Grover Washington, Jr. - “A House Full of Love: Music from The Cosby Show”


Grover Washington, Jr. - “A House Full of Love: Music from The Cosby Show”

Grover Washington, Jr. è uno dei miei musicisti preferiti: ho sempre amato la sua musica ed il suo stile come sassofonista. Anche se non tutti gli album della sua discografia sono totalmente riusciti, nutro un grandissimo rispetto per lui. Oggi mi voglio occupare di una delle sue registrazioni più rare e sconosciute: la colonna sonora de “I Robinson”. Ero a conoscenza da molto tempo del fatto che Grover fosse la voce strumentale del Bill Cosby Show (come viene chiamato negli Stati Uniti) e ricordo di aver pensato più di una volta che i frammenti di funk jazz e ovviamente le sigle di apertura e chiusura che si potevano carpire durante gli spettacoli tv erano tutt’altro che disprezzabili. Detto questo non avevo grandi aspettative riguardo ad un intero album incentrato su di un tv show come quello del popolare comico afro americano. Niente di più sbagliato. “A House Full of Love: Music from The Cosby Show” non è solo una raccolta passabile, è un album davvero convincente, anche migliore di alcune discutibili uscite precedenti di Washington (come ad esempio quelle del periodo con la CTI Records). Registrato nel 1986, si può dire che il disco coglie il sassofonista in quello che è stato il momento più felice della sua carriera, quando era al picco della vena creativa. Certo una buona base di partenza è dettata dalla band di supporto, formata da un manipolo di musicisti di levatura stellare, da tempo nell’orbita del popolare sassofonista di Philadelphia: Richard Tee, Wah Wah Watson, Marcus Miller, Steve Gadd o i fratelli Brecker sono la garanzia certa che quello che ascolterete sarà inevitabilmente un prodotto professionalmente ineccepibile e creativamente interessante. Lo stile è quello usualmente frequentato da Grover Washington, un jazz funk con qualche venatura blues e pop, che tuttavia si mantiene ben lontano da pericolose derive commerciali. Le composizioni sono in parte diverse da quello che ci potrebbe aspettare: sono ritmicamente sufficientemente ardite e al contempo interessanti, varie e piacevoli. Grover e Bill erano entrambe nativi di Philadelphia e la lunga amicizia che li ha legati deve aver in qualche misura influito positivamente sulla buona qualità delle canzoni.  Queste ultime sono quasi tutte composte dallo stesso Bill Cosby, perlopiù con la collaborazione del tastierista e produttore del progetto Stu Gardner. La maggior parte del contenuto di questo album riporta immediatamente, in modo evocativamente diretto, allo show televisivo di Cosby. Ma questa non è esattamente la colonna sonora ufficiale e se anche si riconoscono le melodie che hanno caratterizzato lo spettacolo, come il potente funk "Resthatherian", ci si rende conto che qui suona tutto più grintoso, pur rimanendo familiare. Il groove è ben presente e radicato, essendo nel dna di Grover Washington e dei suoi musicisti. Ci sono anche i brani lenti come "Camille", "Clair (Phylicia)" e "Outstretched Hands (Gloria)" che sono simili a come suonavano in quei brevi momenti dove sottolineavano stati d’animo o situazioni particolari della trasmissione. Da questo punto di vista sono probabilmente i più riconoscibili e, va detto, sono bellissimi proprio grazie alla timbrica del sax di Grover. Possiamo ascoltare la voce quasi rappante di Cosby punteggiare "Love In It's Proper Place", con il suo peculiare stile narrativo comico,  nel contesto di un'altra eccellente jam session di funk dove è un piacere ascoltare gli strepitosi interventi di Washington. I brani dove la musica dell’album è più vicina a quella dei lavori discografici di Grover come solista tuttavia non mancano. Ad esempio "Poppin" o "The Huxtable Kids", ci mostrano proprio quello stile funk jazz degli anni '80 dell’epoca di Winelight, Come Morning o Inside Moves.  Il brano più bello è però, probabilmente, "Kitchen Jazz" (ascoltato nella prima scena dell'episodio pilota dello show): un numero in pieno stile da big band che profuma di retrò, ma sa anche regalare un tocco di modernità con Richard Tee ed il suo uso rivisitato del pianoforte elettrico. "Look At This" è un lento pezzo di soul jazz che è stato usato a più riprese in vari episodi dello show e in questa versione presenta nuovamente un parlato di Cosby, il quale ironizza sulle differenze generazionali. Ma il vero gioiello è il suono morbido e suadente del tenore di Washington che appare più seducente che mai. Il brano finale è cantato da Lori Fulton: si tratta di una romantica ballata soul/funk che da un certo punto di vista definisce l'intera atmosfera dello show televisivo e che anche come canzone a se stante merita attenzione. “A House Full of Love: Music from The Cosby Show” non è  certo un album facile da reperire di questi tempi ma personalmente l’ho trovato un'eccellente raccolta di poderoso funk jazz che ha una sua dignità ed un valore intrinseco che vanno ben al di là della stretta relazione con quello che in Italia era noto come “I Robinson”.  Qui c’è della buona musica, si ascolta una band superlativa e in prima linea troviamo uno dei sassofonisti più talentuosi e tecnicamente preparati del secolo scorso. Naturalmente il disco offre un’opportunità impedibile, per chi ha amato uno degli show televisivi più acclamati e di successo di quel periodo, di rivivere con la musica parte delle atmosfere dello spettacolo tv, ma alla fine quello che conta e, di fatto, ciò che resta è un ottimo album di grande musica che ci proietta in quell’epoca felice che furono gli anni ’80.

MSM Michael Schmidt - Life


MSM Michael Schmidt - Life

Sono passati circa quarant’anni dal periodo d’oro del jazz rock e della fusion: quell’epoca straordinaria vide l’affermazione di gruppi come la Mahavishnu Orchestra, i Weather Report, i Return To Forever e gli Headhunters. Al giorno d’oggi non sono rimasti in molti a portare alta la bandiera della vera fusion: Chick Corea, a 75 anni, ha la sua Elektric Band, sia pure a intermittenza, John McLaughlin, che di anni ne ha 74, è andato in pensione alla fine del 2017, anche se è stato attivo fino all’ultimo con la sua 4th Dimension Band, I Weather sono ormai il passato ed Herbie Hancock si dedica principalmente al jazz tradizionale. Insomma i vecchi leoni sono a fine carriera e solo un pugno di altri musicisti cerca ancora di dare corpo alla visione di un jazz elettrico tecnico e complesso, giocato sul filo del virtuosismo e con poca indulgenza verso derive commerciali. Si può certamente aggiungere a questa lista il nome di Michael Schmidt, o come preferisce essere chiamato, MSM Schmidt. Schmidt è un tastierista e compositore di Brema che da circa dieci anni è attivo nel campo della fusion, avvalendosi di un incredibile stuolo di collaboratori presi dal gotha dei musicisti specializzati nel genere. Il bassista Jimmy Haslip, ad esempio, che ha prodotto o co-prodotto anche le due precedenti uscite discografiche di Schmidt, Utopia del 2015 e Evolution del 2012, è presente anche su questo Life, che è l’ultima fatica di Schmidt, datata 2017. Un album che è uno straordinario esempio di moderna fusion, dove è possibile ascoltare insieme alcuni dei più grandi nomi del jazz contemporaneo. Qualche esempio: i chitarristi Mike Miller e Oz Noy, i tastieristi Scott Kinsey e Mitchel Forman, i sassofonisti Steve Tavaglione, Andy Snitzer e Bob Mintzer, il violinista Charlie Bisharat e una stupefacente squadra di superbi batteristi come Dave Weckl, Gary Novak, Virgil Donati e il tedesco Jost Nickel. Tra l’altro Life è anche un modo per ascoltare le ultime registrazioni del compianto chitarrista Allan Holdsworth, uno degli idoli di Schmidt e qui presente in due brani. Dopo aver iniziato con la batteria, Schmidt passò in seguito alle tastiere, ma sempre da autodidatta: i software e gli strumenti via via più evoluti lo hanno certamente aiutato, ma non sapendo leggere e scrivere gli spartiti, ha sempre bisogno del supporto di musicisti professionisti che siano in grado di mettere la sua musica in una forma grafica canonica. E’ davvero sorprendente che Schmidt riesca a comporre ed a suonare ad un tale livello pur essendo praticamente privo di basi teoriche e di studi scolastici specifici. Tuttavia Life è un album bellissimo: in poche battute conquista l’ascoltatore trascinandolo in vortice affascinante che non può non ricordare i grandi gruppi degli anni ’70. Questa è la vera fusion come dovrebbe essere: tecnica, cuore, passione in un mix energetico e moderno. L'album prende il via con il groove dinamico di "Trance", sottolineato dall'autorevole ed inconfondibile batteria di Weckl e con alcune vivaci linee di sax soprano di Katisse Buckingham, membro della Zawinul Legacy Band. Kinsey offre un assolo di synth esaltante su questo aggressivo numero e Holdsworth contribuisce con uno dei suoi assoli sempre originali e sorprendenti ad elevare ulteriormente il livello del brano. Novak subentra alla batteria sulla più melodica "Saudade City", impreziosita da un assolo di sax soprano di Andy Snitzer ed uno spigoloso intervento di Mike Miller in pieno stile jazz rock. "Vista", vede di nuovo impegnato Allan Holdsworth, che si trova a cavalcare il ritmo imperioso di Donati. John Daversa regala un assolo di tromba ma è Holdsworth a lasciare a bocca aperta con la sua tecnica sopraffina. Da sottolineare anche la batteria suonata con innato furore da Virgil Donati. E’ una vera e propria jam session in 6/8 invece la formidabile "Life", in questo caso alimentata dalla muscolare batteria del tedesco Jost Nickel: in prima linea il sax di Tavaglione, con tanto di flauti sovraincisi. C’è Jimmy Haslip, presenza costante nel disco, che sciorina un meraviglioso assolo di basso fretless a cui fanno seguito Mike Miller e la sua chitarra ed il citato Steve Tavaglione al sax soprano. "Red & Gold" è un groove stuzzicante, animato dal solido batterismo di Donati e dal pianoforte di Ruslan Sirota, un pianista-compositore ucraino salito alla ribalta come membro dello Stanley Clarke Group. Non manca il violinista Jerry Goodman, ex solista della Mahavishnu Orchestra, mentre la ciliegina sulla torta è rappresentata dall’assolo di chitarra di Oz Noy. Fantastica poi anche "Exodus":  è una vetrina per la sezione fiati composta dai sassofonisti Bob Mintzer, Brandon Fields e Andy Snitzer affiancati dai Fowler Brothers (Walt alla tromba e Bruce al trombone, entrambi ex della band di Frank Zappa). Jost Nickel imposta la ritmica sul funk e su queste basi  gli assoli risaltano al massimo: il chitarrista Mike Miller, il tenor sassofonista Mintzer e il sax soprano di Snitzer si esibiscono tutti con assoli davvero molto trascinanti. L’album procede senza soste e senza incertezze con "Rush", per un incredibile intervento di basso slap di MonoNeon (aka Dwayne Thomas, jr.). Il sempre formidabile Dave Weckl sostiene da par suo il groove mentre Ruslan Sirota appare più che convincente al piano elettrico, con un assolo che profuma di Herbie Hancock. Il chitarrista di turno è Larry Koonse ed anche lui contribuisce a questo energetico pezzo con un pregevole solo. "Medusa" è un intreccio di funk-fusion dal ritmo lento, scandito dal formidabile tandem formato da Donati e Haslip e caratterizzato da un potente assolo di Rhodes di Scott Kinsey. Oz Noy aggiunge il suo momento di chitarra distorta e lacerante, mentre Virgil Donati si mette ancora in luce grazie ad una scansione ritmica tanto preziosa quanto impeccabile. C’è tutta l’esuberanza del funk in "RE-Start" guidato nel giusto groove da Novak e Haslip e arricchito del synth propulsivo e atmosferico di MSM Schmidt. Andy Snitzer spinge la melodia al sax soprano ed Oz Noy dimostra come una chitarra quasi metal possa suonare anche il bop. La partitura di piano elettrico è affidata al tastierista Andy Milne che si distende liquido e puntuale. L'album si chiude con una breve ripresa della title track, che rivela una significativa influenza delle ultime tendenze della World Music. Schmidt ha dichiarato che: “la mia musica è definibile come fusion" e le mie influenze vengono da band come i Metro, The Yellowjackets, i Weather Report e gli Steps Ahead ma anche dalle colonne sonore degli anni ottanta”. “Sono inoltre un grande fan del compositore francese Michel Colombier, anche per l’uso intelligente che ha sempre fatto dei synth e delle batterie elettroniche”. Nulla da dire: tutte queste suggestioni sono state assorbite e riunite nel più brillante dei modi nel progetto di MSM Schmidt, in particolare su questo ultimo ed indovinato album Life. La fusion nobile ed alta non è morta e finchè ci saranno dischi come questo e musicisti coreaggiosi, disposti a rischiare come Michael Schmidt potremo continuare a dire “viva la fusion”.

Onaje Allan Gumbs – Return To Form




Onaje Allan Gumbs – Return To Form

Nato ad Harlem e cresciuto nel Queens, il pianista Onaje Allan Gumbs ha iniziato a suonare il piano all'età di 7 anni e si è infine diplomato presso la High School of Music and Art di Manhattan. Dopo un concerto di successo con il chitarrista Kenny Burrell, Gumbs guadagnò consensi tra gli addetti ai lavori, trovando ingaggi come session man al seguito di artisti del calibro di Norman Connors, Buster Williams, Cecil McBee, Betty Carter e Nat Adderley. Inoltre è stato per 2 anni il tastierista e l’arrangiatore della band guidata dal compianto trombettista Woody Shaw. Onaje è un pianista molto apprezzato tra i suoi colleghi musicisti jazz, ed è davvero sorprendente che un artista del suo talento non abbia pubblicato che un pugno di album a suo nome. Il "ritorno" a cui allude il titolo dell’album “Return To Form” è un chiaro riferimento ad un cambio di rotta operato dal pianista verso il jazz classico, cioè una svolta radicale per rompere con lo smooth jazz che è stato lo stile preferito da Gumbs per quasi vent’anni. E’ evidente come Gumbs punti a tornare alle sue radici, tuttavia il musicista di Harlem non ha completamente abbandonato il contemporary jazz commerciale. E va aggiunto che non c’è nulla di scandaloso in questa scelta. I suoi pochi album di pop jazz sono sempre stati realizzati con cura e grande professionalità. Ma ciò che ha funzionato così bene in un ambito più leggero,  diventa una responsabilità quando l’approccio vira, come in questo caso sul jazz serio. In ultima analisi un conto sono i brani originali, ma FM oriented, come So Nice e Quiet Passion, un altro quando si deve affrontare la musica di Coltrane o Billy Strayhorn. Questo album live, registrato al Blue Note,  in ogni caso  trova un Onaje in ottima forma, accompagnato da Marcus McLaurine (uno dei bassisti di prima scelta di Clark Terry), dal batterista Payton Crossley, dal percussionista Gary Fritz e, su alcune tracce, dal sassofonista René McLean. Se si prende a campione l’approccio innovativo che Gumbs fa ad brano complesso come “Equinox” di John Coltrane si intuisce fin da subito la qualità dell’album. Il pianista lo imposta su una ritmica molto particolare, a tratti dal sapore latino, mutuando parzialmente la linea di basso di A Love Supreme, in un gioco di citazioni di Coltrane che lascia intuire anche altre opere del maestro di Hamlet. E sono altrettanto belle le reinterpretazioni in trio di "Daydream" (una ballata stupenda di Duke Ellington e Billy Strayhorn) e di "Dreamsville" di Henry Mancini. Va detto che Gumbs mette in luce anche le sue ottime doti di compositore come su "First Time We Met" che è un classico brano di hard bop ricco di spunti musicalmente interessanti. C’è molta qualità lirica in "Palace of the Seven Jewels" e "Left Side of Right" vede il sax tenore di René McLean suonare potente sul piano funkeggiante di Onaje. "A Breath of Fresh Air" è un pezzo allegro e vivace che suggerisce una passeggiata nel verde in un soleggiato pomeriggio di primavera. Un po’ Wynton Kelly, a sprazzi McCoy Tyner, con Herbie Hancock sempre sullo sfondo: così si potrebbe descrivere il pianismo di Onaje Allan Gumbs. Lui è più efficace quando non si lascia prendere dalla foga, ma è un musicista sempre tecnicamente perfetto e sufficientemente lirico e creativo per farsi apprezzare anche in un contesto come quello jazzistico che è pur sempre il punto di partenza della sua lunga carriera.  Il suono intimo e rilassato di questo album rende comunque bene l’atmosfera del piccolo club di jazz, mettendo l’ascoltatore nella condizione di godersi un bel concerto in un tavolo in prima fila al Blue Note. Il “ritorno” è completo, e se Onaje vorrà continuare ad esplorare la musica afro americana nel suo idioma più classico, il suo contributo al jazz dei giorni nostri sarà senza dubbio un valore aggiunto più che apprezzabile.

Eddie Russ – Fresh Out


Eddie Russ – Fresh Out

Ancora una volta torno a parlare di una mia passione musicale: i rare grooves e il vintage sound degli anni ’70. E ripropongo un artista semi sconosciuto, di cui ho già parlato, che ha all’attivo tre album da solista: Eddie Russ. Eddie Russ è un talentuoso tastierista che in carriera ha lavorato con moltissimi musicisti, nell’arco di diversi decenni: tra questi Sonny Stitt, Sarah Vaughn, Dee Dee Bridgewater, Dizzy Gillespie, Stan Getz, Nancy Wilson, Roland Kirk, Hank Mobley, Cal Tjader, e Clark Terry. Russ ha iniziato a farsi conoscere negli anni '70, quando, nel pieno dell’esplosione del jazz funk, si fece notare per la sua bravura come tastierista e per il suo talento di compositore. In Europa, è stato spesso pubblicizzato come il "Re del Soul Jazz", diventando popolare in particolare in Inghilterra dove il suo successo ha eclissato quello ottenuto negli Stati Uniti. Eddie è nato e cresciuto a Pittsburgh, in Pennsylvania, e iniziò a prendere lezioni di piano all'età di 11 anni, in seguito Russ frequentò il Pittsburgh Musical Institute e trascorse otto anni a studiare musica jazz. Successivamente formò il gruppo The Mixed Bag, che di fatto fu il trampolino di lancio per la sua carriera poiché gli diede l'opportunità di registrare cinque album con il leggendario Sonny Stitt ed i suoi unici tre album da solista per l'etichetta Monument (“Fresh Out”, "Take A Look At Yourself" e "See The Light"). Oggi vi parlerò del suo primo lavoro del 1974, "Fresh Out" (Soul Jazz Records) che conteneva anche un singolo di successo come "The Lope Song", molto gettonato  in Europa. Grazie all’esplosione del fenomeno acid jazz ed al fermento della scena funk jazz britannica, dischi groove oriented come "Fresh Out" hanno contribuito ad un meritato riconoscimento internazionale di Eddie Russ, anche se, per la verità, il suo nome resta ancora circoscritto ai pur numerosi fan dei rare grooves. Tornando a Fresh Out, l'album di debutto di Russ, è stato registrato a Detroit nel 1974. La registrazione vede impegnato il gruppo The Mixed Bag, composto da membri della comunità jazz di Detroit, il luogo dove il tastierista aveva scelto di mettere la sua base. Fresh Out fu originariamente pubblicato sull'etichetta indipendente Jazz Masters, ma è stato ristampato dalla Soul Jazz Records nel 1992, diventando il debutto anche per la neonata casa discografica. Si tratta di un classico lavoro di funk jazz con qualche accenno dance. I suoni sono quelli vintage, ruvidi e genuini nella migliore tradizione blaxploitation. In un attimo si viene trasportati dentro un mondo colorato, fatto di afro americani dalle improbabili pettinature, vestiti con pantaloni a zampa d’elefante, collane d’oro, pellicce e automobili kitsch. Su tutto domina il suono del piano elettrico Fender Rhodes 88, e già questo basterebbe per rendere un album come questo un pezzo irrinunciabile di ogni collezione. Fin dall’inizio con “The Lope Song” la full immersion negli anni ’70 è assicurata: ritmo funky, flauto, basso pulsante e piano elettrico a profusione. Il brano scorre fluido, con il suo riff che entra subito in testa ed i suoi stacchi e riprese perfetti. “All But Blind” ci mostra il lato jazzistico di Eddie Russ, il groove è quello di una morbida ballata jazz declinata con un gradevole medio tempo. Molto accattivante il sax che detta la melodia sulla base armonica creata dal Rhodes di Russ. Non manca un assolo di chitarra e quello sempre puntuale del leader. Dopo la parentesi quasi mainstream si torna subito alle atmosfere da poliziesco televisivo con "Shamading": una bella ritmica funky fa da base per il piano elettrico di Eddie che imperversa dominante su questo numero, che nel complesso suona estremamente dinamico e vivace. “Hill Were The Lord Hides” è il compendio e la sintesi di come dovrebbe essere il funk jazz nella sua migliore accezione. Il groove è fortissimo, gli assoli trascinanti: l’atmosfera è perfetta. Questo è senza dubbio il sound degli anni ’70 al suo meglio. I fan dei rare grooves resteranno estasiati dal sound della band e da come la musica di pezzi come questo si avvicinino all’ideale formula di questo genere musicale. Non manca un’originale cover della celebre “You Are The Sunshine Of My Life” di Steve Wonder. La canzone viene presa come base armonica (e che base, ovviamente!) per costruirci sopra un’architettura totalmente nuova dove c’è ampio spazio per il Rhodes di Eddie Russ che ha modo di esternare tutto il suo talento di pianista elettrico, senza dimenticare il bell’assolo di sax sul finale. L’album si conclude in bellezza con “Watergate Blues” che ancora una volta non delude: non tragga in inganno il titolo, di fatto è un ennesimo groove funk jazz sulla falsa riga dei precedenti. Molto interessante l’arrangiamento con l’intervento dei fiati, un ottimo assolo di chitarra elettrica, e come immancabile ciliegina, l’onnipresente piano Rhodes di Eddie che mette il suo sigillo ad un album davvero molto bello. Eddie Russ è morto all'età di 62 anni nel novembre 1996 dopo una lunga lotta contro un’insufficienza renale cronica. La scomparsa di Eddie ha lasciato un grande vuoto sulle scene del jazz internazionale. Questo album, così come gli altri due della sua concisa discografia sono un omaggio alla sua eredità. Se amate i rare grooves, la musica afro americana degli anni ’70 o più semplicemente avete una passione per l’acid jazz originale, Fresh Out è il disco giusto per voi. Imperdibile. (devo però aggiungere una sola nota negativa: la copertina...davvero orribile).

Miles Davis - Miles Smiles


Miles Davis - Miles Smiles

Senza ombra di dubbio il secondo quintetto di Miles Davis, quello della metà degli anni '60, è stato il motore di un rinnovato e vigoroso interesse per il jazz da parte del famoso trombettista: in quel periodo di fermento creativo, il divino Miles diede corpo ed anima ad una vena musicale ritrovata. Davis fu stimolato dalla giovane band che aveva messo insieme con una vitalità ed un entusiasmo che fecero una grande differenza rispetto al precedente momento buio. Qui è proprio il gruppo che contribuì ad ampliare i confini musicali di Davis, quasi obbligandolo a prendersi dei rischi e trascinandolo verso la sperimentazione, ma la band fu di fatto anche d’aiuto allo stesso Miles per superare un periodo difficile della sua vita personale (la morte dei suoi genitori, i problemi di salute e le battute d'arresto creative). A quel tempo, la band era in una fase di transizione tra il jazz tradizionale e qualcosa che andasse oltre il mainstream: un esempio fu l’album E.S.P. (Columbia, 1964). Miles da parte sua, aveva una forma di repulsione per il free-jazz, cosa che confliggeva con le tendenze avanguardiste del quintetto. Il jazz che venne fuori da questa dicotomia fu dinamico ed imprevedibile, con un approccio molto aperto verso l'armonia che era però sostenuta da una visione molto elastica e moderna dei ritmi. In aggiunta a questo, nei concerti, il repertorio si concentrava ancora sui vecchi classici e ovviamente sugli standard. Ne consegue che grazie all’intelligenza ed al genio di Davis in collaborazione con la duttilità ed il rispetto verso il leader di tutto il gruppo, il quintetto affrontò il repertorio con grande zelo ed un propositivo dinamismo, cosa che rese i brani molto conosciuti più audaci ed in qualche misura nuovi. Miles Smiles è un album in cui si ascolta un jazz acustico caratterizzato da un formidabile spirito d’innovazione, è un lavoro teso all’esplorazione di nuovi orizzonti. Tutto considerato, questo è un disco grandioso, forse insolito ma artisticamente pregnante. E non è certo un caso che le registrazioni dello stesso periodo, sfornate come solisti dai componenti del quintetto, siano di un livello altissimo, al punto che oggi sono considerate anch’esse dei classici. Pensiamo a Maiden Voyage di Herbie Hancock (Blue Note, 1965), Speak no Evil e Juju (Blue Note, 1965) di Wayne Shorter e a Spring (Blue Note, 1965) di Tony Williams. Se su E.S.P. la band era in fase di rodaggio, questa volta è chiaro come i musicisti abbiano affinato l’interplay portandolo sulla soglia di una specie di telepatia musicale: quella che Miles Davis cercava da sempre con ostinazione nei suoi collaboratori. Miles Smiles mostra un gruppo di brillanti musicisti che uniscono i loro talenti per formare un'unità coesa e finalmente votata all’interazione reciproca. Gran parte dell'album è in equilibrio tra il vecchio e il nuovo linguaggio del jazz. Come risultato, si delinea il fatto che queste composizioni sono un ottimo esempio di come mescolare al meglio lo sperimentalismo del free jazz con la tradizione. E’ così, che da qualche parte, tra questi due mondi opposti, il quintetto di Miles ha trovato il suo posto, dando vita a uno dei più eccitanti jazz mai suonati. Tutte le composizioni, a partire dall’iniziale “Orbits”, passando da "Footprints" di Shorter, fino alla finale "Gingerbread Boy" sono pezzi complessi, costruiti su architetture armonicamente polifoniche, dal punto di vista jazzistico declinate sia in forme convenzionali che non usuali. Il quintetto si distende musicalmente come una valanga che spinge verso una continua scoperta e non si accontenta di un ripetersi meccanico di convenzioni. Anche questo suggerisce che i livelli di interazione tra i musicisti sono davvero saliti a uno stadio superiore. La naturale conseguenza di questo stato di grazia artistico è che la magica tromba del leader viene esaltata dal collettivo, che da parte sua prende a sua volta il timbro e la dinamica di Davis come riferimento e stimolo. Nel 1967 questo disco vinse il premio come miglior album dell'anno nel sondaggio di  Down Beat, il Quintetto ottenne il primo posto come migliore gruppo e Miles Davis riguadagnò il primato nella classifica come miglior trombettista. Ovviamente una band formata da Davis, Shorter, Williams, Carter e Hancock non può essere considerata “normale” e di fatto anche Miles Smiles non è certo un banale prodotto discografico post-bop. Anzi, al contrario, la ristampa di questo album storico rappresenta da un lato un richiamo irresistibile per i fan consolidati e fedeli, dall’altro un'introduzione pressochè obbligatoria per i novizi del jazz di Miles Davis. Miles Smiles può probabilmente essere considerato l'apice dell’evoluzione del jazz acustico e una delle migliori testimonianze registrate della vera forza del secondo quintetto storico di Miles Davis. Giusto un soffio prima che il genio di Alton sconvolgesse ancora una volta il mondo del jazz con la sua svolta elettrica: In a Silent Way e Bitches Brew stavano per arrivare.

Joe Sample – Rainbow Seeker


Joe Sample – Rainbow Seeker

Nel 1978, quando questo album fu registrato, la prima fase del jazz rock  (ovvero la miscela di improvvisazione jazz con i ritmi funk-rock) era in lento declino. Il tastierista Joe Sample, famoso per il suo lavoro con i Crusaders, stava per diventare uno dei fondatori del cosiddetto "jazz contemporaneo", un idioma musicale che in seguito sarà più universalmente conosciuto come smooth jazz. Sample In quel momento aveva sostanzialmente abbandonato il jazz classico, elaborando la sua formula e attualizzando il jazz attraverso l’uso di melodie orecchiabili, di leggeri ritmi funk, il tutto condito dai suoi accattivanti cambi di accordi e da una nuova sensibilità pop. Si può dire che Rainbow Seeker sia il primo album da solista di Joe nel quale il tastierista usa il linguaggio dello smooth jazz in modo aperto e dichiarato. In realtà è il suo terzo lavoro da solista, ma i due precedenti sono ancora legati alle dinamiche della musica afro americana di stampo più palesemente mainstream. In questo album, Sample è affiancato dal leggendario chitarrista Billy Rogers, dal bassista Pops Popwell, dal suo vecchio batterista dei Crusaders Stix Hooper, più una sezione fiati e diversi altri chitarristi ospiti. Tutti gli otto brani (che includono "Fly with the Wings of Love" e "Islands in the Rain") sono composizioni di Joe, che per l’occasione sfoggia tutta la sua vena melodica, creando una serie di groove leggeri ed orecchiabili ideali per un ascolto di sottofondo di livello superiore. Se non si fosse a conoscenza di cosa esattamente sia lo smooth jazz, basterebbe ascoltare uno qualsiasi degli album di Joe Sample della fine degli anni ‘70, in particolare proprio questo Rainbow Seeker, e verrebbe spontaneo pensare che il termine sia stato inventato per questo tipo di registrazioni. Sono quasi sicuro che quando fu pubblicato non fu  considerato un lavoro particolarmente innovativo, tuttavia questo disco, vecchio ormai di 40 anni è un incredibile esempio di come le composizioni e gli assoli possano essere felicemente costruiti intorno all’idea che oggi abbiamo dello smooth jazz. Qui Joe suona maggiormente in primo piano rispetto alle uscite più recenti: la sua tecnica perfetta e la liquida fluidità del suo tocco sono proprio per questo ancora più riconoscibili. Alternando il pianoforte elettrico e quello acustico, Sample elabora la sua magia tastieristica su una colorata varietà di tempi e di groove che spaziano dal latino alle ballate, dal funk al soul. Joe Sample è una sorta di jolly delle testiere: ha un grande senso della melodia e del ritmo, cose che per lui  sono probabilmente la stessa cosa. Ha il suo stile personale, il suo "linguaggio", e quando senti Sample suonare un riff o un accordo, è il “suo” dannato riff o accordo. E non va dimenticato anche il suo tocco: si appesantisce solo per le punteggiature più drammatiche, ma possiede un tocco felpato e, se si è affascinati  dalla velocità, può fornire tutta la destrezza che ci si aspetta. Ma Joe è soprattutto un fantastico compositore in grado di costruire armonie tanto sofisticate quanto ingannevolmente semplici. Tutte queste qualità sono quelle che possono essere trovate anche su "Rainbow Seeker", nel brano specifico e poi in tutto l’album omonimo. Come in "Fly With the Wings of Love", dove la sua abilità tecnica resta al centro dell'attenzione: con un accompagnato di archi, gli accenti di synth ed un semplice giro di basso elettrico. Oppure nell’'intramontabile lirismo di una canzone come "Melodies Of Love" che conquista e rimane incastonata tra testa e cuore. O ancora con il groove brasiliano di "Islands In The Rain" che Sample ha costruito ingegnosamente con le sue tipiche figure di accordi in progressione ascendente. Nel complesso, i classici suoni degli anni '70 sono ancora tutti lì, con meno ruvidezza e forse una maggiore eleganza. Un album come Rainbow Seeker ci consente di toccare con mano una importante transizione stilistica, a cavallo tra due decenni, quel momento in cui l’estetica musicale stava assumendo un ruolo più dominante, ma prima che l’elettronica ed i campionamenti cambiassero nuovamente le carte in tavola. E non è affatto sorprendente che tra queste note si possa percepire tutta l'influenza che Joe Sample ha esercitato su moltissimo del jazz contemporaneo che è venuto dopo. Piuttosto è sorprendente come tutto sommato pochi musicisti citino Sample come fonte d’ispirazione. Lui come Bob James, Don Grolnick, George Duke, Dave Grusin o Eumir Deodato sono tastieristi che hanno dato una spallata in avanti alla loro musica così come al jazz contemporaneo. Joe Sample suonerà sempre come Joe Sample, tuttavia le sue ultime produzioni prima della prematura scomparsa in particolare quelle acustiche, sono la testimonianza di una evoluzione che non si è mai fermata. Un musicista come lui è unico, forse irripetibile, certamente era ed è destinato a durare. Nessun altro sarà Joe Sample nello stesso modo in cui nessun altro potrà mai essere Miles.

David Sanborn – Time And The River


David Sanborn – Time And The River

David Sanborn è senza dubbio uno dei migliori sassofonisti degli ultimi 40 anni. Nato con l’esplosione del movimento fusion alla fine degli anni ’70, è uno dei padri di quel nuovo linguaggio del jazz con il quale la musica afro-americana ha creato un ponte verso forme musicali più accessibili e moderne. Oggi chiamiamo questo genere smooth jazz o contemporary jazz, ma Sanborn non è accostabile solo a questi stili, in quanto la sua proverbiale versatilità, così come la sua tecnica sopraffina, gli consentono di spaziare dal jazz classico al rock con assoluta indifferenza. A dimostrazione di questa sua duttilità ci sono centinaia di apparizioni negli album dei più disparati artisti, di ogni genere musicale. Il suo sax alto ha un timbro sonoro che è tra i più riconoscibili dell’intero panorama jazzistico mondiale. In occasione del 40° anniversario della sua carriera da leader e solista ha pubblicato un album intitolato Time And The River, il venticinquesimo della sua personale discografia. Per celebrare al meglio la ricorrenza David ha pensato di richiamare a se il suo amico bassista e produttore Marcus Miller, con il quale ebbe un lungo e fruttuoso sodalizio negli anni ’80. Erano ormai 15 anni che i due non lavoravano insieme ad un progetto in comune: per la registrazione la coppia di fenomeni ha assemblato una notevole band, formata dai chitarristi Yotam Silberstein e Nicky Moroch, il tastierista Roy Assaf, l'organista Ricky Peterson, Peter Hess ai sax e al flauto, Marcus Baylor alla batteria, e Javier Diaz alle percussioni. A questi si aggiunge una sezioni fiati estesa su alcuni dei brani dell’album. Ma cosa ha tirato fuori dal cilindro il mitico David Sanborn per la sua ultima fatica discografica ? Ebbene Time and the River è un assortimento assolutamente coinvolgente di musica jazz contemporanea, energico funky, R&B di gran classe e tanto groove. In un attimo il disco ci riporta ai magici momenti di album storici come Straight To The Heart, Hideway, As We Speak, Closer o Backstreet. Ovviamente il sax del leader è l’assoluto protagonista di questa bella registrazione, è la vera voce narrante di queste 9 storie in musica che compongono Time And The River. Ora acido e potente, talvolta dolce e sinuoso, David pilota il suo strumento con la sua proverbiale maestria e passione in un percorso che non è semplicemente quello dello smooth jazz: si ha la netta sensazione che riesca ad essere sempre più profondo e concreto di quanto non sia abitualmente il jazz commerciale. Un contributo importante e significativo viene anche dal magnifico basso di Marcus Miller che aggiunge sempre qualcosa a tutte le produzioni in cui è coinvolto. Marcus rappresenta l’eccellenza mondiale del basso elettrico, ma è molto più di questo, dato che è un fantastico compositore e un altrettanto valido produttore. "A La Verticale" da il via all’album in modo inusuale: il brano è originale per ritmica e arrangiamento, al punto che è difficile catalogarlo: le percussioni in primo piano, la chitarra funky, Miller che con il basso suona due linee distinte mentre a Sanborn tocca dipanare una complessa melodia. Il tutto è molto affascinante e la ciliegina sulla torta è rappresentata dall’assolo di chitarra elettrica, molto suggestivo. L'assolo di David è emblematico della sua timbrica unica così come della sua tecnica perfetta. Un groove che inizia il disco come meglio non si potrebbe. Ma la seguente "Ordinary People" non è da meno e, con l’organo, le percussioni ed il magnifico sax di Sanborn, la band confeziona un brano dal sapore vagamente latino davvero intrigante. C’è lo spazio per una ballata delicatamente swing come "Drift", per poi passare alla più vivace cover di "I Can not Get Next to You". Sanborn arruola il vocalist dei Tower of Power, Larry Braggs per lanciare il suo sax alto, che attorniato dalle chitarre, dal piano elettrico e dalle ritmiche da libero sfogo alla sua creatività. Marcus Miller usa al meglio il suo basso nel suo terreno naturale: il funk. "Oublie Moi" è invece un brano sensuale, l’andamento è quello della ballata incentrata sul ritmo delicatamente dettato da batteria e percussioni dove è la voce del sassofonista ad interpretare il ruolo del cantante. "Seven Days Seven Nights" si avvale di un arrangiamento che prevede l’uso di una sezione fiati estesa: il pezzo unisce groove latini e caraibici a vampate di jazz contemporaneo. La cantante Randy Crawford  si aggiunge alla band con la sua voce brillante per una lettura sensuale della bella "Windmills of Your Mind", il finale è tutto concentrato su un magnifico assolo di Sanborn. "Spanish Joint" esprime nel titolo la sua essenza, ovvero un intreccio tra il funk afro-latino e il soul-jazz per una combinazione tanto affascinante quanto originale. Marcus Miller delinea i suoi intricati ricami al basso con grande raffinatezza ed un intrinseco senso del groove, giusto per sottolineare il teso e acido urlo del sax alto di Sanborn. "Overture" è tratto dalla colonna sonora originale di The Manchurian Candidate, si tratta di un malinconico tema in cui Sanborn è affiancato dal solo Assaf al piano. Un breve intervento in duo per chiudere delicatamente in bellezza un album le cui trame musicali sono tanto particolari quanto diversificate. Da un gigante come David Sanborn ci si aspetta sempre qualcosa di bello, e ogni nuova uscita discografica rappresenta un tassello in più nella luminosa carriera di questo strepitoso protagonista della fusion degli ultimi 40 anni. Time And The River non delude affatto le attese, grazie anche alla presenza di un altro genio come Marcus Miller, che per l’occasione si è riunito con Sanborn per dare vita ad un album di contemporary jazz molto interessante ed originale. Più intimo e crepuscolare se confrontato con le pubblicazioni degli anni ’80, forse meno appariscente ma indubbiamente più maturo e tuttavia ancora una volta sofisticato e ricco di contenuti. Non è il solito prodotto di smooth jazz commerciale, è un lavoro intenso in grado di soddisfare anche i palati più raffinati.

Peter Erskine & The Dr. Um Band – Second Opinion


Peter Erskine & The Dr. Um Band – Second Opinion

Se sei stato il batterista dei Weather Report e degli Steps Ahead, se sei considerato uno dei migliori esponenti del tuo strumento da moltissimi anni, insomma se godi della stima di tutti i musicisti e di uno stuolo di appassionati ascoltatori, una ragione ci sarà. Se ti chiami Peter Erskine le ragioni sono tutte quelle enunciate perché sei un’icona della batteria moderna, un artista a tutto tondo che si può certamente definire, senza tema di smentita, “uno che ha scritto la storia del jazz”. Dopo anni di relativo allontanamento dal mondo della jazz fusion, Peter si è recentemente riavvicinato al genere che lo ha reso famoso insieme ai mitici Weather Report. Ha dato vita ad una band che ha chiamato Dr.Um che nel giro di poco più di un anno ha pubblicato due album, uno più bello dell’altro. L’uscita di questo Second Opinion tra l’altro non fa che confermare il fatto che il suo ritorno al genere jazz fusion non è stato un episodio isolato, ma piuttosto l’inizio di una nuova e stimolante avventura musicale. Quindi, con un occhio al passato ma sfidando il futuro con passione ed ottimismo, il grande Erskine ha trovato una seconda giovinezza in questo progetto, grazie anche al supporto di una band formata da John Beasley alle tastiere, Bob Sheppard ai sassofoni e al flauto e Benjamin Shepherd al basso. Quest’ultimo ha sostituto Janek Gwizdala, presente invece nel disco precedente. Siamo di fronte ad una grande qualità tecnica e compositiva da parte di tutti i musicisti, che non fa che esaltare il suono raffinato ed elegante di Dr.Um, come è lecito attendersi. Ogni componente contribuisce al risultato finale con interventi misurati ed intelligenti. Ne esce un album suggestivo che è la perfetta sintesi di quello che è oggi il jazz contemporaneo più colto ed interessante. Dr.Um propone una suggestiva fusione di jazz e funk in ognuno dei nove brani che compongono Second Opinion, ma non manca di abbracciare anche le sonorità del bop, sia pure reinterpretandolo in chiave contemporanea. Appare evidente come il quartetto si sia impegnato ad assemblare un programma vario, completo e profondamente emozionale. Il rimando ai Weather Report è inevitabile ed in parte è avvertibile qualche eco anche degli Steps Ahead, tuttavia Dr.Um suona meno freddo e forse più spontaneo di entrambe: c’è una venatura di soul in questo modernissimo e ispirato jazz funk.  Un esempio perfetto viene dell’iniziale Hypnotherapy, dove la performance al pianoforte di Beasley è esemplare, così come quella di Sheppard al sax, in un dialogo musicale brillante e perfettamente costruito sulla potente sezione ritmica. Il drumming di Peter Erskine sembra perfino rinvigorito da questa nuova esperienza, come sempre è elegante e formalmente perfetto ma pare anche più incisivo di qualche anno fa. Fin dalle prime battute l’album suona accattivante, con un’architettura sonora complessa e tuttavia perfettamente godibile. Un pezzo come Eleven Eleven è semplicemente magnifico: una cartolina da consegnare a futura memoria di come dovrebbe essere la fusion. L’introduzione e poi l’assolo funk del basso di Shepherd, ma anche le tastiere di Beasley ci riportano immediatamente a tutte quelle sonorità elettriche tanto care al compianto Joe Zawinul. Se si parla di reminiscenze dei Weather Report, ascoltando Lida Rose è l’intro di basso che ci porta subito alla mente Jaco Pastorius. D’altra parte sarebbe un grave errore considerare Second Opinion come ad un mero tributo ai Weather Report, senza una sua specifica personalità. Al contrario, pur tenendo a mente che quel sound è nel dna di Erskine da una vita, il batterista parte da quelle basi sviluppando in chiave attuale e moderna le sue idee musicali per il jazz contemporaneo del terzo millennio. Peter Erskine e The Dr.Um Band hanno fatto tesoro del retaggio delle band di Joe Zawinul o di Wayne Shorter, non hanno certo dimenticato il contributo di Don Grolnick e degli degli Steps Ahead ma tuttavia non ne sono rimasti imbrigliati. Second Opinion è pervaso invece da un fermento creativo straordinario, in esso si coglie tutta la storia del jazz elettrico passato, arricchita e in qualche maniera sublimata da una grande competenza e molto talento. La fantasia e l’inventiva della band vengono esaltate da tanti eccellenti brani come le delicate Street Of Dreams scritta da Victor Young e Dreamsville composta da Henry Mancini: sono forse questi i due momenti più sofisticati e suggestivi dell’intero album. "Not So Yes" è quel tipo di crossover jazz che Don Grolnick amava creare ma qui la dose di funk è più sostanziosa grazie alla premiata fabbrica del ritmo firmata Erskine / Shepherd. "Did It Have to Be You?" è essenzialmente un tuffo nel be bop con un tocco di soul-jazz anni ’70: L’ottimo sax di Sheppard, il fluidissimo e liquido organo di Beasley e il basso elettrico di Shepherd si alternano sul ritmo innescato dalla formidabile batteria di Erskine. "Solar Steps" è una versione aggiornata e modernissima dell’hard bop che mette in luce le trame morbide del basso in perfetta simbiosi con le complesse architetture poliritmiche di Peter Erskine ed il piano elettrico di Beasley. Il sax di Sheppard, nel suo ruolo di solista, ricorda quello prestigioso di Michael Brecker. Una cover più nota delle precedenti, "Willow Weep For Me", termina l'album con la stessa finezza funky con la quale era cominciato: Beasley si esibisce nuovamente al piano acustico. Second Opinion non è solo un album eccellente ed una felicissima continuazione del lavoro iniziato sul precedente lavoro dei Dr.Um: è una splendida lezione di vero jazz, esattamente come dovrebbe essere nel 2018 (contemporaneo o elettrico o fusion che dir si voglia non ha importanza). Dr.Um e Peter Erskine propongono una formula che dovrebbe essere presa ad esempio da tutti i musicisti che si accostino al jazz, ma anche da tutti coloro i quali hanno necessità di trovare nuovi spunti creativi. A quanto pare Peter Erskine ha trovato nei Dr.Um una seconda vita artistica nella quale sembra divertirsi di più di quanto non abbia mai fatto in precedenza: se i risultati resteranno quelli dei primi due dischi, non ci resta che sperare che la magia duri ancora a lungo.

Lonnie Liston Smith – Mama Wailer


Lonnie Liston Smith – Mama Wailer

Di Lonnie Liston Smith ho già parlato in un post di qualche tempo fa riguardante un suo album del 1975, intitolato “Expansions”. In questo caso faccio un ulteriore salto indietro nel tempo, fino al 1971, per analizzare “Mama Wailer”. Il lavoro in oggetto è la quintessenza dello spirito e della filosofia dell’etichetta discografica CTI / Kudu del mitico produttore Creed Taylor. Inoltre questo è un album che è stato fuori catalogo per molti anni nella versione originale in vinile, ma nel 2003 è tornato nuovamente disponibile nel formato CD, tra l’altro splendidamente rimasterizzato. Come altri dischi dello stesso periodo è parte di un ambizioso progetto di recupero e rivisitazione del vecchio catalogo della Kudu Records, cioè l’etichetta satellite della CTI, specializzata in soul jazz. Ha una durata di soli 35 minut, ma pur nella sua brevità, risulta essere un ascolto molto soddisfacente. Gli originali di Lonnie Smith sono due: la title track e "Hola Muneca", poi ci sono le cover di "I Feel the Earth Move" di Carole King (con l’arrangiamento di Grover Washington) e quella di ben 17 minuti di "Stand" di Sly Stone. Un brano che è così funky e intrinsecamente complesso che risulta quasi irriconoscibile rispetto all'originale. In verità questo è un gran pezzo dato che consente a Smith di distendersi fluido e sicuro con i suoi riff di organo funky, e al bravissimo Grover Washington di partecipare alla festa con un meraviglioso assolo di sax. Se questo già ricco programma non bastasse ad allettare gli ascoltatori, ci pensa la band stellare a disposizione di Smith a completare il quadro. Billy Cobham è il batterista, Ron Carter il bassista e Airto Moreira si aggiunge per dare colore con le sue percussioni. Grover suona anche il flauto su alcuni brani, e  Lonnie Smith si cimenta con ottimi risultati con il clavinet sul brano Mama Wailer. E’ una formazione di grande talento ed ovviamente messi insieme, questi grandi musicisti suonano in modo sensazionale. Lonnie Smith è anche responsabile di tutti gli arrangiamenti tranne uno. Su Mama Wailer le tastiere di Lonnie sono le protagoniste assolute, in particolare l’organo: sporche, ruvide con un sound originale e davvero vintage. Interessante anche l’inusuale uso del clavinet, uno strumento fino a quel momento poco utilizzato ma che diventerà presto un marchio di fabbrica di molti tastieristi funky come Herbie Hancock o George Duke. Il groove è ai massimi livelli: a volte con risvolti latini come su "Hola Muneca", mentre in altri momenti emerge maggiormente l’anima funk.  Sono bellissimi i giochi ed i contrappunti tra il classico Hammond B3 di Lonnie ed il basso di Ron Carter che disegna linee che varrebbero già da sole l’ascolto. Inutile sottolineare che il lavoro di Billy Cobham alla batteria rappresenta un valore aggiunto ed è fantastico lungo tutto il percorso dell’album. Mama Wailer è uno splendido esempio di musica dei primi anni ’70, ovvero quando il soul e lo spirito latino incontrano il jazz ed il funk. Le improvvisazioni sono piene di inventiva, ipnotiche, quasi psichedeliche. Gli echi dell’Hard Bop si mescolano con le sonorità elettriche, proprio all’alba di una nuova luminosa era per il jazz. Incredibile cosa viene fuori dalla lunghissima cover della canzone di Carole King, I Feel The Earth Move: in un susseguirsi di assoli,  il soul-jazz regna sovrano mentre l’organo tiene sotto controllo la sfida del ritmo con l’infallibile terapia del groove. Altrove, come in "Stand", L’organo  sovrainciso su più tracce di Smith crea una melodia meravigliosamente complessa mentre la band si muove sicura dentro al ritmo. Dopo poche battute sulla tema (in tutto sono circa 20 minuti di musica), l'ensemble prende il controllo totale in un crescendo nel quale è possibile improvvisare di tutto e di più. E’ una vera e propria jam session quella che si svela, con una profonda grinta soul-jazz e un genuino spirito funky che scorre fluido e trascinante, con un continuo rimbalzo da un musicista all'altro. Per chiunque abbia mai avuto riserve sull'abilità di Grover Washington in veste di improvvisatore, è sufficiente ascoltare attentamente questo brano per poi doversi scusarsi con il suo fantasma. Mentre le chitarre si intrecciano intorno a quelle linee di basso sinuose e complesse che caratterizzano da sempre il jazz funk, Smith e Washington si scatenano con i loro assoli. Infine il chitarrista Jimmy Ponder fa parlare la sua chitarra per accoppiarsi all’organo di Lonnie Smith in un tumulto musicale soul funk alla James Brown and His Famous Flames. Gli appassionati di funky jazz degli anni '70, in particolare dell’organo Hammond, non potranno fare a meno di un album come Mama Wailer. Partendo dalla produzione di Creed Taylor, passando per la maestria della band e concludendo con il talento di un genio come Lonnie Liston Smith qui c’è materiale in abbondanza per ritenere Mama Wailer un ascolto irrinunciabile.

Urbie Green – Senor Blues


Urbie Green – Senor Blues

Se, cercando in giro, trovo un album dell’etichetta CTI che non possiedo o che non conosco, senza troppe esitazioni di solito decido di ascoltarlo. Anche se non ho grande familiarità con l'artista in questione, perfino quando non sono pienamente convinto di quello che ne verrà fuori, do sempre una chance alle produzioni di Creed Taylor ed agli artisti che con lui hanno collaborato. In questo specifico caso conoscevo già Urbie Green, dato che possiedo il suo precedente album per la CTI, The Fox. Ma chi è Urbie Green ? E’ un trombonista jazz americano che in carriera ha suonato tra gli altri con Woody Herman, Gene Krupa, Jan Savitt e Frankie Carle. E’ considerato un esperto e quotato veterano che  vanta la partecipazione ad oltre 250 registrazioni di ogni genere musicale ed inoltre ha pubblicato più di due dozzine di album come solista. Urbie è dunque un musicista di spessore, e, a dispetto della sua scarsa popolarità, è  molto rispettato dai suoi colleghi trombonisti: una cosa ampliamente giustificata dalla sua bravura. Il suono del trombone di Green è noto per il suo tono caldo e morbido, anche quando si esprime nei registri più alti del suo strumento, che riesce a gestire in modo fluido e sicuro proprio là dove altri sembrano fermarsi. La sua tecnica è considerata impeccabile da praticamente ogni addetto ai lavori in campo musicale. Urbie fin dagli anni '70 ha poi costantemente cercato di sperimentare ed innovare attraverso il suo strumento. Ha progettato un bocchino per la Jet Tone e ha collaborato con la Martin Brass al fine di migliorare il design del trombone, sia dal punto di vista funzionale che per quanto concerne il suono. In ogni caso è cosa nota che non capiti spesso di trovare un album jazz guidato da un trombonista, un fatto che mi induce ancor di più ad approfondire la sua conoscenza. Venendo dunque a questo lavoro, intitolato Señor Blues, che è poi il secondo album di Green per la CTI, c’è subito da notare che si può avvalere di due eccellenti bonus quali la presenza di Grover Washington Jr. come sassofonista e l’accompagnamento della Big Band di David Matthews. L'album si apre con  "Capitan Marvel" di Chic Corea, in passato già proposto da Stan Getz. È un grande brano di jazz ed offre ampie opportunità sia per Urbie Green che per Grover Washington Jr. di mettersi in evidenza nelle vesti di solisti. Il numero sprizza energia e vigore ed in qualche misura vi si ritrova il seme di ciò che sarebbe sbocciato nei Return To Forever. Gli arrangiamenti di Matthews sono altresì davvero convincenti così come il sound della big band. Il timbro di Urbie è particolarmente efficace  e lo stesso Grover Washington lascia da parte la sua anima leggera per padroneggiare il sax tenore con grande forza espressiva. A seguire arriva la ballata di Billy Preston "You Are So Beautiful" resa famosa da Joe Cocker: una grande opportunità per far sì che il trombone del leader si prenda completamente la scena. Se da un lato può apparire un po' troppo sdolcinato, dall’altro la voce di Green è così meravigliosa che alla fine non ci si fa nemmeno troppo caso. Urbie si cimenta anche con un complesso brano di Mingus intitolato "Ysabel's Table Dance". Questo pezzo, che è tratto da  Tijuana Moods, ha un feeling messicano, ma anche un curioso groove mediterraneo, quasi nord africano. Se l’originale di Mingus era una suite al limite del free jazz,  la copertina offerta da Urbie è molto più semplice, ma non per questo meno profonda. La title track è un pezzo di Horace Silver, che nella versione di Urbie Green sembra avere un respiro più ampio. Grover Washington Jr. è straordinario e molto intenso, ma l'assolo di Green non è da meno e diventa quasi un duetto con il bassista. "I'm In You"  è originariamente una canzone pop di Peter Frampton: da qui Urbie Green estrae alcuni spunti melodici e la trasforma in un funk piuttosto accattivante. L'album si conclude ancora con il funky, attraverso la cover della celeberrima “I Wish” di  Stevie Wonder. Il groove di base è piuttosto fedele all'originale di Stevie, ma qui ovviamente il trombone parlante di Green sostituisce la voce del cantante. Dopo l’assolo dello stesso Green c’è da rilevare la presenza di un allora giovane John Scofield che si prende il suo spazio con la chitarra elettrica. La sezione fiati che accompagna tutto il pezzo è particolarmente brillante. L'album, nella sua essenza, si inserisce perfettamente nel contesto della produzione di Creed Taylor con la CTI e più in generale in quello storico della metà degli anni ‘70.  La formula è quella della miscela equilibrata di elementi di jazz, molto funk e qualche spruzzata di pop. Un modo per rendere più facile l’ascolto del jazz senza scadere nella musica commerciale o nel kitsch. Tornando all’argomento con cui ho esordito, un album come Senor Blues è uno dei  motivi per cui mi piace esplorare nel catalogo di questa mitica etichetta: in fondo non è poi così difficile scoprire dei preziosi reperti musicali degli anni ’70 come questa registrazione del 1977 di Urbie Green. Bella perché il trombone è protagonista ed interessante perché i suoi contenuti sono comunque di valore.

Stix Hooper – The World Within


Stix Hooper – The World Within

I Crusaders sono stati un gruppo storico molto importante nell’evoluzione del genere fusion. Dopo anni e anni di produzioni jazzistiche, alcune di un certo pregio, i membri fondatori trovarono una formula di compromesso a cavallo tra il jazz, il funk ed il soul che condusse la band alla popolarità ed al successo.  Un  successo planetario che culminò nel 1979 con l’album Street Life e con l’omonimo singolo cantato da Randy Crawford. Fu a quel punto che i tre musicisti superstiti della band,  Joe Sample, Wilton Felder e Stix Hooper decisero di pubblicare, in rapida successione, i loro personali lavori da solisti. Tutti i dischi, Voices In The Rain di Joe Sample, Inherit The Wind di Wilton Felder e The World Within di Stix Hooper  avevano la medesima firma di produzione e l’organico di registrazione in comune tra loro, così come ognuno dei tre leader compariva sugli album dei colleghi. In seguito i brani contenuti in tutti questi album entrarono a far parte del repertorio dei Crusaders nei concerti dal vivo. Se Joe Sample e Wilton Felder avevano già una carriera in proprio, lo stesso non si poteva dire per il batterista Stix Hooper, per il quale The World Within rappresentò il debutto assoluto come leader. A Stix Hooper viene attribuito il merito di aver contribuito a creare quello stile originale di batteria che in estrema sintesi può ragionevolmente essere definito come il motore del "Jazz Funk". Da sempre è inoltre un uomo immagine per le batterie della mitica Pearl, da lui usate fin dagli anni ‘60. Il suo è un batterismo dinamico, fortemente incentrato sulle percussioni, in grado di adattarsi facilmente a vari sottogeneri: dal jazz mainstream fino ai groove più propulsivi e moderni. Inoltre, bisogna ricordare il forte contributo che  Stix Hooper  ha dato molto al mondo della musica ed in particolare della Comunità Jazz con il suo benemerito lavoro con la National Academy of Recording Arts And Science. Questo album è, in verità, una registrazione non proprio felicissima da parte di Stix, nella quale appaiono evidenti più le ombre che le luci. I pochi brani validi del disco ne giustificano l’ascolto senza però compensare completamente quelli più deboli. Brazos River Breakdown è sicuramente il pezzo migliore di The World Within, quello con il groove più smaccatamente jazz funk ed anche l’episodio con l’arrangiamento più vicino al sound dei Crusaders. Rum Or Tequila è invece un orecchiabile numero dal sapore latino in cui è la marimba lo strumento guida: tutto sommato, nella sua leggerezza, suona ancora abbastanza serio ed in linea con quello che ci si potrebbe aspettare. Cordon Bleu è uscito addirittura come singolo, a testimonianza di un occhio puntato alla disco che si riflette sul tenore complessivo del brano. La ritmica in effetti è adatta alle piste da ballo (quanto meno a quelle della fine degli anni ’70) piuttosto che ad un ascolto di stampo jazzistico. Di originale qui c’è l’uso della fisarmonica “musette” come voce solista per dare corpo ad una linea melodica di un certo fascino, ma non particolarmente spettacolare. Ci sono anche due tracce di vera e propria World Music come  African Spirit e Jasmine Breeze: entrambe sono brani che mettono in luce l’uso molto creativo che Hooper ha sempre fatto delle percussioni. Hanno il merito di andare a cercare sonorità afro e ritmiche inusuali, con un minimo di senso della sperimentazione, ma il jazz funk o il groove sono completamente assenti. La ballata Passion è addirittura piuttosto scontata e finanche noiosa, un momento che francamente si sarebbe potuto evitare.  Meglio la cover di una canzone come The Little Drummer Boy, che nella resa strumentale proposta da Stix Hooper, se non altro ci guadagna in groove, rimanendo in un territorio non troppo distante dal feeling jazzistico, ovviamente sempre contaminato dal funk. The World Within è uno dei primi esempi di album idealmente concepiti come vicini al jazz (fusion) ma in pratica orientati e volutamente guidati da uno spirito dance. Non si può certo definire un esperimento riuscito nel migliore dei modi, poiché gli si può imputare prima di tutto una mancanza di omogeneità tra i brani ed in secondo luogo una evidente debolezza delle composizioni, che traspare maggiormente proprio nel momento dell’ascolto. Se anche volessimo giudicarlo di fatto come un lavoro commerciale non potremmo che trovarlo comunque incompiuto. Tranne un paio di episodi palesemente orchestrati sulla falsa riga della musica dei Crusaders, il resto è di un livello più modesto di quanto non sarebbe lecito attendersi ed alla fine la sensazione prevalente è la delusione. Dai dischi solisti dei membri originali dei Crusaders è naturale aspettarsi qualcosa di interessante. Se nel caso di Joe Sample e in parte anche di Wilton Felder questo obiettivo è stato raggiunto, dell’album del batterista Stix Hooper non si può dire altrettanto. The World Within non va al di là di un compitino appena sufficiente, che tra l’altro non riesce nemmeno a mettere in luce le straordinarie doti di batterista dello stesso Hooper, come normalmente avviene quando i grandi percussionisti pubblicano i loro album in prima persona. E’ un album che può essere interessante per i fan accaniti dei Crusaders, cioè di coloro i quali non vogliono privarsi di niente di ciò che la mitica band ed i suoi componenti hanno pubblicato. Per tutti gli altri, in particolare per i puristi del jazz è un disco che si può tranquillamente evitare.

Eddie Bullen – Spice Island


Eddie Bullen – Spice Island

Il pianoforte nello smooth jazz è da sempre molto presente: dai tempi dei primi esperimenti di contaminazione tra il jazz ed il funk attraverso le sonorità elettriche, fino ad arrivare ai più recenti esponenti del genere, i tastieristi hanno avuto un ruolo centrale. Con risultati che non sempre sono stati e sono straordinari: gli alti e bassi sono naturali ed inevitabili, come è ovvio.  Eddie Bullen è uno dei tanti pianisti smooth jazz che hanno animato la piazza, ma appartiene alla folta schiera di quegli artisti, praticamente sconosciuti, che vale comunque la pena di prendere in considerazione. Una prima osservazione da fare è che lui proviene dall’isola caraibica di Grenada, un’origine insolita e particolare, non così comune nel panorama dello smooth jazz. La seconda è che Eddie è un pianista raffinato, dotato di grande talento e sensibilità, in grado di confezionare un jazz contemporaneo dal sapore latino che però fonda le sue radici negli anni d’oro del movimento fusion. Le sue fonti d’ispirazione, come quelle di molti altri,  sono Ramsey Lewis, George Benson, gli Spyro Gyra, Rodney Frankin, Bob James e molta della produzione degli anni  ’70 della storica etichetta CTI. Bullen ha un tocco morbido e rilassato, un’eccellente vena compositiva e si inserisce perfettamente in quel filone di musica smooth jazz di facile ascolto e piena godibilità che popola spesso i canali tematici radiofonici. Niente esplorazioni ardite, nessuna coraggiosa invenzione musicale ma piuttosto un sound molto piacevole, ricco di colori caraibici ed echi del jazz elettrico della migliore tradizione, fusi insieme ed arrangiati con classe ed equilibrio. Spice Island è il suo ultimo album, del quale lo stesso Eddie Bullen dice: “è un riflesso musicale della mia vita da adolescente cresciuto sull'isola delle spezie di Grenada, nei Caraibi. Ho scritto queste canzoni con lo stile che stava emergendo negli anni '70 come jazz contemporaneo. È presto diventato una colonna sonora dei miei ricordi, influenzando la traiettoria della mia vita.” Sono dieci bei brani, declinati in modo omogeneo ed ammantati di una apprezzabile eleganza formale. A cominciare dal pezzo d’apertura intitolato Mardi Gras: un ritorno alle sonorità del buon jazz contemporaneo, con una melodia orecchiabile e alcune reminiscenze dello stile dell'etichetta CTI di Creed Taylor. Spice Island ricorda invece l'evoluzione dello smooth jazz che aveva il suo fulcro a Chicago, con un pizzico di Ramsey Lewis e perché no? qualcosa anche degli Earth, Wind And Fire. Regata è un brano che rimanda alla giovinezza di Bullen a Grenada, dove la nautica è uno stile di vita: bella la conversazione musicale tra la chitarra e il pianoforte ad evocare la navigazione nel vento dentro un bellissimo tramonto caraibico. Si prosegue con Tanteen che cattura fin dalla prima nota, in una delicata danza di due melodie, che ricorda Lee Ritenour e Ronnie Laws mettendoci un po’ di grinta funk, grazie al lavoro della sezione ritmica. Spice Island è una sorta di viaggio musicale che si snoda attraverso le pagine di un diario colorato, fatto di sensazioni, profumi, suggestioni che rimandano quasi sempre ai paesaggi, al sole e all’atmosfera di una tipica isola dei Caraibi. C’è una bellezza intrinseca in tutto questo, ed è bravo il pianista a disegnare con la sua tastiera i contorni di un quadro ben preciso. Esattamente quello che succede con Cinnamon Hill: ovvero la musica dà la sensazione di rilassarsi su una spiaggia godendosi il tramonto, in un linguaggio che sta a metà tra lo smooth jazz ed il chill-out. Qui c’è anche un caldo sassofono alto a fare da contraltare ad una bellissima melodia guidata ovviamente dal pianoforte di Eddie. Paradise è una curiosa fusione poliritmica su base funky, in cui la metrica dispari nella struttura armonica e melodica da origine ad un feeling da classico 4/4. Il pezzo probabilmente più ardito dell’intero album è Providence, che trasporta alla fine degli anni ’70 e ad alcune sonorità affini a quelle dei Weather Report di Heavy Weather. La melodia è molto bella, mentre l’architettura armonica complessa ed il ritmo sorprendono per l’imprevedibilità nei cambiamenti. Se Providence sfiora i Weather Report, con Concepcion il rimando è a George Duke ed alla sua Dukey Stick: notevole l’intreccio di due melodie distinte che è un po’ il marchio di fabbrica di Bullen. La successiva Glen Dale è un aggressivo brano di fusion, molto funky, che consente ad Eddie di mettersi in mostra anche con il synth, con il quale come è noto, la tecnica e la sensibilità sono diverse rispetto al piano. L’album si conclude con True Blue ovvero un'interessante escursione nel mondo della world afro con un ritmo in 6/8 illuminato da un bellissimo pianoforte che crea letteralmente l’effetto del senso del viaggio  tra l’Africa e i Caraibi, compiendo una sorta di integrazione tra i ritmi delle due sponde opposte dell’Oceano Atlantico. Con Spice Island Eddie Bullen ha prodotto il suo piccolo capolavoro personale, senza dubbio il suo album migliore fino ad oggi. Mettetevi comodi, se siete a casa, e gustatevi un buon cocktail tropicale mentre il pianoforte disegna i suoi quadri colorati di Caraibi e funk, Spice Island sarà un ottimo e piacevole sottofondo. Ma potrete senz’altro apprezzarlo anche in auto oppure mentre fate jogging. E’ smooth jazz, sì,  ma di qualità.

Thom Rotella 4-Tet - Out of the Blues


Thom Rotella 4-Tet - Out of the Blues

Thom Rotella è uno di quei musicisti che difficilmente si ha l’occasione anche solo di sentir nominare. A dispetto della sua scarsa risonanza internazionale, Thom è tuttavia un chitarrista tecnicamente molto dotato, con alle spalle una carriera cominciata negli anni ’80 ed arricchita anche da alcuni album di valore e di un certo successo. Rotella è un esponente storico del movimento fusion e smooth jazz: non ha mai nascosto come il jazz commerciale sia stato da sempre il terreno artistico preferito. Ma le sue origini sono più nobili e la sua formazione musicale è sofisticata: infatti può accostarsi con disinvoltura anche al jazz classico, con uno stile molto influenzato da Wes Montgomery. Questo album, intitolato Out of the Blues, ci dà l’opportunità di conoscere proprio il lato più puramente jazzistico del chitarrista americano. Rotella torna così alle sue radici pre-smooth jazz, rendendo omaggio a due delle sue più grandi fonti d’ispirazione: i maestri indiscussi della chitarra elettrica Wes Montgomery e George Benson. Nel 2007 Thom decise finalmente di mettere da parte (almeno momentaneamente) le esigenze più commerciali in favore di una full immersion nel puro jazz, delicatamente venato di blues. Per l’occasione il chitarrista di Niagara Falls ha assemblato un gruppo, denominato 4-Tet, che si avvale della presenza del veterano del jazz Roy McCurdy (un apprezzato sideman negli anni '60 che ha suonato con il Art Farmer-Benny Golson Jazztet, Sonny Rollins e il Cannonball Adderley Quintet) e della sua batteria. Il quartetto è completato dal bassista Luther Hughes, in passato collaboratore di Gene Harris, e da due pianisti come Llew Matthews e Rich Eames che si sono alternati alla tastiera. La band funziona davvero molto bene, con un interplay fantastico ed una coesione ammirevole. Lo stile della chitarra di Rotella parla in modo fluente lo stesso linguaggio di Wes Montgomery, riuscendo a padroneggiare i caratteristici accordi di ottava così come la morbida diteggiatura del maestro. Al contempo Thom mette in mostra una sua moderna personalità, un tocco originale ed un sapiente e fantasioso uso degli assoli. Sette delle dieci selezioni di questo album sono composizioni originali, e tutte sono declinate con una spiccata sensibilità jazz-blues. Tre ulteriori brani sono cover di celebri standard del jazz, interpretati con rigore e passione. L’album inizia con il brano "Who Dat?" ed è subito un impatto positivo: i cultori del jazz apprezzeranno l’atmosfera swingante e bluesy nella quale è la chitarra semiacustica a farla da padrona. Rilassata e sinuosa è invece "Bluze 4 Youze": atmosfere da night club e toni delicati si insinuano languidamente nelle orecchie dell’ascoltatore. Molto simpatico il pezzo in 3/4 "The Dr. Is In", dai toni swing, nel quale Rotella sfoggia il suo tono caldo, robusto e una fluidità di stampo Bensoniano caratterizzato da una notevole abilità nella diteggiatura. L’alternanza tra i tocchi giocate sulle ottave, ispirate da Wes Montgomery e la velocità nello scorrere pulito sulle corde alla maniera di George Benson funziona a meraviglia: è un piacere ascoltare un musicista talentuoso impegnato per una volta con un repertorio jazzistico ed uno stile prossimo alla migliore tradizione. Thom è chitarrista ritmicamente e melodicamente completo, un fine improvvisatore melodico quanto basta ma con un’ottima dose di energia. Lo troviamo qui molto ben coadiuvato dal suo 4-Tet, all’interno del quale spicca il lavoro condotto dal gagliardo tandem ritmico composto dal batterista McCurdy e dal bassista Hughes. La presenza discreta ma sostanziale dei due pianisti Llew Matthews e Rich Eames non fa altro che regalare un ulteriore tocco di eleganza formale ai 10 brani. Un accenno va dato anche al modo davvero interessante di leggere i tre standard presenti nell’album: Rotella e la sua band riarmonizzano "The Way You Look Tonight" e la sublime "My Foolish Heart", che tra l’altro inizia con una bellissima introduzione solistica melodica del chitarrista. Thom rivede in chiave leggermente "swing" "I Hear a Rhapsody" anche in questo caso mettendosi in evidenza con un'impressionante introduzione solistica che avrebbe strappato un sorriso anche a Wes Montgomery. Un altro momento saliente è la ballata "Shimmer", suonata ad un ritmo ultra-lento e ricchissima di pathos e sfumature romantiche.  McCurdy, che è un esperto di come si maneggiano questi ritmi lentissimi,  si fa carico di tutto con la sua batteria e grande uplomb. C’è spazio per l'allegra "Be Here Now", che è probabilmente la traccia più commerciale della collezione, ma è ancora profondamente jazzata, molto lontana dai territori smooth, ormai da tempo abituali per Thom Rotella. Dopo l’opulenza un po’ forzata delle produzioni del contemporary jazz dei nostri giorni, la semplicità del blues, unita al sano spirito swing del jazz sono più che benvenute. Thom Rotella si distingue, con il suo Out Of The Blues, oltre che per un album diretto e genuino, anche per un timbro di chitarra pieno e rotondo, dove ogni nota è udibile, ogni accordo è ben delineato. Questa descrizione sintetizza bene la personalità artistica di Thom ed il suo stile di chitarra. Un musicista per una volta libero dai vincoli commerciali che torna al cuore del jazz e riscopre ancora una volta il blues:  lo fa con il giusto virtuosismo ma senza eccessivi personalismi. Gradevole ed equilibrato.

Reuben Wilson – Blue Mode


Reuben Wilson – Blue Mode

Reuben Wilson è un’organista, classe 1937, ancora in attività, che però visse i suoi momenti d’oro alla fine degli anni '60, quando il fenomeno del soul-funk-jazz conobbe la sua stagione migliore. Fu anche uno dei pochi specialisti di quell'epoca del suo strumento ad essere ingaggiato per la prestigiosa etichetta Blue Note. In quella fase storica, la maggior parte degli artisti sotto contratto si stava concentrando proprio su una forma di jazz maggiormente accessibile rispetto all’hard bop, sperimentando al contempo le strumentazioni elettriche. La stessa cosa che fece anche Wilson, seguendo quella regola,  pur se con rare ed occasionali divagazioni molto più impegnate di quanto non potesse essere il soul jazz. Wilson, tra il 1968 e il 1971, registrò cinque album per la Blue Note e sebbene nessuno di questi abbia ricevuto grandi riconoscimenti in quel momento, in seguito sono stati riscoperti da una nuova generazione di fan del funk-jazz, diventando oggetti di culto all'interno degli ambienti acid jazz e di quelli dei revivalisti, amanti dei vintage sounds. Il 1969 d’altra parte è stato forse l'anno più iconicamente carico di groove di un decennio, quello che si concluderà alla fine degli anni ’70, tutto caratterizzato da atmosfere spesso molto groovy. Proprio in quel periodo, al tramonto degli anni ‘60, l’organista Reuben Wilson pubblicò questo bellissimo e classico album intitolato Blue Mode: un disco che è quello che ora definiremmo un esempio di acid-jazz. Non è difficile immaginare come suona Blue Mode, quali siano le sue sonorità, le sue atmosfere, anche se non ne avete mai sentito parlare. Questo è un album creato da un musicista sicuramente ispirato da James Brown e Otis Redding, con riferimenti precisi nel jazz di Jimmy Smith e Jimmy McGriff. Più pop che jazz, più funk che bop, Blue Mode cattura in pieno l'atmosfera del contesto nel quale venne registrato. Ovviamente l’architettura sonora si dipana su un piano diverso rispetto al pop, ed il disco è totalmente strumentale, prima di tutto orientato a dare voce all'organo jazz e le sue dinamiche sono jazzistiche. Per questo, in ultima analisi, Blue Mode può a ragion veduta essere considerato un album di funky groove organistico esemplare. Il quartetto messo insieme per la registrazione vede la presenza oltre a Reuben Wilson all’organo che si fa carico anche delle parti di basso, John Manning al sax tenore, Melvin Sparks alla chitarra e Tommy Derrick alla batteria. E’ una band che per il suo dinamismo, quasi rock, avrebbe potuto suonare perfino a Woodstock, magari subito prima o immediatamente dopo Santana. Ogni brano possiede quel tipo di riff accattivante e quel genere di assoli contagiosi che rendono l’esperienza di ascolto molto appagante. Blue Mode include un paio di cover di famosi pezzi forti della Motown-Stax ("Knock on Wood" di Eddie Floyd e "Twenty-Five Miles" di Edwin Starr) che vengono riproposti e stravolti da un’energia funky e da una carica adrenalinica a base di organo e assoli di sax che citano Sonny Rollins, Joe Henderson e John Coltrane. Forse la chitarra di Sparks non è così in evidenza come meriterebbe, ma quando emerge, il suo impatto è forte e scuote l’ambiente a meraviglia. Già dalla traccia iniziale intitolata Bambu appare chiaro che l’album è un concentrato di funky groove della migliore qualità: ed è incredibile rendersi conto, dopo poche battute, di come Wilson sia in grado di sopperire anche alla mancanza di un bassista grazie all’uso sapiente della sua mano sinistra. In altri brani, come su Bus Ride, Orange Peel o nella bellissima Blue Mode il sapore che si respira è proprio quello dei polizieschi tv, degli inseguimenti automobilistici sulle highway americane o dei fumosi locali di New York o di Los Angeles. Reuben Wilson è senza dubbio un organista di grande talento, virtuoso ed originale sia nell’approccio sull’hammond che sul piano più squisitamente compositivo. Blue Mode non è esattamente un album jazz, ma ha dalla sua un piglio grintoso ed una riserva infinita di groove  e di soul urbano tali da renderlo estremamente attrattivo. Wilson vanta inoltre uno stile molto rilassato ed accattivante, risultando sempre perfettamente godibile e mai prolisso o noioso. Negli anni '50, la Blue Note era stata la casa del miglior hard bop di tutti i tempi, negli anni '60 aveva dato vita al soul-jazz ed al jazz funk e mentre gli anni '60 scivolavano negli anni '70, diventò il centro del movimento in seguito denominato acid jazz. Blue Mode fa parte della serie “Rare Grooves” della Blue Note, la qual cosa  dà un'idea ben precisa tanto dei suoi contenuti quanto di come si inserisca nella gloriosa storia dell'etichetta. Se amate il funk jazz vintage, Reuben Wilson e Blue Mode sono ciò che fa al caso vostro.