Curtis Fuller – Blues-ette


Curtis Fuller – Blues-ette

Dopo la seconda guerra mondiale ha fatto la sua comprasa un nuovo stile di jazz chiamato "bebop". Questo genere altamente tecnico è una delle pietre miliari della storia della musica. Il pubblico ha potuto godere di ritmiche rapidi e armonie complesse per merito di geniali innovatori come Charlie Parker, Dizzy Gillespie o Charlie Mingus. Fin dall'inizio, il bebop non era destinato al ballo o al facile intrattenimento e non a caso le big band che erano solite suonare melodie orecchiabili stavano iniziando a declinare. Durante questo periodo, i quartetti e i quintetti guadagnarono in popolarità e finalmente le trombe e sax solisti prosperarono, mentre le opportunità per uno strumento di colore come il trombone erano ora limitate. Naturalmente c'erano delle eccezioni a questa regola. J.J. Johnson, Kai Winding e Al Gray erano alcuni trombonisti che eccellevano. In seguito, all'inizio degli anni '50, venne introdotto un diverso tipo di stile che venne definito "hard bop". L’Hard bop differisce da bebop i suoi tempi più lenti, per l’uso di un maggior numero di chiavi minori, per le linee di contrabbasso fantasiose ed anche per una contaminazione con il blues e l’R&B. E’ durante la metà degli anni '50 che un talentuoso e giovane trombonista di nome Curtis Fuller è entrato in scena. Fuller ha immediatamente abbracciato lo stile hard bop che era perfetto per il suo suono ricco e caldo. Quando Fuller suona il suo strumento, come solista o come accompagnatore, puoi facilmente descrivere il suo stile musicale dolce ma vigoroso al tempo stesso. E’ la capacità di Curtis Fuller di estendersi su più ottave con veloci colpi di pura genialità la caratteristica che lo distinge da molti dei suoi contemporanei. Nato a Detroit nel 1934, Curtis Fuller da ragazzo ha iniziato suonando il sax baritono. Al liceo decise di passare a un altro strumento, e scelse il trombone. Anche se Detroit sarebbe diventata in seguito sinonimo di "Motown sound", negli anni '50 “Motor City” ha dato i natali anche un buo numero di grandi del jazz come ad esempio Hank ed Elvin Jones, Donald Byrd e Kenny Burrell. Negli anni ’50 la maggior parte di questi musicisti si trasferì a New York e Curtis presto fece la stessa cosa. Qui ha avuto l’opportunità di arrivare ad essere il leader di una sua band. Fuller ha registrato album per le etichette Prestige e Blue Note ma è la sua collaborazione con Benny Golson con l’etichetta Savoy ad essere oggetto di questo mio post. Nel 1959 Curtis Fuller registrò Blues-ette, un disco composto da sei tracce nel quale figurano i suoi compagni di band: Benny Golson al sassofono tenore, Tommy Flanagan al piano, Jimmy Garrison al basso e Al Harewood alla batteria. Su ogni brano di Blues-ette Fuller è in prima linea dimostrando al pubblico che anche un trombone è uno strumento musicalmente coinvolgente. Curtis si distingue per le sue esecuzioni precise e dal tempismo impeccabile. In particolare la combinazione tra il suo trombone e il sax di Golson emerge per il sound ricco ed avvincente in un contesto dove ogni solista mostra una notevole abilità. Tutto semplice e lineare ma con una magnifica dose di calore e passione. Flanagan, Garrison e Harewood formavano una sezione ritmica che poteva tranquillamente competere con il meglio in circolazione. Non a caso questi tre musicisti sono responsabili di un ottimo lavoro per scansionare il tempo e fornire uno sfondo divertente e stimolante per le pennellate dei due solisti principali. Durante l’ascolto di questo album si ha netta la percezione del blues. A differenza di altre registrazioni che possono ugualmente avere "Blues" nel titolo, Blues-ette prende moltissimo dalla dolce malinconia e dall’atmosfera rilassata del popolare genere black. Ed è bellissimo notare come gli artisti si concentrino più sulla chimica ed il lavoro di gruppo invece di cercare di sfidarsi l'un l'altro in un mero esercizio di tecnica fina a se stessa. Un approccio iper-tecnico avrebbe probabilmente annullato la magica sinergia che invece appare nitidamente in ogni momento della registrazione. Ascoltando tutti i brani, qualcosa mi riporta alla mente l’immagine della bellezza associabile alla perfetta alchimia del nuoto sincronizzato. La traccia di apertura, "Five Spot After Dark", è un esempio perfetto di quello che sto dicendo. Scritta da Golson, è un pezzo nato per catturare l'attenzione e sicuramente ci si ritrova a suonarlo spesso. È una melodia soul blues che definisce gli stilemi di un genere venuto molto dopo come lo "smooth jazz" inserito nel contesto del jazz classico. Sia Benny Golson che Curtis Fuller ci deliziano con assoli  liquidi e cristallini. La performance di Fuller dà in qualche misura un nuovo significato alla parola "definitivo", il suo trombone non è meno che memorabile. "Minor Vamp", scritto anch’esso da Golson, è un’altra piccola gemma. Presenta il suono caldo del sax con Garrison e Harewood che ancora una volta sono perfetti nel tenere il ritmo. È il brano più allegro e ottimista di Blues-ette e qui si può apprezzare la capacità di Fuller di suonare anche in velocità. "Blues-ette" comincia con Flanagan al piano ed è molto coinvolgente. Questa è una composizione che dà a ciascuno degli artisti l'opportunità di un assolo, ad eccezione del batterista Harewood, che mantiene un profilo  leggero pur contribuendo a cementare ritmicamente tutti gli altri. Anche Jimmy Garrison al basso si distingue per il suo tocco vigoroso e pieno di fantasia. Sia il contributo di Fuller che quello di Golson sono anche in questo caso a dir poco eccezionali. Questo è un album che ho molto apprezzato. La voce calda e precisa del trombone di Curtis Fuller cambieranno la tua percezione di questo ottone, troppo superficialmente considerato uno strumento insipido e noioso. Il talento di Fuller nel suonare il trombone con la velocità e la precisione della maggior parte dei trombettisti o dei sassofonisti consentirà davvero una valutazione corretta delle potenzialità di questo strumento. In conclusione con Blues-Ette troverete un album dal suono fresco ed elegante che dovrebbe senza meno far parte di ogni collezione di jazz che si rispetti. Grazie all’arte ed alla maestria di Curtis Fuller e della sua band si ha l’opportunità di apprezzare al meglio il sound del vero hard bop. Blues-ette è un disco storico ed è vivamente raccomandato a tutti gli appassionati di musica che amano il jazz profumato da un tocco di genuino blues.

Tom Schuman – Reflections Over Time


Tom Schuman – Reflections Over Time

Tom Schuman è un tastierista americano, noto principalmente per la sua militanza nel famoso gruppo fusion Spyro Gyra, una delle band più popolari del contemporary jazz. Tom è stato presente su tutti gli album degli Spyro Gyra fino ad oggi ed ha composto, in prima persona o in collaborazione, oltre trentacinque brani per il collettivo. Tuttavia il suo impegno come musicista non si ferma ai soli Spyro Gyra dato che la sua creatività trova libero e naturale sfogo in una ormai consolidata carriera solista. Il suo debutto avvenne nel 1990 con Extremities seguito dall'album più direttamente influenzato dal jazz intitolato Schuman Nature. A questi seguirono due lavori di chiara matrice smooth jazz: Into Your Heart (2003) e Deep Chill (2005). Il suo album del 2010, Reflections Over Time, parte dalle esperienze precedenti per sintetizzare un mix di diverse tendenze e stili del jazz. Lo stesso Shuman infatti dichiara in proposito: "Il miglior modo per riassumere questo CD è descriverlo come una miscela eclettica di molti generi di musica. Jay Beckenstein, leader degli Spyro Gyra, dopo aver  ascoltato il primo brano dell’album, "A Quote From Mr Z", che è un tributo al compianto Joe Zawinul, ne fu così entusiasmato da volerlo inserire nel programma live del gruppo. Infatti al momento lo spettacolo degli Spyro Gyra apre proprio con questo spettacolare pezzo. L'album vede la partecipazione di Bonny B, Kevin Stixx Marshall e Ludwig Afonso alla batteria, Ameen Saleem (contrabbasso su Giant Steps), Jay Azzolina, Alvin White, David Becker e Andy Wasson alle chitarre, Skip Martin alla tromba, flicorno e voce, Julian Tanaka al sax tenore e soprano. Tom suona ovviamente tutte le tastiere ed il piano coadiuvato da Schu Thomas al basso e Slide Funkshin alla batteria e alle percussioni. La prima canzone, come detto, è dedicata al gran maestro della musica fusion, Joe Zawinul: Sennie "Skip" Martin (tromba) e lo stesso Tom Schuman sono sulla giusta lunghezza d’onda per rendere omaggio al genio visionario dell’immenso Zawinul. Seven 4 You è un perfetto esempio di fusion, avvalendosi di un arrangiamento brillante e di un mirabile flusso melodico, il brano dispensa bellezza e groove, consentendo ai solisti ed in particolare a Tom di esprimersi al meglio. Sofia's Eyes cambia registro dipingendo un affresco acustico di grande suggestione. E’ interessante come il piano di Schuman si integri con la chitarra acustica di Jay Azzolina per creare l’atmosfera quasi new age alla base di questa ballata. Anche Reflections Over Time è una perfetto esempio di come Schuman abbia ben assimilato lo spirito di Joe Zawinul, con un bravo Julian Tanaka ad aggiungere il il timbro del suo sax. Gli amanti della musica ricca di fiati nello stile dei Tower of Power, East Bay Soul o degli EWF godranno di un brano come Hooked On Rockin. Qui i perfetti riff di chitarra di Andy Wasson introducono l'impressionante esplosione di fiati guidati dal sax di Julian Tanaka prima che sia la chitarra a riprendersi il ruolo di protagonista. Un orecchio attento non si farà sfuggire il potente groove di basso e la ritmica trascinante. Con Follow Your Heart, Tom Schuman ci da la sua visione del romanticismo in musica, con una bella melodia splendidamente disegnata dal sax soprano e poi dal piano acustico. When è un brano cantato da Skip's Martin, che mette in luce una bella performance come cantante soul. Una canzone che può avere successo come singolo r&b. God Please Bless America è il viaggio musicale che Schuman intraprende nella storia d'America, mettendo dentro anche campionature di voci di alcune popolari personalità politiche e sociali. Dat's Wassup! Presenta un evidente retaggio di Miles Davis grazie alla timbrica della tromba di Sennie "Skip" Martin. Giant Steps è in parte una sopresa: Tom Schuman si tuffa nel  cuore del jazz con il classico di John Coltrane, originariamente scritto per sassofono tenore, ed eseguito splendidamente al pianoforte. La vertiginosa progressione di accordi ci restituisce una versione davvero riuscita di quello che è considerato un esame di maturità per chiunque suoni il jazz. L'album si chiude con la ballata I Still Miss You che vede ancora Skip Martin nel ruolo di cantante. Un classico pezzo romantico in stile soul/r&b che ricorda Babyface. Reflections Over Time è un album molto ben riuscito, una personale visione di come si possano trasferire le proprie emozioni in musica da parte di un artista vero come Tom Schuman. È uno splendido spaccato di jazz contemporaneo ricco delle contaminazioni e delle influenze su cui Tom è attualmente focalizzato. Il suo fraseggio e la sua proverbiale velocità nella diteggiatura non fanno altro che impreziosirne ulteriormente i contenuti facendo di Reflections Over Time un lavoro godibile e raccomandabile.

John Coltrane - Blue Train


John Coltrane - Blue Train

John Coltrane, ovvero il genio, a mio parere il più grande sassofonista di tutti i tempi. Ascoltando Blue Train stavo fantasticando su di lui e sulla sua musica. Immaginate allora che la scena jazz di New York della fine degli anni ’50 non sia mai finita e che John Coltrane stia vivendo la sua vita là fuori, suonando in una serie infinita di jam session. Immaginate che Trane non abbia mai attraversato il portale della musica modale insieme ai suoi amici Miles e McCoy, provate a figurarvi il sassofonista senza le influenze dell'Africa e del Medio Oriente, arrivate più avanti negli anni, o ancora pensate a come potrebbe essere se non avesse cavalcato una parte del free jazz. Riuscite ad immaginare tutto questo? Bene l’album Blue Train consente di avere un meraviglioso assaggio di come sarebbe potuto essere John Coltrane se le sue scelte fossero state cristallizate al 1957 ed una piccola anticipazione di ciò che effettivamente è venuto dopo. Nel 1957 Trane mise tutto se stesso in questo capolavoro, che è di fatto uno dei suoi primi album come leader di una band. Con un piede ancora nel catalogo di Charlie Parker e un orecchio rivolto verso l'hard bop, l'album suona quasi come un tipico club set di quel periodo. Blue Train è conosciuto principalmente per la title track, che è anche la prima composizione degna di nota di Coltrane. Nel suo assolo iniziale è già contenuto il messaggio musicale alla base della sua arte. Brani come "Moment's Notice" e "Locomotion" dimostrano che, anche prima che il genio di Hamlet sintetizzasse in musica la sua unicità stilistica e la sua profondità spirituale, John poteva tranquillamente comporre una melodia accattivante e arrangiarla con attenzione. L'album beneficia della presenza di Paul Chambers e Philly Joe Jones della band di Miles rispettivamente al basso e alla batteria. Il pianoforte è affidato al sound bluesy di Kenny Drew per completare un’eccellente sezione ritmica. C’è un giovane Lee Morgan a contribuire al sapore be bop dell'album con le sue citazioni Gillespieane. Non manca un formidabile Curtis Fuller che con il suo trombone intelligentemente non cerca di tenere il passo con i suoi più agili compagni ma opta per una varietà di sfumature e colori di grande suggestione: ma graffia quando deve. Da Blue Train a Giant Steps, uscito solo due anni più tardi, il passo è davvero da gigante, e con A Love Supreme la distanza si fa persino difficile da descrivere. Tuttavia questo è un album meravigliosamente energico e anche divertente. Quella superba grandezza di spirito del maturo Coltrane non è ancora del tutto palese, ma John anche come semplice "sax tenore" è indubbiamente straordinario, alla pari di Clifford Brown, Sonny Rollins, Horace Silver e Art Blakey, anch’essi icone jazz di quello stesso periodo. Blue Train contiene tutti gli elementi necessari ad un disco di jazz. Grandi musicisti, grandi assoli e melodie originali che diventeranno in seguito degli standard. Grazie alle incredibili e complesse progressioni di John Coltrane il livello di tutti i musicisti è notevolmente incrementato, di conseguenza tutto suona impeccabile. Analizzando in dettaglio le tracce, si parte con la celebre Blue Train: ammettiamolo, tutti quelli che masticano almeno un pochino di jazz conoscono l'apertura di questa canzone. È un classico affermato. Ogni strumento ha il suo momento per brillare. La tromba di Lee Morgan in particolare è spettacolare, oltre al sax di Trane. Segue una formidabile Moment’s Notice. Questo brano vede una grande interazione tra tutti gli strumentisti. Semplicemente si può dire che si completano l'un l'altro alla perfezione. L'intro di Coltrane evidenzia il suo incredibile timbro ed il suo assolo mostra la sua abilità nel dominare lo strumento. Coltrane ha scritto e registrato questa canzone nel giro di un'ora. Da notare come la difficoltà nel suonare pezzi di jazz dal ritmo serrato, Curtis Fuller riesca a coprire l'intera gamma cromatica con il suo trombone, dimostrando quanto questo strumento possa  essere altrettanto versatile e come può suonare con la stessa forza di qualsiasi altro ottone. Anche la tromba di Morgan è di nuovo dominante e Jones si distingue con il suo drumming perfetto e al contempo fantasioso. Paul Chambers non è da meno, mettendo in luce le sue abilità di solista con un assolo di contrabbasso notevolissimo. Infine il pianoforte di Kenny Drew aggiunge contrappunti e armonie con il suo andamento sempre molto blues. Locomotion è un brano dal ritmo frenetico basato sul blues: è il fragore della batteria di Philly Joe che conduce l'intero gruppo. Sul veloce Coltrane sembra quasi suonare meglio, se possibile, il suo assolo su questa canzone è una versione più lenta e melodica della sconvolgente "Countdown" registrata su "Giant Steps". La cover di I'm Old Fashioned è l’unico non originale dell'album. Questa ballata è stata composta da Jerome Kern e Johnny Mercer, e qui Coltrane si dimostra perfettamente a suo agio anche suonando brani lenti come questo. Chiude un’altra fantastica composizione di Trane, Lazy Bird, che diventerà un classico del jazz. Il pezzo inizia con il piano, Morgan e Fuller sono meravigliosi nei loro assoli, Philly Joe Jones continua a swingare invogliando a tenere il tempo e John Coltrane guida le danze da par suo. Al termine dell’ascolto mi trovo a pensare una cosa: compra qualsiasi opera in cui figura John Coltrane e difficilmente resterai deluso! Lui è stato un artista unico che non ha mai smesso di crescere e migliorare non solo come musicista, ma anche come uomo. John Coltrane ha cambiato la storia del jazz e l’unico rammarico che si può avere è che sia mancato troppo presto.

Alex Han - Spirit



Alex Han - Spirit

Ogni cosa che appartiene all’universo che ruota attorno a Marcus Miller desta immediatamente la mia attenzione. Sin dal debutto con il famoso maestro bassista di New York ho avuto a cuore un giovane sassofonista di nome Alex Han, che milita da anni proprio nella band di Marcus. Lui si è in breve tempo distinto per un talento non comune. Un talento così cristallino che non poteva che approdare presto ad un album solista. Il sassofonista e compositore Alex Han è dunque finalmente uscito nel 2017 con Spirit, il suo primo lavoro da leader: mettendosi in gioco con il suo suono audace, vigoroso e raffinato, l’esordio non poteva essere più interessante. Come è logico il progetto è stato prodotto dal suo mentore: l'insuperabile Marcus Miller. Alex Han è un membro fisso del gruppo di Miller ormai da molto tempo, ed è apparso in molti dei suoi album, continuando al contempo a partecipare alle tournée con il mitico re del basso elettrico. Costruito su dieci tracce in tutto di cui sette originali composti dallo stesso Han più una cover del malinconico hit "Fragile" di Sting, la title track Spirit passionale e meditativa, scritta appositamente per Han da Miller, ed infine il vivace "The Jungle Way Out", composta dal bassista Yohannes Tona.  Spirit è un album che mette in risalto tanto la versatilità di Han quanto la sua innegabile musicalità. E’ Alex stesso a spiegare la sua prima esperienza da solista:  "È stato un lavoro concepito con grande passione, quattro anni di impegno per arrivare a questo risultato", dichiara con orgoglio. “Sono davvero contento che sia finalmente uscito. Come succede durante la registrazione di qualsiasi album, ci sono state alcune difficoltà durante le sessioni, ma tutto è stato superato grazie ad un grande slancio ed alla perseveranza di tutti”. Racconta ancora Han: "Avevo le demo delle canzoni, ma suonavano un po' troppo elettroniche, Marcus Miller mi disse che pur suonando bene, era meglio rifare i pezzi per ottenere un sound più corposo ed naturale". Così abbiamo apportato le modifiche necessarie all’ impostazione di base del disco e ci siamo resi conto che funzionavano molto meglio, perché avevano raggiunto esattamente quell’atmosfera e quel groove che stavamo cercando. Fondamentale per ottenere il perfetto equilibrio del suono è stato il pianoforte di Federico Pena, un tastierista molto stimato, che è stato anche lui un membro della band di Miller. Pena si porta appresso il suo lirismo e la sua sensibilità, ma anche la cura dei dettagli, traslando gli stessi ingredienti del suo personalissimo sound all’album di Alex Han. "Un elemento importante che si coglie nei pezzi è proprio il pianoforte," riflette Han: è stato utilizzato uno Steinway a piena coda e la registrazione fa sembrare il pianoforte proprio come se fosse stato suonato dal vivo con noi. "Oltre a Pena, Miller e Han, suonano in Spirit il bassista James Genus, il percussionista Mino Cinelu, i batteristi Corey Fonville, Louis Cato e Sean Rickman e il chitarrista Adam Agati, solo per citare alcuni dei talentuosi artisti che Han e Miller hanno messo insieme per l’occasione. Alex è un vero prodigio musicale (ha iniziato a suonare il sassofono quando aveva otto anni) e mostra al suo debutto una straordinaria capacità di comporre melodie forti e memorabili: ad esempio "Behold" o la ritmica "Osasia" e ancora l’elegante e funkeggiante "Spectre". Quest’ultima caratterizzata da un bellissimo assolo di chitarra di Agati e punteggiato dai colpi inconfondibili del basso elettrico di Marcus Miller. Han si distingue anche per un’ottima attitudine nelle ballate, come in “Mowgli” dove si esibisce splendidamente al soprano e sulla quale, pur mantenendo il proprio tono personale occhieggia vagamente al fenomenale Branford Marsalis. “Voice Of The King” è un bellissimo tributo alla fede: etereo, ipnotico e appassionato. Descrivendo la sua infanzia Alex Han dice scherzando che ringrazia i suoi genitori per le lezioni di musica che gli hanno fatto prendere da bambino, piuttosto che per il consumo di cibo spazzatura, i videogiochi o la TV a ruota libera. Ma certo è che l'investimento dei genitori nella sua istruzione musicale ha dato indubbi risultati. Poi un grande debito di riconoscenza e un profondo rispetto Han lo riserva anche al grandissimo Marcus Miller, che si dimostra non solo uno dei geni del jazz contemporaneo, ma anche uno straordinario scopritore di talenti. Di fatto Spirit è un album davvero molto interessante e raffinato: Alex Han conferma di possedere un talento cristallino e lascia presagire una luminosa carriera per i prossimi anni. Il sax del futuro.

Eliot Slaughter – The Reinventment


Eliot Slaughter – The Reinventment

Eliot Slaughter è un musicista e polistrumentista di Cincinnati, già bambino prodigio e dotato di un innato talento per la produzione e l’improvvisazione musicale. E’ uno di quegli artisti per i quali le capacità creative si coniugano con il buon gusto e la misura: una boccata d'aria fresca nel panorama dello smooth jazz internazionale. Eliot non solo compone tutta la sua musica, ma suona anche una varietà di strumenti e tra questi il pianoforte e le tastiere in generale sono è i suoi preferiti. Vive in Ohio, ma Slaughter ha viaggiato molto durante la sua giovinezza, dato che suo padre era un militare: ha vissuto in Europa, e in molte zone diverse degli Stati Uniti. A tal proposito Eliot dice: "Ricordo di aver fatto lunghi viaggi con la mia famiglia, quando ero solo un bambino, ascoltando la musica che veniva suonata da mio padre, grande appassionato di jazz e pianista a sua volta”. Erano Miles Davis, John Coltrane, Oscar Peterson, Bill Evans e altri grandi musicisti che suonavano ininterrottamente: così il piccolo Eliot assorbiva tutto, assimilava l’essenza del jazz. Racconta ancora Slaughter: "Io e mio fratello chiedevamo di ascoltare anche Jimi Hendrix, i Beatles e altri artisti sia Pop che Soul e nostro padre ci accontentava” Risulta chiaro come il tastierista sia cresciuto in un ambiente permeato di musica grazie alla passione del padre e ad una acquisita familiarità con tutti i grandi del jazz e con i suoni funky soul della Motown e del rock. Eliot si è laureato al Berklee College of Music di Boston, una scuola dalla quale sono usciti molti tra i più grandi musicisti degli ultimi 50 anni. Invitabile quindi che dopo anni di studio, intenso lavoro e grande dedizione, Eliot Slaughter si sia alla fine evoluto come artista ed abbia creato uno stile personale che è un insieme di melodia e passione con un forte legame con il jazz e il funk. Dopo aver lasciato Boston, Slaughter è diventato un tastierista molto richiesto, finendo per suonare come turnista in molti cd ed in tour con svariati gruppi ed artisti. Non poteva mancare nella sua evoluzione e crescita professionale un ulteriore passo verso il futuro, attraverso l’approdo alla sua prima registrazione da solista, intitolata The Reinventment. Un album che ci rivela un giovane talento con un tocco da maestro su 13 canzoni tutte nuove, molto fresche e rilassate, positive e ariose. Senza particolari ambizioni o pretese di innovazione a tutti i costi, queste sono tracce che piacciono fin dal primo ascolto e mettono di buon umore. Ci sono morbidi groove melodici, non mancano delle belle improvvisazioni, e sono presenti anche alcune ballate di stampo soul. A tratti ricorda il miglior Paul Hardcastle, in particolare quello dei Jazzmasters. Il suo lavoro alle tastiere denota un buon tocco al pianoforte ed un sapiente uso sia dei synth che della programmazione. Gli arrangiamenti sono essenziali, improntati alla massima semplicità senza per questo essere superficiali o trascurati. Eliot Slaughter fa tutto da solo, con la sola eccezione della partecipazione del fratello chitarrista. The Reinventment è in buona sostanza una sintesi dello smooth jazz di facile fruizione. Tracce gradevoli che ben si si adattano alle esigenze di ascolto di una larga fascia di utenti, lontane dal jazz classico ma sufficientemente sofisticate e curate da non essere banalmente commerciali.

Charenee Wade: Offering - The Music Of Gil Scott-Heron And Brian Jackson


Charenee Wade: Offering - The Music Of Gil Scott-Heron And Brian Jackson

Come spesso accade agli artisti che sono oggettivamente in anticipo sui tempi, il grande valore del rivoluzionario cantautore Gil Scott-Heron è stato solo oggi rivalutato e riconosciuto, a molti anni di distanza dall’uscita dei suoi dischi più importanti. Questa figura enigmatica della musica americana dello scorso secolo, è sempre stato circondato da un’aura di rispetto e, per una ristretta cerchia di appassionati è diventato una sorta di culto, senza tuttavia raggiungere mai un vasto consenso. Questo probabilmente è dovuto al fatto che, nella sua carriera, Scott-Heron ha caparbiamente eluso ogni sorta di categorizzazione sia nella musica che per quanto riguarda la personalità. A giudicare dai tributi postumi al suo lavoro che negli ultimi tempi sono sempre più numerosi, la sua eredità è finalmente assurta a quel livello iconico che indubbiamente merita. Il suo compagno musicale durante la sua fase più feconda, il pianista Brian Jackson, ha fornito il fondamentale catalizzatore per gran parte dei migliori album di Gil Scott-Heron ed è riconosciuto come un innovatore nel jazz e nella musica urbana moderna. Un omaggio appassionato a questi due mostri sacri della musica americana è arrivato nel 2015 dalla cantante afroamericana Charenee Wade: compositrice, arrangiatrice ed insegnante, la Wade è nota per il suo precedente album "Love Walked In", del 2011. Prima di questa uscita discografica, ha lavorato per affinare le sue abilità di vocalist, figurando come ospite nelle registrazioni di Tia Fuller, Eric Reed, e della Eyal Vilner Big Band. Armata di una grande passione e di una notevole personalità, Charenee ha deciso di cimentarsi con questo bellissimo “Offering-The Music di Gil Scott-Heron e Brian Jackson”: una raccolta di undici tra i più significativi brani dello storico duo. La Wade non si limita a un disco di banali cover, ma utilizzando i testi e la musica di Scott-Heron e Jackson come trampolino di lancio, porta i contenuti di questo album ad un nuovo livello di innovazione, onorando lo spirito della fonte creativa, evolvendolo grazie ai suoi arrangiamenti e centrando l’obiettivo di trasmettere il messaggio nella sua essenza originale. Le sue trame vocali risultano singolari ed estremamente affascinanti, e riescono a dare un’impronta personale ad un progetto difficile e molto impegnativo. La cantante attinge al momento più prolifico del duo e cioè agli anni '70, quando sia Scott-Heron che Jackson erano all’apice della loro parabola creativa. La title track “Offering” fissa in qualche modo il tono concettuale di tutto il disco, ed appare subito chiaro come il jazz sia una parte importante di questo progetto e la matrice musicale più evidente. "Song Of The Wind" mette in mostra la gamma dinamica e la tensione emotiva che Charenee può coprire, accompagnata in questo dal formidabile vibrafonista Stefon Harris. Lo stesso Harris è presente in numerosi pezzi ed il suo vibrafono è una parte importante e distintiva di questo album. L’atmosfera si fa più impegnata con "A Toast to the People", un saluto ed un omaggio a tutti coloro che si sono impegnati nella lotta di classe. C'è una bella versione di "Home Is Where The Hatred Is", che è certamente uno dei capolavori di Scott-Heron: la Wade è bravissima nel costruire un fraseggio quasi frenetico e la sua voce suona quasi fosse un sax per restituire la canzone con tutta la sua intensità. La strana "Ain't No Such Thing as Superman", è sottolineata superbamente dal bassista Lonnie Plaxico, che scandisce il tempo dando un’inquietante sensazione di liquidità e permettendo alla Wade di esprimersi in lungo ed in largo dentro un brano davvero molto affascinante. "Western Sunrise," che vede protagonista il chitarrista Dave Stryker, è un altro dei classici del repertorio di Scott-Heron ed anche in questo caso la cantante non fa rimpiangere l’originale. Anzi gli appassionati di jazz troveranno questa e le altre esecuzioni ancora migliori di quelle degli anni ’70.  Gil Scott-Heron era anche considerato un “New Black Poet”, una definizione che lui stesso amava e detestava dato che preferiva considerarsi un messaggero della gente di colore, un moderno griot afro-americano. Non è dunque per nulla facile catturare pienamente la sua essenza poetica, ma la Wade fa un’operazione intelligente proprio ponendo l’accento sul lato musicale più che su quello poetico. E’ brava la cantante a trovare la sua strada, anche se è noto che i testi, con la loro nuda franchezza, stanno alla base della musica di Scott-Heron. E’ come se la Wade prendesse in mano l’essenza di quei contenuti, attenuandone il tono, quasi a cercare una via d'uscita da quella follia che è sempre stata così incombente sulla mente di Gil Scott-Heron. Se c'è mai stata una canzone perfetta per la chiusura di questo album, "I Think I'll Call It Morning", è quella che più ci si avvicina: il jazz, il blues, il soul racchiuse in una melodia accattivante che Charenee restituisce in modo solare e limpido. Benchè la musica di Gil-Scott Heron e Brian Jackson fosse universalmente identificata con precisi riferimenti politici, culturali e razziali e fosse portatrice di sentimenti di rivoluzione e cambiamento, portava pur sempre con se un grande ottimismo e la speranza di una società più giusta ed equa. Quest’ultima spendida canzone vuole significare proprio questo: qualunque cosa accada, domani il sole sorgerà e con esso  arriveranno altre opportunità di operare quei cambiamenti e quelle scelte che sono necessarie per un bene superiore e collettivo. Con questo meraviglioso album, Charenee Wade ha dimostrato di possedere un grande talento ed un coraggio raro. Credo davvero che il suo momento sia arrivato, proprio con questa prova di maturità artistica e sapienza vocale del più alto livello. Scegliere di interpretare questo materiale non è stato un percorso facile, ma è qualcosa che rappresenta il vero spirito di un musicista jazz. Charenee ha reso queste difficili canzoni assolutamente sue, ma contemporaneamente ha assemblato un fantastico tributo a due grandissimi musicisti. È una dichiarazione d’amore, un’offerta piena di sensibilità e gusto, una piccola gemma da scoprire con attenzione e conservare con molta cura.

Simon Phillips – Protocol 4


Simon Phillips – Protocol 4

Uomo poliedrico Simon Phillips: non solo straordinario batterista, ma anche produttore, scrittore, ingegnere e compositore. Una personalità davvero eclettica che nella musica e soprattutto nella batteria ha trovato la sua forma di espressione più alta. Protocol è il nome della sua creatura artistica più sofisticata ed interessante, giunta al 4° capitolo della sua evoluzione. La precedente incarnazione della band Protocol aveva registrato “3” nel 2015 ma nel frattempo Phillips ha lavorato con l’Hiromi Trio Project e numerosi altri progetti. Questo Protocol 4 si presenta con un paio di novità importanti, la prima delle quali è una formazione leggermente cambiata. Il bassista Ernest Tibbs è ora affiancato da due nuovi membri, il giovane, pluripremiato e talentuoso Greg Howe alla chitarra ed il maestro jazz-funk Dennis Hamm alle tastiere. Simon Phillips è un musicista alla costante ricerca di stimoli e suggestioni e i cambiamenti nella band ne sottolineano il preciso intendimento. Tutte le nove tracce sono state scritte da Phillips stesso durante un recente tour internazionale. Lo stesso Simon ci tiene a far sapere che la scrittura musicale “on the road” è stata per lui una piacevole scoperta, foriera di nuove idee e stimoli. creativi. L’album inizia alla grande con “Nimbus": a Greg Howe viene dato subito spazio sopra un complesso tessuto ritmico sostenuto sia dalla magica batteria di Phillips che dal potente basso di Tibbs. Tocchi di Fender Rhodes e synth si aggiungono a questo già ricco quadro musicale. E’ inevitabile andare con la memoria al jazz rock degli anni '70, in tutto il suo splendore. I cambi di tempo del brano e le sezioni solistiche restano mirabilmente legati senza mai apparire eccessivi. "Passage to Agra" è esotico e affascinante come suggerisce il suo nome. Il sintetizzatore di Hamm dà il via allo spettacolo, seguito subito da Simon Phillip: un tappeto che fornisce la base per la chitarra elettrica di Howe, presto seguito dal suono di un synth vintage con il quale Hamm arricchisce la tavolozza con dei colori aggiuntivi. "Phantom Voyage" è anche meglio: l'intro del pezzo è dominato dai sintetizzatori, ma poi la scena viene riempita dalla batteria del leader e dal potente gioco del basso di Tibbs. La chitarra di Howe questa volta è blueseggiante per adattarsi al meglio a questo scenario musicale. Curiosamente il suono risultante appare come un mix di atmosfere tra gli Steely Dan e i Toto che l'assolo di piano acustico di Dennis Hamm non fa che impreziosire: grazia e perfezione formale. La chiusura dell'album "Azorez" fa vibrare l'atmosfera e offre un eccellente contrasto con la citata "Phantom Voyage." Tibbs, Howe e Phillips condividono l’introduzione ritmica del brano giusto per dare il via alle danze, prima che Howe si scateni alla chitarra e Phillips segua in rapida successione. La batteria di Phillips e la chitarra di Howe non si calpestano mai, ma invece eseguono uno schema sofisticato costruito attorno ad un ritmo davvero serrato. È tutto così abbagliante da essere facile dimenticarsi del groove che Earnest Tibbs imbastisce con il suo basso o della bella combinazione tra il Fender Rhodes e il sintetizzatore proposta dal tastierista Dennis Hamm. Ma fortunatamente, la registrazione di Simon Phillips è così nitida e chiara che ogni parte viene catturata con estrema perizia e dovizia di particolari. Ovviamente se si è già dei fan di Simon Phillips, il Protocol 4 non sarà una sorpresa. Le nove tracce sono tutte interessanti e dinamiche. Poliritmie, complicati intrecci sonori, arrangiamenti arditi sono il marchio di fabbrica del Protocol, che tuttavia non perde completamente di vista la fruibilità di melodie difficili ma non impossibili. Il grande batterista dimostra qui ancora una volta la sua bravura nel sapersi dividere tra composizione, produzione e arrangiamento, senza dimenticarsi del suo talento di batterista. Se è lecito porsi una domanda su quanto e come il Protocol 4 differisca dal predecessore Protocol 3, la risposta è duplice: da un lato Simon Phillips continua ad evolversi come musicista a tutto tondo. Da un altro punto di vista sia Greg Howe che Dennis Hamm apportano, rispetto ai loro stimati predecessori, una ventata di novità con un orientamento leggermente più funky rispetto ai contenuti musicali dell’album precedente. Risulta chiaro anche per queste ragioni che Protocol 4 è un altro lavoro di Simon Phillips che è consigliabile ascoltare. E' il jazz rock del terzo millennio, merita attenzione.

Donald Fagen - Kamakiriad


Donald Fagen - Kamakiriad

La premessa di questo post è che io adoro Donald Fagen, come compositore, come pianista e come arrangiatore, lui è davvero uno dei miei idoli musicali fin dai tempi dei primi Steely Dan. Parlando del secondo lavoro da solista di Donald Fagen non bisogna lasciarsi influenzare da alcune recensioni di alcuni critici con il “paraorecchi”, posso dire che sono ingannevoli. Vorrebbero far credere che "Kamakiriad" sia un lavoro minore di Fagen ed in qualche misura non allo stesso livello qualitativo del materiale che il musicista del New Jersey ha pubblicato con Walter Becker sotto il rinomato brand chiamato Steely Dan e poi con il capolavoro da solista “The Nightfly”. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Tutto su Kamakiriad è altrettanto solido, se non addirittura migliore di qualsiasi album degli Steely Dan ad eccezione forse del solo "Can Not Buy A Thrill". L'unica vera differenza è che i brani presenti su Kamakiriad sono mediamente più funky, più leggeri e probabilmente più giocosi della maggior parte della musica degli Steely Dan. Anche Kamikiriad è un concept album, ma questa volta guarda al futuro piuttosto che al passato prossimo. Le canzoni ruotano attorno ad un viaggio su una nuova immaginaria auto di Donald Fagen e, sebbene non abbia ottenuto la stessa accoglienza di The Nightfly, il tempo ha dimostrato che anche questo è un album di valore e che ha un suo preciso fascino. Walter Becker è qui impegnato nelle vesti del produttore, oltre a suonare il basso e la chitarra solista: un cambiamento significativo rispetto a The Nightfly è la presenza di un gruppo principale che, ad eccezione della batteria condivisa da Leroy Clouden, Christopher Parker e Dennis McDermott, rimane lo stesso in tutte le otto tracce dell'album. Un altro tratto distintivo se confrontato con il capolavoro di undici anni prima è che le tracce sono, in media, più lunghe: durano infatti non meno di cinque minuti e una in particolare, la dolce ballata "On the Dunes" arriva addirittura oltre gli otto. Le sezioni solistiche sono anch’esse dilatate così come le dissolvenze e per questo qualcuno potrebbe giudicarle eccessive, ma i groove sono sempre così convincenti che francamente nessuna delle canzoni da la sensazione di superare il limite del buon gusto. Armonicamente, Kamakiriad è di fatto anche più complesso dello stesso The Nightfly, in particolare per l’uso dei fiati più massivo ed anche per i più ricchi arrangiamenti vocali. Ovviamente è superfluo sottolineare che nessun album di Fagen (o degli Steely Dan) potrà mai essere considerato grezzo o approssimativo: la realtà è che sono lavori di grande eleganza formale e sofisticata struttura, al punto da rasentare quasi sempre la perfezione. È un esercizio inutile provare a contare il numero di singole tracce usate in ogni canzone: la capacità di Fagen di creare arrangiamenti magicamente ricchi di texture e tuttavia mai ridondanti è assolutamente unica ed irripetibile. Così come quel modo singolare ma affascinante di usare gli accordi di tastiera. Un talento fantastico quello di Donald, che è in netto contrasto con quello di altri musicisti, per i quali le infinite possibilità dello studio di registrazione finiscono spesso per dar luogo a meri tentativi di buttare tutte le idee dentro alle tracce, sperando che alcune di esse funzionino. Il credo di Donald è pensare “jazz” dentro alle composizioni pop. Come dicevo Kamakiriad non ha un impronta altrettanto jazzistica di quella di "Nightfly", questo è un altro dei motivi per cui la critica lo ha sottovalutato. In effetti, l'album che più assomiglia a "Kamakiriad" è probabilmente "Two Against Nature", che è stato registrato però dagli Steely Dan, con la differenza che il solo di Fagen è più coerente e mostra un maggior fascino nelle melodie vocali. Chi ha apprezzato il successivo album "Morph the Cat" ma non conosce Kamakiriad, troverà comunque lo stesso tipo di approccio musicale. Il materiale è tutto eccezionale, arricchito come sempre dalle tastiere di Fagen e dal supporto di una band di musicisti straordinari. Dal trascinante funk di Trans Island Sky,  all’intrigante e melodiosa Snowbound fino alla piacevolmente ballabile Florida Room si viaggia in un universo di composizioni bellissime e piacevolmente melodiche ma mai banali. Si continua con un brano iconico dello stile di Donald come Tomorrow’s Girls che ritmicamente e armonicamente racchiude tutte le tipiche caratteristiche degli Steely Dan. La stessa cosa si può dire anche di Teahouse On The Tracks, perfettamente condita di arrangiamenti fiatistici e suoni che spuntano qua e là, sempre al posto giusto nel momento giusto. Se proprio si vuol trovare qualche pecca nel secondo disco del geniale Fagen, si potrebbe osservare l’eccessiva lunghezza del brano 'On the Dunes' che finisce per ripetersi e forse la mancanza di un pezzo assolutamente memorabile (sul genere di I.G.Y, per intenderci). Resta il fatto che Kamakiriad può vantare una qualità complessiva di livello elevatissimo: come quasi tutto quello che esce dal magico tocco di Donald Fagen. Non sarà svavillante (ed epocale) come The Nightfly, ma è comunque un piccolo gioiello a cavallo tra il funky pop più sofisticato ed il miglior smooth jazz. Kamakiriad è anni luce sopra la musica commerciale degli anni novanta ed ancora attuale dopo quattordici anni: la musica di Donald Fagen è senza tempo ed è un ascolto consigliato a tutti.

Django Bates & Beloved - The Study Of Touch


Django Bates & Beloved - The Study Of Touch

Il pianista inglese Django Bates torna a registrare per la ECM con una delle sue più raffinate formazioni, il trio Belovèd, formato dal bassista svedese Petter Eldh e dal batterista danese Peter Bruun, in un album intitolato The Study of Touch. Tutti e tre questi musicisti sono strumentisti di grande personalità, che insieme sfidano in modo sottile ed intelligente le convenzioni del classico trio di jazz con al centro il pianoforte. Il gruppo è nato un decennio fa, quando Bates insegnava al Conservatorio di Copenaghen. Il lavoro scaturito dalla collaborazione tra i musicisti si ispirava alla musica ed allo stile di Charlie Parker ,che è stato senza dubbio un'influenza altamente formativa sia per Bates che per il bassista Eldh. Non a caso, in questo nuovo album, il brano di Parker "Passport" è inserito tra i pezzi originali di Django e suonato con rispetto, una intelligente sensibilità contemporanea e molto entusiasmo. Alcuni dei brani di Bates inseriti in questo lavoro sono diventati dei numeri essenziali nel repertorio del trio Belovèd, e dal vivo vengono continuamente rimodellati da questi formidabili improvvisatori. Le capacità di composizione e di arrangiamento di Bates sono evidenti, insieme al suo senso melodico intriso di virtuosismo e da una fluida e prorompente libertà espressiva. Il basso di Petter Eldh è percussivo e preciso e assicura il miglior groove per il tocco quasi pittorico del batterista Peter Bruun. Quello che scaturisce dal felice interplay di questi tre artisti è un approccio al suono jazz del tutto personale e molto stimolante. Nel contesto piuttosto variegato e ricco di offerte del trio jazz di pianoforte, i Belovèd sono indubbiamente una proposta alternativa di grande spessore. La registrazione è stata effettuata presso lo studio Rainbow di Oslo nel giugno del 2016 ed è stata prodotta dal patron della ECM, Manfred Eicher. Il pianista Django Bates ci offre una lettura del suo strumento carica di ironia eppure piena di una sua grazia e di uno stile ineccepibile pur nella sua irriverente vitalità. Questo è un trio per coloro che amano questo genere di combo jazzistiche ma anche per quegli appassionati che invece proprio non apprezzano l’essenzialità dell’abbinamento piano, basso e batteria. Ma l’eclettismo musicale di Django Bates non è certo cosa di oggi, infatti è dal 1979 che il musicista inglese è attivo. Un’esperienza lunga, maturata suonando con artisti di estrazione diversa tra i quali Bill Bruford, ex batterista di Yes e King Crimson, o il pianista George Russell e ancora il sassofonista free Tim Berne. Bates ha indubbiamente avuto un ruolo importante nel movimento jazzistico britannico. In ogni caso, ascoltando questo inusuale album si viene colti da una sottile sensazione di stupore che prende forma, ad esempio, su un brano come "Giorgiantics", che rompe gli schemi del jazz classico. In altre circostanze il bizzarro Django si muove alla perfezione nello stile canonico, come su "Little Petherick", un pezzo dove appare evidente da parte del bassista Eldh e del batterista Bruun la condivisione dell’ispirazione e del pensiero musicale del leader. Il disco si snoda attraverso numeri interessanti e sempre originali come "Senza Bitterness", la lunghissima "The Study Of Touch", e "Slippage Street" dai toni quasi stravaganti. Non mancano incursioni nel romanticismo rivisto alla sua maniera in "Peonies As Promised. Il trio rende un tributo importante a Charlie Parker, come fatto in passato con Beloved Bird, e non a caso  il momento migliore è proprio quando i tre si cimentano con un classico di Bird come "Passport": due minuti e quaranta secondi di puro divertimento jazzistico. The Study Of Touch è l’espressione di un modo nuovo e alternativo di proporre la formula del trio jazz. Django Bates è un innovatore dalla tecnica sopraffina, pieno di talento e originalità ed  in grado di offrire una visione del jazz contemporaneo davvero molto interessante.

Cory Weeds & The Jeff Hamilton Trio: Dreamsville


Cory Weeds & The Jeff Hamilton Trio: Dreamsville

E' naturale vedere come la sostanza ed il contesto del jazz cambino e si evolvano continuamente, ma è anche innegabile come la base di questa straordinaria musica rimanga da sempre saldamente inalterata: nel tempo si è consolidata nella sua grande creatività e nella costante ricerca della massima libertà nell’improvvisazione. E quando si parla di improvvisazione, è impossibile non pensare a quale immenso impulso abbia regalato al genere, nel corso dei decenni, uno strumento come il sassofono. Il legame indissolubile e fortissimo del sax con il jazz e lo swing sono cristallizzati nelle registrazioni di geni immortali come Lester Young, Charlie Parker, Dexter Gordon, Wardell Gray, Stan Getz, Zoot Sims, Gene Ammons, Johnny Griffin, Hank Mobley, Sonny Rollins, John Coltrane e moltissimi altri, fin troppo numerosi per essere menzionati. Nell’era moderna, fino a giorni nostri, il sax ha potuto continuare a risplendere grazie alle doti ed al talento di tanti altri musicisti, e tra questi bisogna certamente aggiungere il nome di Cory Weeds: un brillante sassofonista canadese di Vancouver. Dreamsville è la sua seconda registrazione con il superbo trio di Jeff Hamilton, una formazione classica che è esattamente quello che ci vuole per permettere al bravo Cory di raccogliere l’eredità della grande tradizione jazzistica del sax. Weeds va dritto alla meta, con un approccio rigoroso ed un suono puro, fedele ai canoni dell’hard bop. Fraseggi e lirismo sono ai massimi livelli, nel massimo rispetto della retaggio immortale dei grandi maestri del passato. Il trio che accompagna Cory Weeds in questa avventura è di una qualità straordinaria a partire dal drumming di Hamilton, continuando con il pianista Tamir Hendelman e finendo con il contrabbassista Christoph Luty. Uno straordinario team che suona insieme da più di due decenni, per il quale ogni passaggio è un paradigma di quello che si definisce  gusto, equilibrio e coesione. Jeff Hamilton è un maestro sia con le spazzole che con le bacchette: un abile,espertissimo metronomo consapevole di non aver bisogno di essere invadente e rumoroso per dimostrare il suo talento. Hendelman e Luty sono semplicemente perfetti nell’accompagnamento al leader Cory Weeds ma sanno essere stimolanti quando sono loro stessi ad assumere il ruolo di solisti. Dietro a tutto questo c’è comunque la musica, che è meravigliosa sotto tutti i punti di vista, con una gamma completa di brani che va dalle ballate romantiche agli impetuosi pezzi tipici dell’hard bop. Weeds ed il trio eccellono in tutte le canzoni contenute in questo splendido album. Cory Weeds è autore della veloce e swingante "How Do You Like Them Apples" Hendelman della scattante "Bennissimo". Ed è molto bello anche ascoltare classici come "Who Can I Turn To",  "Robbins Nest" e la dolce e delicata "Dreamsville" di Henry Mancini o ancora "Blue Daniel" di Frank Rosolino che sono temi non molto noti, eppure nobiliati da un’interpretazione di alto livello. Personalmente mi piace moltissimo la cover della bellissima canzone "The Lady Wants To Know" di Micahel Franks, qui interpretata con sentimento e passione dall'espressivo sax di Cory. C’è spazio anche per un brano  come "Hammer's Tones" che è stato scritto dal sassofonista svizzero George Robert, uno dei mentori di Cory  Weeds. In sintesi Dreamsville è un album superlativo regalatoci nel 2017 da Weeds con il valido supporto del trio di Jeff Hamilton: un degno successore del loro precedente e già molto interessante lavoro intitolato This Happy Madness. Questa è una registrazione da cinque stelle, perfetta per gli appassionati di jazz ma raccomndabile anche per chi volesse avvicinarsi al genere senza incappare nelle insidie di contenuti troppo complessi e qualche volta noiosi.

Jason Rebello - Anything But Look


Jason Rebello - Anything But Look

Jason Rebello è stato uno dei più promettenti pianisti inglesi dei primi anni '90 ed il suo talento è ancora oggi un punto fermo nel jazz britannico. Jason ha iniziato a suonare il pianoforte classico quando aveva solo nove anni e all’inizio si interessò di pop e soul ma a 16 anni, dopo aver ascoltato Herbie Hancock decise di lanciarsi nel mondo del jazz. Nel momento di massima espansione del fenomeno acid jazz, conobbe una certa popolarità, e registrò anche alcuni dischi piuttosto interessanti. In seguito, con l’avvento del nuovo millennio, scomparve letteralmente dalla scena discografica per ritagliarsi un importante ruolo come tastierista nei tour al fianco di grandi artisti. Dopo sei anni di concerti e di collaborazioni con il popolare cantante e bassista Sting e altri sei con il chitarrista Jeff Beck, Jason Rebello uscì finalmente nel 2013 con Anything But Look, ovvero il primo album contenente materiale originale dai tempi di Next Time Around del 1999. Staccandosi dal jazz prettamente acustico di quell’album, Rebello ritornò ad un genere di jazz fusion vicino a quello di Herbie Hancock con contaminazioni soul-funk simili a quelle dei suoi album degli anni ’90. L’operazione è riuscita molto bene al pianista poiché questo lavoro è indubbiamente di alto livello. Gli echi Hancockiani conditi da un sentore di Stevie Wonder sono la sintesi di questa bella registrazione, arricchita non a caso dalla presenza di uno dei migliori cantanti soul britannici: Omar. E infatti proprio la voce tenorile di Omar evoca lo Stevie Wonder della metà degli anni '70 sulla notevole "Know What You Need", con il contorno funk del bassista Pino Palladino ed il tocco dello stesso Rebello al piano elettrico. Jason si distende al pianoforte alla fine del brano, ma qui è proprio la melodia ad essere il fulcro di tutto. Parlando di composizioni, la scrittura di Rebello è qui tra le sue migliori di sempre, in un contesto dal sentore commerciale ma non certo banale. "With Immediate Effect"  ricorda in qualche maniera il gruppo di Pat Metheny, poichè il vocalismo di Joy Rose intona una solare melodia accostabile al lavoro del cantante e percussionista Pedro Aznar proprio all’interno del PMG. Anche in “Anything But Look” si risente qualcosa di Pat Metheny, in particolare ascoltando il pianoforte e le tastiere delicatamente liriche di Rebello, che non possono non rimandare al dna del tastierista Lyle Mays. "In the Thick of It"  segue un percorso simile, con i vocalizzi di Jacob Collier che definiscono la melodia e Rebello che si mette in evidenza, attraverso il pianoforte e il synth, negli assoli forse più dinamici dell’intero album. Un altro strumentale, "Without a Paddle",  trova nuova linfa da un'inedita energia neo-latina, punteggiata dal groove del chitarrista Paul Stacey e dall’immancabile pianoforte del leader. "The Man on the Train" è caratterizzato dalla percussionista Miles Bould, ma è il cantante Sumudu Jayatilaka che porta un tocco di soul-jazz a questo brano tinto di samba sul quale Rebello ricama dal par suo al piano. E’ inusuale invece "Dark Night of the Soul", che Jason imposta su una ritmica nervosa, quasi ska, per valorizzare l’intervento vocale quasi classico di Alicia Carroll. Il formidabile cantante Will Downing è invece protagonista di una romantica ballata su "Is This How". "New Joy" vira su atmosfere decisamente neo-soul, attraverso il canto di Joy Rose, per un brano che ha anche avuto un seguito di successo nelle radio. Al cantante Xantoné Blacq è affidato il compito di tornare agli echi di Stevie Wonder su "Lighten up the Road", una ottima melodia ricca di sfumature salsa splendidamente cesellate da un Rebello in piena forma; da segnalare nell’arrangiamento il sapiente uso delle percussioni. Neo-soul, jazz, funk, groove latini ed un ricco contenuto di fusion compongono il cocktail di Anything But Look: il risultato è un album di sicuro fascino stilistico e grande raffinatezza con un moderato, ma non sgradevole, tocco commerciale. Jason Rebello dimostra che la musica può essere sia divertente che sofisticata e lo fa con la maestria compositiva e la tecnica pianistica che sono a lui proprie. Questa è la registrazione che ha segnato il positivo ritorno del pianista e compositore inglese nel panorama discografico internazionale: la sua assenza in verità era durata troppo a lungo.

Joe Lovano & Greg Osby – Friendly Fire


Joe Lovano & Greg Osby – Friendly Fire

Il sodalizio artistico tra i due sassofonisti Joe Lovano e Greg Osby, sull’album del 1999 Friendly Fire, è uno degli eventi di un certo peso scaturiti dal 60° compleanno della storica etichetta Blue Note. Da una registrazione come questa si evince la differenza tra l’epoca del patron Alfred Lion e l’attuale gestione di Bruce Lundvall. Quello che una volta era un accadimento regolare, quasi ordinario, cioè la collaborazione di due o più musicisti di jazz, al giorno d’oggi è possibile solo attraverso la creazione di progetti speciali, legati quasi sempre ad eventi straordinari. Di sicuro, non sono certo Lovano e Osby una coppia di musicisti destinata a collaborare in modo stabile, tanto più per via dei loro temperamenti diversi e delle loro differenze stilistiche. Joe Lovano possiede un feeling hard bop sufficientemente radicato per dare corpo a produzioni mainstream ricche di pathos, inoltre è dotato di un’abilità particolare nel dare cuore e bellezza anche a composizioni di piccolo cabotaggio. Greg Osby è un musicista diverso, che ama vivere borderline le sue esperienza musicali, contaminando la sua matrice jazzistica post-bop con forme musicali moderne come l’hip-hop: la nostalgia non è certo parte integrante del suo bagaglio artistico. Ciò nonostante Lovano e Osby hanno fatto, su questo album, delle ottime scelte sia per quanto riguarda la scelta dei brani sia in riferimento alle loro performance. La band vede la collaborazione del pianista Jason Moran e l'abituale bassista di Lovano, Cameron Brown più la partecipazione del formidabile batterista Idris Muhammad: una combinazione di talenti che produce una chimica ricca di contrasti e confluenze sonore di grande fascino. La sezione ritmica composta da Brown e Muhammad si dimostra sempre in perfetta sintonia con l’agile tecnica pianistica di Moran. Il combo dei tre si muove con disinvoltura dentro il cuore delle composizioni pur senza trascurare l’esplorazione e l’improvvisazione. Jason Moran in particolare sembra avere una particolare sensibilità su quando e come restare un po’ in disparte per consentire a Brown di imbastire le sue precise linee di basso e magnificare al contempo la meravigliosa propulsività della batteria di Muhammad: entrambe possono così emergere in primo piano. Lo stesso Moran mette in evidenza un pianismo fluido e variegato, sempre molto interessante La formula di Firendly Fire è chiara: i due leader contribuiscono pariteticamente nel firmare i brani e nell’esecuzione degli stessi: l’alchimia tra i due funziona a meraviglia e capita di rado di ascoltare risultati di questo livello. Le tre composizioni scritte da Osby sono: "Geo Jlo", un coinvolgente tema ricco di frasi che ricordano Eric Dolphy a formare un affresco musicale effervescente. "Silenos" è invece una bellissima ballad, quasi sorprendente se si pensa alla musica solitamente offerta da Greg Osby. “Truth Be Told” infine mostra ancora un Osby diverso e quasi intimista. I contributi di Joe Lovano comprendono due lunghi pezzi: "Idris" è una composizione complessa ed articolata in cui Joe si esibisce anche al flauto con reminiscenze alla Steve Lacy.  "Alexander The Great", è costruita con uno stile hard bop pungente ed altamente energetico. Infine “The Wild East” che percorre ancora i sentieri del be bop in modo brillante. Il quintetto si cimenta poi in alcune cover, tre le quali c’è una interessante ripresa di "Serene" di Eric Dolphy, una nervosa e affascinante versione del "Broadway Blues" di Ornette Coleman, e un'eccellente versione della famosa "Monk's Mood" di “Thelonius Monk. La rivisitazione di questi classici non fa altro che arricchire il set proponendo alcuni brani di grande spessore molto ben eseguiti dalla band nel suo complesso. Traccia dopo la traccia, Lovano e Osby riaffermano costantemente le loro diverse personalità, ma attraverso i loro scintillanti scambi musicali vanno anche oltre i loro soliti elevati standard artistici. Quella tra Joe e Greg è un’accoppiata di talenti che avrebbe anche potuto avuto un potenziale a lungo termine, ma è figlia di una ricorrenza molto speciale come il 60° compleanno di un’etichetta storica come la Blue Note e proprio per questo unica. Il tempo ha dimostrato che è stata una bellissima eccezione e, in questi vent’anni, di fatto non si è ripetuta; per ascoltare i due sassofonisti suonare ancora insieme ci sono rimasti solo i concerti dal vivo. A testimoniare un ottimo momento creativo per entrambe i musicisti ci resta questo Friendly Fire: da una parte un paladino del post-bop, molto legato alla tradizione, dall’altra un esponente di rilievo della contaminazione con le forme artistiche più recenti. E’ solo un altro tassello nell’incredibile storia del jazz, ma è pur sempre un disco di valore.

Phil Upchurch – Lovin’ Feeling


Phil Upchurch – Lovin’ Feeling

Phil Upchurch è stato un personaggio di primo piano nei circoli musicali di Chicago a partire dalla metà degli anni '50 ed è ancora attivo ai giorni nostri. Chitarrista talentuoso e prolifico egli è in grado di distinguersi con uguale efficacia e disinvoltura con il blues, il soul, l’R & B ed il jazz. Molti lo conoscono soprattutto per il suo lavoro come session man a fianco di un gran numero di artisti (tra questi George Benson, Donny Hathaway e Hubert Laws e anche Michael Jackson, ad esempio) in larga parte la sua fama deriva proprio per il ruolo di chitarrista ritmico tenuto nel corso di queste collaborazioni. Ma Phil è invece anche un grande solista e la sua carriera è corredata da un portafoglio di oltre venti album. Upchurch è un chitarrista dotato di grande sensibilità, dal tocco morbido e vellutato ma capace di slanci funky irresistibili, improvvisazioni molto creative e una innata adattabilità verso ogni genere musicale nel quale si cimenti. All’inizio della sua avventura artistica il suo riferimento fu il jazz classico, ma con la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 il suo stile si orientò sempre di più verso il funk ed il soul-jazz, come testimoniato dai suoi album registrati per l’etichetta Cadet. Lovin’ Feeling, del 1973, è un chiaro segnale di un allontanamento dalle atmosfere acide e nervose del precedente periodo in favore di una svolta verso il più morbido e sofisticato sound jazz della West Coast. Phil aveva lasciato Chicago un anno prima, e, dopo aver registrato Darkness, Darkness con Tommy Li Puma come produttore, decise di stabilirsi in California. Esperienza che evidentemente fu positiva visti i risultati artistici che si possono ascoltare  su quell'album. In questa ulteriore produzione Phil Upchurch brilla particolarmente ispirato, insistendo sul groove ma condendo tutto di un'atmosfera decisamente jazzy: c’è molto funk, si percepisce il soul  ma tutto è tutto miscelato con una vena di morbida scorrevolezza. E’ innegabile che Upchurch sia un maestro della chitarra e in questa circostanza i suoi compagni d’avventura sono stati scelti con grande cura. Phil ha anche inserito il bassista Lucky Scott della band di Curtis Mayfield. Inoltre Lovin’ Feeling segna anche la prima apparizione nel gruppo di Upchurch del suo futuro braccio destro, il pianista e cantautore, Tennyson Stephens. Questo album registrato nel pieno della rivoluzione musicale degli anni ’70  può essere considerato certamente uno dei momenti migliori nella carriera di Upchurch. Il chitarrista mette in mostra la sua profonda sensibilità melodica e il suo lirismo cromatico sia nel lavoro come solista che in quello ben noto di accompagnamento. La sonorità di Phil è talmente originale da rendere il suo stile in qualche modo unico. Sono diversi i brani interessanti e tra gli altri spiccano una rilettura di "You've Lost That Lovin 'Feelin" (che compete con qualsiasi versione vocale, inclusa quella  degli esecutori originali, The Righteous Brothers) e uno standard dello stesso Upchurch, "Another Funky Tune". Laddove gli accordi e gli arrangiamenti di fiati  creano il contesto, come in "I Still Love You" e "Sitar Soul", la sezione ritmica spinge ancor di più Phil Upchurch in stupefacenti evoluzioni chitarristiche ricchissime di groove della miglior specie. In alcuni numeri veloci gli arrangiamenti più complessi vengono relegati in un posto più di seconda linea in favore di un approccio più diretto e pilotato dalle tastiere, come ad esempio in "Washing Machine" o "You've Been Around Too Long" entrambe genuinamente funky. E’ qui che l’ispirato Upchurch si mette in luce con i suoi giochi  di chiatrra wah-wah, dispensando funk groove dentro un cuore soul. Una trasformazione ed un movimento continuo tra arpeggi e assoli  che suonano sempre magnificamente puliti pur nel loro furore ritmico. Atmosfere da club, sensuali e morbide, che avvolgono l’ascoltatore in un abbraccio coinvolgente ed affascinante sia che si tratti di brani veloci, sia che Phil proponga la sua visione delle ballads. Lovin' Feeling è un disco chiaramente orientato verso gli amanti della chitarra elettrica, che qui è sempre in primissimo piano ed assoluta protagonista, tuttavia non mancano spunti per attirare anche coloro i quali hanno un debole per il jazz ed il funk degli anni ’70. Lovin’ Feeling è un album davvero sorprendente dall'inizio alla fine: nell’ambito di una carriera importante e all’interno di una discografia corposa, si tratta di un lavoro tra i migliori in assoluto.

Benny Goodman – Benny in Brussels


Benny Goodman – Benny in Brussels

Ipotizzando un ideale trittico di strordinari musicisti legati al mondo dello swing e delle big band, dopo Duke Ellington e Count Basie non poteva mancare un altro gigante come Benny Goodman. Classe 1909, Goodman nacque a Chicago da poveri immigrati ebrei provenienti dalla Russia, è iniziò a studiare la musica ed il clarinetto in giovanissima età, incoraggiato proprio da suo padre. Nella sua città, nuova capitale del jazz degli anni Venti, il giovane Benny Goodman si distinse subito nelle sue esibizioni per l'eleganza formale e la notevole raffinatezza stilistica, oltre che per l'evidentissimo rispetto delle regole armoniche, di ovvia scuola europea. Cominciò presto a pubblicare dischi sotto il proprio nome ed anche se ancora acerbo non mancò di farsi notare ed apprezzare anche presso il grande pubblico. Negli anni '30 suonò con band di livello nazionale: quelle di Red Nichols, Isham Jones e soprattutto Ted Lewis. Nel 1934 Goodman fondò finalmente la sua propria Big Band che unì per la prima volta musicisti bianchi e di colore: anche questa fu una piccola rivoluzione. Con il suo perfetto fraseggio e la sua tecnica sopraffina raggiunse in pochi anni il riconoscimento non solo del mondo Jazz ma anche di molti appassionati di musica estranei al jazz stesso. Una curiosità: nel 1928 Goodman registrò l'unica testimonianza a noi nota nella quale si cimentò occasionalmente con il sassofono, sia alto che baritono. Il suo strumento elettivo fu per sempre il clarinetto, strumento del quale è probabilmente il solista più famoso della storia del jazz. L’album “Benny in Bruxelles” (Columbia, originariamente pubblicato su due LP separati) è stato registrato durante la Brussels World Fair del 1958, tra il 25 e il 31 Maggio ed in realtà ne esiste una versione ancora più completa con un ulteriore terzo disco. Benny Goodman è venuto in Europa molte volte nel corso della sua carriera, ricevendo sempre un’accoglienza entusiastica, a dimostrazione di una popolarità che anche nel dopoguerra non smise di restare viva. Questa registrazione dal vivo è una delle sue incursioni più note nel Vecchio Continente. In quell’occasione Goodman era accompagnato dalla sua big band (sebbene si sia esibito anche suonando alcune canzoni con formazioni più ristrette), alla quale si era unito come ospite speciale il celebre cantante Jimmy Rushing. Come indicato nelle note di copertina originali, anche in questa occasione la big band fu accolta molto bene dal pubblico europeo. Un successo così travolgente da convincere la Columbia ad acquisire le registrazioni effettuate nell’occasione dalla Westinghouse Broadcasting Company per poi pubblicarle nei due (poi diventati tre) diversi album intitolati per l’appunto “Benny in Bruxelles Vol.1, Vol. 2 e Vol. 3”. Sulla versione tripla sono presenti, come detto, non solo i due album originali, ma ogni altra registrazione conservata di quella incredibile settimana di concerti. Oltre a Benny Goodman, spiccano in queste registrazioni il bravo cantante Jimmy Rushing, lo straordinario sassofonista Zoot Sims, il trombettista Taft Jordan ed il pianista Roland Hanna (che era ancora sconosciuto all’epoca), in seguito protagonista di una bella carriera da solista. Il repertorio copre tutti i classici del clarinettista, catturato in splendida forma e supportato da un’orchestra composta dai suoi fidati elementi, ciascuno dei quali dotato di grande talento. L’amalgama della big band è perfetta, il sound è trascinante e festoso pur non mancando di sfumature ed accenti diversi e variegati che non fanno altro che mettere in luce l’indiscussa qualità del band leader, che sul palco appare come un vero e proprio istrionico mattatore. Sempre in perfetto controllo sul suo clarinetto, capace di voli virtuosistici entusiasmanti ma anche di morbide e sensuali interpretazioni sulle ballads, Benny Goodman è stato di fatto un vero e proprio guru del suo strumento ed al contempo un direttore d’orchestra tra i più competenti e talentuosi dell’intera storia del jazz. La sua stella brilla luminosa nel firmamento della musica del secolo scorso.

Count Basie – Montreux ‘77


Count Basie – Montreux ‘77

Il leggendario Count Basie è da considerare senza dubbio un’altra importante icona nel panorama mondiale del jazz classico. Pianista, compositore e arrangiatore classe 1904, rimase attivo dalla fine degli anni ’20 fino al 1984. Con la sua grande orchestra ha ottenuto grandi successi ed una diffusa popolarità grazie principalmente a due fattori determinanti: un sound dinamico e molto coinvolgente ed un repertorio leggero e fruibile, in grado di guadagnarsi le simpatie di una vasta platea di ascoltatori. A metà degli anni ’30 la trasmissione via radio della musica del gruppo ne decretò il definitivo successo e in breve tempo la Count Basie Orchestra diventò una delle principali big band dell'era dello swing. Con il passare degli anni, ed a seguito delle numerosissime registrazioni, in studio e dal vivo, il “Conte” divenne un punto di riferimento del jazz mondiale e la sua band una sorta di istituzione ma anche una vera scuola per giovani musicisti, tra i quali ad esempio Frank Foster, Frank Wess, Eric Dixon, Eddie "Lockjaw" Davis (sax), Thad Jones, Joe Newman, Sam Noto (tromba), Al Grey e Jimmy Cleveland (trombone), Sonny Payne (batteria). Da segnalare sul finire degli anni '50 e i primi anni '60, le collaborazioni con alcuni grandi cantanti come Frank Sinatra, Sammy Davis, Jr., Ella Fitzgerlad e Tony Bennett: un periodo che risultò sgradito agli appassionati di jazz più integralisti. Una situazione che portò Basie, nella seconda metà degli anni sessanta, al ritorno ad una musica più in linea con la sua storia. Di fatto Basie ha sempre dato la sensazione di avere una marcia in più durante i concerti dal vivo: non a caso questa registrazione relativamente recente effettuata nel 1977 al Montreux Jazz Festival ne è un esempio chiarissimo. Il suono tra l’altro è catturato con una qualità eccellente e consente di apprezzare pienamente anche quei dettagli che nei dischi più “anziani” non si riescono a cogliere. Il produttore Norman Granz ricorda a questo proposito che il pianoforte del Conte è accidentalmente più accentuato del solito a causa della scarsa familiarità dell'ingegnere del suono con i timbri acustici della band. In conseguenza di ciò, tutta la sezione ritmica, incluso l’oscuro lavoro del chitarrista Freddie Green, è esaltata. Risulta così evidente quanto combustibile provenisse proprio dal lavoro del quartetto piano-chitarra-basso-batteria per alimentare la potenza di questa big band. Si tratta peraltro di una formazione composta da musicisti di alto livello, con la presenza di Al Grey, Jimmy Forrest, Charles Fowlkes e, naturalmente, del già citato e bravissimo Freddie Green. Count Basie non era un musicista solito ripetere all’infinito i suoi cavalli di battglia, fossilizzandosi per decenni sugli stessi brani, per questa ragione troviamo anche numeri recenti, come il roboante pezzo d’apertura "The Heat's On" e "Freckle Face", che fu scritto da Sam Nestico. Il sassofonista Jimmy Forrest si mette in evidenza sulla sua ballata originale "Bag of Dreams", brano molto bello ricco di accenti e sfumature interessanti. Ma Basie era anche consapevole della necessità di compiacere il suo pubblico con i grandi successi, perciò mette in prima linea Al Grey in una bella interpretazione di "The More I See You" e il trombettista Waymon Reed in una  valida performance dell’immortale "A Night In Tunisia". Il concerto non dimentica nemmeno un trittico di melodie famosissime da sempre associate a Count Basie: l'elegante "Li'l Darlin" e le brillanti interpretazioni di "Jumpin at the Woodside" così come il gran finale riservato all’orecchiabile e trascinante "One O'Clock Jump". Montreux ’77, pubblicato dall’etichetta Pablo di Norman Granz è un bel disco, una testimonianza di grande vitalità ed energia per un band leader come Basie, all’epoca settantreenne. Attorniato da più giovani ma valenti musicisti il Conte si dimostra ancora gagliardo e perfettamente in grado di intrattenere una platea di appassionati come quelli del popolare jazz festival svizzero con la sua caratteristica e colorata firma sonora.

Duke Ellington – The English Concert


Duke Ellington – The English Concert

Duke Ellington è considerato, a ragione, uno dei massimi compositori del '900 e uno dei più grandi tra i tanti geni del jazz. La sua musica non può restare confinata nell’ambito del jazz stesso ma deve necessariamente essere valutata andando oltre qualsiasi etichetta di genere. Grande è stata e rimane la sua influenza su intere generazioni di musicisti: partendo dalle orchestre bianche di Woody Herman e Charlie Barnet fino a Thelonious Monk e Charles Mingus, per arrivare addirittura alle avanguardie di Sun Ra o Archie Shepp. Ma la verità è che non esiste alcun jazzista che in un modo o nell’altro non abbia un debito artistico nei confronti del “Duca”. La sua epoca d’oro fu quella che a partire dagli ’30 decretò il massimo splendore delle grandi orchestre, tuttavia Duke Ellington rimase attivo anche in epoche più recenti come ad esempio durante gli anni '60 e gli anni '70, nel corso dei quali, praticamente fino alla sua scomparsa, il pianista e compositore portò la sua orchestra in giro per il mondo, ampliando la portata dei suoi viaggi per veicolare il suo personale messaggio musicale praticamente ovunque si potesse organizzare un concerto. Colto, raffinato, intelligente e creativo Duke Ellington ha incarnato l’essenza stessa del jazz per oltre 50 anni, guadagnandosi il rispetto di tutta la comunità musicale, compresa quella classica e diventando un’icona imprescindibile di un genere. Probabilmente è il jazzista più famoso e popolare anche tra i non addetti ai lavori. Questa registrazione del 1999, intitolata “The English Concert” raccoglie la testimonianza di tre diversi concerti, tenuti dalla grande orchestra di Ellington nel corso di una fortunata tournée in Gran Bretagna. Il primo è relativo alla serata svoltasi al Teatro Odeon di Bristol il 22 ottobre 1971; le altre due performance, presumibilmente un matinee e uno spettacolo serale, si sono svolte presso il Birmingham Theatre di Birmingham il 24 ottobre 1971. Originariamente pubblicata dall'etichetta United Artists, che possiedo personalmente in vinile doppio, questa è una testimonianza importante dell’universo ellingtoniano, pur essendo relativamente sconosciuta. L’interesse scaturisce dalla presenza di due dei più smaglianti esempi delle capacità compositive del Duca. L’impressionante e composita "Togo Brava-Brava Togo Suite" (che il compositore spiega delicatamente nell’introduzione al brano descrivendola così"... un centinaio di chilometri di bella spiaggia di sabbia d'argento rivolta verso l'equatore sulla sporgenza occidentale dell'Africa"). E un’altra suite di stampo africano intitolata "La Plus Belle Africaine" estremamente evocativa e articolata. Ellington anche in questo caso spiega al pubblico come questo pezzo sia stato composto in previsione della "prima visita in Africa" dell’orchestra dopo che egli stesso aveva scritto musica ispirata all’ Africa nei precedenti trentacinque anni. I membri della big band sono tutti di altissimo livello, come d’abitudine negli ensemble orchestrati da Ellington: i  trombettisti Cootie Williams, Money Johnson e Johnny Coles; i trombonisti Chuck Connors e Booty Wood; i sassofonisti Harry Carney, Paul Gonsalves e Harold Ashby; gli atri sax e flauti di Harold "Geezil" Minerve e Norris Turney ed il bassista Joe Benjamin, che duetta con il Duca sulla stupenda "Lotus Blossom" di Billy Strayhorn. "Happy Reunion" è eseguito da un quartetto composto da Gonsalves più la sezione ritmica. "Checkered Hat " è il ritratto musicale che Norris Turney fa di Johnny Hodges: si tratta di un omaggio commovente al bravissimo alto sassofonista che era scomparso improvvisamente solo pochi mesi prima. Tutto in queste quattro facciate di grande musica dal vivo trasuda il vero jazz e grandissime vibrazioni positive. Questo è un eccellente album del tardo Duke Ellington, con il grande merito di aver catturato la sua grande orchestra in splendida forma e con il maestro ancora in grado di regalare emozioni con il suo pianoforte e le sue fantastiche composizioni. Un disco che merita senza dubbio un riconoscimento più ampio ed un ascolto appassionato e approfondito. Duke Ellington andò ben oltre gli schemi tecnico-interpretativi del jazz dell'epoca. Più spesso, nel suo caso, si deve parlare di musica espressionista del Novecento, e l'idea che le sue composizioni fossero dei "quadri musicali" o che egli riuscisse a "dipingere con i suoni", fu un concetto più volte espresso dallo stesso Ellington, che non a caso in gioventù aveva lungamente coltivato anche una certa passione per la pittura. La perfetta intesa con ogni singolo membro della varie incarnazioni delle sue orchestre portò il Duca a plasmare il suono secondo i dettami della sua inventiva, ricavandone un risultato musicale unico e inconfondibile, quasi che l'orchestra fosse un unico strumento nelle sue mani. Genio assoluto.

Matt Bianco - Gravity


Matt Bianco - Gravity

E' risaputo che alcune cose sono destinate a migliorare con il tempo, non sempre ma spesso succede. Come ad esempio il vino rosso o la fiducia in se stessi, oppure, perché no, alcuni musicisti: come nel caso dei Matt Bianco. Il gruppo, che ha preso il nome da un’immaginaria super-spia degli anni Sessanta, ma è nato però negli anni '80, ha avuto ed ha tuttora numerosissimi fan in tutto il mondo per alcune canzoni, diventate classici, come 'Half A Minute', 'Get Out Of Your Bed Lazy', Who’s Side Are You On?' e 'Yeh Yeh'. Inizialmente formatisi come quartetto, i londinesi Matt Bianco hanno perfettamente miscelato il pop con i toni del jazz ed i ritmi latini creando uno stile particolare ed originale che li ha portati ad entrare regolarmente nelle classifiche britanniche ed internazionali tra il 1984 e il 1989, collezionando una decina di singoli di successo e almeno tre album diventati famosi. Con l’avvento degli anni '90 il gruppo ha perso un po’ di smalto, diventando un duo (formato dal cantante Mark Reilly e dal tastierista Mark Fisher). Sebbene gli album  continuassero ad essere regolarmente pubblicati da Reilly e Fisher, in quel periodo sembrava che la popolarità fosse solo un retaggio del passato. La prematura scomparsa di Mark Fisher nel 2016, ha spinto tuttavia Mark Reilly a trovare nuovi stimoli per continuare l’attività sotto il premiato marchio dei Matt Bianco. Ecco allora questo nuovo album di studio, intitolato Gravity, un lavoro composto da 11 tracce, nel quale Reilly ha riunito uno straordinario cast di musicisti jazz britannici, tra cui il sassofonista Dave O'Higgins, il bassista Geoff Gascoyne, il pianista Graham Harvey e il trombettista Martin Shaw (che hanno lavorato tra gli altri per Jamie Cullum e gli Incognito). Oltre ai  cantanti MJ Cole ed Elisabeth Troy, è presente anche anche il sassofonista e flautista svedese Magnus Lindgren. I Matt Bianco appaiono in forma in questa nuova incisione, riproponendosi sui livelli degli esordi; l'impegno e l'energia profuse sembrano aver dato i frutti sperati dai loro molti fan. Mark Reilly conferma la formula musicale che ha caratterizzato così bene la band nel cuore degli anni ‘80 e cioè brani accattivanti dal forte contenuto musicale, ritmi in qualche misura ballabili e quel retro gusto jazz sufficientemente sofisticato da rendere il tutto molto elegante. E’ esattamente su queste basi che  Gravity non delude. 'Joyride' ad esempio è un brano subito piacevole, che corre sui suoi ritmi sinuosi e con un Matt Reilly proiettato sullo stile di Georgie Fame, il tutto punteggiato da un fresco e sapiente uso dei fiati. Questi ultimi sono una componente prominente del disco, che risulta particolarmente funzionale su 'Invisible', la cui mescolanza di originalità e leggerezza  incarna l'essenza stilistica dei Matt Bianco. Gravity, con i suoi morbidi fiati, rilascia una più profonda sensazione bluesy, mentre "Heart In Chains" è una bella ballata notturna sull'amore dove la voce di Reilly è contrastata dalle risposte di Elisabeth Troy per creare un effetto “dialogo” molto interessante. Il groove e lo swing sono ugualmente ben presenti su brani come 'AM / PM', o l'elegante 'Summer In The City', con i suoi profumi latini. 'Before It's Too late' si delinea morbida e suadente con alcuni emozionanti interventi di sax di Dave O' Higgins. La bonus track è il remix di "Joyride" firmato da Mark De Clive, che punta più sull’atmosfera che sul ritmo avvolgendo l’ascoltatore con un mood rilassato. L’album è stato registrato tra Stoccolma, Londra e gli studi di Reilly nel Buckinghamshire. Si tratta in ultima analisi di un mix equilibrato e leggero di jazz, pop e musica latina conditi da un adorabile gusto retrò. Nel complesso, quindi, siamo di fronte ad un ottimo ed elegante ritorno dei Matt Bianco, in grado di soddisfare sia gli appassionati di vecchia data che le generazioni più giovani che della band delle origini non conoscono granchè. Si può dire che i Matt Bianco siano maturati nel corso degli anni esattamente come succede ad un buon vino rosso.

Patrick Bradley - Intangible


Patrick Bradley - Intangible

Con Patrick Bradley andiamo a cavalcare l'eccellenza musicale sotto forma di grande fusion, di gagliardo funk e raffinato smooth jazz. Patrick è un artista che mantiene sempre alta la qualità di tutte le sue registrazioni ed il cui talento, seppur non molto conosciuto, è innegabile. “Intangible” è l'ultimo regalo di questo formidabile tastierista e compositore, datato 2017, ed appena uscito sul mercato discografico. Il nuovo album di Patrick Bradley è dunque intitolato come la definizione convenzionale di tutto ciò che non è fatto di sostanza fisica o non può essere toccato. Un aggettivo che ben si adatta a tutte le forme di musica. Un lavoro nel quale Patrick è andato alla ricerca delle sue stesse matrici musicali e con esse si è confrontato a viso aperto con rispetto e spirito di sfida. Accantonando ogni speculazione filosofica o spirituale, si riconosce, nel nuovo progetto di Bradley, l’ennesimo passo in avanti della sua evoluzione di musicista, ancora una volta aiutato dalla leggenda delle tastiere Jeff Lorber. Ci sono poi altri musicisti coinvolti in queste registrazioni e sono tutti di grande livello: Paul Jackson Jr., Adam Hawley e Michael Thompson (chitarra), Jimmy Haslip (basso), Andrew Carney (tromba), Gary Novak (batteria) e David Mann (fiati). Tutte i brani sono stati composti da Patrick Bradley e Jeff Lorber. Come anticipato è un disco nel quale il buon Patrick rende omaggio a tutti i musicisti che hanno influenzato il suo sviluppo musicale, come ad esempio Keith Emerson (ELP), George Duke, Joe Sample, lo stesso Lorber e altri ancora. Sulla base di questa felice intuizione Patrick e Jeff condividono le loro idee e la loro mirabile tecnica tastieristica per produrre un album frizzante e pieno di spunti interessanti. Il groove qui comnicia fin da subito, quindi, mettetevi comodi e lasciate che la musica vi trasporti. Il talento è al top su queste tracce e la musica sembra tagliata esattamente per il feeling ed il tocco magico di Bradley. Mettendo in mostra la sua inimitabile finezza e destrezza, Patrick Bradley lavora con un obiettivo chiaro ed una solida visione, divertire con brio, intrattenere con il ritmo ed il giusto livello di raffinatezza per accendere e mantenere viva la scintilla dell’interesse nell’ascoltatore. Una caratteristica non troppo diffusa in ambito smooth jazz e che invece in questo caso davvero non manca. Le performance di Bradley e Lorber all’organo, su ogni tipo di tastiera, ed al pianoforte sono semplicemente spettacolari. Patrick e il suo amico di lunga data Jeff imperversano in lungo ed in largo per tutto il disco, con naturalezza e gusto, padroneggiando disinvoltamente brani bellissimi come "Funky Greens" e "Tailwind" o il trascinante pezzo d’apertura intitolato “Dear Friends”. I sempre puntuali riff di chitarra di Paul Jackson impreziosiscono un numero ricco di groove come "On Tap",  così come gli interventi del sax di David Mann. Il funk domina la scena deliziando gli appassionati del genere su “Funky Green” all’interno della quale il duello tra gli organi hammond di Bradley e Lorber è entusiasmante. La superiore qualità di questo album è indiscutibile, al pari della costante bellezza dei 10 pezzi che lo compongono. È per questo che è facile ritrovarsi ad andare avanti e indietro un po’ su tutte le tracce come ad esempio "Find the Way", "Destiny" o ancora Out Of Bounds": il groove funky fusion pervade la musica di Intangible come in nessuno dei precedenti lavori di Patrick Bradley. Si nota un sensibile allontanamento dalle atmosfere più patinate dello smooth jazz da radio fm in favore di una musica più ruvida ed essenziale, che pesca nella tradizione degli anni '70, nel soul e nel jazz e perfino nel progressive con un rinnovato slancio creativo ed una buona dose di originalità. Sulle note di copertina il tastierista californiano non manca di fornire una breve descrizione scritta di ogni singolo brano, la sua personale spiegazione su cosa sta alla base delle sue composizioni. Una cosa molto interessante se avete una mente curiosa ed amate informarvi approfonditamente sulla musica che state ascoltando. Se siete dei fan del genere funk-jazz-fusion e di sicuro se siete appassionati di Bradley e di Lorber e, più in generale delle tastiere, questo album non vi deluderà e vi ritroverete ad ascoltarlo sempre con grande piacere. Il miglior disco di Patrick Bradley fino ad ora è maledettamente solido ed accattivante e non può mancare nella discoteca di nessun collezionista. Al giorno d’oggi questo livello qualitativo in una produzione discografica di contemporary jazz è merce rara, da preservare con cura. La partecipazione di Jeff Lorber è già di per se una garanzia di qualità, ma bisogna sottolineare come Patrick Bradley prenda in mano con sempre più autorità il timone dei suoi progetti. In quest’ottica Intangible è da considerarsi in gran parte frutto della sua straordinaria creatività e rappresenta al meglio un modo di intelligente e coinvolgente di fare jazz nel 21° secolo.

MFSB – Love Is The Message


MFSB – Love Is The Message

Nei primi anni settanta si cominciavano a sentire in giro i primi suoni di quello che in seguito sarebbe esploso in tutto il mondo come il fenomeno chiamato disco music. Una città in particolare sembrava essere la culla di un genere che diventerà così universale e trasversale da generare un cambiamento storico nel modo di fruire il prodotto musicale: quella città era Philadelphia. Il Philly Sound aveva connotati molto peculiari e per una lunga stagione determinò le tendenze e diede il via a numerose e variegate correnti. Artisti come Kenny Gamble e l'etichetta Philadelphia International Records di Leon Huff (The O'Jays, Harold Melvin & The Blue Notes e Billy Paul) diventarono presto molto popolari. Tuttavia, nel contesto della Philadelphia International Records c’erano anche molti altri artisti  che suonavano regolarmente negli album prodotti dal premiato duo Gamble e Huff e formavano di fatto una vera e propria famiglia di validi e fidati strumentisti. Nel 1973 questo collettivo prese corpo, per produrre dischi in prima persona, sotto il nome di MFSB, un acronimo che sta per Mother Father Sister Brother. La band fu chiamata così proprio in virtù della coesione dei membri che lavoravano insieme come una grande famiglia. Si trattava infatti di una vera e propria orchestra di oltre 50 elementi che produceva preminentemente disco music strumentale. Tra i componenti dei MFSB c’erano Earl Young (che era anche il batterista ed il cantante per il gruppo The Trammps), Karl Chambers, Norman Harris, Roland Chambers, Bobby Eli, Ronnie Baker e TJ Tindall. Negli anni seguenti la musica dei MFSB diventò molto popolare  e conosciuta imponendosi per le magistrali interpretazioni strumentali di famose hits soul e pop ma anche per le accattivanti composizioni originali. Dopo un primo album uscito nel 1973, l’anno successivo venne pubblicato il secondo disco, intitolato Love Is The Message, il quale ottenne un successo strepitoso, iniziando a tutti gli effetti l’epopea della disco music e diventando il più venduto tra i lavori della band. La copertina, illustrata da Bart Forbes, è un collage di immagini del Vietnam, del Ku Klux Klan, di un’esplosione atomica e di un macabro teschio che indossa un elmetto militare, uomini di colore e cani arrabbiati, svastiche e aerei in picchiata: un quadro quasi apocalittico che doveva veicolare non l’odio e la violenza ma l’esatto contrario e cioè che "l'amore è il messaggio". L'album comincia con un breve brano di meno di un minuto, una sorta di grande intro dell’ orchestra intitolato "Zack's Fanfare". Ma il sound di Philadelphia così come un pò tutta la filosofia musicale della band sono concentrate nella traccia successiva che dà anche il titolo all’album: Love Is The Message. Una combinazione di jazz, soul e disco strumentale in cui domina la partitura orchestrale sospinta dal classico ritmo, caratteristico dei MFSB. Fu un clamoroso successo sia sulle stazioni radio che nelle discoteche di New York per poi conquistare il resto degli States ed infine il mondo. Le parti vocali  di questo pezzo epocale sono da attribuire al gruppo femminile The Three Degrees anche se nella versione dell’album non sono presenti e si possono ascoltare solo sulla versione a 45 giri e su quella da 12 pollici del 1975. Ancora oggi Love Is The Message rimane un classico nei club di tutto il mondo, in particolare in quelli dove c’è più attenzione per la riscoperta dei suoni degli anni ‘70. A seguire troviamo uno straordinario remake di "Cheaper to Keep Her" di Johnnie Taylor, interpretato in chiave molto jazzistica. Il bellissimo strumentale "My One and Only Love" completa, con un’atmosfera molto romantica e dolce, quello che era il lato uno del disco originale. La seconda parte si apre con il famosissimo ed ormai leggendario pezzo intitolato TSOP (The Sound Of Philadelphia), lanciato come sigla del programma televisivo Soul Train. La popolarità del programma e l’irresistibile combinazione di ritmo e melodia furono senza dubbio dei fattori determinanti per l’ascesa inarrestabile del brano verso il primo posto in quasi tutte le classifiche: oltre 1.000.000 di copie e un Grammy per la miglior canzone r&b strumentale nel 1974 sono la testimonianza di uno straordinario successo. E’ invece un numero molto jazzy, suonato in uptempo, "Touch Me in the Morning" portata al successo da Diana Ross: inizia lentamente per poi  trasformarsi in un bel groove ricco di fiati e come sempre sontuosamente arrangiato. La chiusura dell'album è affidata ad un pezzo intitolato "Bitter Sweet" che ricorda a tratti certe atmosfere alla Burt Bacharach e non manca di colpire per l’accuratezza dell’arrangiamento e la varietà dei colori e delle atmosfere. Love Is The Message è stato un grande successo e rappresenta senza alcun dubbio una pietra miliare nella musica commerciale del secolo scorso. Incarna perfettamente il sound e i moods dell’inizio degli anni ’70 ed è, più particolare, una perfetta sintesi della musica dei MFSB, senza dimenticare la sua natura prodromica verso quello che poi diventerà il genere più diffuso al mondo: la disco music. Il movimento disco nasce con i MFSB e con loro da il via ad uno tsunami musicale inarrestabile, anche se va detto che la qualità delle produzioni uscite dai laboratori del Philly Sound o della Salsoul Records di New York resteranno di un livello superiore rispetto alla gran parte di ciò che verrà in seguito. I MFSB, i J.B di James Brown, la Love Unlimited Orchestra di Barry White o la citata Salsoul Orchestra hanno dimostrato come si possa fare musica da ballo di qualità attraverso brillanti composizioni, arrangiamenti curati e brillanti musicisti. Nessuna programmazione elettronica o sintetizzatore può eguagliare la bellezza delle band ricche di talentuosi elementi o delle grandi orchestre arrangiate con gusto e maestria. L'arte della musica “reale” è duratura e permanente: è la base che sta dietro all'idea del collettivo chiamato MFSB: un rapporto tra artisti creativi, uniti e coesi, che non potrà essere mai e poi mai eguagliato premendo un pulsante su una macchina.