Quincy Jones - This Is How I Feel About Jazz


Quincy Jones - This Is How I Feel About Jazz

Non è mai facile distinguere tra coloro che hanno realmente contribuito allo sviluppo della musica (il jazz non fa eccezione) e quelli che attraverso i successi discografici, radiofonici o televisivi assurgono ad una falsa e magari effimera gloria senza incidere davvero a livello artistico. Non sorprende dunque che qualcuno ritenga che Quincy Jones sia solo un personaggio legato al pop e che sia diventato celebre grazie alle sue produzioni recenti e soprattutto  complice la collaborazione con Michael Jackson. Senza alcuna intenzione di sottovalutare il talento di quest'ultimo, Jones è ovviamente molto più di questo e non è un’esagerazione considerarlo un personaggio di primaria importanza nel jazz del ventesimo secolo.  Per meglio comprendere lo spessore di questo poliedrico artista può essere certamente un viaggio illuminante tornare indietro ad oltre tre decenni prima di Off The Wall e di Thriller, alla ricerca delle radici del Quincy Jones jazzista: ovvero al momento cruciale che avrebbe trasformato il grande arrangiatore e produttore in uno degli architetti musicali più importanti di sempre. 1956, Jones all'epoca aveva solo 23/24 anni ma era già evidente che fosse un arrangiatore nato. Se è corretto immaginare che il talento adolescenziale di Quincy fosse ancora acerbo durante i suoi primi anni di attività, trascorsi suonando nel gruppo del di poco più anziano Ray Charles, è altrettanto giusto essere consapevoli che furono le sue doti innate e la sua passione per lo studio ad aprirgli le porte del Berklee Music College. Abbandonati gli studi accademici in favore della partecipazione alla sezione fiati della big band di Lionel Hampton insieme ad altri artisti del calibro di Art Farmer e Clifford Brown, il giovane Quincy diede una svolta alla sua carriera. Incoraggiato dal leader a partecipare agli arrangiamenti del gruppo, capì presto che il suo futuro non era la tromba bensì proprio la scrittura e l’elaborazione delle partiture musicali. Il suo lavoro di arrangiatore al servizio di artisti come Cannonball Adderley, Dinah Washington, del suo vecchio amico Ray Charles e per l'esigente orchestra di Count Basie ne sono la testimonianza. Tutte queste importanti esperienze rendono più facile capire perché, pur in una fase così iniziale della sua carriera, Quincy fosse già così consapevole che la specializzazione poteva essere la sua carta vincente: era proprio la diversità a distinguerlo dalla massa. Così, quando nel settembre del 1956 trovò l'opportunità di pubblicare qualcosa sotto il suo nome, radunò un gruppo di musicisti di grande valore ai Beltone Studios, a New York, e mostrò al mondo di che pasta era fatto.  This Is How I Feel About Jazz nasce in quel momento, e con esso inizia l’ascesa di Quincy Jones nell’olimpo del jazz. E quale modo migliore poteva esserci per manifestare i suoi sentimenti nei confronti del jazz se non quello di scegliere un pezzo a cui Miles aveva intitolato un album un paio di anni prima, e rimodellarlo secondo le sue regole? La celebre "Walkin'" di Davis si presenta in modo sorprendentemente non convenzionale, prima che Jones ne padroneggi il retaggio, e lo infonda di una sensualità inaspettata: la stessa che, tra l'altro, sembra essere il filo conduttore di tutti i contenuti dell'album. Il brano, dopo un'esauriente esposizione del tema vede il basso di Paul Chambers lanciare il groove, presto affiancato dalla tromba (Art Farmer, Bernie Glow, Ernie Royal e Joe Wilder costituiscono l'arsenale di fiati). Il sax tenore di Lucky Thompson prende quindi il testimone (era proprio lui ad aver lavorato alla versione di Miles). Gli altri sax sono poi quelli di Zoot Sims e Bunny Bardach. La grande sezione fiati splende magnificamente a sottolineare i colori del brano con i suoi riff swinganti: il momento dei tromboni, in luogo del Davisiano J.J. Johnson, è riservato a Jimmy Cleveland, Urbie Green e Frank Rehak con uno spettacolare effetto sonoro. Introdotto dal delicato tocco di pianoforte di Hank Jones, il tema di "A Sleepin' Bee" è delineato dal flauto di Jerome Richardson e completato da un'intricata trama di fiati. Come nel brano precedente, Jones dirige magistralmente il grande ensemble attraverso una colorita varietà di sfumature tonali e diversi livelli di intensità. Il classico sound della grande orchestra jazz declinato secondo una sensibilità più moderna. "Sermonette" di Nat Adderley è spinto dal caratteristico basso pulsante di Charles Mingus, dalla tromba con sordina e dal magico vibrafono di Milt Jackson. Ci sono anche tre brani originali di Jones che non fanno che confermare il suo talento, evidentemente non soltanto funzionale alla fortuna di altri artisti.  Ad esempio “Stockholm Sweetnin'”: un intreccio complesso di armonie in cui il contrasto tra il potente sound della big band si confronta con le atmosfere del cool jazz. Interessante notare come malgrado Jones non partecipi più in prima persona con la sua tromba, continui a dare allo strumento un ruolo fondamentale per generare pathos. Hank Jones fa sfoggio di una fluidità delicata e sensibile con il suo pianoforte. E’ invece una sorta di atmosfera cinematografica quella che caratterizza "Evening in Paris" in cui spiccano il dolce flauto di Herbie Mann e le pennellate del pianoforte di Billy Taylor. Un brano con continui cambi di tempo che dipinge un quadro sonoro rilassato ma altrettanto vario, proprio come una serata nella capitale francese. Lo swing la fa da padrone in “Boo's Bloos” ma ogni cosa è esattamente al suo posto con perfezione e genialità. Pianoforte, sezione fiati, flauti, trombe e tromboni sono arrangiati in modo impeccabile e tutto viene sottolineato dalla batteria di Charlie Persip, che dà semplicemente al brano ciò di cui ha bisogno. Quincy Jones è una sorta di ponte tra Duke Ellington e Thelonius Monk: tradizione e modernità coniugate in una sensibilità unica nel mettere insieme i tasselli sonori che compongono le grandi orchestre. Con Jones al comando ogni strumento è esattamente dove dovrebbe essere e tutte le partiture sono interpretate come meglio non si potrebbe. Se volete approcciarvi a questo straordinario musicista This Is How I Feel About Jazz  e il suo gemello Go West Man! Sono il punto di partenza ideale. Trombettista e polistrumentista, direttore di orchestre jazz e di musica leggera, arrangiatore, attivista per i diritti del popolo afroamericano e soprattutto talent scout e produttore capace di far diventare oro tutto quel che tocca. Quincy Jones è un visionario, infaticabile e “onnivoro” esploratore del mondo dei suoni. Oggi Quincy Jones gestisce un impero da milioni di dollari. Ma non dimentica da dove viene e non smette di scoprire e promuovere talenti. Perché Q, pur senza dimenticare il passato, a 91 anni, è uno che guarda al futuro.

Oli Silk – In Real Life


Oli Silk – In Real Life

Ho già avuto modo di recensire in passato due album di Oli Silk, uno dei più interessanti esponenti del movimento jazzistico britannico. In effetti non sono molti gli artisti inglesi che negli ultimi tempi abbiano avuto un impatto così notevole sullo smooth jazz come questo giovane tastierista. Il suo successo non è solo legato ai suoi numerosi e fortunati concerti, Oli è anche un vero e proprio beniamino della radio: tre singoli estratti dal suo ultimo album sono arrivati al primo posto nella classifica di Billboard. E’ la conferma che la sua musica colpisce nel segno e intriga gli ascoltatori, non soltanto quelli europei ma anche il pubblico americano. Con "In Real Life", il suo settimo album per l'etichetta Trippin N Rhythm, Oli Silk continua ad esplorare ogni sfaccettatura del genere smooth e lo fa ancora una volta con il suo stile inconfondibile. In qualità di membro di spicco dello UK Collective, un gruppo dei migliori musicisti londinesi, Silk ha avuto il ruolo di direttore artistico per tutti gli artisti statunitensi che si sono esibiti in Europa. Questa esperienza lo ha aiutato ad affinare ulteriormente le sue già notevoli capacità musicali. In “In Real Life, grazie alle fondamenta artistiche gettate con i suoi precedenti lavori, Silk dimostra anche questa volta che la sua capacità di creare quadri sonori unici e memorabili non è casuale. Il tastierista si descrive come un ambasciatore dello smooth jazz. Un titolo che può giustamente portare, data la sua partecipazione a molteplici eventi di questo genere contemporaneo sia come protagonista principale sia come accompagnatore. Il suo stile tastieristico si rifà in qualche misura a quello di un grande pianista come Bill Sharpe (Shakatak) e la sua ricerca artistica è fortemente incentrata sulla melodia. Nel nuovo album si avvale della collaborazione di una folta schiera di musicisti che lo hanno supportato durante questa registrazione: Westley Joseph (batteria), Orefo Orakwue (basso), Mark James (chitarra), Curtis McCain (percussioni), Ilya Serov (tromba), Rebecca Jade (voce), Marcus Anderson (sax), PJ Spraggins (batteria), Gary Honor (flauto), Kim Scott (flauto), Jordan Rose (batteria), Carl Cox (sax) e Shannon Sangindiva Pearson (voce). L'album si apre con Dare To Dream, dove il buon Oli propone un suond basato sul passato ma proiettato nel futuro. Echi di Bob James e Joe Sample per un brano di classe molto ben arrangiato. In Wait… What? è accompagnato da Orefo Orakwue (basso) e Mark James (chitarra) ovvero due musicisti che hanno infiammato spesso i club londinesi negli ultimi anni. Oli si esprime al meglio con tutti i colori del suo pianoforte creando un’atmosfera allegra e positiva. Il trombettista russo di nascita ma residente a Los Angeles Ilya Serov è la star della rilassata New Horizons che si presenta come una bellissima ballata. Looking Glass è un bel brano cantato che esplora l'imprevedibilità di una storia d'amore che tuttavia sopravvive ai tempi che cambiano. Grass-Fed Funk è invece, per contro, un brano di grande energia, permeato di funk che presenta il sassofonista Marcus Anderson calato in un’atmosfera molto groovy. Torna sul sound morbido e rilassato la successiva West Beach nella quale al tocco pianistico di Oli Silk è affiancato quello della delicata chitarra di Mark James. Silk con Actually Actually è in pieno territorio smooth, ideale per il flautista Kim Scott che lo coadiuva al meglio in questo pezzo molto sofisticato. Nella title track In Real Life Oli preferisce il piano elettrico: la canzone si snoda su un medio tempo con un bell’arrangiamento di stampo più jazzistico. La voce è quella di Shannon Sangindiva Pearson che è meglio conosciuta come corista di Natalie Cole, George Duke, Stanley Clark, Al Jarreau e molti altri. Slim City Silk è nuovamente un pezzo di puro smooth jazz, in cui Silk si esibisce con ogni genere di tastiera che il musicista londinese combina abilmente per creare un collage sonoro con venature funk. L'album si conclude con la veloce e vibrante A Lil' Pick Me Up che vede ospite il sassofonista Carl Cox. Il nuovo album di Oli Silk, In Real Life è un classico esempio di smooth jazz ben congegnato, ottimamente eseguito e gradevolmente melodico: niente di rivoluzionario ovviamente, ma godibile e piacevole dall’inizio alla fine.

Oscar Pettiford - The New Oscar Pettiford Sextet


Oscar Pettiford - The New Oscar Pettiford Sextet

Nel jazz ci sono stati musicisti molto bravi, tecnicamente dotatissimi, al limite della perfezione. E poi ci sono stati quelli straordinari, artisti seminali che si possono considerare a tutti gli effetti dei veri geni. Oscar Pettiford è certamente uno di questi. Sebbene dal punto di vista della popolarità Pettiford non abbia goduto di tutta la fama che avrebbe meritato, il suo lascito è tuttavia inestimabile e la traccia da lui lasciata è un’eredità importantissima per tutto il movimento jazzistico. Christian McBride, uno dei contrabbassisti più influenti della nuova generazione, non uno qualunque, dice di Oscar Pettiford: ”probabilmente è tra i bassisti più importanti dell’era del bebop in termini di creazione di un nuovo linguaggio per il suo strumento”. Ed è una grande verità: Pettiford è stato un protagonista del be bop, ma soprattutto è un innovatore incredibilmente moderno e talentuoso per il contrabbasso. Inoltre fu uno dei pionieri del violoncello nel jazz, strumento atipico che egli iniziò a suonare nel 1949, quando i postumi di una frattura al braccio gli rendevano impossibile suonare il più grande e pesante contrabbasso. Il violoncello era raramente usato dai jazzisti a causa dei rischi elevati di stonature e della scarso volume di suono generato, ma Pettiford lo padroneggiò impeccabilmente continuando ad utilizzarlo come strumento secondario per il resto della sua carriera. In breve si impossesò della tecnica del pizzicato che utilizzò poi in vari contesti. Oscar Pettiford è conosciuto e stimato anche come compositore: tra i suoi pezzi più famosi ci sono ad esempio Tricotism, Laverne Walk, Bohemia After Dark e Swingin' Till the Girls Come Home. Parlando nello specifico dell’album The New Oscar Pettiford Sextet, c’è già da subito un motivo sufficiente per precipitarsi ad ascoltare questo disco: la presenza di Oscar Pettiford e Charles Mingus insieme in un’unica registrazione. La possibilità di ascoltare questi due giganti del contrabbasso jazz nella stessa sessione è un'occasione rara, che nessuno dovrebbe lasciarsi sfuggire. Il fatto che il resto dei musicisti coinvolti e la musica che suonano siano di altrettanto alto livello rende questa pubblicazione davvero indispensabile. Pettiford è in ottima forma in tutte le undici tracce raccolte nell’album. Divide il suo tempo quasi equamente tra violoncello e contrabbasso, e presenta il lavoro suddividendolo in due dei suoi ensemble più rinomati. Le prime sette composizioni ruotano attorno a un sestetto alimentato dall’ottima prima linea formata dal sax di Phil Urso e dal corno francese di Julius Watkins. Entrambe i musicisti sono in grado di creare un suono complementare con Urso che mette in evidenza la sua capacità di esprimersi in modo caldo o cool  senza mai compromettere un grammo del suo swing. Da parte loro, sia Mingus che ovviamente Pettiford sfruttano lo spazio offerto dalla dinamica e flessibile batteria di Percy Brice e dal discreto pianoforte di Walter Bishop, Jr. per conversare tra loro in vari ed esaltanti duetti. La combo è pressochè perfetta dal momento che Pettiford gestisce il sound più leggero del violoncello con la sua padronanza del pizzicato, mentre Mingus mantiene da par suo il motore ritmico dei brani. Ecco dunque che il mentore e l'allievo formano una squadra vincente al servizio di uno straordinario risultato. La stessa qualità, dettata dalla classe dei protagonisti, si adatta sicuramente al contesto anche nella seconda sessione di registrazione. Qui Pettiford utilizza un nonetto composto da alcuni dei migliori musicisti della fine degli anni '40. Il super gruppo è presente solo negli ultimi quattro brani ma riesce comunque a distinguersi con un sound corale agile e swingante. La ripresa sonora è un po’ più ruvida, con un la sezione ritmica più indietro nel mixaggio, ma i veloci fraseggi di Pettiford sono sempre ben udibili, ad uso e consumo di tutto il gruppo. Il sax baritono di Serge Chaloff è un'aggiunta particolarmente gradita che aggiunge colore e profondità, in particolare nel suo "Bop Scotch", dove l’interplay con un ancora giovane Al Cohn è molto intrigante. "Pendulum at Falcon's Lair" è un gran bell’esempio di classico bebop. "Tamalpais Love Song" è un perfetto quadro di quanto fosse grande Oscar Pettiford come compositore. Si capisce come Oscar sia proprio nel solco del grande Charles Mingus, con l’evidente influenza della musica classica: un brano tanto bello quanto intelligente. "Jack, the Fieldstalker" è un altro brano pieno di calore e swing. Se forse "Stockholm Sweetnin'" può essere ritenuta l'unica melodia piuttosto standard, come contraltare c’è  comunque "Low and Behold" che è una dimostrazione di quanto efficacemente il contrabbasso possa essere usato per suonare il blues, se a farlo sono due giganti come Pettiford e Mingus. Chiunque abbia una passione per il contrabbasso e sia alla ricerca di un capolavoro del jazz, interpretato per giunta nel migliore dei modi, non deve far altro che mettere le mani su questo storico album. The New Oscar Pettiford Sextet è il concentrato di quella magia unica che è stato il lavoro artistico di Oscar Pettiford.

Kirk Whalum – Epic Cool


Kirk Whalum – Epic Cool

Come ormai avrete capito, non pongo mai dei rigorosi confini tra i diversi stili del jazz. In fondo è proprio questo il focus di questo blog: esplorare le diverse strade che esso ha percorso. Piuttosto cerco di concentrarmi sugli artisti più interessanti di ieri e di oggi. Per il resto è sempre una questione di gusti e di preferenze. Kirk Whalum è sicuramente una delle personalità più interessanti del panorama dello smooth jazz. Al di là delle calde melodie che ne caratterizzano da sempre la produzione, Whalum propone degli arrangiamenti relativamente complessi che colgono l’essenza del soul e del funk. Tuttavia, ascoltandolo attentamente, si possono chiaramente distinguere anche delle profonde influenze jazz. In ultima analisi questo è ciò che distingue il talento di Kirk Whalum, differenziandolo dalla massa dei sassofonisti che affollano il mondo del contemporary jazz. Giusto per ricordare quale sia il background di  Kirk, fu il pianista jazz Bob James che lo “scoprì” a Houston in Texas e lo ingaggiò per le sue tournée, dando poi vita anche a cinque fortunati album, incluso Cache, il primo a raggiungere la vetta delle classifiche specializzate. Dopo essersi trasferito a Los Angeles, Kirk è diventato un session man molto ricercato, lavorando per artisti di punta come Barbara Streisand, Al Jarreau, Luther Vandross, Larry Carlton, Quincy Jones e la compianta Whitney Houston. Suo è infatti l’assolo di sax in "I Will Always Love You". La carriera di Kirk Whalum si snoda attraverso ben 25 album, di cui il nuovo arrivo Epic Cool è l’ultimo in ordine di tempo. Sassofonista elegante e dal suono straordinario, fa del suo sax tenore un veicolo dei suoi sentimenti più profondi, creando con esso melodie che sono la sua forma di espressione più pura. La sua carriera, i suoi precedenti lavori ed i molti anni di lavoro sia sul palco che in studio altro non sono che il viatico per questo nuovo album emozionante e brillante. Si tratta di smooth jazz, certo, ma "Epic Cool" è uno scrigno di ottime composizioni che lo eleva decisamente al di sopra della media. Un album intelligente che ci trasporta attraverso svariate riflessioni artistiche, come il brano "Film Noir", con il suo titolo francese che rimanda ad un'epoca in cui la Francia offriva ancora al cinema dei contenuti interessanti. Whalum propone qui una diversificata carrellata delle sue abilità di compositore: da un brano ballabile come "Bah-De-Yah!" ad atmosfere melodiche e sensuali come "Pillow Talk" e la bellissima “Through the Storm”. Non manca ovviamente il puro funky groove in un brano come “MF” e perfino un personale tributo ai mitici Crusaders nella avvincente Crusaderation. Epic Cool delinea un quadro musicale che rivela un fascino al contempo moderno e trasversale rispetto a vari generi: un lavoro che è tutt'altro che ordinario. Ascoltare Kirk ed il suo sax  non significa solo godersi un po’ di buona musica ma ci porta ad una riflessione più profonda sul presente e sul futuro dell’arte. R&B, gospel, funk, soul e jazz vengono miscelati con gusto ed equilibrio, con un’innata classe, attraverso il robusto e corposo sound del suo sax tenore. Credo che Kirk Whalum sia un musicista molto più importante di quanto non gli venga riconosciuto: è un artista che, senza essere rivoluzionario, è capace di rendere ogni album a suo modo attraente. In un ambito commerciale tutto ciò è davvero un patrimonio di valore.

Jean-Luc Ponty - King Kong: Jean-Luc Ponty Plays the Music of Frank Zappa


 Jean-Luc Ponty - King Kong: Jean-Luc Ponty Plays the Music of Frank Zappa

Jean-Luc Ponty è da considerarsi sia un pioniere che un indiscusso maestro del violino nell’arena del jazz e del prog rock. È un grande innovatore, che ha applicato il suo visionario credo musicale ad una nuova concezione del moderno jazz, contaminandolo con accenti classici e prog rock. Tuttavia all’inizio della sua carriera, il violino si è rivelato addirittura un handicap poiché in pochi all’epoca vedevano lo strumento come un verbo legittimo nel vocabolario del jazz contemporaneo. Ma Jean-Luc Ponty ha caparbiamente applicato le sue idee riuscendo ad imporle e renderle popolari. Ponty ha portato il violino nell’era elettrica/elettronica, trasformandolo in una forza rilevante del movimento jazz-rock. Ha sviluppato uno stile violinistico che imitava essenzialmente i fraseggi del solista bebop e occasionalmente flirtava con il free jazz. Questo stile distintivo, influenzato più dai suonatori di sax che da qualsiasi cosa precedentemente tentata sul violino, ha reso questo strumento un elemento alternativo ma importante nel jazz moderno. Dopo essersi trasferito a Los Angeles, ha iniziato a lavorare con il compositore rock Frank Zappa nel 1968. Questa collaborazione ha portato alla creazione di “Electric Connection” e “King Kong”, due album che hanno esplorato nuovi territori nel jazz-rock. Il genio di Frank Zappa unito al talento di Jean Luc Ponty: una combinazione straordinaria che non poteva che portare alla nascita di un capolavoro. “King Kong: Jean-Luc Ponty Plays the Music of Frank Zappa” fu  pubblicato nel maggio del 1970. L’album contiene selezioni che Zappa aveva precedentemente registrato con i Mothers of Invention o sotto il suo nome. Questo interessante lavoro può essere descitto come un’opera di virtuosismo e creatività mozzafiato che mette in mostra le abilità di Ponty come violinista e l’abilità compositiva emergente di Zappa. Non è solo un album di interpretazioni, rappresenta di fatto una collaborazione attiva tra i due. Frank Zappa ha arrangiato tutte le selezioni, ha suonato la chitarra in una di queste e per l'occasione ha contribuito con una nuova composizione orchestrale di quasi 20 minuti. Realizzate sulla scia dell'apparizione di Ponty nel capolavoro jazz-rock di Zappa Hot Rats, queste registrazioni del 1969 rappresentarono sviluppi significativi nella carriera di entrambi i musicisti. In termini di fusione jazz-rock, Zappa è stato uno dei pochi musicisti dal lato rock dell'equazione a catturare la complessità e non solo il semplice feeling del jazz e questo progetto è stato un indicatore della sua crescente credibilità come compositore. Da parte di Ponty, King Kong segnò la prima volta in cui figurò come leader in un ambiente orientato alla fusion. Del repertorio, tre dei sei brani erano stati precedentemente registrati dai Mothers of Invention, e presto lo sarebbe stato "Twenty Small Cigars". Ponty scrisse poi un tema in stile Zappiano nel suo unico originale "How Should You Like to Have a Head Like That", dove Frank contribuisce con un assolo di chitarra. Il pezzo forte, però, è ovviamente "Music for Electric Violin and Low Budget Orchestra", una nuova composizione in più sezioni che attinge tanto dalla musica classica moderna quanto dal jazz e dal rock. È una vetrina per mettere in mostra l'amore di Zappa per la commistione tra i generi e al contempo la versatilità di Ponty nel gestire qualsiasi cosa, da melodie adorabili e semplici a dissonanze inquietanti, dall'improvvisazione jazz standard fino all'avanguardia. Alla fine, la personalità di Zappa emerge in modo un po' più chiaro, ma King Kong ha saldamente affermato Ponty come un musicista straordinario che ama il rischio e si mette in gioco. Era nata una nuova voce, sorprendentemente originale, per il violino jazz. In effetti, King Kong è il primo album in cui Zappa si propone principalmente nel ruolo di compositore. Ponty, da parte sua, finalmente ottiene dell'ottimo materiale con cui lavorare, peraltro coadiuvato in studio da alcuni grandi musicisti tra cui Ernie Watts, John Guerin, Wilton Felder e Vince DeRosa. King Kong segna anche la prima collaborazione tra Frank Zappa e George Duke, che sarebbe poi diventato una presenza fissa nei Mothers. In ogni modo, questo è un salto di qualità nelle registrazioni di Ponty; niente di ciò che aveva registrato prima era così rivoluzionario. Il violino di Ponty apporta anche un tocco più melodico al materiale. "Idiot Bastard Son" non è mai sembrata così affascinante come qui, e la versione di "Twenty Small Cigars" è semplicemente stupenda. King Kong è un'opera di genio musicale, un punto culminante nel primo catalogo di Ponty e Zappa. Onestamente, nel lavoro precedente di Jean Luc Ponty  non c’era molto che suggerisse una così convincente convergenza di stili tra il prodigio del violino jazz e il geniale compositore, ma non si può negare che l’abbinamento sia magico. L’influenza di Jean-Luc Ponty sul jazz e sulla musica rock è stata significativa da King Kong in avanti. Il musicista francese ha rivoluzionato il modo in cui il violino viene utilizzato in questi generi, introducendo nuove tecniche e approcci che hanno ampliato le possibilità espressive dello strumento, prima tra tutte l’elettrificazione totale dello stesso.

Horace Silver – Song For My Father


Horace Silver – Song For My Father

Horace Silver, il cui vero nome è Horace Ward Martin Tavares Silva, è nato a Norwalk il 2 settembre 1928 e morto a New Rochelle il 18 giugno 2014. È stato un grande pianista e compositore statunitense, particolarmente apprezzato per il suo stile ricco di influenze funky, hard bob e gospel e con uno spiccato interesse verso la musica africana e latinoamericana. Silver ha iniziato la sua carriera come sassofonista, passando poi al piano. È stato scoperto in un club di Hartford dal sassofonista Stan Getz, con il quale ha poi fatto il suo debutto discografico. Successivamente si è trasferito a New York, dove, insieme ad Art Blakey, ha fondato un gruppo guidato da entrambe (che sarebbe poi divenuto il nucleo dei Jazz Messengers), Ha quindi iniziato a suonare con i grandi nomi del jazz, accompagnando tra gli altri Coleman Hawkins e Lester Young. Il suo primo disco con Blakey e la loro storica formazione, “Horace Silver and the Jazz Messengers”, è da molti indicato come uno dei momenti chiave della nascita dello stile hard bop. Nel 1956, Silver ha infine lasciato Blakey per formare il suo quintetto, utilizzando quello che sarebbe diventato il classico organico di un piccolo gruppo: sax tenore, tromba, piano, basso e batteria. Il suo album di maggior successo è stato “Song for My Father”, realizzato con due diverse formazioni del quintetto nel 1963 e nel 1964. A partire dagli anni '70, Silver ha iniziato a registrare per la Blue Note, diventando amico del proprietario Alfred Lion e garantendosi un controllo sulla produzione dei propri album, cosa che allora era inconsueta. Molti dei suoi brani, tra cui "Doodlin", “Peace” e “Sister Sadie”, sono diventati degli standard del jazz che sono ancora molto eseguiti. “Song for My Father” è l’album più famoso e di successo del pianista ed ha ricevuto unanimemente delle recensioni positive dalla critica ed una notevole risposta da parte del pubblico. Il disco è senza dubbio un capolavoro dell’hard bop, caratterizzato da brani dal fascino immediato ma tutt’altro che semplici e banali. Silver d’altra parte è sempre stato un maestro nel bilanciare i ritmi più particolari con armonie complesse per una miscela unica di vivacità e raffinatezza. Song for My Father può probabilmente vantare l’atmosfera più sofisticata tra tutti gli album di Horace Silver. In parte ciò è dovuto ad una sfumatura vagamente esotica che derivava soprattutto dall’interesse crescente di Silver per i ritmi e le tendenze emerse fuori dagli Stati Uniti: la bossa nova del classico "Song for My Father", per esempio, o il tema dal sapore orientale di "Calcutta Cutie". O ancora il sentore tropicale di "Que Pasa?". Sono tutti spunti geniali e sottili che esaltano il sound di Horace Silver quanto basta per far emergere ancor di più la sua classe innata. Le melodie e i fraseggi sono molto briosi ed interessanti. La title track “Song for my father” è stata definita, probabilmente a ragione, uno dei pezzi jazz più incantevoli mai scritti. Una curiosità rispetto al brano è che gli Steely Dan ne hanno fatto la base musicale per la creazione della loro famosa hit "Rikki Don't Lose That Number." Il lavoro possiede un raro e squisito equilibrio tra composizione e improvvisazione, rendendone la fruizione estremamente piacevole. Di fatto è un album che ribolle di idee ed è ricchissimo di contaminazioni: per questa ragione dalle sue tracce si sprigiona un’energia positiva che riesce ad essere rilassante senza tuttavia diventare noioso. All’ascolto risultano particolarmente apprezzabili le parti di sax e tromba, soprattutto quando questi suonano "all’unisono": una costante lungo tutto il lavoro e peraltro caratteristica spesso vincente anche nei Jazz Messengers. Va lodata tra l’altro la qualità della registrazione e dell’incisione, cosa che rende giustizia alla qualità delle esecuzioni permettendone di apprezzare ogni sfumatura. Lo stile pianistico di Silver è secco, fantasioso e profondamente funky: del resto, quella di Silver è una delle pochissime influenze riconoscibili nello stile pianistico di Cecil Taylor: da lì gli vengono i violenti ed espressionistici accenti dislocati sulle ottave basse della tastiera, ma non solo. Silver ha delineato nel tempo un suo «breviario di composizione musicale» che comprendeva: «bellezza melodica, significativa semplicità, grazia armonica, ritmo, e  tutte le varie influenze artistiche». Horace Silver ha lasciato un’eredità importante: in primis il suo ascendente su molti altri pianisti e compositori, ed inoltre la promozione e la crescita degli innumerevoli giovani talenti del jazz che sono apparsi nelle sue band nel corso di quattro decenni. “Song for My Father” è uno di quegli album seminali del jazz di cui non si può fare a meno. Stimato per la sua freschezza e la sua espressività, evidenzia al contempo una rara capacità di evitare l’auto compiacimento che qualche volta emerge in alcuni musicisti di jazz.

Charles Mingus - The Black Saint and The Sinner Lady


Charles Mingus - The Black Saint and The Sinner Lady

Cosa si può dire di Charles Mingus che non sia già stato detto? L’unica evidenza è che lui è davvero uno dei più grandi musicisti e compositori jazz della storia della musica. Non mi dilungherò dunque a parlare della sua carriera, o della sua personalità artistica, piuttosto mi soffermerò su quella che probabilmente è la sua opera più ambiziosa, complessa, profonda e mirabolante. “The Black Saint and The Sinner Lady” è un album che ha lasciato un segno indelebile nella storia del jazz. E’ stato registrato il 20 gennaio 1963 a New York City e pubblicato nel luglio dello stesso anno. La musica che viene eseguita qui è jazz d’avanguardia, ma anche terza corrente (la sintesi tra classica e jazz), in parte con accenni sperimentali e il sound di una big band. L’album ha la particolarità e l’originalità di essere composto da una singola composizione continua, parzialmente scritta come un balletto, suddivisa in quattro tracce e sei movimenti. Questo formato non convenzionale ha permesso a Mingus di esplorare una vasta gamma di temi e stili musicali. Anche per questo “The Black Saint and The Sinner Lady” è considerato uno dei più grandi dischi jazz di tutti i tempi. I critici musicali lo ritengono uno dei due capolavori principali di Mingus (l’altro è “Mingus Ah Um”). Dal punto di vista strettamente compositivo, l’opera del 1963 porta a compimento alcuni dei motivi cardinali della carriera di Mingus, spostandoli però su un piano superiore per impatto, originalità e coerenza. L’album ha spinto in avanti i confini del jazz, incorporando elementi di musica classica e cercando quella sintesi così difficile tra i due mondi apparentemente contrapposti. Mingus ha sperimentato con la struttura e la forma, creando un’opera che è tanto un balletto quanto un album jazz. L’opera, perché questo è il nome corretto che è giusto attribuirgli, presenta un ensemble di undici musicisti che eseguono le complesse partiture con una rara combinazione di precisione e passione. La complessità della musica richiedeva un alto livello di abilità e coordinazione e i musicisti coinvolti seppero fare fronte alla difficile sfida con grande classe. E’ curioso il fatto che l’album sia nato sulle ceneri di uno dei più grandi disastri nella carriera di Mingus. Nel 1962, infatti, un concerto della big band di Mingus alla Town Hall di New York si rivelò un fallimento catastrofico a causa di una serie di problemi, tra cui tempi di preparazione troppo stretti, un periodo di prova insufficiente, una cattiva organizzazione e un equilibrio sonoro terribile. Ma il geniale Bob Thiele, produttore dell’etichetta jazz Impulse!, era presente al concerto e, nonostante il disastro, offrì a Mingus un contratto discografico. Mingus ringraziò poi Thiele nelle note di copertina di “The Black Saint and The Sinner Lady” per aver creduto in lui e nella sua musica.  “The Black Saint and The Sinner Lady” è stato preparato durante una permanenza di tre settimane al Village Vanguard, un mese dopo il fiasco della Town Hall. Inizialmente, Mingus aveva immaginato l’opera proprio come una singola composizione continua, ma è stato spinto a suddividerla in diverse parti per ragioni di marketing e fruibilità. Per la sessione di registrazione in studio, Mingus ha aggiunto il chitarrista classico Jay Berliner ad un ensemble che comprendeva anche il pianista Jaki Byard, dunque una big band composta da due trombe, tre sassofoni, un trombone e una tuba. Nel numeroso gruppo figuravano: Jerome Richardson soprano and baritone saxophone, flute. Charlie Mariano alto saxophone. Dick Hafer tenor saxophone, flute. Rolf Ericson trumpet. Richard Williams  trumpet. Quentin Jackson trombone. Don Butterfield tuba, bass trombone. Dannie Richmond drums. Una scelta davvero controcorrente e, in ambito jazzistico, mai tentata prima. Questo capolavoro monumentale è noto per la sua intensità emotiva. Mingus ha usato la musica per esprimere una gamma di sensazioni, dalla gioia al dolore, dalla rabbia alla speranza. Il titolo dell’album “The Black Saint and The Sinner Lady”, è molto particolare e suggerisce un conflitto interiore tra il bene e il male, la santità e il peccato, l’aspirazione e la tentazione. Questo conflitto è un tema comune nella musica di Mingus e riflette le sue lotte personali e artistiche. Tuttavia, come in gran parte delle espressioni artistiche, il significato esatto del titolo è aperto all’interpretazione e può variare a seconda dell’interpretazione dell’ascoltatore. Anche questo è uno degli aspetti che rende l’album così affascinante. “The Black Saint and The Sinner Lady” è un affresco mastodontico di jazz contemporaneo, un mosaico coerente di virtuosismo, cambiamenti di umore e texture, nonchè una dettagliata costruzione della band di undici elementi voluta da Mingus. L’estrema complessità formale mimetizza una potenza espressiva infinita, una forza che poi è il vero segreto del genio dell’Arizona. Questo album, pur sintetizzando l’epopea di Charles, rappresenta allo stesso tempo un unicum, sia all’interno della sua discografia che nel panorama del jazz in generale, forse anticipato dal solo Duke Ellington. L’album ha avuto un impatto significativo sulla musica jazz e, più in generale, sulla cultura afroamericana tutta e non solo. Giù il cappello per sua maestà Charles Mingus.


 

Eric Leeds - Things Left Unsaid


Eric Leeds - Things Left Unsaid

Eric Leeds è un sassofonista americano, purtroppo non molto conosciuto che ha avuto un minimo di fama soprattutto per la sua fortunata collaborazione con il genio contemporaneo noto con il nome di Prince. Pur avendo suonato e registrato musica principalmente nei generi pop e funk, Leeds è un musicista jazz esperto e talentuoso e di certo meriterebbe una più diffusa popolarità. Avendo un notevole background di studi, nella sua produzione da solista ha sfruttato la sua preparazione per abbracciare con maggiore convinzione il linguaggio jazzistico, molto di più di quanto non fosse a lui consentito all’interno della cerchia di Prince. Il suo idolo personale è David Fathead Newman, il sassofonista storico di Ray Charles, un musicista che Eric ha preso come punto di riferimento per il suo sound fin da giovanissimo. Prince incontrò Eric per la prima volta nel luglio 1984, presentatogli da suo fratello Alan Leeds che fu il tour manager dal Triple Threat Tour del 1982 fino a quello denominato Lovesexy  del 1989. Dopo aver visto la band di Bruce Springsteen dal vivo nel 1984, Prince si era convinto di introdurre la voce di un sassofono nella sua formazione. Il piccolo genio di Minneapolis arruolò immediatamente Eric Leeds, vedendo in lui quel maestro del sassofono perfettamente adeguato agli standard dei suoi The Revolution. Il tour era quello storico di Purple Rain. Fu un successo e l’integrazione del sax nel contesto musicale di Prince contribuì a portare nuove sonorità ed un tocco di jazz in più. A Leeds fu  poi assegnato un ruolo importante anche nei successivi progetti collaterali di Prince, The Family nel 1985 e Madhouse nel 1987. Fu così che Eric Leeds introdusse Prince al jazz ed ebbe una forte influenza sul Sign O' The Times Tour nel 1987. E’ proprio da questa stretta collaborazione che i Madhouse presero corpo. Eric Leeds rimase a pieno titolo un membro della band del cantante fino al 1989. Quando in seguito gli fu chiesto come avesse fatto a durare così a lungo nella band di Prince, la risposta di Eric fu semplicemente: "Suono uno strumento che lui non ha mai suonato". Ma in un’intervista dichiarò anche: “Quella con Prnce non è una collaborazione a cui avrei mai aspirato, ma gran parte di quello che è successo nella mia carriera è avvenuto grazie al mio connubio con Prince. Non è così probabile che diversamente avrei mai conosciuto Miles Davis e questo vale per molte altre relazioni musicali che ho avuto. La visibilità e la notorietà che l'essere associato a Prince mi ha regalato non può essere dimenticata. Non si sa mai dove può andare a finire la tua vita e la tua carriera, ma di certo non rimpiango nulla del rapporto che ho avuto con Prince.” Eric Leeds ha pubblicato due album con l’etichetta Paisley Park Records: Times Squared nel 1991, seguito da quella che a tutti gli effetti è la sua prima pubblicazione davvero da solista, ovvero Things Left Unsaid del 1993. Quest'ultimo album ricevette un solo contributo da parte di Prince in termini di canzoni: “Aguadilla”. Nel 2000 il sassofonista ha poi registrato Now And Again per un’etichetta indipendente. L’ultima collaborazione di Prince ed Eric è stata invece quella avvenuta con l’album, tutto strumentale, N.E.W.S nel 2003. Things Left Unsaid è un buon disco: Il tono del sax di Leeds è forte e maturo, carico di passione ed energia. La struttura melodica, armonica e ritmica di tutti i brani è tematicamente centrata. Pur essendo un album leggero, orientato più allo smooth jazz che al jazz classico in senso stretto, Things Left Unsaid scorre fluido e piacevole dall’inizio alla fine, senza banali cadute di stile, risultando, nella sua relativa semplicità, molto più originale di tante altre pubblicazioni dello stesso tipo. Opportunamente vario nella sua costruzione e tuttavia coerente con il disegno musicale di Eric, è un disco moderno, intrigante e molto orecchiabile, dove l’anima di Prince è velatamente presente, senza oscurare l’identità musicale di Leeds. Un dettaglio non da poco, vista la enorme personalità artistica dell’insuperato fenomeno di Minneapolis. Ascoltare brani come “Two Sisters”, "Commuting" o l’iniziale “Isla Mujeres” che sono gli episodi più audaci del disco, ci fa capire come il sassofonista cerchi di alzare l’asticella avvicinandosi in modo proficuo ad un approccio maggiormente jazzistico. Molto bella è anche la lenta e solenne Things Left Unsaid, che a tratti ricorda i Weather Report di A Remark You Made. Things Left Unsaid è un album di sostanza che esprime solarità e buona musica. Come spesso avviene nei lavori più contemporanei, il jazz qui è più una traccia, un sentore, ma è comunque ben presente nella scrittura dei brani e nelle parti solistiche. Tra i musicisti coinvolti vanno citati Gil Goldstein, Alphonso Johnson, Alex Acuna, Dennis Chambers e Chuck Loeb: artisti di livello che contribuiscono fattivamente alla riuscita dell'album. In conclusione Eric Leeds è un musicista da scoprire, che merita decisamente un ascolto.

Andrew Hill – Passing Ships

Andrew Hill – Passing Ships

Nato nel 1931 Hill cominciò a suonare il pianoforte all'età di tredici anni, incoraggiato dal grande pianista Earl Hines. Durante l'adolescenza suonò in band rhythm and blues ma anche con vari musicisti jazz, tra i quali non due qualunque, ma le icone del jazz Charlie Parker e Miles Davis. Dopo aver lavorato come accompagnatore di altri artisti, in seguito alla sua firma con la famosa casa discografica Blue Note, la sua reputazione crebbe grazie alle registrazioni effettuate come leader di suoi gruppi dal 1963 al 1969. In quel periodo di tempo ebbe modo di collaborare con alcune altri grandi personalità del jazz tra i quali Joe Chambers, Richard Davis, Eric Dolphy, Bobby Hutcherson, Joe Henderson, Freddie Hubbard, Elvin Jones, Woody Shaw e Tony Williams. Le sue composizioni sono molto caratteristiche e originali, così da consentirgli di apporre la sua personale firma su molti brani anche in album non suoi. La qualità musicale dei suoi pezzi e un indubbio talento nell'improvvisazione gli garantirono la stima incondizionata da parte del mondo del jazz e in ultimo convinsero la Blue Note Records a ripubblicare alcune delle sue opere da solista. Dopo gli anni sessanta Hill raramente lavorò come sideman, preferendo sempre suonare e registrare le sue composizioni. Anche a causa di ciò la sua notorietà è meno vasta di quanto meriterebbe. Il jazz di Hill ha un carattere contemplativo, caratterizzato da una grande complessità melodica ed armonica; in più gli viene da sempre riconosciuta una notevole propensione ad un intreccio ritmico non usuale, anche nelle performance live. Andrew Hill continuò a suonare e ad incidere, andando ad abbracciare tendenze diverse, tra cui il jazz d'avanguardia e il jazz modale, fino al 2007, anno della sua scomparsa. L’album Passing Ships vanta una particolarità: è rimasto inedito dal 1969 fino al 2001, quando la Blue Note ritrovò il master tape e decise di ripubblicarlo l’anno successivo. Ed è un’ottima notizia, perché questo non è semplicemente un disco riemerso dal passato, è un piccolo capolavoro per la qualità delle composizioni e per la perfetta alchimia tra i musicisti, che in più sono tutti di altissimo livello. La band impiegata da Hill in questa sessione era un nonetto, con Woody Shaw e Dizzy Reece alle trombe, Joe Farrell al sax, Howard Johnson alla tuba e al clarinetto basso, Ron Carter al basso, Lenny White alla batteria, Julian Priester al trombone e Bob Northern al corno francese. La musica di Passing Ships è senza dubbio ambiziosa ed estremamente variegata e complessa. Le partiture di Andrew Hill per un gruppo come questo, che è una sorta di big band, sono notevoli per l'epoca e mantengono ancora oggi fascino e interesse. In effetti, oltre a questo dimenticato esperimento è stato solo con il suo album A Beautiful Day del 2002 che si è avventurato di nuovo in queste acque. Il pianista prende il classico ensemble del jazz moderno allargandolo ad alcuni inusuali strumenti delle orchestre sinfoniche per creare un’avventurosa tavolozza sonora sulla quale costruisce abilmente le sue intricate architetture jazzistiche. La title track ad esempio è un pezzo davvero straordinario. Joe Farrell all’oboe fluttua su un energico tappeto di onde modali scolpite da trombone e trombe e lasciando infine il posto ai meravigliosi assoli di Julian Priester e Woody Shaw. Il vibrato di quest’ultimo raggiunge stupendi livelli di qualità. Ancora Joe Farrell completa il suo intervento solista con il suo tono duro e brillante, caratteristica peculiare del suo sound. Ma ogni brano del disco è una scoperta e riserva emozioni, suscitando al contempo ammirazione e rispetto per questo grande pianista e compositore. L'opera va ascoltata come un unico meraviglioso quadro sonoro, ricchissimo di sfumature e particolari estremamente stimolanti. “Passing Ships” è una potente metafora del mare e delle navi: scafi che si muovono lentamente spostando enormi quantità di acqua, solcando gli oceani e passando, a volte, in vista l'uno dell'altro. Brevi incontri, incroci di destini diversi. Ogni battello trasporta molte vite con le proprie speranze e i propri sogni, diretti verso destinazioni ignote e diverse. Come la musica, come l’arte, come la vita, come il jazz. Passing Ships è tutto questo, un album stupendo, corale, emozionale ed intenso. Misterioso ed elegante, cupo ma anche ricco di colori. I ritmi sono pulsanti e mutevoli, alimentati dal talento di Ron Carter e Lenny White. I solisti sono tutti splendidamente in forma, orchestrati al meglio dal genio di Andrew Hill. Il quale dimostra tra l’altro una perfetta padronanza del suo pianoforte, sia nel tocco che nel fraseggio, riuscendo perciò ad inserirsi magnificamente nel complesso contesto di una big band. Certo è un album difficile, non è jazz per tutti, ma è una perla rara e dimenticata e vale assolutamente la pena di essere riscoperto ed apprezzato. Consigliatissimo.

 

Al Di Meola – Land Of The Midnight Sun

Al Di Meola – Land Of The Midnight Sun

Il jazz rock degli anni ’70 ci ha regalato davvero molti straordinari chitarristi. Come non ricordare per esempio John McLaughlin, John Scofield, Allan Holdsworth, Pat Metheny o Larry Coryell. Ma ce ne sarebbero tanti altri che per non dilungarmi troppo non nominerò. Tra di loro però c’è un personaggio di cui mi piacerebbe parlare e si tratta dell'italoamericano Al Di Meola. Lui è unanimemente considerato dai critici come uno dei migliori chitarristi di ogni tempo e viene spesso definito a ragione come un vero virtuoso dello strumento. In generale, la discografia di Di Meola può essere suddivisa in una parte elettrica ed una acustica. I due tipi di chitarra sono padroneggiati dall'artista in egual misura anche se, soprattutto dal vivo e di più negli ultimi anni, egli predilige l'utilizzo della chitarra acustica. Al Di Meola è un curioso esploratore di tendenze e generi ed ha saggiato una grande varietà di stili, ma è particolarmente noto per il suo lavoro di jazz rock fusion con influenze derivanti dalla musica latina. Fin dall'inizio della sua carriera, Al riuscì a farsi notare grazie alla sua padronanza tecnica, ai suoi assoli veloci e complessi e alle sue composizioni spesso sofisticate ed eleganti. Nel corso del tempo, ha poi orientato la sua ricerca musicale verso il flamenco, la bossa nova ed il tango. Il trio acustico di fenomeni della chiatrra da lui composto insieme a john McLaughlin e Paco De Lucia rappresenta una formidabile unione di visrtuosismo e di originalità ancora oggi insuperata. Ha anche ricevuto diversi riconoscimenti tra i quali un Grammy Award vinto nel 1976. E’ stato un precocissimo talento della chitarra, che a soli diciannove anni faceva già parte dei Return to Forever di Chick Corea con i quali registrò tre album di successo (Where Have I Known You Before, No Mystery e Romantic Warrior). Nel 1976 decide di intraprendere la carriera solista in seguito allo scioglimento del gruppo. In quello stesso anno Di Meola mette a frutto la sua urgenza creativa pubblicando il suo primo album, intitolato "Land of the Midnight Sun". Il lavoro non fu semplice per lui, che era ancora giovane ed alla ricerca di una sua precisa identità ma probabilmente condizionato anche da una non compiuta abilità compositiva. Di certo fu molto influenzato dall'esperienza con Chick Corea, il quale compare in prima persona nell’album sia in veste di autore che di tastierista, sul brano Short Tales of the Black Forest. Detto che questa è un’opera prima, non bisogna ritenere questo disco come una banale appendice al Romantic Warrior dei Return To Forever. Il talento di Al Di Meola è già cristallino e, sebbene la sua impronta artistica sia ovviamente meno definita di quanto lo sarà in seguito, risulta già evidente ed in ogni caso tre brani su sei sono firmati da lui stesso. L’album vede la collaborazione dei migliori musicisti di quel periodo, tra questi è doveroso citare Jaco Pastorius, Anthony Jackson, Mingo Lewis e gli ex compagni dei Return Stanley Clarke e Lenny White, oltre che, come detto, la partecipazione del grande Chick Corea. Al Di Meola mostra la sensibilità sufficiente per realizzare un lavoro equilibrato e per nulla egocentrico che riesce a far risaltare le sue doti innate. Il chitarrista è infatti tecnicamente competente per cimentarsi in sonate acustiche di stampo classico (Sarabande from Violin Sonata in B Minor di J.S. Bach) ma anche in particolari esperimenti d'atmosfera (Love Theme from Pictures of the Sea). E’ sufficientemente ardito nei brani più strettamente fusion, come la title-track e la suite Golden Dawn, in cui, manco a dirlo spicca il sublime accompagnamento di Jaco Pastorius. Non a caso sono proprio questi due lunghi brani il vero fulcro dell'album, un punto focale in cui il giovane chitarrista, qui ancora nel pieno della sua verve elettrica, si sente libero di dare piena libertà al suo talento. Sono composizioni complesse ed articolate, in cui i passaggi spigolosi e duri tipici del jazz rock si alternano a quieti momenti di intensa espressività. Degna di nota è anche l'iniziale The Wizard, che si presenta risoluta ed energica, e bellissimo è poi il pezzo Short Tales of the Black Forest,  che è un duetto acustico tra la chitarra di Al e il piano di Chick Corea. Decisamente Land Land Of The Midnight Sun è un album calato nel suo tempo, impetuoso e dinamico anche se magari a tratti ingenuo e meno costruito dei capolavori che verranno dopo, tipo Elegant Gypsy o Splendido Hotel. Di Meola suona in modo esplosivo ed nervoso, molto lontano dalle atmosfere maggiormente acustiche e dalle risonanze mediterranee che ne hanno caratterizzato la maturità artistica. E’ un disco di jazz rock fusion, decisamente in linea con i suoni e le tendenze di quel lontano 1976, ma al contempo si rivela essere un passaggio fondamentale nel percorso di maturazione di questo straordinario chitarrista. Land Of The Midnight Sun è dunque tra le migliori uscite di quello straordinario momento creativo, risultando comunque perfettamente godibile anche ai giorni nostri. Un ottimo debutto per uno dei più dotati chitarristi del mondo.

 

Sonny Clark – Cool Struttin’


 Sonny Clark – Cool Struttin’

Sonny Clark,  il cui vero nome era Conrad Yeatis Clark, è stato un pianista e compositore jazz statunitense. Il suo stile risulta profondamente influenzato da Bud Powell, ma Sonny Clark fu egli stesso uno dei più significativi protagonisti dell'hard bop. Oltre agli influssi provenienti dal pianismo di Powell, si colgono spunti delle tecniche di Horace Silver e di Hampton Hawes. Clark però non è mai davvero salito alla ribalta come altri pianisti di quella generazione, quali il già citato Horace Silver o il famoso Herbie Hancock. Il talento del giovane Sonny era cristallino ma la sua carriera solistica come band leader fu piuttosto breve. Il trio da lui guidato con Paul Chambers al basso e Philly Joe Jones alla batteria rappresenta la sua espressione artistica più famosa. Ricoverato per problemi legati alla sua tossicodipendenza verso la fine del 1962, morì a New York nel gennaio 1963, alcuni giorni dopo aver lasciato l'ospedale. Sebbene la causa ufficiale sia stata archiviata come attacco cardiaco, fu probabilmente una overdose di eroina a mettere fine alla sua vita a soli 32 anni. Il suo album "Cool Struttin" è una delle registrazioni più iconiche pubblicate durante l'epoca d'oro del jazz americano. Fu registrato per la Blue Note Records presso gli studi Rudy Van Gelder di Hackensack, nel New Jersey, che hanno visto la nascita di molte delle più grandi registrazioni della storia del jazz. Il pianista aveva all'epoca ventisei anni, ma morì meno di quattro anni dopo. Cool Struttin’ è una delle undici registrazioni a proprio nome di Sonny Clark, ma egli suonò come sideman con molti dei migliori musicisti dell'epoca tra cui Buddy De Franco, Dexter Gordon, Grant Green e Johnny Griffen, solo per citarne alcuni. Nel disco figurano Art Farmer, musicista validissimo e altrettanto abile con la tromba e il flicorno. Inoltre troviamo il formidabile sassofonista Jackie McClean, anche lui ventiseienne al momento della registrazione. Completano la band il leggendario bassista Paul Chambers, uno dei grandi maestri del suo strumento. Infine la sezione ritmica è animata dal mitico batterista Philly Jo Jones, uno dei nomi di punta della rivoluzione hard bop degli anni cinquanta. L'album stesso di Sonny Clark, famoso tra l’altro per la fotografia di copertina, è uno dei più significativi esempi dell'epopea dell'hard bop. La struttura di quasi ogni pezzo è piuttosto convenzionale, con la sequenza tipica composta dal tema d'insieme, il giro di assoli, un breve passaggio di basso, una pausa di batteria e la ripresa del tema. Ma è la qualità della musica, la bellezza del contenuto che ha permesso a Cool Struttin’ di trovare un posto speciale nella storia del jazz. I musicisti della band appaiono in grande forma e nelle registrazioni si percepiscono una vibrazione ed un’energia davvero uniche. Tutto ciò si può apprezzare immediatamente nell’omonima traccia di apertura, Cool Struttin’. Un tema molto forte, che subito dopo l'introduzione del pianoforte di Clark, apre la strada alla poesia di Art Farmer con il suo splendido sound di flicorno, seguita dall'agile contributo di sax contralto di Jackie McClean. La maestria e il tocco personale di Sonny Clark sono tutte nel suo magnifico assolo. C’è un deciso sapore latino nelle battute iniziali di Blue Minor, McClean è evidentemente in gran forma su questo numero, al punto da richiamare alla mente a tratti il maestro Charlie Parker. La tromba di Farmer raggiunge poi livelli notevolissimi. Semmai ci fossero dei dubbi sulle qualità di Clark come pianista consiglio una lettura attenta del suo assolo che è certamente al top per costruzione, dinamica e fluidità. Sippin At Bells è una complessa architettura hard bop, dove il sax di Jackie McClean inventa e modella la traiettoria del pezzo, condividendo la ribalta con un altro straordinario assolo del pianoforte del leader. Deep Night si aggiunge alla selezione delineando, con le stupende improvvisazioni dei protagonisti, un interplay perfetto tra i musicisti, evidentemente in stato di grazia dall’inizio alla fine. Il brano finale è una superba interpretazione dello standard Lover di Rodgers e Hart. Suonato ad un ritmo insolitamente vivace, la cover è introdotta dal batterista Philly Joe Jones con un bell’assolo di apertura che costruisce l’atmosfera per l’avvento dei fiati: il sax veloce e nervoso di Jackie McLean e la tromba sempre eccellente di Art Farmer. All’interno del pezzo son presenti degli stacchi energici di Philly Joe Jones: dei veri capolavori percussivi. Questa versione di "Lover" inizia come un brano bebop standard, poi cambia bruscamente in un tempo di valzer, per poi tornare al veloce 4/4 hard bop. Interessante, creativo, ed in verità alquanto bizzarro. Cool Struttin’ rimane ancora una pietra miliare dell'hard bop e uno dei migliori album del vastissimo catalogo della Blue Note Records. Sonny Clark è uno di quei pianisti che capita spesso di ascoltare come accompagnatore di grandi interpreti dell’hard bop, instillando la curiosità di approfondire la sua conoscenza sia come solista che come leader. Ebbene lo sfortunato Sonny non delude: malgrado non abbia raggiunto la fama eterna di alcuni suoi colleghi, la sua classe è purissima ed il suo pianismo spesso entusiasmante quanto quello di molte star del pianoforte jazz. Parecchi dei suoi lavori da solista sono molto validi e Cool Struttin' è senza dubbio il migliore di tutti. Vale assolutamente un ascolto.

Dexter Gordon - Go


 Dexter Gordon - Go

Il sassofonista Dexter Gordon è una figura della quale bisognerebbe tornare a parlare molto più spesso, a beneficio sia degli appassionati di jazz sia, soprattutto, dei neofiti di questo genere musicale. Per la statura fisica, quasi due metri, e per quella artistica, Gordon fu soprannominato Long Tall Dexter e Sophisticated Giant. Il sassofonista rappresenta una figura emblematica, che raccontata nei suoi vari aspetti consente di ripercorrere un pezzo di storia del jazz: Dexter Gordon è di per sé il racconto stesso del jazz. Il suo retaggio si porta dietro moltissimi spunti e suggestioni. Il punto fondamentale rimane però la sua rappresentazione del bebop, suo stile d’elezione, che lo vide attivo sia nella nativa California sia sulla East Coast e poi in Europa. Citando l’autorevole rivista Musica Jazz, si può tranquillamente dire che nel jazz non esistono le brusche rotture con il passato. La musica dei padri è sempre la fonte d’ispirazione delle nuove generazioni. Charlie Parker, il genio del bebop, aveva in Lester Young il suo riferimento. E così anche lo stesso Dexter Gordon aveva attinto dagli insegnamenti di quel maestro così importante del jazz classico. Lo stile del grande Dexter è però caratteristico e peculiare: si tratta di un certo modo di suonare senza alterarsi quasi mai, senza scaldarsi troppo. Qualcuno lo definì pigro o noncurante. Nei suoi assoli Gordon ha un passo sicuro, tranquillo, eppure imprevedibile. C’è un controllo tale della situazione che a volte il sassofonista si permette alcuni effetti sorpresa: un’imperfetta intonazione e perfino un leggero ritardo sul tempo. Il suo è tutto un gioco che mira a trattenere l’attenzione dell’ascoltatore. Tuttavia il pubblico attento percepirà una straordinaria autorevolezza e un timbro vigoroso, netto, a tratti aspro. Ma la musica di Dexter Gordon dovette poi confrontarsi con la vita. Il travaglio personale di questo musicista lo portò alla dipendenza da droga e alcol, alla galera, alla miseria ed infine all’emigrazione (in Europa). Finalmente, agli inizi dei Sessanta, nel suo periodo di residenza in Danimarca, ricominciò a vivere in modo più sereno e normale, aprendo di fatto la sua più ricca fase creativa. in Europa, proprio in quanto musicista jazz, era rispettato e amato. E’ proprio questo amore e il grande rispetto degli appassionati che è al centro del bel film di Bertrand Tavernier “Round Midnight - A mezzanotte circa” dove il protagonista è proprio Dexter Gordon, che fu talmente bravo da meritarsi una nomination agli Oscar. E’ la storia immaginaria di un grande jazzista, naufrago della vita, e di un giovane fan locale che si prende cura di lui e cerca di salvarlo. Dexter mise nel personaggio un pò di se stesso, di Lester Young e di Bud Powell. Il quadro che ne esce è commovente, intenso, crudo ma vero. La trasposizione visiva dell’essenza stessa del jazz. Ma, tornando alla musica, si può ragionevolmente dire che i sette bellissimi album che l’artista ha registrato per la Blue Note Records negli anni sessanta (Doin' Allright, Dexter Calling..., Go!, A Swingin' Affair, Our Man in Paris, One Flight Up e Gettin' Around) possono essere considerati le sue opere migliori. Go è stato il terzo LP di Dexter Gordon per la Blue Note ed è valutato all'unanimità dalla critica jazz come uno dei suoi più grandi album di sempre. Di fatto sancì il momento della rinascita creativa e professionale nella carriera del sassofonista tenore. Su Go si ascolta grande musica: il jazz che celebra la vita in un album eccezionale, degno della reputazione che lo precede. Gordon, che ancora viveva negli USA, appare davvero in ottima forma mostrando sicurezza e spavalderia nel delineare le melodie e nel cimentarsi negli assoli. L’album inizia in grande stile con l'intro del bassista Butch Warren in "Cheese Cake" che apre la porta all’entrata del sax di Dexter. E’ la sua più famosa composizione, e rende la sessione impressionante fin da subito. Il tema è avvincente e tutti gli assoli, compreso quello di Sonny Clark al piano, sono assolutamente fantastici. Non solo in questo brano ma per tutto l'arco dell'album. Il disco offre due ballate commoventi che creano quella magica atmosfera da club notturno, ma il momento clou dell'intera sessione è la cover di "Love For Sale" di Cole Porter. La versione di Gordon inizia con una sobria introduzione latina. Lo straordinario sassofonista suona poi con amore e convinzione l'irrefrenabile melodia, elargendo momenti di jazz memorabile. Oltre alla voce unica di Dexter Gordon, che dimostra qui tutte le sue potenzialità, troppo spesso soffocate dalle dipendenze, è anche la presenza di Sonny Clark al piano che eleva questo disco al di sopra dell'ordinario. Butch Warren e Billy Higgins fanno brillare meravigliosamente la sezione ritmica, dando a Gordon e a Clark molto spazio per lasciar fluire idee, tecnica e sentimento. Questo gigante del sax tenore reinventa standard come “Three O’Clock In The Morning”,  “Second Balcony Jump” e “Guess I’ll Hang My Tears Out To Dry” dandone una versione personale e molto innovativa. Dexter Gordon una volta dichiarò: "Il jazz per me è una musica viva. È una musica che fin dal suo inizio ha espresso i sentimenti, i sogni e le speranze della gente..." Gordon nel suo momento di massima forma creò davvero del jazz gioioso e trascinante. Non si può chiedere molto di più. In una collezione che si rispetti, questo album è uno di quelli che non può mancare.

Paul Desmond – Pure Desmond

Paul Desmond – Pure Desmond

Giunto alla notorietà con la sua militanza nel Dave Brubeck Quartet dal 1951 al 1967, Paul Desmond è anche l'autore del massimo successo del quartetto, il celebre brano Take Five. È considerato uno dei giganti del sax contralto nel jazz. Non a caso i colleghi di Desmond avevano di lui la più alta considerazione. Charlie Parker ebbe occasione di citarlo come il suo sax alto preferito e Cannonball Adderley, che spesso concorreva con lui per il posto di miglior contraltista nelle classifiche delle pubblicazioni specializzate, ebbe a dire: "Credo che Paul sia, con Benny Carter, il contraltista più lirico. La bellezza della sua musica è profonda". Una curiosità: Desmond in realtà si chiamava Paul Emil Breitenfeld, ma ritenendo il proprio nome inadatto a un musicista, lo cambiò scegliendone un altro da un elenco telefonico. Il suo sound era asciutto, il suo fraseggio rilassato, l'espressione era emozionale: la perfetta icona dello stile West Coast Cool, ovvero un'alternativa più morbida e dolce all'hard bop proveniente da New York, che era invece nervosamente spigoloso. Come detto, Paul Desmond era diventato famoso con il quartetto del pianista Dave Brubeck e, sebbene sia morto troppo giovane all'età di 52 anni per un tumore, ha lasciato un'eccellente eredità di registrazioni, forse relativamente piccola, ma certamente significativa. La sua opera è stata fin troppo trascurata, soprattutto con il passare del tempo. Pure Desmond è uno dei due album che il sassofonista ha realizzato per la CTI (sebbene abbia registrato due album con Creed Taylor anche per la A&M, prima che il produttore fondasse la propria etichetta), ma è il migliore dei due. Desmond aveva provato il tipico, ricco e opulento format di Creed Taylor su un precedente album intitolato "Skylark" ma, non soddisfatto, lo aveva poi ripudiato per la formazione jazz più convenzionale che troviamo in questo album. Ed è davvero un gran risultato quello che si può ascoltare qui, con il contralto di Paul Desmond abbinato alla bella chitarra di Ed Bickert, al basso di Ron Carter e Connie Kay del Modern Jazz Quartet alla batteria. I musicisti di questo quartetto sono tutti molto conosciuti, solo Ed Bickert era all'epoca sconosciuto, ma poiché fu raccomandato dal super chitarrista Jim Hall, questo bastò a Paul Desmond per ingaggiarlo, con il risultato entusiasmante che emerge dalle tracce di Pure Desmond. Nonostante lo stato di salute del sassofonista in quel momento, l’album mostra un Paul Desmond in ottima forma, solo tre anni prima della sua morte, avvenuta nel 1977. Pure Desmond è uno dei migliori dischi del contralto, bello come una brezza di una giornata estiva e secco e aromatico come un buon Martini. Quello che si ascolta qui è una miscela di standard che vanno da Duke Ellington ad Antonio Carlos Jobim, ed è molto interessante anche per apprezzare il talento di un chitarrista come Ed Bickert. Quest’ultimo era originario di Toronto, Canada, ed esibisce una voce calda ed una tecnica sopraffina anche se purtroppo la sua fama misteriosamente non è mai cresciuta come avrebbe meritato, oscurata probabilmente da quella dei più famosi colleghi Joe Pass, Herb Ellis e, in particolare, Jim Hall. Pure Desmond si caratterizza per un rilassato uso della ritmica e tuttavia ribolle di un dinamismo e di un'energia degni di nota: penso in particolare ad un brano di Jerome Kern, "Till the Clouds Roll By", che viene proposto in due versioni: la versione originale dell'album, dove l'assolo di Bickert è l'apice del momento creativo e profuma di blues. E poi una ripresa alternativa leggermente più lunga dove l’assolo di chitarra rigurgita di invenzioni melodiche e fraseggi entusiasmanti con il basso di Ron Carter che sembra suonare con ancor maggior vigore sui toni gravi. Nella sessione non mancano degli accenni ai ritmi latini, come con la cover  dell'allora popolare "Theme from M*A*S*H*" a cui è stato dato un leggero tocco di bossa, così come ovviamente succede con la famosa e suggestiva "Wave" di Jobim, eseguita con grazia ed eleganza. Molto bella è anche la canzone di apertura del disco, "Squeeze Me", e il classico di Django Reinhardt, "Nuages", stupenda nella sua lettura d'insieme della meravigliosa melodia. La selezione dei pezzi aiuta a trarre il meglio da tutti i musicisti, e di certo Paul Desmond era una voce unica nel jazz che si può solo rimpiangere. Ho ascoltato molto del suo lavoro e ho scoperto che più ascolto, più il suo modo di suonare mi affascina e mi convince. Con un gruppo di supporto che chiaramente privilegia il valore del meno rispetto al più, Pure Desmond, si erge come uno dei migliori lavori della carriera solista di questo fantastico sassofonista. Uno dei progenitori del West Coast Jazz ed uno dei più grandi specialisti del sax contralto della storia di quella formidabile arte che è più in generale il jazz. Il valore è assoluto e questo è in ultima analisi un album altamente raccomandato.