi lampi di brillantezza. Twilight Reimagined è finalmente un originale firmato dal collettivo: è caratterizzato dal suono morbido della tromba, che conferisce al tutto un carattere etereo, onirico e scintillante. The Boy Beneath The Sea è nel pieno territorio dello smooth jazz strumentale con una venatura di jazz fusion. We Fight We Love è un brano armonioso in cui la tromba è al centro della scena. Il titolo In Search of the Blue Note evoca un viaggio nel mondo del jazz: la ricerca dell'inafferrabile “nota blu”che ogni musicista jazz insegue sempre. Dominic Glover al flicorno e Graham Harvey alle tastiere sono gli strumentisti principali di questo brano, che secondo Bluey è "ispirato alla storia del jazz e alla vita notturna di New York City". Entrambi sono presenti anche nella interessante Sing To My Beat, che è principalmente strumentale. La traccia finale Santiago si distingue per via dello strumento protagonista che in questo caso è l’armonica. L'artista in primo piano è la giovane armonicista indonesiana Rega Dauna, che è già apparsa nella hit strumentale della band Hard Boiled, presente nel loro ultimo album Expansions & Visions. Una menzione speciale va attribuita alla sezione ritmica che, complice la presenza del fenomeno Richard Bailey e del bravissimo bassista Francis Hylton, fornisce un supporto dinamico straordinario, tanto preciso quanto gagliardo. Il quinto album dei Citrus Sun, Anaconga, è un tributo alle leggende del jazz funk e del soul, che da sempre hanno portato loro una inesauribile fonte d’ispirazione. Pur differenziandosi leggermente dal loro approccio precedente, la formazione guidata dal vulcanico Bluey conserva il suo carattere stilistico inimitabile e sottolinea le sue eccezionali qualità con un eccellente livello di esecuzione e di raffinatezza. Per i fan degli Incognito è ovviamente un album imperdibile, ma è un’ottima alternativa anche per tutti gli amanti della buona musica.

Brandford Marsalis - Renaissance


Brandford Marsalis - Renaissance

In generale sono in molti a credere che il jazz abbia raggiunto il suo apice tra l’inizio e la fine degli anni '60, ovvero prima della sua controversa svolta elettrica sfociata all’inizio nelle contaminazioni funk e rock e poi più avanti nello smooth jazz. In realtà verso la fine degli anni ’80 emersero alcuni nuovi e giovani talenti come, tra gli altri, i fratelli Marsalis, i fratelli Brecker o Chico Freeman e Joshua Redman che abbracciarono lo spirito dei bei tempi del jazz. Inoltre molti veterani, a lungo affascinati  dalla fusion, come Freddie Hubbard, Joe Henderson o lo stesso Herbie Hancock, tornarono alle radici della musica afroamericana optando per le classiche soluzioni acustiche. In queste ultime il jazz ritrovò  una nuova e forse mai sopita serietà e integrità artistica, tanto apprezzata quanto forse inattesa. Brandford Marsalis, il più giovane dei due fratelli, sassofonista di talento, rappresenta al meglio questa nuova tendenza, ponendosi ai vertici di una fresca ventata di ritorno alla tradizione, pur non disdegnando escursioni in varianti più leggere e contemporanee (famosa è la sua collaborazione con Sting, ad esempio). Branford deriva il proprio stile da John Coltrane e dal post bop, ma è dotato di una propria personalità ed inventiva musicale che si rivela soprattutto quando improvvisa o suona dal vivo. Siamo nel 1988 e l’uscita di un album come Renaissance non ha fatto altro che ribadire la bravura e la creatività del giovane Brandford. In quel preciso momento storico, questo disco rappresentò una delle uscite più entusiasmanti per quanto riguarda il sassofono: un degno seguito al precedente Royal Garden Blues del 1986. I due fratelli Wynton e Branford, quando quest'ultimo lasciò il quintetto del primo, scelsero di intraprendere carriere separate con i propri quartetti: a ciascun dei due venne a mancare lo strumento dell’altro. Le band con un solo strumento a fiato (tromba o sassofono) creano una musica intima, vulnerabile e molto rivelatrice, con una grande responsabilità affidata al solista. Wynton sembrava sempre più un razionale e iper tecnico tradizionalista, sia nelle sue registrazioni classiche che in quelle jazz, con una sua personale ossessione per il suono ed il ritmo assolutamente canonici. Branford, per contro, forse con non meno tecnica, si esprimeva molto più spontaneamente, proprio per la gioia di suonare. Le sue registrazioni erano più libere, più rilassate, meno tese: semplicemente più swing e più groovy. Renaissance inizia con la vertiginosa "Just One of those Things", seguita da "Lament" di J.J. Johnson, una melodia sofisticata in cui Marsalis fa sua la malinconia di Dexter Gordon senza però indulgere alla tristezza. Dopo il breve assolo di piano di Kirkland, Marsalis ritorna con un’altra performance di spessore. Ciò che segue è "The Peacocks" di Jimmy Rowles, la vera chiave di volta dell'album, un brano di 15 minuti dai toni impressionisti, in cui Marsalis esibisce tutta la sua poesia musicale e la sua lirica espressività. Herbie Hancock e Buster Williams lo accompagnano in questo lungo assolo, riempiendo con discrezione e delicatezza la composizione. E’ un pezzo che emana grande pace e ariosità ma con un alone di mistero: il sax soprano di Marsalis tratteggia una mutevole e sensuale melodia dove le sorprese armoniche abbondano. Si può dire senza esagerare che "The Peacocks" sia proprio allo stesso livello di "Naima" di Coltrane e "Footsteps" e "Penelope" di Wayne Shorter, giusto per inquadrarne meglio l’atmosfera. Il proseguimento dell'album è tutto più movimentato e dinamico. "Love Stone" di Tony Williams alterna con grazia il ritmo e qui il tono caldo e morbido del tenore di Marsalis compensa meravigliosamente il tortuoso turbinio di note del suo assolo. "Citadel", sempre di Williams ricorda le melodie più spigolose di Shorter degli ultimi Weather Report, inizia con il tenore e finisce con il soprano. Marsalis, che è un vero maestro del sax soprano, nel suo "The Wrath (Structured Burnout)" evidenzia come i suoi assoli siano danzanti, liquidamente geometrici, intricati e fluidi al tempo stesso. In ultimo c’è il tributo a Sonny Rollins con la popolare "St. Thomas": il brano è stato registrato dal vivo su un portatile Sony e suonato con un'ancia molto rigida. eseguito senza accompagnamento, mette in mostra tutta la perizia di Marsalis nell’interpretare un brano complesso in perfetta solitudine. In tutti i sette brani, tranne due, la band di base è Marsalis sax, Kirkland piano, Hurst basso e Tony Williams batteria. La sezione ritmica è molto solida e viva: Kenny Kirkland è un pianista che ormai da molto tempo è tra i jazzisti più talentuosi sulla piazza. Tony Williams rimane un grande batterista come sempre, irrequieto e dinamico come pochi. Bob Hurst è parimenti un poderoso contrabbassista in grado di offrire un accompagnamento serrato e pulsante. Sul finire degli anni '80, in mezzo ad un mare di jazz smaccatamente commerciale, fortemente contaminato dal funk, dall’r&b e dalla musica easy listening, Renaissance fu un album straordinario, in grado di consacrare lo straordinario talento jazzistico del giovane Brandford Marsalis. Insieme ad altre nuove leve, rampanti ed ambiziose rappresentò al meglio una nuova tendenza che ricollocava il jazz nella sua giusta dimensione. E’ un ascolto che consiglio caldamente.

George Duke - The George Duke Quartet Presented By The Jazz Workshop 1966 Of San Francisco


George Duke - The George Duke Quartet Presented By The Jazz Workshop 1966 Of San Francisco

George Duke è stato senza ombra di dubbio uno dei principali esponenti del movimento jazz fusion, in particolare negli ’70. Fu inoltre il tastierista di Frank Zappa negli album "The Grand Wazoo", "Over-Nite Sensation" e "One Size Fits All" e collaborò nel 1969 con il violinista Jean -Luc Ponty. In seguito intraprese una strada musicale via via  sempre più commerciale, in ogni caso all'insegna della raffinatezza e della classe. Sebbene Duke fosse principalmente un tastierista, egli padroneggiava anche il sassofono, il flauto, il basso e il trombone, strumenti tuttavia mai più utilizzati personalmente negli anni del grande successo discografico. George è stato un artista solista piuttosto prolifico e ha pubblicato la bellezza di 35 album prima della sua prematura scomparsa avvenuta all'età di 67 anni nel 2013. Qui mi occuperò del suo album di debutto, dal titolo piuttosto lungo: The George Duke Quartet Presented By The Jazz Workshop 1966 Of San Francisco. Prima di qualsiasi svolta elettrica, molto tempo avanti anche dell’incontro con Zappa, questa registrazione ci permette di ascoltare un George Duke che suonerà inedito e probabilmente anche inatteso. Impegnato in un contesto di puro hard bop, questa fu davvero l’unica registrazione di jazz mainstream di Duke, in quel momento ventenne e perciò ha un valore particolarmente significativo e si rivela piuttosto interessante. L’album, per la verità registrato non proprio al top dal punto di vista della presa sonora, è nato dalla collaborazione del tastierista con un famoso jazz club della San Francisco degli anni '60, che si chiamava proprio Jazz Workshop. L'intero progetto si materializzò in modo repentino mentre Duke studiava al Conservatorio di San Francisco: stava esibendosi nel club, quando una sera è stato avvicinato dal proprietario della Saba Records, Hans Georg Brunner-Schwer che gli chiese espressamente di registrare un album. Il giovane George non voleva crederci, ma firmò un contratto e questa registrazione è il risultato di quell'incontro. Il quartetto era composto da Duke, qui esclusivamente al pianoforte acustico, David Simmons alla tromba, John Heard al contrabbasso e George Walker alla batteria. Le sessioni di registrazione furono incredibilmente rapide: se ne giova la spontaneità e la freschezza, stimolata anche dalla gioventù dei musicisti. Il nostro Duke avrà tempo nel suo futuro per produrre dischi molto più patinati ed estremamente raffinati. Ma qui siamo in un altro territorio: c’è un evidente tributo al grande John Coltrane dei suoi anni post-bop. Nonostante ciò questo album suona molto più vicino al jazz in voga tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60.  In verità il progetto fu organizzato dal pianista senza esperienza e nessun materiale preparato in anticipo, anche per questo il sound che viene fuori offre un jazz dal suono serrato ma piuttosto tradizionale per l’epoca. E’ interessante sapere che la registrazione ha richiesto solo sei ore per essere completata, la qual cosa lo rende in effetti una sorta di album dal vivo in studio in cui tutto accade di getto, senza pensarci troppo. Sebbene George Duke abbia sempre affermato che questo è il suo album più debole, tuttavia non è affatto un brutto lavoro, va preso per quello che è, in realtà un frettoloso inizio di carriera. Certo le performance immortalate in quel lontano 1966 sono tutt'altro che sconvolgenti, ma si tratta di un debutto, organizzato e suonato in fretta e furia. Però fu proprio così che George Duke riuscì  ad attirare l'attenzione di cui aveva bisogno per far avanzare la sua carriera abbastanza rapidamente. Ci sarebbero comunque voluti altri tre anni prima che la collaborazione con Luc-Ponty prendesse forma, ma da quel momento (fine anni ’60) per Duke cominciò un flusso ininterrotto di album come solista, corroborato dalle collaborazioni con il genio di Frank Zappa, che avrebbero tenuto occupato il nostro grande George per il resto dei suoi giorni. La musica da lui suonata e composta si allontanerà presto in maniera quasi definitiva dal jazz, abbracciando molti generi: di sicuro il funk, la fusion, il rock, financo la disco ed in ultimo lo smooth jazz. The George Duke Quartet Presented By The Jazz Workshop 1966 Of San Francisco non è certo il tipo di album per il quale la critica si entusiasma, ma propone la prospettiva appropriata di un artista emergente, proprio come "Takin' Off" di Herbie Hancock. (Lavoro che appare comunque più consistente e rifinito). Ci consente di ascoltare gli esordi mainstream di un paladino del jazz funk alle prese con un set acustico, esclusivamente con il pianoforte, in una collezione di sei brani hard bop tutti ottimamente eseguiti, per lo più ad alta velocità. Sfortunatamente l’album è privo di un timbro artistico memorabile ed è sicuramente un po’ grezzo: il meglio di se stesso Duke lo diede in seguito, in un ambito fusion, evidentemente in quella che era la sua naturale e più congeniale dimensione. Tuttavia la registrazione è apprezzabile e di certo rappresenta un unicum nella lunga carriera di un personaggio come George Duke, che è stato uno straordinario artista ed un uomo di grande sensibilità.

Brad Mehldau - The Art of the Trio Volume Three


Brad Mehldau - The Art of the Trio Volume Three

Brad Mehldau, musicista statunitense classe 1970, è salito alla ribalta giovanissimo, addirittura ventenne, negli anni novanta. Pianista di formazione classica, si è presto convertito al jazz. Cresciuto artisticamente sulle orme e sotto l'influenza del famoso e straordinario pianista Bill Evans, a cui palesemente si ispira, da lui ha ereditato una spiccata capacità armonica ed una marcata sensibilità introspettiva. Mehldau è senza dubbio una delle voci più liriche ed intime del pianoforte jazz contemporaneo: ha forgiato un percorso unico, che incarna l’essenza dell’esplorazione jazzistica, del romanticismo classico e del fascino pop. La personalità musicale di Mehldau si estrinseca in una sorta di dicotomia artistica. È prima di tutto un improvvisatore e apprezza in particolare la bellezza che può derivare dall’esprimere un'idea musicale spontaneamente, così come viene, in altre parole quasi in tempo reale. Ma Mehldau nutre anche un profondo fascino per l'architettura formale della musica, e questa filosofia  permea tutto ciò che esegue. Nel suo modo di suonare sempre ispirato, la struttura del suo pensiero musicale è  più che altro un veicolo espressivo. Mentre tocca i tasti del suo pianoforte, ascolta come si sviluppano le idee e perfino l'ordine in cui esse si rivelano. Ogni suo brano ha un arco narrativo definito, sia che abbia un inizio ed una fine determinati, sia che appaia come qualcosa di intenzionalmente aperto ed indeterminato. I due lati della personalità di Mehldau, l’improvviszione e la forma, si contrappongono creando a volte un effetto simile ad una sorta di caos controllato. "Art of the Trio Vol. 3" è il terzo album della serie "Art of the Trio" del pianista, pubblicato nel 1999 ( dunque a 29 anni). Detto che il contesto del trio è anche quello dove probabilmente Mehldau si esprime al suo massimo, qui è accompagnato dal bassista Larry Grenadier e dal batterista Jorge Rossy, ovvero il duo di musicisti che più di altri hanno collaborato con lui. L'album è considerato uno dei lavori più significativi di Mehldau ed è uno tra i più acclamati dal pubblico: senz’altro un momento saliente nella sua carriera. Le tracce dell'album sono un mix di composizioni originali di Mehldau più alcune cover di canzoni di altri artisti, comprese pezzi dei Beatles, Nick Drake e Paul Simon. L'esecuzione di Mehldau  è evidentemente caratterizzata dalla sua tecnica virtuosistica e dalla sua capacità di improvvisare in piena libertà. Il pianista mette in mostra anche una profonda comprensione dell'armonia e della melodia e la capacità di costruire un'interpretazione unica delle composizioni di altri artisti. Uno dei momenti di picco dell'album è la sua versione di "River Man" di Nick Drake, in cui  trasforma la canzone del cantautore in una ballata contemplativa ed introspettiva, mettendo in piena luce la sua sensibilità musicale. Un'altra traccia interessante è la sua composizione originale "Unrequited", dove crea un'atmosfera malinconica ed evocativa che mette in risalto il suo virtuosismo e la sua creatività. "Art of the Trio Vol. 3" è stato un successo commerciale e di critica fin dalla sua uscita, e si è poi confermato nel corso degli anni come un perfetto esempio di jazz pianistico. Mehldau ha quindi consolidato la sua reputazione come uno dei pianisti più importanti della sua generazione. L'influenza di queste bellissime tracce è viva nelle opere di molti pianisti jazz cresciuti negli anni successivi. Insieme a Michel Petrucciani, dal quale tuttavia si distingue abbastanza chiaramente, Brad Mehldau va considerato come il principale erede del genio di Bill Evans, avendone colto tutta l’eredità tecnica e soprattutto gran parte della proverbiale sensibilità artistica. Il suo è un post-bop dalle tinte cool, segnato da un brillante estro melodico ed echi di new age: è un ascolto imperdibile per qualsiasi pianista e più in generale per ogni appassionato di jazz. 

Anthony Jackson/ Yiorgos Fakanas - Interspirit


Anthony Jackson/ Yiorgos Fakanas - Interspirit

Anthony Jackson viene considerato uno dei grandi maestri del basso elettrico. A lui si deve anche lo sviluppo del moderno basso a sei corde, da lui definito "chitarra contrabbasso". L’elenco delle sue collaborazioni è così lungo che non è possibile sintetizzarlo in poche righe. Per brevità citerò solamente Dizzy Gillespie, Buddy Rich, Paul Simon, Roberta Flack, Michel Petrucciani, Mike Stern, Quincy Jones, Madonna, Pat Metheny, Michel Camilo e gli Steely Dan. Considerato una figura leggendaria della musica moderna, ha mosso i suoi primi passi con il pianoforte e la chitarra, per poi passare al basso elettrico, influenzato dal bassista della Motown James Jamerson. Jackson ha partecipato a oltre 3.000 sessioni di registrazione e si può quindi affermare che sia uno degli artisti più prolifici di sempre. Tuttavia, in una carriera lunga quattro decenni, ha sempre rifiutato le offerte di registrare un album da solista fino all'incontro con il greco Yiorgos Fakanas, avvenuto nel 2010, che gli ha proposto di produrre un album cointestato. Il risultato è Interspirit, un lavoro di fusion dal suono originale, che riunisce i migliori musicisti greci con i più quotati artisti americani specializzati nel genere, tra i quali Mitchel Forman alle tastiere, Frank Gambale alla chitarra e l’eccezionale batterista Dave Weckl. Quindi Anthony Jackson dopo una lunghissima carriera da sideman di lusso, ha finalmente deciso di registrare a suo nome un disco del quale condivide la titolarità con il collega bassista Yiorgos Fakanas. Quest’ultimo ha scritto tutta la musica di Interspirit e si prende carico di tutti e cinque gli assoli di basso. La musica, tuttavia, è stata composta pensando al formidabile talento di Jackson, e le sue folte schiere di ammiratori saranno comunque deliziate dalle linee di basso che qui è possibile apprezzare pienamente. Il suo modo di suonare richiede un attento ascolto al cospetto di una orchestrazione multi strumentale, con il risultato di un’architettura sonora fusion e funk ricchissima di complesse linee melodiche e armoniche. La musica di Interspirit spazia dall'intensità dei Return to Forever ad un terreno più accessibile ispirato ad uno smooth jazz in stile Bob James. La maggior parte delle composizioni sono arrangiate con l’utilizzo di una sezione di ottoni ed il sound ha i connotati di una piccola big band, che a tratti vede impegnati contemporaneamente fino ad un massimo di quattordici musicisti. Sia Jackson che Fakanas sono interessati alla musica classica e ciò è confermato da "Cuore Vibes Part 1", che presenta la Kinisis String Quartet of Colors Orchestra. E’ un bellissimo pezzo d'atmosfera che fonde viola, violino e violoncello, con l'aggiunta di Tasos Kazaglis al double bass. Fakanas è poi intrigato dalla commistione tra la musica classica ed il jazz e infatti "Cuore Vibes Part 2" unisce l'ensemble d'archi con una formazione completa di musicisti jazz fusion. E’ particolare il fatto che in questo brano si possano ascoltare tre bassisti contemporaneamente, con Kazaglis che suona nelle ottave superiori, a differenza di Jackson e Fakanas che si occupano di quelle gravi. Il trombettista Mihail Iosifov esegue un delizioso assolo con la  sordina e il formidabile Mitchel Forman si distingue al pianoforte: tuttavia questo è un pezzo principalmente corale. Anthony Jackson non si prende alcuno spazio per esibirsi in assoli e di fatto non rompe con la sua tradizionale cifra stilistica. Il suo ruolo in Interspirit, così come è avvenuto sempre nel corso degli anni, è quello di abbellire la musica, di rifinirla ma anche di strutturarla. Le tessiture del suo basso come accompagnatore hanno tutto il carattere di assoli funzionali al ritmo ed all’armonia dei brani. La musica di Interspirit spazia in territori ampi e variegati. Si va dalla tipica fusion della impressionante "Inner Power", con una sezione di ottoni di sette elementi, al funk di "Interspirit", al già citato mix classico/jazz di "Cuore Vibes Part 2" e "Seviglia". Quest'ultimo numero presenta l'ottima chitarra acustica di Frank Gambale ed un assolo molto intrigante del sassofonista tenore Tony Lakatos. L'unico brano non originale è una nuova reinterpretazione del classico di Wayne Shorter "Footprints", con un impressionante esecuzione all'unisono tra Jackson e il flautista Takis Paterelis, che suona anche il sax alto ed il soprano. E’ una proposta musicale molto originale quella che scaturisce da questo cd d’esordio come solista di Anthony Jackson. Sebbene nel complesso l’album possa essere classificato a grandi linee come fusion, è la melodia ad essere in primo piano, e i numerosi ed impressionanti assoli sono per contro piuttosto brevi e sono funzionali ad esaltare piuttosto il quadro d’insieme. Il greco Fakanas, sia che utilizzi il basso elettrico jazz o il fretless, regge il confronto con il suo leggendario collega. La prestazione di Jackson è sempre melodica e precisa ma al contempo profonda e brillante, a testimonianza di un talento straordinario finalmente libero di esprimersi non soltanto da session man così come da sfavillante solista. Interspirit è una delle registrazioni fusion più originali degli ultimi tempi e una valida alternativa nel piatto panorama musicale attuale.

Michel Petrucciani Trio – Trio in Tokyo


Michel Petrucciani Trio – Trio in Tokyo

Michel Petrucciani è stato un grandissimo pianista jazz che può essere descritto con poche parole in questo modo: 97 centimetri per 27 kg di assoluto genio. Una vita tanto luminosa sui palchi di tutto il mondo quanto oscuramente dolorosa. Michel Petrucciani era nato con una rara malattia alle ossa che ha gravemente inibito la sua crescita, lo ha costretto ad un’esistenza di sofferenze ed infine lo ha portato ad una prematura scomparsa. Petrucciani infatti era affetto da osteogenesi imperfetta, morbo congenito conosciuto anche come sindrome dalle ossa di vetro. Una malattia genetica che priva le ossa del calcio necessario per poter sostenere il peso del corpo e che impedisce la crescita. Ma quello che gli mancava in altezza, lo compensava abbondantemente con il talento. Un piccolo gigante, dotato di una sensibilità artistica fuori dal comune e da una meravigliosa attitudine verso il jazz e più in generale per la musica e per il pianoforte. Tutto il suo corpo gemeva, ma le mani al contrario sui tasti cantavano. Se ogni parte del suo fisico malato lo tradiva, le sue dieci dita invece rimasero fedeli al suo talento sino all’ultimo. In parte Bill Evans, in parte Keith Jarrett, il suo stile pianistico gli è valso l’ammirazione ed il seguito di tutti gli appassionati di jazz. Il trio rimane probabilmente il contesto in cui l'arte di Petrucciani si esprimeva al meglio, specie quando ad affiancarlo era una coppia ritmica pronta a recepire e ritrasmettere segnali proficui per lo sviluppo del suo complesso impianto ritmico-armonico. Trio In Tokyo è forse l’album dove si può cogliere pienamente tutta l’essenza di Michel: è stato recentemente rimasterizzato con l’aggiunta di una bonus track: “Take The A Train”. La registrazione documenta il periodo finale della purtroppo breve, ma intensissima carriera di Petrucciani. Questo è uno dei più alti livelli raggiunti da un trio jazz, non solo come interplay tra i musicisti, ma anche come qualità della ripresa audio, tanto che è uno dei più famosi dischi di test per l'hi-fi. Sfortunatamente l’album dura un’ora soltanto, ma è un’ora di una intensità e di un piacere di ascolto sublimi ed è evidente come in certi momenti la velocità di esecuzione di Michel sia pari solo alla sua precisione, ogni nota è sempre ben definita e caratterizzata nel suo tocco forte e sicuro. Tutti i brani sono di Petrucciani ad eccezione di una fantastica “So What” e della bonus track. Bisogna assolutamente menzionare i suoi due compagni di avventura, ovvero il batterista Steve Gadd ed il bassista Anthony Jackson sempre perfetti in ogni attacco e grandissimi in ogni dettaglio. E pensare che all’inizio la scelta fu addirittura criticata, ma di fronte ad una serata memorabile come questa, non si può che essere felicissimi che il trio sia stato immortalato esattamente come avvenne in quella meravigliosa performance giapponese. Petrucciani suona con semplicità, immediatezza e trasporto, preferendo sempre la melodia alla complicazione, il divertimento ad un approccio troppo cerebrale; è il trionfo della positività e della brillantezza rispetto all’introspezione. Il suo tocco appare, come il suo personale stile peraltro è sempre stato, percussivo, sensibile, cristallino, al punto che anche quando i fraseggi più lunghi si fanno velocissimi, ogni singola nota rimane perfettamente intellegibile. Il suo suono probabilmente riassume in qualche misura tutto il jazz della fine del XX secolo. Era una stupenda sintesi di tutto ciò che è venuto dopo Bill Evans, una sorta di sublimazione dell’arte jazzistica concentrata in un’ora di pura bellezza. Il programma della serata dal vivo conosce momenti giocosi e pieni di umorismo come con la trascinante "Cantabile", dove una ripetizione di 4 note diventa quasi un’irridente sberleffo all’adorante pubblico giapponese. Poi ci sono brani dove è il romanticismo a farla da padrone, come nella dolcissima "Love Letter", che il pianista interpreta con rara delicatezza ed una poesia incomparabile. Come detto la melodia è la caratteristica dominante dell’approccio di Petrucciani e tuttavia non manca mai il ritmo. Tutto ciò è evidente ascoltando "September Second", "Home" e "Colors". Il concerto si apre con una trascinante "Training", e davvero non si può immaginare un inizio più favoloso di questo. Restando in un atmosfera dove il ritmo e l’energia sono i segni distintivi non si può non citare la strepitosa "Little Peace In C For U": qui c’è anche l’occasione per gustarsi i fenomenali assoli di Anthony Jackson e Steve Gadd. Due straordinari artisti che non sono affatto comprimari ma parte integrante di questo concerto. Jackson predilige un suono profondo e controllato, utilizzando il basso elettrico sui registri gravi, come un contrabbasso acustico. Steve Gadd ovviamente non è da meno, in quanto maestro sia del tempo che della dinamica, sa esattamente come e quando essere potente o delicato e la sua propulsione ritmica è straordinaria. La prima delle due cover, ovvero "So What" di Miles Davis, è interessante per come il piccolo genio francese la interpreta, prima in maniera più intima e delicata e poi via via sempre più trascinante. La struttura modale  è resa con maestria e creatività, rendendo questa versione assolutamente al livello del capolavoro originario. La famosissima “Take The A Train” che sul cd è la bonus track è infine suonata in modo funambolico e velocissimo e non fa altro che dimostrare come questo genio assoluto del pianoforte (che doveva essere accompagnato sullo sgabello e per il quale venivano predisposti dei pedali speciali) fosse un musicista speciale, fuori dall’ordinario. La forza di un genio custodito in un corpo fragilissimo. Registrato nel club giapponese Blue Note nel novembre del 1997, Trio In Tokyo documenta la fine della vita breve e straordinaria di Petrucciani e ci lascia una testimonianza unica ed irripetibile di un fenomeno raro e prodigioso che travalica i confini di un genere come il jazz per entrare di diritto in quelli immortali dell’arte assoluta. (Per chi volesse approfondire l’argomento consiglio di cercare un bellissimo documentario di Michael Radford intitolato “Michel Petrucciani – Body & Soul”, che racconta tutta la sua straordinaria vita. Un omaggio ad uno spirito indomito in un corpo disobbediente.)

Jimmy Forrest – Black Forrest


Jimmy Forrest – Black Forrest

Il sassofonista tenore Jimmy Forrest, nativo di St. Louis e figlio di una pianista di gospel, mosse i suoi primi passi musicali nelle orchestre locali del Missouri. In seguito, dal 1940 al 1942 suonò con l'orchestra di Jay McShann (nella quale in quel periodo militava anche Charlie Parker), poi fu al seguito di Andy Kirk (dal 1943 al 1947) e quindi addirittura con Duke Ellington dal 1949 al 1950. Jazzista non molto conosciuto, è stato tuttavia un musicista dotato di un suono forte ed in possesso di grande dinamismo: egli che seppe integrare nel suo stile musicale umori di rhythm and blues con elementi bebop. Un tenorsassofonista di tutto rispetto, dunque, dal suono potente e corposo e provvisto di un grande senso dello swing che tra l’altro era molto apprezzato da Miles Davis. Diciamo che il suo stile potrebbe rientrare in quel ricco filone di sassofonisti neri collocabile tra il mainstream e il be-bop ma con una forte propensione verso il blues e il rhythm & blues. Un filo conduttore virtuale lega i musicisti di questa corrente ai maestri degli anni ’40, Illinois Jacquet, Eddie “Lockjaw” Davis, Gene Ammons e Arnette Cobb, continua con i sassofonisti soul-funky anni ’60 sul genere di King Curtis e Stanley Turrentine, e arriva infine ai più recenti James Carter e Joshua Redman. Si tratta di un genere di sassofonismo che dopo il periodo di Coltrane e quello venuto dopo il genio di Hamlet sembrava quasi dimenticato. Invece oggi direi che vi è un recupero abbastanza importante di quel genere di modelli soprattutto tra le più recenti leve afro-americane.  Il focus artistico di Forrest fu comunque sempre attento alla tradizione ed egli fu molto attivo nel quinquennio tra il ’58 ed il ‘63 con il trombettista Harry "Sweets" Edison, e durante quel periodo, Forrest registrò cinque album. Dimostrò poi di sapersi districare ugualmente bene con l’hard bop ed il soul-jazz oltre che con lo swing e l’r&b degli anni '50. Negli anni ’70 fu particolarmente di prestigio la sua militanza nell’orchestra di Count Basie. E’ l’autore di uno dei brani più popolari della storia del jazz: il celebre Night Train che Forrest compose e registrò nel 1951, arrivando al successo e conquistando il primo posto nella classifica di Billboard. Il suo indiscusso talento è messo pienamente in evidenza da questo suo album del 1959 intitolato Black Forrest: una registrazione fondamentalmente di buon swing vecchio stile dall’inizio alla fine. La band di supporto è notevole e vede la partecipazione del giovane chitarrista Grant Green, affiancato da esperti musicisti quali Harold Mabern al pianoforte, Gene Ramey al contrabbasso e il formidabile Elvin Jones alla batteria. Il gruppo dona all’album i giusti colori e una grande carica di energia. Quanto a Jimmy ed al suo solidissimo fraseggio al sax tenore, qui suona magnificamente, mettendo in fila una serie di assoli scoppiettanti pervasi di esuberanza e vigore sui brani veloci, mentre accarezza le ballate con un ammirevole ed incessante calore. L’album contiene alcuni tra i più memorabili tra gli standard del jazz come "These Foolish Things", "You Go to My Head", "What's New?" e "But Beautiful". Anche le composizioni dello stesso Forrest come "Black Forrest", "Dog It", "Sunkenfoal" e "All the Gin Is Gone" sono degne di note e non fanno altro che rendere questo lavoro ancora più interessante. La potenza altamente espressiva di Jimmy Forrest e la capacità di dire molto con poche note sono più che evidenti in questo eccellente album e se amate il vecchio, sano, intramontabile suono del jazz degli anni ’50, questo è ciò che fa per voi.

Clifford Jordan - Glass Bead Games


Clifford Jordan - Glass Bead Games

Clifford Jordan nacque a Chicago, città che vide nascere parecchi jazzisti noti per il loro stile brillante e deciso, tra cui i celebri “sassofonisti duri” come Gene Ammons ed Eddie “Lockjaw” Davis. Pur condividendo la loro ostentata spavalderia, Jordan aveva uno stile nettamente diverso, basato su toni al tempo stesso seducenti e ruvidi nelle note più gravi e acute. Sideman molto apprezzato, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta Jordan prese parte a un gran numero di registrazioni con jazzisti di altissimo livello come Lee Morgan, Horace Silver e Max Roach e realizzò diversi album da solista di notevole interesse. Jordan era poi entrato a fare parte addirittura della band di Charles Mingus, con la quale aveva registrato l’elettrizzante album live Right Now: Live at the Jazz Workshop. La ricerca di sempre nuove prospettive da parte di Mingus, pur conservando la consapevolezza dell’importanza del passato ed un eclettico insieme di raffinatezza armonica e di un furore creativo mai domo, ha esercitato sicuramente una profonda influenza su Jordan. Però nel complesso si può dire che Jordan sia un musicista jazz che non ha ricevuto il riconoscimento che avrebbe meritato. Nonostante le lodi ricevute dal collega sassofonista Sonny Rollins, Jordan rimase incompreso e forse addirittura trascurato dai critici della sua epoca. Clifford non nutriva particolare interesse per l'hard bop, per il jazz elettrico ma nemmeno per le estreme avanguardie jazzistiche. Inoltre non era spinto da una forte ambizione verso l’innovazione, come ad esempio John Coltrane. Eppure non mancano le registrazioni dove è tangibile il suo inestimabile contributo artistico: non ultimo quello che potrebbe essere l’album più creativo di Horace Silver, Further Explorations By The Horace Silver Quintet. Ma parlando di album da solista c’è una registrazione che rappresenta al meglio il talento di Clifford Jordan ed è Glass Bead Games del 1974. Una duplice sessione in cui il sassofonista guida due quartetti: il primo con il batterista Billy Higgins, il pianista Stanley Cowell ed il bassista Bill Lee; il secondo ancora con Higgins ma affiancato da Cedar Walton e Sam Jones. Album di una certa rarità, gode di un ottima reputazione tra gli appassionati e soprattutto tra i collezionisti. All'inizio del 2007 finalmente la vedova di Jordan autorizzò l'uscita della prima, completa e unica ristampa della leggendaria sessione e ora è possibile goderne anche ad un più vasto pubblico. La musica è più che all'altezza della sua fama e conferma la maestria di Jordan con il suo sax, indicando al contempo il musicista di Chicago come una delle voci più avvincenti e caratteristiche della sua epoca. Pur ispirandosi al sound di John Coltrane, il discorso musicale di Jordan è nettamente distinto da quest’ultimo. I dodici brani dell’album sono quasi concepiti come una sorta di unica suite, pur con molte sfaccettature, ed appare organicamente coerente, a sottolineare la sua fonte diretta d’ispirazione, ovvero il romanzo di Herman Hesse che è anche il titolo del lavoro. La performance dei musicisti, Jordan in primis, è straordinaria: è esemplare in quanto singolarmente creativa eppure altrettanto fortemente collaborativa. C’è una sorta di affinità mistica con A Love Supreme di John Coltrane ma Glass Bead Games di Clifford Jordan pur riconoscendosi in quella stessa sensibilità, si allontana dalla ricerca musicale trascendente di Coltrane ponendosi su un piano più facilmente fruibile. I quattro musicisti sono in così completa sincronia che i cambiamenti di tempo, di struttura e di timbro appaiono perfetti. E così la distinzione pur ovvia tra gruppo e solista come pure le pause tra le selezioni diventano tutte secondarie rispetto al continuo fluire della musica, alle inesauribili sorprese e alle delizie sonore che mantengono l'ascoltatore attento e partecipe. Anche per questo forse risulta superfluo analizzare le singole tracce una per una.  Glass Bead Games è un album pieno di rivelazioni a molti livelli. Poi va dato merito a Bill Lee che era un bassista superlativo, un sideman di prim'ordine ed un potente catalizzatore: andrebbe riconosciuto più per il suo talento musicale che per essere il padre del più famoso figlio, il regista Spike. A completare il quadro c’era anche Billy Higgins: come tanti musicisti affermano, un batterista unico e irripetibile. Infine Clifford Jordan: lui era un artista di prim'ordine, il suo modo di suonare così disinvolto e non forzato,  sciolto e concentrato, maturo e consapevole è straordinario. Resta lo stupore per come tanto talento e autenticità sia stata spesso sottovalutata. La sua retorica musicale è originalmente  espressiva, avvincente e solida. Un musicista vero, tra i più interessanti della sua epoca, che vale la pena di rivalutare.

Lee Konitz – Inside Hi Fi


Lee Konitz – Inside Hi Fi

Lee Konitz è nato nel 1927, e dato che ci ha lasciato nel 2020 è anche una delle poche leggende dell'età d'oro del jazz che sono vissute fino praticamente ai nostri giorni. Lee Konitz è considerato il più importante interprete dello stile cool applicato al sassofono contralt ed, ha forgiato un sound unico tra i musicisti della sua generazione, riuscendo a percorrere una strada indipendente ed originale. Konitz è un musicista che nella sua lunghissima carriera ha vissuto di tutto ed ha dato moltissimo a questa stupenda arte musicale. C’era nelle sessioni di Birth of the Cool di Miles Davis negli anni '40, ha studiato e suonato con Lennie Tristano e ha registrato una serie di stupendi album con il collega sassofonista ed a sua volta allievo di Tristano Warne Marsh (con il cui stile cool-jazz condivideva una meravigliosa affinità).  Gli anni '60 e '70 sono i più difficili della carriera di Konitz, che aveva poco interesse per la fusion, le contaminazioni elettriche e certe tendenze avanguardistiche che si affermano in questo periodo. Pur essendo un musicista che si è fatto le ossa negli anni '40, Konitz è uno dei pochi contralti a non aver seguito le orme del grande Charlie Parker e questo è senza dubbio un motivo di ammirazione e rispetto. Lee Konitz ha viceversa seguito la sua strada con il sax alto sviluppando il suo personale stile cool  corredato da un suono fermo e apparentemente soffice, con un fraseggio complesso, veloce, sapiente, dotato di sfumature e dinamiche assai smaliziate e mai prevedibili. Questo album, registrato da Rudy Van Gelder nel 1956, vede Konitz operare in un ambiente piuttosto unico. Il primo lato ci propone Lee con il suo strumento elettivo, ad eccezione del secondo assolo nella traccia di apertura dell'album, "Kary's Trance", dove passa anche al sax tenore. La seconda parte invece offre Konitz impegnato esclusivamente al sax tenore. Lo stesso sassofonista fa notare che, sebbene gli piacesse suonare anche quest’ultimo, il tenore non era quello che realmente lo appassionava, poiché pensava che avrebbe usato il tono più ricco del sassofono più grande solo per esprimere ciò che normalmente avrebbe fatto anche con il contralto. Per sottolineare il dualismo di questo lavoro ciascuna delle due sessioni presenta uno specifico ensemble. Nel primo lato Konitz  si fa accompagnare dal chitarrista Billy Bauer, da Arnold Fishkind al basso e da Dick Scott alla batteria. Sul secondo lato, utilizza un gruppo di musicisti con cui era già abituato a suonare: Sal Mosca al piano, Peter Ind al basso e Scott alla batteria. Sebbene sia stato registrato nel settembre del 1956 e fosse originariamente un'edizione monofonica, è stato ristampato in stereo, e suona davvero bene per uno lavoro così datato: tra l’altro si giova di una stampa particolarmente pulita e silenziosa. Le registrazioni con il sax contralto mostrano un Lee Konitz al suo meglio, come è del resto lecito attendersi. Quelle con il sax tenore sono in ultima analisi il motivo di interesse che spinge all’ascolto di Inside Hi Fi. La pienezza armonica del grande sax si adatta alla perfezione al sound di Konitz e, dopo aver ascoltato il suo modo di proporsi al tenore, resta quasi un po’ di rimpianto rispetto allo scarso utilizzo dello strumento da parte di Lee. Come esempio basta ascoltare la traccia di apertura del secondo lato, "Star Eyes": c’è il grande maestro Konitz che suona esattamente come ci si può aspettare, ma la sua sonorità è più profonda e ricca, con un tocco di colore in più. È sempre il gigante che conosciamo, ma allo stesso tempo suona diverso e quindi anche nuovo. Il sax di Konitz, che sia alto o tenore, è posizionato in primo piano, con il resto della band chiaramente dietro di lui. Per un discorso meramente tecnico dovuto all’epoca della registrazione, si avrà la sensazione di ascoltare più dai lati dello stage che dal centro, ma in ultima analisi i canali si fondono sufficientemente bene da rendere il tutto molto godibile. Tra i brani più belli e famosi di questo gradevole album meritano di essere citati “Everything Happens to Me”, “All of Me” e “Star Eyes”, ma tutti gli otto pezzi in programma sono eseguiti in maniera magistrale con un irresistibile swing. Queste registrazioni di Lee Konitz documentano come il sassofonista traslò per la prima volta le raffinatezze della sua concezione del contralto sul più grande sax tenore, cosa evidente anche su un brano brioso come "Indiana", che presenta un eccellente assolo del pianista Sal Mosca. Un’altra esecuzione di alto livello è il blues “Cork 'N' Bib”. Le differenze evidenti tra il sound del contralto e del tenore di Konitz sono ben rappresentati in "Kary's Trance", che, come detto, include interventi con entrambe gli strumenti in un unico bellissimo esempio di cool jazz. Inside Hi-Fi è un album che ogni appassionato di jazz che si rispetti dovrebbe includere nella propria collezione: propone un legame diretto con il glorioso passato del jazz nei suoi anni migliori ed offre al pubblico la rara possibilità di ascoltare Lee Konitz al sax tenore. Nonostante il jazz abbia portato negli anni molte altre voci e altre suggestioni, il linguaggio di Konitz ha sempre mantenuto la sua peculiarità. E’ un ascolto che consiglio caldamente fosse anche solo per questo motivo.

Paul Chambers – Paul Chambers Quintet

Paul Chambers – Paul Chambers Quintet

Paul Chambers è stato uno dei più preminenti contrabbassisti della sua epoca: ha partecipato ad un grandissimo numero di registrazioni significative ed è stato membro di altrettante formazioni che possono essere considerate fondamentali nella storia della musica jazz. Su tutte la sua presenza nell'album Kind of Blue con il sestetto di Miles Davis e quella su Giant Steps di John Coltrane, che rappresentano probabilmente gli apici della sua carriera. Dopo aver lasciato la band di Davis, si unì a Wynton Kelly e a Jimmy Cobb per formare un trio che divenne la sezione ritmica più popolare della scena jazzistica, accompagnando praticamente tutti i solisti più importanti dell'epoca per gran parte degli anni sessanta. Il motivo di questo successo professionale ed artistico era  che Chambers fu un bassista con una perfetta intonazione, un magistrale senso del tempo ed una altrettanto virtuosistica padronanza dello strumento. In qualche misura si può dire che Chambers sia stato l’archetipo del bassista nei periodi dell’hard bop e del jazz modale. Al suo stile ed alla sua tecnica hanno fatto riferimento moltissimi musicisti venuti dopo di lui e la sua eredità artistica è di inestimabile valore. Dal 1955 al 1965, Paul Chambers è stato anche probabilmente il bassista jazz più prolifico al mondo. Come dicevo è apparso in decine di album, inclusi alcuni dei migliori e più famosi di tutti i tempi. Non fu quindi del tutto una sorpresa quando, nel 1957, uscì quello che, a suo modo, si può considerare un punto di svolta per quanto riguarda le registrazioni in cui il basso diventa lo strumento di punta. Quel disco, intitolato opportunamente Bass on Top ha letteralmente ribaltato il jazz, trasformando il contrabbasso nello strumento principale nella definizione della melodia. Era un'idea nuova, ma al contempo era anche un concetto difficile da digerire per molti appassionati. Pochi mesi prima di registrare quell'album storico, Chambers guidò una band più convenzionale, con un disco di hard bop nel solco della consuetudine, chiamato semplicemente Paul Chambers Quintet. È un disco piacevole, anche se non rivoluzionario. Qui sono i fiati che, nelle figure del trombettista Donald Byrd e del sassofonista tenore Clifford Jordan, prendono il comando, insieme ai deliziosi contributi del pianista Tommy Flanagan ed alla base ritmica dettata dal grandissimo Elvin Jones. Ogni dubbio sul fatto che questa sia una band guidata da un contrabbassista è fugato dal brano di apertura: "Minor Run-Down" di Benny Golson. Il pezzo è toccante, di fatto un blues piuttosto orecchiabile nel quale all’inizio è proprio Paul Chambers a prendersi la scena con un lungo assolo. Poi Byrd e Jordan vanno in prima linea e tutto si trasforma in un bellissimo hard bop pieno di soul e vigore. Un altro bel brano dell'album è un originale di Chambers intitolato "Beauteous": un pezzo d'insieme con un ampio spazio per gli assoli e un ritmo leggermente latino. E’ un momento divertente e godibile anche se non è niente che non si sia già ascoltato prima. Il quintetto si rianima davvero con le due tracce a metà del disco dove le parti di basso sono davvero fuori dall'ordinario. "Softly, as in a Morning Sunrise" è il classico di Oscar Hammerstein, ma ripreso ad un ritmo più veloce e con la melodia che viene disegnata proprio al contrabbasso. Qui si può davvero apprezzare la diteggiatura magistrale di Chambers così come la sua inusuale melodicità, prima che lo spazio sia lasciato all'assolo di pianoforte di Flanagan. "Four Strings" è un altro brano di Golson dove il ritmo è ancora una volta veloce ed inizia con una lunga performance di basso, suonato anche con l'archetto direi molto appropriatamente per una canzone intitolata “quattro corde”. Sax e tromba sono fantastici così come l’intervento di Tommy Flanagan è tanto agile quanto piacevole, tuttavia è il basso di Chambers a renderlo inaspettatamente straordinario. Charles Mingus è stato il bassista jazz più famoso e innovativo degli anni '50 e '60, e magari Bass on Top dello stesso Chambers potrebbe essere considerato l'album più schiettamente orientato al basso di quel periodo. Ma Paul Chambers Quintet è un momento felicemente riuscito di hard bop convenzionale, forte di quattro meravigliosi sidemen e del talento cristallino di uno dei più grandi contrabbassisti della storia del jazz. E’ un lavoro che si staglia sopra la media e vale indubbiamente un ascolto, soprattutto per apprezzare appieno l’arte indiscussa del maestro Paul Chambers, anche lui come molti altri colleghi jazzisti morto prematuramente a soli 34 anni nel 1969.

 

Hank Mobley – Soul Station


Hank Mobley – Soul Station

L’innovazione nel jazz è una cosa stimolante, non c’è dubbio su questo. Però è altrettanto vero che i musicisti che si collocano all'avanguardia nell'esplorazione di nuove strade e idiomi inediti  possono anche allontanarsi dal pubblico lasciando in molti una sensazione di disorientamento. E’ sempre molto difficile coniugare la ricerca con la fruibilità: da un lato si può ottenere il plauso universale della critica, dall’altra il gradimento incondizionato di una folta schiera di appassionati. In definitiva cercare e trovare un equilibrio tra le due cose è estremamente raro e complesso. Il sassofonista Hank Mobley fu descritto dal critico musicale Leonard Feather come "il campione dei pesi medi del sax tenore", per indicare la qualità del suo suono, a metà strada tra l'aggressività di John Coltrane e la dolcezza di Stan Getz. Il suo stile rilassato, raffinato e melodico, in netto contrasto con quello di capiscuola come Coltrane e Sonny Rollins, e il fatto di aver rimpiazzato lo stesso Coltrane subito dopo che questi abbandonò il gruppo di Miles Davis, fecero sì che il suo talento venisse pienamente apprezzato solo dopo la sua morte. In ultima analisi va sottolineato che l'influenza principale di Hank Mobley resta quella di Lester Young e le sue radici vanno collocate nel solco della tradizione bop. Mobley era un uomo molto riservato e della sua vita privata non si sa praticamente nulla. Certo non sarà mai ricordato come un grande progressista del jazz, tuttavia non si può fare di questo una discriminante nel giudicarlo; di fatto dal suo sax è uscita molta buona musica. Un esempio della quale è certamente il suo classico del 1960, Soul Station. La band di Mobley in questo disco è già di per se motivo di assoluto interesse: Art Blakey alla batteria, Paul Chambers al contrabbasso, Wynton Kelly al pianoforte e ovviamente Hank Mobley stesso al sassofono tenore. Fin dalla prima nota, il gruppo di Hank ci regala un album stracolmo di un indimenticabile e ben suonato hard bop. Ascoltare ad esempio la loro interpretazione del classico "Remember" di Irving Berlin ci fa iniziare l’ascolto dell’album con una performance vivace e solida nella quale Hank dimostra subito le sue superbe doti di musicalità. Il pianista Wynton Kelly e il bassista Paul Chambers si prendono il loro assolo a metà del brano, dimostrandoci che sebbene l’album sia a nome di Mobley, in effetti  questo è davvero uno sforzo corale. Il sempre propulsivo e gagliardo drumming di Art Blakey ha la sua occasione di brillare verso la fine di "This I Dig Of You": è un assolo di batteria completo e senza interruzioni. "Split Feelin's" parte un po’ come una sorta di vivace samba swing ma si trasforma presto in una veloce jam pervasa da uno spirito esuberante e positivo. E’ inusuale la dissolvenza finale, non molto in uso nei dischi di hard bop. Ma il punto focale dell’album è senz’altro la formidabile title track: "Soul Station" sono nove minuti e otto secondi di beatitudine jazz con il blues sullo sfondo e il groove sempre in primo piano. È proprio qui che la band brilla: Blakey, Chambers e Kelly offrono un supporto ritmico e armonico fantastico. L'accompagnamento di Wynton Kelly è davvero brillante, e la sua interazione con Blakey e Chambers è talmente perfetta che andrebbe fatta ascoltare nelle scuole di jazz. Hank Mobley mette in mostra il suo talento e soprattutto il suo stupendo fraseggio,  iniziando con il memorabile riff della canzone e proseguendo con alcuni degli assoli più lirici che ci abbia mai offerto. Il suo modo di suonare è fluido, pieno di sentimento e quanto mai appagante. La traccia finale "If I Should Lose You" chiude il tutto nello stesso modo in cui "Remember" lo apre. Hank, Wynton, Paul e Art ci mostrano la loro forza soprattutto nel finale, ma invece dei muscoli, ciò che risalta sono piuttosto l’abilità e la raffinatezza. Tutto Soul Station è permeato da un profondo senso dello swing, da una gioiosa sensazione di musicalità e da un interplay perfetto tra i quattro musicisti. In fondo è proprio questa l’essenza stessa del jazz. Il ritmo e la dinamica costante sono gli elementi chiave di Soul Station. È un album stimolante, che non si ferma mai e, una volta entrato nel brano con le battute di apertura, mantiene coerente quella intensità. I pezzi non suonano mai fuori controllo, sono invece rilassati e sciolti, fluidi e impeccabili. Se si può riscontrare come non abbondino i cambi di tempo nel contesto di un singolo brano, né  ci sono transizioni complesse, questo non significa tuttavia che le canzoni siano noiose e questo è merito della qualità eccellente sia della scrittura che delle interpretazioni. Il fatto che l’album sia stato registrato in un'unica sessione probabilmente ha giovato all'atmosfera agile e spontanea di Soul Station. A volte il materiale musicale che richiede troppo tempo per essere inciso perde quella scintilla di freschezza e di immediatezza che invece qui sono ben presenti. Ai detrattori di questo sassofonista consiglio di ascoltare attentamente ogni sua singola nota. In realtà Hank è un maestro in grado di suonare a tratti rotondo e morbido, altre volte duro come una roccia, o ancora con una voce carica di soul e blues. Il suo stile rilassato a volte può sembrare pigro e i critici lo hanno sicuramente pensato. Al suo apice negli anni '50 e '60, Mobley fu infatti ignorato dalla critica. In un'epoca in cui John Coltrane e Sonny Rollins stavano incendiando il mondo il suo modo di suonare sembrava semplice e privo di rinnovamento, eppure questo giudizio appare non solo ingeneroso ma anche distorto. L’ascolto del superbo Soul Station può contribuire a rimettere le cose a posto e a dare ad Hank Mobley il rispetto che merita. Questo è un album con una sua originalità che non è mai derivativo e soddisferà gli ascoltatori che sono alla ricerca di un jazz hard bop gustoso ed esemplare. Con Soul Station, Hank Mobley ci ha regalato un album ben realizzato e piacevole che non solo è accessibile ma è anche di grande qualità. Ciò che manca in termini di innovazione, lo compensa con la pura musicalità. Soul Station è un tesoro del jazz e di certo è un lavoro che vale la pena di aggiungere a qualsiasi discoteca.

Bobby Timmons - This Here Is Bobby Timmons


Bobby Timmons - This Here Is Bobby Timmons

Personalmente nutro un profondo rispetto per gli artisti che, pur essendo dotati di talento, restano quasi sempre nell’ombra e al massimo sono riconosciuti principalmente per il loro ruolo di accompagnatori. Nel jazz, più che in ogni altro genere musicale, a volte si tende a sottovalutare l'importanza dei sideman, come vengono definiti, eppure molti di questi musicisti sono da considerare spesso indispensabili per il successo delle band per le quali hanno lavorato. Oggi vorrei parlare di uno di loro: lo sfortunato e tormentato Bobby Timmons, un pianista inconsueto e talentuoso, che nel suo modo di suonare si pone al confine tra il jazz, il soul e il gospel. Bobby ha iniziato la sua carriera nello specifico contesto dell'hard bop, ma ha finito per sperimentare anche altre correnti, sfiorando in ultimo le atmosfere del jazz-funk. Nonostante il suo talento, il suo stile davvero atipico e caldo e la tecnica che lo distingue, purtroppo non è stato in grado di costruire una carriera solistica ricca e compiuta quanto avrebbe meritato. In realtà molto è dipeso probabilmente dagli eccessi e dalle scelte di vita sbagliate, che ne hanno limitato la crescita e, a dispetto di un indubbio talento, lo hanno condotto ad una morte prematura a soli 38 anni. Timmons, nato nel 1935, era originario di Philadelphia ed il suo stile è stato influenzato dalla crescita all’interno della sua stessa famiglia, in particolare da suo padre che era un pastore protestante. Appassionato di musica fin dalla prima infanzia, ha suonato nelle chiese prima ancora di esibirsi come pianista a livello locale, non senza aver studiato in una scuola di musica. A metà degli anni ’50. per dare un senso alla sua carriera di musicista, si trasferisce nella città dove era fondamentale vivere per sfondare nel jazz: New York. Gli ci vollero circa 2 anni per affermarsi e farsi notare, ma dopo alcuni momenti difficili finì per essere assunto nel 1956 da Kenny Dorham, Chet Baker e poi nel 1957 da Lee Morgan, Hank Mobley, Sonny Stitt e Frank Morgan. Forte di queste esperienze e grazie alla fama dei nomi che lo avevano ingaggiato, attirò l'attenzione del circuito jazzistico finché non fu notato nel 1958 da Art Blakey che gli offrì un posto nei suoi Jazz Messengers. La band era nota per essere una vera fucina di talenti e se all’inizio Bobby Timmons era conosciuto principalmente come un giovane e dotato pianista, con Art Blakey & The Jazz Messengers, fece presto il passo successivo, migliorando il suo modo di suonare, la sua creatività e soprattutto iniziando a comporre musica in prima persona. Tornando a quanto detto nell'introduzione di questa recensione, il ruolo di sideman era in realtà molto importante e a volte diventava imprescindibile per il successo di un band leader. Un esempio lampante è la sua partecipazione a uno dei più grandi capolavori del jazz: Moanin' di Art Blakey & The Jazz Messengers del 1958. Alla fine degli anni ’50 il suo successo cominciò dunque a diventare tangibile e le opportunità bussavano alla porta, in particolare quando iniziò a collaborare con Cannonball Adderley. Purtroppo fu anche il momento in cui l’abuso di sostanze stupefacenti cominciò a minare seriamente il suo futuro. Al di là dei suoi problemi personali riuscì ad ottenere la possibilità di fare il suo esordio da solista con l’album This Here Is Bobby Timmons. Registrato in due sessioni per la Riverside nel gennaio 1960 e pubblicato più tardi nello stesso anno, Bobby Timmons si avvalse di Sam Jones al basso e Jimmy Cobb alla batteria, entrambe abituali membri della band di Cannonball e Nat Adderley. Bobby aveva già suonato 3 mesi prima con Sam Jones nell'album live The Cannonball Adderley Quintet In San Francisco, ma questa era la prima volta che lavorava con Jimmy Cobb, che comunque era un batterista di alto livello. This Here Is Bobby Timmons è un grande album, che racchiude tutta l’essenza pianistica di questo sfortunato musicista, tanto brillante quanto atipico. Innanzitutto si è riappropriato di Moanin' e Dat Dere, le sue composizioni diventate poi degli standard e che sono qui eseguite in versione jazz trio. Inoltre la registrazione vede Timmons esprimersi al suo meglio, con uno stile molto vivace ed emozionante, pieno di brio e creatività. L’album contiene alcune delle sue più belle composizioni originali, suonate in maniera impeccabile come raramente il pianista riuscirà a fare in seguito. Ma il disco è anche musicalmente piacevole, permeato da un jazz atipico ed estremamente orecchiabile e al contempo audace e creativo. C’è spazio anche per ascoltare Timmons in perfetta solitudine al pianoforte alle prese con un classico standard come  l’immortale Lush Life. Analizzando i suoi primi anni di carriera, e prendendo in seria considerazione il suo talento cristallino, viene spontaneo pensare che Timmons avrebbe potuto raggiungere vette molto più importanti. Purtroppo così non è stato e Bobby ha subito una regressione artistica costante dopo l'uscita di questo album, interrotta solo da sporadici momenti di lucida professionalità. Timmons aveva la possibilità di lasciare una traccia molto più marcata nella storia del jazz prima di andarsene così giovane. Ma la storia di questo genere musicale ci ha purtroppo insegnato troppe volte quanto questo sia spesso difficile ed i problemi personali o le dipendenze possano compromettere e distruggere anche la più promettente delle carriere.

Quincy Jones - This Is How I Feel About Jazz


Quincy Jones - This Is How I Feel About Jazz

Non è mai facile distinguere tra coloro che hanno realmente contribuito allo sviluppo della musica (il jazz non fa eccezione) e quelli che attraverso i successi discografici, radiofonici o televisivi assurgono ad una falsa e magari effimera gloria senza incidere davvero a livello artistico. Non sorprende dunque che qualcuno ritenga che Quincy Jones sia solo un personaggio legato al pop e che sia diventato celebre grazie alle sue produzioni recenti e soprattutto  complice la collaborazione con Michael Jackson. Senza alcuna intenzione di sottovalutare il talento di quest'ultimo, Jones è ovviamente molto più di questo e non è un’esagerazione considerarlo un personaggio di primaria importanza nel jazz del ventesimo secolo.  Per meglio comprendere lo spessore di questo poliedrico artista può essere certamente un viaggio illuminante tornare indietro ad oltre tre decenni prima di Off The Wall e di Thriller, alla ricerca delle radici del Quincy Jones jazzista: ovvero al momento cruciale che avrebbe trasformato il grande arrangiatore e produttore in uno degli architetti musicali più importanti di sempre. 1956, Jones all'epoca aveva solo 23/24 anni ma era già evidente che fosse un arrangiatore nato. Se è corretto immaginare che il talento adolescenziale di Quincy fosse ancora acerbo durante i suoi primi anni di attività, trascorsi suonando nel gruppo del di poco più anziano Ray Charles, è altrettanto giusto essere consapevoli che furono le sue doti innate e la sua passione per lo studio ad aprirgli le porte del Berklee Music College. Abbandonati gli studi accademici in favore della partecipazione alla sezione fiati della big band di Lionel Hampton insieme ad altri artisti del calibro di Art Farmer e Clifford Brown, il giovane Quincy diede una svolta alla sua carriera. Incoraggiato dal leader a partecipare agli arrangiamenti del gruppo, capì presto che il suo futuro non era la tromba bensì proprio la scrittura e l’elaborazione delle partiture musicali. Il suo lavoro di arrangiatore al servizio di artisti come Cannonball Adderley, Dinah Washington, del suo vecchio amico Ray Charles e per l'esigente orchestra di Count Basie ne sono la testimonianza. Tutte queste importanti esperienze rendono più facile capire perché, pur in una fase così iniziale della sua carriera, Quincy fosse già così consapevole che la specializzazione poteva essere la sua carta vincente: era proprio la diversità a distinguerlo dalla massa. Così, quando nel settembre del 1956 trovò l'opportunità di pubblicare qualcosa sotto il suo nome, radunò un gruppo di musicisti di grande valore ai Beltone Studios, a New York, e mostrò al mondo di che pasta era fatto.  This Is How I Feel About Jazz nasce in quel momento, e con esso inizia l’ascesa di Quincy Jones nell’olimpo del jazz. E quale modo migliore poteva esserci per manifestare i suoi sentimenti nei confronti del jazz se non quello di scegliere un pezzo a cui Miles aveva intitolato un album un paio di anni prima, e rimodellarlo secondo le sue regole? La celebre "Walkin'" di Davis si presenta in modo sorprendentemente non convenzionale, prima che Jones ne padroneggi il retaggio, e lo infonda di una sensualità inaspettata: la stessa che, tra l'altro, sembra essere il filo conduttore di tutti i contenuti dell'album. Il brano, dopo un'esauriente esposizione del tema vede il basso di Paul Chambers lanciare il groove, presto affiancato dalla tromba (Art Farmer, Bernie Glow, Ernie Royal e Joe Wilder costituiscono l'arsenale di fiati). Il sax tenore di Lucky Thompson prende quindi il testimone (era proprio lui ad aver lavorato alla versione di Miles). Gli altri sax sono poi quelli di Zoot Sims e Bunny Bardach. La grande sezione fiati splende magnificamente a sottolineare i colori del brano con i suoi riff swinganti: il momento dei tromboni, in luogo del Davisiano J.J. Johnson, è riservato a Jimmy Cleveland, Urbie Green e Frank Rehak con uno spettacolare effetto sonoro. Introdotto dal delicato tocco di pianoforte di Hank Jones, il tema di "A Sleepin' Bee" è delineato dal flauto di Jerome Richardson e completato da un'intricata trama di fiati. Come nel brano precedente, Jones dirige magistralmente il grande ensemble attraverso una colorita varietà di sfumature tonali e diversi livelli di intensità. Il classico sound della grande orchestra jazz declinato secondo una sensibilità più moderna. "Sermonette" di Nat Adderley è spinto dal caratteristico basso pulsante di Charles Mingus, dalla tromba con sordina e dal magico vibrafono di Milt Jackson. Ci sono anche tre brani originali di Jones che non fanno che confermare il suo talento, evidentemente non soltanto funzionale alla fortuna di altri artisti.  Ad esempio “Stockholm Sweetnin'”: un intreccio complesso di armonie in cui il contrasto tra il potente sound della big band si confronta con le atmosfere del cool jazz. Interessante notare come malgrado Jones non partecipi più in prima persona con la sua tromba, continui a dare allo strumento un ruolo fondamentale per generare pathos. Hank Jones fa sfoggio di una fluidità delicata e sensibile con il suo pianoforte. E’ invece una sorta di atmosfera cinematografica quella che caratterizza "Evening in Paris" in cui spiccano il dolce flauto di Herbie Mann e le pennellate del pianoforte di Billy Taylor. Un brano con continui cambi di tempo che dipinge un quadro sonoro rilassato ma altrettanto vario, proprio come una serata nella capitale francese. Lo swing la fa da padrone in “Boo's Bloos” ma ogni cosa è esattamente al suo posto con perfezione e genialità. Pianoforte, sezione fiati, flauti, trombe e tromboni sono arrangiati in modo impeccabile e tutto viene sottolineato dalla batteria di Charlie Persip, che dà semplicemente al brano ciò di cui ha bisogno. Quincy Jones è una sorta di ponte tra Duke Ellington e Thelonius Monk: tradizione e modernità coniugate in una sensibilità unica nel mettere insieme i tasselli sonori che compongono le grandi orchestre. Con Jones al comando ogni strumento è esattamente dove dovrebbe essere e tutte le partiture sono interpretate come meglio non si potrebbe. Se volete approcciarvi a questo straordinario musicista This Is How I Feel About Jazz  e il suo gemello Go West Man! Sono il punto di partenza ideale. Trombettista e polistrumentista, direttore di orchestre jazz e di musica leggera, arrangiatore, attivista per i diritti del popolo afroamericano e soprattutto talent scout e produttore capace di far diventare oro tutto quel che tocca. Quincy Jones è un visionario, infaticabile e “onnivoro” esploratore del mondo dei suoni. Oggi Quincy Jones gestisce un impero da milioni di dollari. Ma non dimentica da dove viene e non smette di scoprire e promuovere talenti. Perché Q, pur senza dimenticare il passato, a 91 anni, è uno che guarda al futuro.

Oli Silk – In Real Life


Oli Silk – In Real Life

Ho già avuto modo di recensire in passato due album di Oli Silk, uno dei più interessanti esponenti del movimento jazzistico britannico. In effetti non sono molti gli artisti inglesi che negli ultimi tempi abbiano avuto un impatto così notevole sullo smooth jazz come questo giovane tastierista. Il suo successo non è solo legato ai suoi numerosi e fortunati concerti, Oli è anche un vero e proprio beniamino della radio: tre singoli estratti dal suo ultimo album sono arrivati al primo posto nella classifica di Billboard. E’ la conferma che la sua musica colpisce nel segno e intriga gli ascoltatori, non soltanto quelli europei ma anche il pubblico americano. Con "In Real Life", il suo settimo album per l'etichetta Trippin N Rhythm, Oli Silk continua ad esplorare ogni sfaccettatura del genere smooth e lo fa ancora una volta con il suo stile inconfondibile. In qualità di membro di spicco dello UK Collective, un gruppo dei migliori musicisti londinesi, Silk ha avuto il ruolo di direttore artistico per tutti gli artisti statunitensi che si sono esibiti in Europa. Questa esperienza lo ha aiutato ad affinare ulteriormente le sue già notevoli capacità musicali. In “In Real Life, grazie alle fondamenta artistiche gettate con i suoi precedenti lavori, Silk dimostra anche questa volta che la sua capacità di creare quadri sonori unici e memorabili non è casuale. Il tastierista si descrive come un ambasciatore dello smooth jazz. Un titolo che può giustamente portare, data la sua partecipazione a molteplici eventi di questo genere contemporaneo sia come protagonista principale sia come accompagnatore. Il suo stile tastieristico si rifà in qualche misura a quello di un grande pianista come Bill Sharpe (Shakatak) e la sua ricerca artistica è fortemente incentrata sulla melodia. Nel nuovo album si avvale della collaborazione di una folta schiera di musicisti che lo hanno supportato durante questa registrazione: Westley Joseph (batteria), Orefo Orakwue (basso), Mark James (chitarra), Curtis McCain (percussioni), Ilya Serov (tromba), Rebecca Jade (voce), Marcus Anderson (sax), PJ Spraggins (batteria), Gary Honor (flauto), Kim Scott (flauto), Jordan Rose (batteria), Carl Cox (sax) e Shannon Sangindiva Pearson (voce). L'album si apre con Dare To Dream, dove il buon Oli propone un suond basato sul passato ma proiettato nel futuro. Echi di Bob James e Joe Sample per un brano di classe molto ben arrangiato. In Wait… What? è accompagnato da Orefo Orakwue (basso) e Mark James (chitarra) ovvero due musicisti che hanno infiammato spesso i club londinesi negli ultimi anni. Oli si esprime al meglio con tutti i colori del suo pianoforte creando un’atmosfera allegra e positiva. Il trombettista russo di nascita ma residente a Los Angeles Ilya Serov è la star della rilassata New Horizons che si presenta come una bellissima ballata. Looking Glass è un bel brano cantato che esplora l'imprevedibilità di una storia d'amore che tuttavia sopravvive ai tempi che cambiano. Grass-Fed Funk è invece, per contro, un brano di grande energia, permeato di funk che presenta il sassofonista Marcus Anderson calato in un’atmosfera molto groovy. Torna sul sound morbido e rilassato la successiva West Beach nella quale al tocco pianistico di Oli Silk è affiancato quello della delicata chitarra di Mark James. Silk con Actually Actually è in pieno territorio smooth, ideale per il flautista Kim Scott che lo coadiuva al meglio in questo pezzo molto sofisticato. Nella title track In Real Life Oli preferisce il piano elettrico: la canzone si snoda su un medio tempo con un bell’arrangiamento di stampo più jazzistico. La voce è quella di Shannon Sangindiva Pearson che è meglio conosciuta come corista di Natalie Cole, George Duke, Stanley Clark, Al Jarreau e molti altri. Slim City Silk è nuovamente un pezzo di puro smooth jazz, in cui Silk si esibisce con ogni genere di tastiera che il musicista londinese combina abilmente per creare un collage sonoro con venature funk. L'album si conclude con la veloce e vibrante A Lil' Pick Me Up che vede ospite il sassofonista Carl Cox. Il nuovo album di Oli Silk, In Real Life è un classico esempio di smooth jazz ben congegnato, ottimamente eseguito e gradevolmente melodico: niente di rivoluzionario ovviamente, ma godibile e piacevole dall’inizio alla fine.