Kenny Wellington – Free Spirit


 Kenny Wellington – Free Spirit

Personaggio attivo sulla scena acid jazz britannica fin dall’inizio, il trombettista Kenny Wellington è stato  uno dei fondatori del leggendario gruppo funk Light Of The World ma è anche attualmente un membro della band Beggar & Co. che di fatto ne è la continuazione ideale. Wellington, che è un artista a tutto tondo, ha collaborato con Tom Browne, Tina Turner, gli Incognito, gli Spandau Ballet, Boy George e molti altri. Free Spirit è un suo progetto da solista datato 2016 ed è un album che si ispira direttamente ai grandi maestri del passato come Donald Byrd, Jimmy Owens, Chuck Mangione, Eddie Henderson, Freddie Hubbard e Miles Davis e si ripromette di portare avanti la tradizione del funk jazz britannico ma anche del genere acid jazz. Kenny non si risparmia in questo disco, suonando la tromba, il flicorno, le tastiere, le percussioni e curando inoltre i cori, tutta la programmazione ed esibendosi perfino al basso. Gli altri musicisti coinvolti sono David Baptiste (sax, flauto, cori), Jerome Harper (trombone), Clifford Rees (archi, violino, violoncello), Camelle Hinds (basso, percussioni), Breeze McKrieth (chitarra), Toby Baker (sintetizzatori), Steve Salvari (tastiere), Billy Osborne (batteria), Ian da Prada (vibrafono) e Augie Johnson, Bobbie Lee Anderson, Gee Morris Osborne, David Lee Andrews (voce). Free Spirit è un album molto godibile e diretto ma al contempo interessante e non privo di una sua originalità. L’idioma preferito è quello dell’acid jazz strumentale dove la voce calda e pastosa della tromba e del flicorno del leader la fanno da padrone. Le ritmiche sono inesorabilmente funky e gli arrangiamenti danno una connotazione ben precisa a tutto il progetto che, come detto, strizza l’occhio alle sonorità degli  anni ’70. Ovviamente non sarà difficile per l’ascoltatore percepire chiaramente i richiami al Donald Byrd elettrico o al Freddie Hubbard del periodo con la CTI. Alcuni fraseggi di tromba non possono poi non rimandare al maestro Miles Davis. Il piano elettrico ed il vibrafono a far da base per l’architettura dei brani, il basso pulsante e la batteria potente, seppure controllata, sono in ultima analisi le colonne portanti sulle quali la voce di Kenny Wellington può dare libero sfogo alla sua creatività. L’album inizia con Heading Home: il flauto sbarazzino fa da contrappunto alla tromba di Wellington, mentre in sottofondo troviamo il vibrafono ed i cori in puro stile anni ‘70, un esercizio di stile acid jazz che abbraccia gioiosamente gli ascoltatori. Free Spirit punta le luci sulla performance di tromba di Kenny, qui tesa ad evocare le sonorità di Chuck Mangione e sottolineata da un basso ritmicamente vibrante. Dreaming of Futures Bright miscela sapientemente un collage di strumenti vintage con un basso perentorio che fa da piattaforma per il suono della tromba del leader. La jazzistica Kings for a Day, Masters of the Night è un viatico eccellente per l’esibizione di Kenny con la sua sordina. Importante l’apporto di Ian da Prada al vibrafono che rende il brano qualcosa di straordinario. Fat Cherry suona come una colonna sonora alternativa a quella celeberrima di Shaft. Manic Monday, Magic Sunday presenta di nuovo il suono cristallino della tromba in contrapposizione alle parti vocali melodiose ed all'arrangiamento dei fiati che richiamano gli anni '80. Wellington dà poi alla successiva The Cat in the Hat una nuova veste, restituendo a questo tema una sua contemporaneità. La ripetizione ipnotica del motivo penetra profondamente nell’inconscio dell’ascoltatore. E3 Symphony propone un approccio classico dove l’accattivante arrangiamento di fiati, permette a Wellington di improvvisare quasi fosse una poesia sinfonica. Le voci verso la fine ribadiscono "È una sinfonia!": il messaggio è chiaro. Il campione di box Joe Louis una volta ha dichiarato: "You Can Run (But You Shure Can’t Hide )". Kenny si è ispirato alla frase ed ha composto il brano con quello stesso titolo: il funk è il leit motive dove l’elemento ritmico è al centro di tutto. Rebop è di certo un omaggio al jazz degli  anni '70 e il trombettista celebra quella stagione memorabile con la sua maestria nel groove. Heading Home, infine, non è altro che la rispresa del tema dell'intro con il vibrafono di Ian da Prada che questa volta diventa il protagonista. Miles 2 Go è l’immancabile tributo a Miles Davis confezionato con il tipico fascino del funk jazz britannico, ma va sottolineata la bravura di Wellington nel “suonare” la sua tromba con la cadenza, le pause e la tecnica del divino. Free Spirit è davvero pregno del sound del passato, con il funk jazz britannico degli anni d’oro come punto di riferimento costante. E’ un album molto bello ed interessante, gradevole sia per gli appassionati che per i neofiti.  Un esercizio di virtuosismo musicale non fine a se stesso ma perfettamente godibile ed equilibrato, in grado di regalare come prevedibile molto groove, ma anche emozioni e divertimento.

Bahama Soul Club – Bohemia After Dawn


 Bahama Soul Club – Bohemia After Dawn

A volte capita di restare affascinanti da un gruppo di cui si ignorava l’esistenza in virtù di un impatto sonoro musicalmente particolare ed emotivamente intrigante. Qualcosa di magnetico, che toccando le giuste corde, evidentemente provoca una sorta di inevitabile attrazione. Non sono un estimatore del Nu-Jazz, soprattutto quando questa moderna variazione del jazz tradizionale eccede in campionamenti ed elettronica. Tuttavia, quando il valore dei musicisti coinvolti ed il buon gusto nelle scelte musicali è alla base di un progetto tanto ambizioso quanto sofisticato, l’ascolto può risultare in ultima analisi davvero entusiasmante. E’ il caso della band tedesca chiamata Bahama Soul Club: un collettivo di musicisti esperti che arriva oggi al quinto album con lo straordinario ultimo lavoro Bohemia After Dawn. Sulla scia delle precedenti registrazioni, questi abili architetti sonori teutonici hanno confezionato quello che probabilmente è il loro capolavoro. La sapiente miscela di soul, jazz, funk, blues, bossa nova, afro e musica caraibica è la chiave del loro successo. Elemento centrale della musica del Bahama Soul Club sono le percussioni. Non è un caso, perché questa formazione è stata fondata da Oliver Belz, che è appunto un percussionista. Il cofondatore del gruppo è il tastierista André Neundorf e la presenza del piano elettrico e dell'organo Hammond sono altrettanto forti segni caratteristici. Altri musicisti coinvolti in questa registrazione sono York (sax, flauti), Ralli King (chitarra), Holger Stonjek (basso), Lars Lehmann (basso), Maike Jacobs (voce), Claus Hartisch (chitarra, basso) e Bela Heine (chitarra ). Tutti i brani sono scritti ed arrangiati da Oliver Belz e André Neundorf. Ecco dunque che dopo un lungo periodo di silenzio durato quattro anni i Bahama Soul Club sono finalmente tornati per deliziarci con la loro atmosfera super cool, mai così ricca di fascino e suggestioni. "Bohemia After Dawn" è come una sorta di colonna sonora di un certo stile di vita, declinato in 12 brani tutti molto belli, rilassati ed al contempo ritmicamente attraenti, maturi e genialmente modernissimi. Attuali eppure legati al passato, futuristici ma anche pieni di richiami vintage ed atmosfere che riportano come per magia agli anni ’60 e ’70. E’ bellissimo ascoltare un disco del 2020 e ritrovarsi immersi nel sound mai tramontato di un epoca ricchissima di straordinaria musica. L’album non vira mai sul lato freddo e impersonale di un certo nu-jazz: al contrario sottolinea il calore ed il coinvolgimento che solo la musica “suonata” è in grado di offrire. Gli artifici elettronici ed i campionamenti finiscono per diventare così un valore aggiunto. Registrato nella nuova base operativa della band in Algarve, Portogallo, Bohemia After Dawn sembra trarre la sua vena d’ispirazione dalla verve multiculturale e cosmopolita delle coste della parte più sud-occidentale d'Europa. Luoghi dove rimane forse traccia di un ormai lontano edonismo hippy, dove esiste una grande diversità musicale e gli stili di vita sono insoliti e anticonformisti. Come è consuetudine negli album dei BSC anche "Bohemia After Dawn" infonde nuova vita a materiale precedentemente registrato, per così dire “resuscitando” estratti vocali vintage di vari cantanti leggendari. Due esempi: "Never Roam No More" con il mitico John Lee Hooker, ed il classico "Aint Nobody's Business" di Billie Holiday, la quale in originale o traslata dall’elettronica non finisce mai di emozionare. L'album non manca di rendere omaggio anche ad un'altra vera leggenda, in questo caso del Gospel, Sister Wynona Carr  con il brano "Tears Run Down". E’ evidente che, durante la produzione dell'album, la band si è resa conto delle formidabili potenzialità degli artisti locali, gente di talento che è possibile ascoltare di giorno e soprattutto di notte nei bar e nei pressi delle spiagge dell'Algarve. Il materiale umano è abbondante e probabilmente potrà alimentare altri album in futuro. Spunti ed idee entusiasmanti per la musica che verrà. In questo album intanto c’è una selezione di talenti locali, da Josephine Nightingale che appare in "Mercy Me" a Taly Minkov-Louzeiro che canta in "Troubles all be gone". L'ultima traccia dell'album "Castelejo" presenta Rui Correia alla fisarmonica e le voci di Cutty Wren e Hedvig Larsson. Tutti artisti che gravitano nell’area e che sono una scoperta più che gradita. Da non dimenticare che anche in Bohemia After Dark è presente una delle voci più eccitanti del collettivo tedesco: la cantante cubana Arema Arega è in qualche modo un’ospite fissa e mostra il suo valore in brani come “Mango“ e “Alma Sola”. Se poi si aggiungono al progetto due ottimi remix dei maestri di questo genere di operazioni come sono i Club des Belugas e Smoove quello che ne esce è un album veramente eccellente. "Bohemia After Dawn", è quasi come se fosse maturato per 4 anni al sole del Mediterraneo: si distingue per la sua semplice eppure raffinatissima bellezza, discreto ma terribilmente intrigante. Ogni canzone è plasmata al massimo delle potenzialità, senza compromessi. I Bahama Soul Club sono un’esperienza sonora unica e coinvolgente: consiglio vivamente il loro ascolto.

Jeff Bradshaw - Bone Deep


 Jeff Bradshaw - Bone Deep

Una delle domande che più spesso si sono posti i jazzisti contemporanei è quanto realmente potessero spingersi in direzione di una più o meno radicale contaminazione artistica piuttosto che restare all’interno di una canonicamente rigorosa tradizione. Gli esempi di musicisti che hanno intrapreso la strada del rinnovamento nel jazz sono  numerosi, a cominciare da Miles Davis e continuando poi con Herbie Hancock, Chick Corea, Roy Ayers e molti altri. Il riscontro del pubblico ed anche quello commerciale per quelli che percorsero una strada alternativa fu subito evidente a tutti dall'inizio degli anni '70 e dura ancora ai nostri giorni. Questo anche a discapito della reputazione di quegli stessi musicisti tra i puristi del jazz. In effetti, è proprio dalla propensione alla sperimentazione di quei pionieri (e precedentemente di quelli del Be-Bop e del Free-Jazz) che è nato quel sotto genere comunemente noto come jazz-fusion. La lunga premessa serviva per introdurre il personaggio di questa recensione. Senza la dirompente genialità dei grandi del passato, ma con una certa originale personalità, anche il trombonista Jeff Bradshaw può infatti rientrare tra i  musicisti orientati alla sperimentazione “anticonformista”. In una certa misura il suo album di debutto del 2003, Bone Deep è un moderno tentativo di innovazione. Come specialista e virtuoso del suo strumento, Bradshaw vanta un sound che è possibile posizionare da qualche parte tra la jazz-fusion ed il neo-soul. La sua formula incorpora e miscela il jazz, il soul, l’r&b e,  occasionalmente, anche qualche eco africana: Bradshaw mette insieme qualcosa degli Earth, Wind & Fire, un po’ di Herbie Hancock, alcuni sprazzi di George Duke e per l’appunto una bella dose di neo-soul, ottenendo un effetto singolare. Qualcosa che ricorda le sonorità di oggi di Robert Glasper, Jr. con il quale non a caso in seguito collaborerà. In quest’ottica di revisione e sperimentazione della fusion, Bradshaw riesce a trovare un suo groove che è allo stesso tempo musicalmente sofisticato e tuttavia accessibile ed orecchiabile. L'uscita di Bone Deep arrivò anni dopo l'avvento di artisti come Erykah Badu, D'Angelo e Maxwell, che partendo dal soul indicarono una strada alternativa, poi diventata popolare. L'album di Bradshaw fece qualcosa di simile per la fusion, infilandosi nelle atmosfere urbane, destrutturando e semplificando uno stile spesso molto opulento. Prodotto dallo stesso Bradshaw, Bone Deep vanta cammei di Jill Scott, Floetry e Bilal, tra gli altri. Il suono di trombone di Bradshaw è ruvido e particolare e la sua abilità con lo strumento è sbalorditiva, poiché usa il “grande ottone” più come una seconda voce che nella maniera canonica. Ecco allora che molte delle tracce cantate vedono Jeff su un piano paritario nel confronto con l’interprete vocale. "Beyond the Stars", per esempio, con Glenn Lewis, mostra un'eccellente interazione tra la voce di quest’ultimo e il trombone di Bradshaw. Lo stesso vale per "Beautiful Day", che vede Bradshaw e Floetry che si alternano tra la melodia principale e l’accompagnamento. In "Can You Come Over", Carol Riddick si limita a cantare un ritornello mentre Bradshaw sfoggia  una performance strumentale eccellente. Altre tracce, come "Slide", con Jill Scott, trovano Bradshaw e il suo trombone in una situazione di contorno, che tuttavia mantiene una sostanziale presenza. In "Make It Funky", la performance di Jeff è in gran parte persa in una sorta di nebbia musicale creata dalla voce di Bilal e dagli altri strumenti. Questo approccio per così dire da “seconda linea” è in realtà piuttosto intrigante sulla cover di "Miss Celie's Blues (Sister)" che consente di ascoltare la voce  della talentuosa e forse sottovalutata N'Dambi. Bradshaw canta personalmente in "Guess You Never Know" e "Lookin '", proponendosi momentaneamente come vocalist. I brani "Soul of the Bahia", "Smooth Soul" e "On My Way" sono invece fondamentalmente strumentali. "Soul of Bahia" emana un'atmosfera da lounge music e incorpora echi di percussioni africane, mentre "Smooth Soul" estende il concetto di smooth jazz toccando forse il momento migliore dell’intero album. L'album si chiude in modo curioso con "The Bone is Back (Reprise)” che però nasconde al suo interno ben due bonus tracks che sono intitolate Swing Low e Yesterday: la prima strumentale, la seconda cantata. Tutto sommato, Bone Deep è un album piuttosto interessante ed anche a distanza di 17 anni dalla sua uscita mantiene una sua fresca attualità. Si snoda variamente tra vari stili, districandosi con intelligenza e misura in ogni contesto musicale. Jeff Bradshaw fa un uso molto originale del suo trombone e possiamo riconoscere questo artista come uno dei principali interpreti della fusion e del neo-soul dei nostri giorni. Merita quanto meno un ascolto.

The L.A. Chillharmonic - L.A. Chillharmonic


 The L.A. Chillharmonic - L.A. Chillharmonic

Il professor Richard Smith è l'anima di questo super gruppo. Lui ha un’intensa vita professionale come musicista e tra i mille impegni di chitarrista ci sono anche la scuola e l'istruzione che giocano un ruolo centrale. Chitarrista di talento, compositore, arrangiatore, produttore ed insegnante, Smith si è stabilito a Los Angeles anni fa ed immediatamente entrato a far parte della scena smooth jazz della California, suonando tra gli altri con musicisti come Dan Siegel, Kenny G, Richard Elliot, Rick Braun, per citarne alcuni. Come chitarrista ha registrato 10 album, partendo dal primo Inglewood fino all’ultimo Tangos. Il suo progetto più ambizioso però prende il nome di L.A. Chillharmonic: ovvero un collettivo di musicisti nato per riunire alcune delle più grandi star del jazz contemporaneo in un unico progetto. Ecco allora che in questo gruppo troviamo gente come Brian Bromberg (basso), Vinnie Colaiuta (batteria), Alex Acuña (percussioni), Jeff Lorber (tastiere), Patrice Rushen e Greg Karukas (pianoforti), Greg Adams (tromba), Gary Meek, Michael Paulo ed Eric Marienthal (sax). In sostanza un contenitore che rappresenta il meglio dello smooth jazz californiano e non solo. Pensadoci bene, in effetti, la maggior parte delle grandi città possiede un'orchestra filarmonica classica ed alcune altre hanno gruppi jazz municipali, ma nessuna metropoli può vantare qualcosa che metta in scena in modo esaustivo un genere musicale importante come lo smooth jazz. Questo progetto si prefigge lo scopo di delineare un ritratto completo ed approfondito di un gruppo di musicisti, compositori e arrangiatori tutti in qualche misura legati a Los Angeles. Il primo ed unico album di questo gruppo di all-star è stato pubblicato nell’ormai lontano 2008 e, come ha confermato lo stesso Richard, non sarà l'ultimo, ma per ora invece non vi è stato un seguito. Il sospetto più che giustificato è che i numerosi impegni di un numero così alto di stars sia motivo di grandi difficoltà nel trovare il modo di registrare nuovo materiale. Ad ogni modo possiamo comunque goderci gli eccellenti contenuti di L.A. Chillarmonic, in attesa di qualcosa di nuovo. L.A. Chillharmonic inizia con una sorta di manifesto smooth jazz della costa occidentale. La chitarra di Richard Smith è quella che conduce la melodia, gli altri musicisti offrono contributi sempre brillanti, commisurati alla loro fama ed al loro talento. Checkin' You Out è stato composto dal giovane chitarrista Travis Vega, che è una stella nascente nella scena chitarristica: si tratta di un groove perfetto per specialisti di prima classe come Smith. Un altro brano di Travis è Gift, vetrina per il magnifico tocco del bassista Brian Bromberg, dello stesso Richard Smith e con in più l’intervento canoro di Patrice Rushen e Toni Scruggs. La Rushen offre anche un eccellente supporto al piano. I brani di Smith sono indubbiamente attraenti: un esempio è Ultimate X. Certo la sua profonda conoscenza della musica lo aiuta, ma è indubbio anche il suo talento nell’eseguirla. E poi c’è di più e cioè la presenza di musicisti di prim'ordine, la costruzione di arrangiamenti perfetti e una sezione fiati di livello superiore, curata dalla leggenda dei Tower of Power, Greg Adams. La band offre una deliziosa interpretazione di Boogie On Reggae Woman di Stevie Wonder. Tratto dall'album Fulfillingness First Finale (1974) di Stevie ci regala un magico duo di sax in stato di grazia come Eric Marienthal e Michael Paulo. Molto interessante anche la struttura blues di Back In The Day: diventa il punto focale per una grande jam. Eccellente l'iniezione di basso di Brian Bromberg e magnifici gli ottoni di Greg Adams. L'elegante What We Do Here di Brian Mc Knight trova un'interpretazione solida e fluida sull’onda della scintillante chitarra di Richard. Il lento Being With You offre il sound giusto per un po' di relax: Richard lascia che a  parlare sia la sua chitarra. Patrice Rushen esegue un eccellente assolo di pianoforte. Agrigento è una città con un patrimonio archeologico straordinariamente ricco alla quale Richard dedica un brano, catturando magistralmente lo spirito di questa località sospesa tra storia ed età moderna. L'esplosione finale di questo ottimo album è Alvinator di Dan Siegel. Richard Smith si è aggregato alla band di Dan all'età di 19 anni e ha registrato tre album con questo famoso tastierista. Questo è un brano in cui tutti i membri della band possono brillare per dare vita ad una sorta di grande jam session. L.A. Chillarmonic in ultima analisi si può definire una fantastica concentrazione di energia musicale sprigionata in libertà dai migliori musicisti di jazz contemporaneo di Los Angeles. Non resta che aspettare per ascoltare quanto prima un nuovo capitolo del progetto.

Sonny Criss – Jazz U.S.A.


 Sonny Criss – Jazz U.S.A.

Le ormai remote sessioni di Sonny Criss della metà degli anni '50, registrate per l'etichetta Imperial, mettono in luce un sassofonista di grandissimo spessore e grande autorità. Meritano almeno la stessa attenzione dei suoi più noti album per la Prestige degli anni Sessanta. In particolare è impressionante il suo debutto discografico come solista, intitolato Jazz U.S.A, sul quale oltre al resto del materiale brillano più degli altri gli standard veloci. Ma chi è Sonny Criss ? Per chi non lo conoscesse,questo sassofonista misconosciuto e forse sottovalutato è nato a Memphis, Tennessee, nel 1927 e si è trasferito a Los Angeles all'età di quindici anni. Non è affatto improbabile che la scelta di questo virtuoso del bebop di soggiornare sulla costa occidentale invece che nella mecca del jazz, ovvero New York, abbia in parte ostacolato l'evoluzione della sua carriera. Criss, come altri suoi colleghi dell’epoca, non mancò di suonare con grande successo a Parigi ed in Europa ma fu molto attivo anche in patria. Nonostante ciò resta uno di quei sassofonisti che non raggiunsero mai veramente una grande notorietà. Intraprese la strada del bebop già a partire dal 1947, suonando con Howard McGhee, Wardell Gray e Charlie Parker, lo stile del quale influenzò moltissimo il giovane Sonny. Tuttavia la sonorità di Criss assunse presto dei connotati originali e pur mantenendo in sé l’eredità di Bird non tardò a diventare a sua volta distintiva, caratterizzata da un sound morbido e vellutato, certamente meno spigoloso di quello del be bop. Il tour intrapreso con Norman Granz sotto l’insegna “Jazz At The Philharmonic” garantì comunque a Criss un discreto riconoscimento, quanto meno nell'area californiana. Nel 1955, Sonny si unì infine al gruppo del batterista Buddy Rich. I tre album che Criss registrò per la Imperial nel 1956, Jazz U.S.A., Go Man! e Plays Cole Porter (dove negli ultimi due c’era anche Sonny Clark) sono album da considerare di prim’ordine. Tuttavia la collaborazione con la Imperial Records non fu un’esperienza fortunata dato che questa era un'etichetta principalmente r&b e country. Ovviamente, la promozione del jazz non era in cima alla loro lista di priorità. A livello discografico andò meglio con gli album registrati in seguito per Prestige alla fine degli anni Sessanta, che ci restituiscono un Sonny Criss alle prese con un robusto hard bop declinato attraverso gli immancabili standard, un po’ di blues e qualche cover dei successi pop del momento. Criss ha poi anche registrato un paio di interessanti album per la Muse e la Impulse a metà degli anni Settanta. Tragicamente, nel 1977, Sonny Criss si suicidò all'età di 50 anni, una decisione presa dopo aver saputo di essere gravemente ammalato di tumore. Come dicevo precedentemente, questo sfortunato sassofonista ha avuto  la bravura ed il talento di modellare il suo stile su quello di Charlie Parker, ma ha indiscutibilmente sviluppato una sua interpretazione personale del be bop. La voce strumentale di Criss possedeva un affascinante vibrato, in contrasto con il suono più secco ed essenziale di Bird. Come Parker, Criss è un virtuoso che non lascia che la sua abilità tecnica prevalga sui reali contenuti del suo jazz. In più, nel suo modo di suonare si riscontra una piacevole vena romantica che non scade mai nel melenso. Il suo fraseggio era preciso e potente, con una profonda vena di blues e uno smagliante senso del ritmo. Questo fa di lui un musicista molto interessante da scoprire e si rivela un ascolto molto spesso piacevolissimo. Un’altra caratteristica di Sonny Criss è quella di vivisezionare gli standard per poi ricostruirli a suo piacimento, con un’ingannevole facilità. Le sue linee melodiche sono incisive ed accattivanti e sono sviluppate attraverso un’articolazione molto sapiente delle partiture. Lo si evince dalla sua rielaborazione di un classico come Sweet Georgia Brown o  in Blue Friday di Kenny Dorham. Quella che si ascolta è una grande sensazione di swing, colorata dal suo agile fraseggio. Criss padroneggia le note con la finezza di un peso piuma e la leggerezza di una farfalla. Nel suo caso non è il vigore assoluto che affascina, bensì sono più le sue abbaglianti sequenze a lasciare  stupiti ed ammirati. Il gruppo che accompagna Sonny Criss in questo album  è assolutamente all'altezza. Troviamo dunque un pianista come Kenny Drew, sempre elegantemente composto, la raffinata chitarra di Barney Kessel e Bill Woodson al contrabbasso più Chuck Thompson alla batteria. La combinazione tra il sax di Criss e la chitarra di Barney Kessel è quella che ci conduce ai momenti salienti dell'album, come in Sunday, il già menzionato Sweet Georgia Brown e l’originale dello stesso sassofonista intitolato Criss-Cross. Sonny e Barney offrono un'impeccabile interpretazione di Alabamy Bound, eseguito tra l'altro, ad una velocità vertiginosa. L'assolo di Kessel è qui particolarmente preciso e vigoroso: un bebop-swing da manuale. West Coast Blues è una composizione di Sonny Criss (da non confondere con quella di Wes Montgomery) dai tratti originali pur partendo da un canovaccio blues. Il celebre standard These Foolish Things è un altro esempio della maestria di Sonny Criss nel cogliere il senso profondo del grande American Song Book. Il sax lo abbellisce sapientemente con le sue frasi tortuose, incantando con una miscela di abilità ed energia che non ha minimamente perso smalto dopo tutti questi anni. Jazz USA è un ottimo album che permette di apprezzare un maestro del sax che probabilmente avrebbe dovuto raccogliere maggior fortuna ed un successo più vasto di quello che, complice anche il destino, la vita gli ha riservato. Da ascoltare.

Roy Ayers – West Coast Vibes


 Roy Ayers – West Coast Vibes

Siamo abituati a conoscere Roy Ayers per la sua produzione musicale degli anni ’70 e ’80 che fu strettamente legata al jazz funk e che in seguito arrivò perfino alla disco, senza dubbio accarezzando nei fatti uno stile decisamente più commerciale. Tuttavia la formazione artistica del grande vibrafonista è indubbiamente di stampo jazzistico ed all’inizio della sua carriera (parliamo dei primi anni ’60) lo stile che caratterizzava Ayers era quello dell’hard bop. Lontano anni luce dai successi discografici che verranno negli anni ’80, il grande Roy, allora ventitreenne, si affacciava in quel periodo al mondo del jazz in modo già significativo, sulla scia dei grandi vibrafonisti storici che lo avevano preceduto. L’album di cui voglio parlarvi è la sua opera prima, si intitola West Coast Vibes e fu pubblicato nel 1963. Siamo quindi nei primissimi anni ’60 e Roy Ayers, mentre lavorava a Los Angeles come accompagnatore del pianista Jack Wilson, fece amicizia con il critico jazz nonchè produttore Leonard Feather. Da questo rapporto alla fine nacque il primo contratto discografico da solista del vibrafonista. Questa rara sessione di registrazioni di Ayers rimane, insieme al successivo Virgo Vibes, la più pura espressione musicale jazz della sua lunga carriera, senza traccia alcuna delle aperture commerciali presenti nei suoi lavori pubblicati più avanti per l’etichetta Polydor. Per gli ascoltatori più avvezzi alle sonorità jazz-funk di tempi più recenti come Coffy, He's Coming o Everybody Loves the Sunshine, i toni caldi e classici del vibrafono e del repertorio di Ayers suoneranno come una vera sorpresa. Per i più integralisti tra gli amanti del jazz invece, un album come West Coast Vibes risulterà una gradita rivelazione. Inutile aggiungere che per tutti coloro che apprezzano in modo specifico lo strumento vibrafono questo lavoro diventerà imprescindibile. Va sottolineato che, allora come oggi, l’approccio di Roy alle percussioni è assolutamente unico ed è molto interessante ascoltarlo mentre opera in contesti jazzistici convenzionali, non elettrificati e molto lontani da ogni genere di contaminazione. La band che accompagna Roy Ayers in questo album include il pianista Jack Wilson e Curtis Amy ai sassofoni tenore e soprano più alcuni altri validi musicisti dell’area californiana, su tutti il bassista Victor Gaskin e poi i batteristi Tony Bazley e Kenny Dennis. Erano musicisti non particolarmente famosi all’epoca ed il trascorrere del tempo non ha di fatto cambiato molto la loro fama o il loro successo personale, ad eccezione ovviamente del vibrafonista. Qui Ayers esplora il repertorio classico fatto di standard che era praticamente all'ordine del giorno di ogni jazzista nei primi anni '60 ma il programma prevede anche  alcuni brani originali. Ad esempio se mettiamo a confronto l’interpretazione di "Reggie Of Chester" di Benny Golson che troviamo su West Coast Vibes e quella di Lee Morgan di pochi anni prima non troveremo grandi differenze di approccio: le linee suonate da Roy Ayers, che per un vibrafono potrebbero non essere le più semplici da eseguire, si rivelano invece brillanti, al livello di quelle del grande trombettista. L'originale di Ayers "Ricardo's Dilemma" è curiosamente simile, più nello spirito che nella sostanza, al tema del film "La strana coppia" di Neil Hefti che è però del 1968.  Qui va sottolineata la performance al sax soprano di Curtis Amy, davvero notevole e apprezzabile anche per la sua morbida sonorità, che ricorda quella di un grande come Sonny Criss. La presenza di alcuni musicisti piuttosto sconosciuti  ma anche, purtroppo, sottovalutati è un po’ il tratto distintivo di questo album, confermata dalla partecipazione del sassofonista e cantante Vi Redd così come da quella del trombettista Carmell Jones. Ma tornando a Roy Ayers troviamo qui un vibrafonista dalle grandi doti tecniche, forse non ancora affrancato dall’eredità del passato, ma certamente già in evidenza per originalità e groove. Il seguito a questo album, intitolato Virgo Vibes, arriverà a distanza di 4 anni, nel 1967, e vedrà un Roy Ayers nuovamente impegnato con un puro repertorio jazzistico e contenuti probabilmente anche più maturi e consapevoli. L’excursus nel jazz classico da parte di questo vibrafonista sarà concluso solo un anno dopo, dall’album Stoned Soul Picnic che resta di fatto una transizione verso il soul jazz: una strada poi intrapresa con decisione e perseveranza e che sfocerà per Roy Ayers nell’abbraccio definitivo di un genere ancora più elettrico quale il jazz funk. Ciò che Ayers proporrà negli anni ’70 è cosa nota e gli garantirà una grande popolarità, ferma restando la sua proverbiale abilità tecnica ed il suo innato talento sia come vibrafonista che come compositore. West Coast Vibes è quindi una delle poche testimonianze disponibili di un musicista impegnato nel jazz, particolarmente apprezzabile proprio perché è ancora lontano dalla sua svolta elettrica e funk. E’ inoltre un'ulteriore prova del fatto che nel jazz della West Coast del suo periodo di massimo splendore c'era molta più sostanza e qualità di quanto gli stereotipi vogliano attribuirgli, specie quando viene accostato allo stile della Costa Est.

The Brit Funk Association – Lifted


 The Brit Funk Association – Lifted

Se il nome di una band può, a volte, indicare quale potrebbe essere lo stile che ci si deve aspettare, nel caso di questo gruppo, o sarebbe meglio dire collettivo di musicisti, la dichiarazione d’intenti risulta chiarissima fin da subito. Il funk, ma anche il soul con una spiccata connotazione jazz sono i tratti caratteristici e distintivi dei Brit Funk Association. Ma chi sono quindi costoro ? Un nuovo gruppo ? beh, diciamo di sì anche se tra i membri della formazione figurano numerosi veterani del funk soul inglese con alle spalle una trentennale carriera. Spulciando tra i nomi dei musicisti troviamo che questi funksters sono stati membri di band importanti negli anni ’80 come i Beggar and Co, gli Hi Tension, i Central Line e i Light of the World. Ovvero i gruppi che hanno tenuto alto il nome del funk britannico anche durante l’esplosione della new wave e del brit-pop. Di fatto non sono nemmeno al primo disco, dato che era il 2018 quando la Brit Funk Association pubblicò il bell’album di debutto intitolato "Full Circle". La storia è più o meno questa: i musicisti erano stati riuniti dall'imprenditore soul Fitzroy Facey per suonare ad un concerto allo scopo di promuovere la sua rivista Soul Survivors. E’ da lì che le cose sono semplicemente decollate. La prima conseguenza fu una serie di esibizioni nei locali top di Londra e del Regno Unito, la seconda e più importante fu l’uscita dell'album "Full Circle". Il disco fu accolto molto bene dalla critica e dal pubblico ma a causa dei numerosi impegni di tutti i componenti della band, ci sono voluti due anni prima che BFA riuscisse a produrre un seguito. Bene, nonostante il lockdown, l'attesa è finita e credetemi se vi dico che ne è valsa la pena. All’ascolto la nuova collezione di brani del collettivo,  intitolata "Lifted", suona subito migliore del pur valido debutto e, cosa molto importante in questi tempi oscuri e imprevedibili, offre una carica di ottimismo, di allegria e di speranza in dosi generose. L'attuale formazione della band si basa su un nucleo fisso formato da Kenny Wellington (tromba), Breeze McKrieth (chitarra), Paul McLean (chitarra), Patrick McLean (sax), Peter Hinds (tastiere), Paul Phillips (chitarra / voce) e Jeff Guishard (percussioni / voce). Gente che ha collaborato con Beggar & Co, Incognito, Light of the World e Hi Tension. In più a supporto ci sono musicisti come David Baptiste, Rolando Domingo, Harry Brown, Billy Osborne, Ernie McKone, Jerome Harper. Aggiungete ancora Patrick Clahar, Kevin Robinson e Frank Felix e avrete una ricchezza di influenze e sonorità che sono perfette per creare un suono esaltante e coinvolgente. Il tenore ottimistico dell’album è evidente fin dall'inizio con la bella 'Summer', uno strumentale jazz-funk che ricorda (non per caso) il primo album degli Incognito.  La ricetta comprende delle formidabili rasoiate di chitarra alla Bluey, accattivanti riff di fiati, basso pulsante e synth vintage. Un canovaccio seguito anche per molti altri brani. La title track "Lifted Up" ne è un ulteriore ed ottimo esempio: come da titolo è davvero una musica che solleva lo spirito. Tutto il disco è accattivante e spesso molto orecchiabile. La splendida "Smilin" vi farà sorridere, alla maniera dei Blackbyrds, e se volete potrete anche ballarci sopra. I 13 brani offrono un’alternanza di momenti leggeri e disinvoltamente cantabili ma pur sempre sofisticati ad altri elementi più ruvidi e funky come "Step On Board", "This Is What We Do" o "Raw Funk". La traccia che, forse, riassume al meglio il disegno musicale di questo collettivo è "BFA" (ovviamente), il cui sottotitolo è "Brighter Day".  In ultima analisi qui si possono ritrovare sintetizzati in 4 minuti tutti i contenuti di un bellissimo album. "Lifted” dà l’opportunità di ascoltare una varietà di sapori persi nella memoria dei tempi d’oro del funk, ormai lontani: i suoni degli EWF, dei Blackbyrds, dei primi Kool and the Gang, o ancora  di Donald Byrd, dei Mizell Brothers e molti altri. E naturalmente non vanno dimenticate tutte quelle grandi band del Brit Funk dalle cui formazioni originali si è di fatto costituita questa moderna band. BFA ha concepito un album interessante, solido, piacevole e ricco di sfaccettature, capace di correre sul filo dei ricordi e del vintage sound rilanciandolo verso le sonorità dei nostri giorni. The Brit Funk Association ed il loro Lifted sono dunque una delle più belle sorprese del 2020, dominato da eventi nefasti: un motivo valido per ascoltare ancora della buona musica e riuscire ad avere una sana dose di ottimismo nel futuro, nonostante tutto.

Michael “Amandus” Quast – Sing A Song


 Michael “Amandus” Quast – Sing A Song

Oggi parlerò di un musicista che credo risulterà sconosciuto alla maggior parte dei lettori ma che merita indubbiamente un ascolto. Ma le nuove scoperte sono sempre gradite, soprattutto quando riserbano dei contenuti di ottimo livello. E allora conosciamo meglio questo pianista e compositore tedesco che si chiama Michael Amandus Quast ed ha iniziato la sua carriera come musicista professionista intorno al 2000. Quindi può vantare 20 anni di attività. Come session man è stato in tournée con Paul Young per diversi anni. Ha sempre avuto un’intensa attività nella sua madre patria ma ha anche suonato le tastiere per artisti quali Nik Kershaw, Johnny Logan e Midge Ure. Finalmente nel 2018 ha iniziato a dare corpo al suo progetto di un album da solista orientato ad un moderno smooth jazz. E’ curioso il fatto che abbia scelto il suo secondo nome come pseudomino, Amandus ovvero colui che vuole essere amato in latino. La scelta dei musicisti deputati all’accompagnamento del suo album d’esordio sono stati selezionati con cura e alcuni di loro sono nomi molto noti in Germania. La band è così composta: David Anlauff (batteria), Philipp Rehm (basso), Uli Brodersen (chitarra), Ray Mahumane (chitarra), Søren Jordan (chitarra), Arno Haas (sax alto e soprano), Angela Frontera (percussioni), Helena Paul e Jimi Carrow (voce). Lui, il bravo Amandus, suona il pianoforte le tastiere, il piano elettrico e si occupa della programmazione. C’è anche una bella sezione fiati che è composta da Christian Ehringer, Igor Rudytskyy (tromba), Thomas Sauter (trombone) e Michael Steiner (sax tenore e baritono). Da notare che tutti i brani sono scritti dallo stesso Michael Quast, che dimostra così di non avere solo un gran talento come strumentista ma di essere anche piuttosto creativo. Il titolo dell'album “Sing A Song suona vagamente ironico dato che con un'unica eccezione questo è un lavoro totalmente strumentale, come si conviene nella maggior parte delle produzioni di smooth jazz contemporaneo. L’impatto con la musica di Amandus è subito positivo: The Mice Song è una piacevole sorpresa fin dalle prime battute. Il primo assolo di pianoforte è perfetto per fluidità e sintesi, ed i riff di chitarra funky che incontrano il basso groovy  di un ritmo accattivante è completato da un sofisticato arrangiamento di fiati. Enjoy è quasi un invito al divertimento: il risultato inevitabile di questa cavalcata sonora è qualcosa di estremamente piacevole che ricorda in qualche misura la musica del mitico gruppo inglese Shakatak. Si va avanti con un altro numero ad effetto, Sunday School, ed anche questo è orecchiabile e brillante, con il suo bel ritmo incalzante caratterizzato dal trascinante basso synth. Il tutto è completato da un irresistibile organo vintage, dal pianoforte venato di jazz ed un meraviglioso sassofono suonato da Arno Haas. More Like This ci porta dentro atmosfere più rilassate e Quast le interpreta con disinvoltura, ma senza banalità ed il lavoro al pianoforte è senza dubbio dei migliori. L’unico brano cantato è ovviamente proprio Sing A Song, che presenta la vocalist britannica Helena Paul. Anche in questo caso la combinazione di voce e pianoforte suggerisce ancora una volta dei parallelismi con lo stile degli Shakatak. Una connotazione che per il mio gusto è tutt’altro che negativa: evidentemente anche Michael Quast nutre una grande ammirazione per Bill Sharpe. Driving Decompression ha un giro di basso intrigante, un po’ sullo stile della canzone Mama Used To Say, ma qui c’è un formidabile pianoforte che Amandus suona in modo davvero entusiasmante. Parlando di fonti d’ispirazione, Hey Man è sicuramente influenzata dalla musica e dallo stile tastieristico di un grande come Jeff Lorber: Amandus è comunque straordinario nel suo assolo, così come la band che lo accompagna. Quasi un manifesto del moderno smooth jazz è la seguente One Day for a Lifetime che mette in evidenza ancor di più lo stile pianistico di Michael, sempre lucido e così pieno di feeling e groove da rimandare ad un gigante come Bob James. Il brano è poi arricchito da un magnifico assolo di Arno Haas. Per gli amanti del piano elettrico arriva quindi Rhodesbeef: una stupenda cavalcata musicale in stile funk jazz con Philipp Rehm al basso e Amandus al Rhodes ed al Clavinet sugli scudi ad animare un “trip” di pura libidine groove. Il brano finale è intitolato Shacky, un’altra sorta di iconico paradigma dello smooth jazz che chiude l’album mettendo in evidenza una volta di più la perfetta armonia musicale tra Michael Quast e i suoi validissimi collaboratori. Sing A Song di Amandus è una produzione di jazz contemporaneo complessivamente molto solida e piacevole che dà allo spiccato talento del pianista tedesco l'opportunità di brillare fin dall’esordio di luce propria. Con i suoi 10 corposi brani Michael Quast mette in mostra immediatamente che i tasselli del suo mosaico musicale sono esattamente dove devono stare. E’ la giusta direzione per un futuro che, viste le premesse si annuncia radioso. Amandus è un musicista da seguire con attenzione. It's only smooth jazz, but i like it.

The Jazz Defenders - Scheming


 The Jazz Defenders - Scheming

La Haggis Records, etichetta creata dal gruppo funk The Haggis Horns, non si limita più solo a produrre e pubblicare i lavori della band scozzese, ma è in continua espansione e nel suo processo di crescita ha accolto recentemente in scuderia un giovane quintetto di Bristol denominato The Jazz Defenders. Il nome stesso della band in questione è già una dichiarazione d’intenti molto precisa ed ovviamente allude al genere di musica che rappresenta la loro linea guida. I Jazz Defenders sono stati creati nel 2015 dal pianista e compositore George Cooper  che, sebbene sia ancora relativamente giovane, è ben noto come session man di valore ed in carriera ha già lavorato con molti artisti di fama. È anche noto che il suo interesse primario è orientato verso le registrazioni jazz della Blue Note degli anni '50 e '60. Questo album del suo neonato gruppo testimonia proprio il suo rispetto e la sua passione per quello specifico stile musicale. Le belle tracce di questo album non sono solo la pedissequa riproposizione del sound dei grandi del passato come Horace Silver e Art Blakey, ma riflettono anche il talento e la creatività moderna ed attuale di Cooper e dei suoi colleghi collaboratori coinvolti nel progetto. Per questa stimolante avventura nel jazz il bravo pianista ha chiamato Nick Dover (sassofono tenore), Nick Malcolm (tromba), Ian Matthews (batteria) e Will Harris (basso): un combo di grande qualità e dotato di un’innata dinamicità. E’ subito chiaro come i Jazz Defenders prendano spunto dal classico sound hard bop e soul-jazz dell’epoca d’oro delle grandi etichette del passato come la Prestige e la Blue Note. Tuttavia partendo da questa stella polare come riferimento, questi musicisti compiono un loro personale percorso nel jazz contemporaneo, affrancandosi con coraggio e determinazione dalle loro fonti d’ispirazione per cercare una strada che sia attuale e non scontata. Dopo essersi fatti le ossa suonando dal vivo in tutti i locali fondamentali per il jazz a Londra, come i mitici Ronnie Scott’s, The Jazz Cafe e The 606 Club, i Jazz Defenders hanno dunque deciso di registrare finalmente il loro album di debutto, intitolato Scheming e composto da 10 brani originali, uscito sul finire del 2019. Gli strumentali dell’album si caratterizzano anche per il tono disincantato che la band imprime ad ogni traccia, senza al contempo perdere di vista la qualità e l'impegno. Con un gagliardo supporto ritmico alle spalle, tromba, sax e pianoforte (o a volte perfino il piano Wurlitzer o l’organo Hammond) esplorano liberamente direzioni interessanti, lasciando un ampio spazio agli assoli pur mantenendo sempre una mirabile coesione di fondo. Sin dall’apertura dell’album, con il brano Top Down Tourism si assiste ad un vivace scambio di battute tra fiati e piano, delineando così una cifra stilistica che se da un lato strizza l’occhio all’ascoltatore, dall’altro è sorretta da un’esecuzione impeccabile e da una evidente sintonia tra i membri della band. Il divertimento e la bravura di questi musicisti inglesi è chiaramente palpabile sia nei momenti più squisitamente swing come in Everybody’s Got Something sia nelle divagazioni di stampo latin jazz come She’ll Come Round e Costa Del Lol (che già dal titolo dà un indizio importante sul fatto che il gruppo non si prende troppo sul serio). Tra gli altri brani, tutti indistintamente accattivanti, spiccano anche la titletrack Scheming che è un boogaloo soul anni ‘60 con l’organo Hammond assoluto protagonista e la più intima e delicata Rosie Karima. Da non dimenticare anche il notevole groove jazz-funk di Late, che ci riporta ad atmosfere anni ’70 alla Herbie Hancock. Ma va detto che questo è uno di quegli album che si può ascoltare tutto d’un fiato, dall’inizio alla fine. Tutti i musicisti dimostrano un alto grado di competenza e suonano il loro pregevole materiale  originale con  il giusto spirito ed una grande sensibilità, dando luogo ad una riuscita reinterpretazione del soul-jazz degli anni ‘60. Consigliato.

Voodoo Funk Project – Deep In The Cut


Voodoo Funk Project – Deep In The Cut

Dopo l’esplosione del fenomeno dell’Acid Jazz, alla fine degli anni ’80,  ed il suo successivo esaurimento, circa un decennio dopo, il movimento non ebbe una vera e propria conclusione. Di fatto, anche se la spinta emotiva ed il successo commerciale non ebbero più un impulso globale di grande portata, non furono poche le band e gli artisti che continuarono a proporre musica con quella caratteristica firma sonora. All’inizio del nuovo millennio si poteva ancora ascoltare dell’ottimo Acid Jazz. In alcuni casi suonava forse ammorbidito da una contaminazione soul maggiormente evidente, mentre in altre pubblicazioni risultava molto più legato ai ruvidi suoni funk jazz dei primi anni ’70 con una predilezione per i pezzi strumentali. In pratica rispecchiava il sound originale e tipico che tutti gli appassionati considerano la vera fonte d’ispirazione del movimento Acid. Un esempio molto interessante di questa seconda declinazione furono i Voodoo Funk Project, che nel 2005 uscirono con il loro primo e purtroppo unico lavoro: Deep In The Cut.  Fin dalle prime battute dell'album gli ascoltatori  riconosceranno delle atmosfere vintage e saranno quasi costretti a scorrere le note di copertina alla ricerca della data di registrazione, perché l’impatto suggerirà loro un richiamo diretto alle sonorità peculiari degli anni ’70. Voodoo Funk Project non fa mistero delle sue influenze: non a caso è un progetto animato da alcuni tra i musicisti più significativi del panorama Acid Jazz. Il cervello dietro questo quartetto britannico è il produttore e programmatore Geoff Wilkinson, uno dei due creatori del fenomeno Us3. Il quale si occupa di suonare la batteria e maneggiare ogni sorta di ritmica elettronica e sequencer. Spicca la presenza del sassofonista Ed Jones, che oltre alla militanza negli Incognito, vanta anche una vasta esperienza in campo jazzistico ed è uno specialista di provato talento. Le tastiere sono affidate a Mike Gorman, un musicista di grande sapienza, in passato già collaboratore di artisti di fama internazionale. Ed infine troviamo il basso, che è prerogativa del formidabile Julian Crampton (anche lui membro degli Incognito). I brani sono 10, e tutti sono strumentali che corrono su quel filo conduttore che rimanda ai suoni della black music degli anni d’oro del funk jazz. Se prendiamo ad esempio il brano di apertura, "Black Magic", ci accorgiamo che è un ipnotico tema funky nel quale si ritrovano echi degli Headhunters, con tanto di synth vintage che si intreccia al clavinet ed il possente sax di Ed Jones a guidare la melodia. Il resto dell'album mantiene questa atmosfera retrò, a volte più morbidamente, sullo stile dei Blackbyrds, ma quasi sempre senza alcun accenno alla disco o al soul. I Voodoo Funk Project non mostrano alcun desiderio di ammiccare alla musica commerciale: il groove è il punto, puro e semplice, e perseguono il loro obiettivo svolgendo un lavoro straordinariamente valido. Gli assoli di Ed Jones si dimostrano un arma vincente affinchè il sound si mantenga jazzistico ed interessante ma il valore aggiunto dell’album risiede nell'interazione tra i quattro musicisti che appare eccellente in tutto Deep In The Cut. L’ascolto di un brano super funky come "This Is Where?" ne è la conferma: una vera chicca per chiunque apprezzi il tipico sound dell’acid jazz. In ogni caso i momenti intriganti sono numerosi e disseminati lungo tutto l’album, dall’inizio alla fine: da “Keep Your Face To The Sun” a “Memento” fino a “Midnight In The Corner” e al gran finale con “Zombie Dance”. Coloro che inorridiscono alla sola idea della contaminazione del jazz con il funk non cambieranno certo idea idea con un disco come Deep in the Cut, tuttavia questo è invece un lavoro essenziale per gli appassionati di acid jazz. Senza fronzoli e mirando dritto al groove, pur mantenendo una connotazione prettamente jazzistica, i Voodoo Funk Project illuminarono il 2005 con un album di indubbio valore. Purtroppo Deep In the Cut è rimasto la sola testimonianza della musica della band, che non ebbe seguito e si sciolse anche per gli impegni paralleli dei quattro musicisti coinvolti. E’ comunque un ascolto consigliato ed una valida alternativa al piatto panorama della musica dei nostri giorni.

Bluey – Tinted Sky


Bluey – Tinted Sky

"Quando le persone si relazionano con le mie canzoni, queste non sono più solo mie, diventano anche le loro". Con questa affermazione  il gran maestro di groove, cantante, chitarrista, compositore e produttore britannico Jean-Paul "Bluey" Maunick introduce il suo nuovo album solista intitolato “Tinted Sky”. E ribadisce il concetto dicendo: “La fantasia appartiene all'ascoltatore". Bluey è il genio creativo che ha costruito il formidabile progetto noto come Incognito, ovvero il più importante gruppo Funk/Jazz/Soul/Dance del mondo. È uno dei principali e pionieristici architetti dell’acid-jazz ed oltre a questo può vantarsi di aver lavorato con Stevie Wonder, James Brown, Chaka Khan, Leon Ware, Phillip Bailey e molti altri. Non contento di tutto ciò, il vulcanico Bluey ha anche messo in piedi i progetti collaterali Citrus Sun e Innershade e per completare il quadro ha già pubblicato due precedenti album da solista intitolati Leap Of Faith (2013) e Life Between The Notes (2015). Da talentuosissimo compositore, arrangiatore e chitarrista quale ha dimostrato di essere in oltre 30 anni di carriera, Bluey è adorato dai suoi fan e rispettato ed ammirato anche da coloro che non seguono l’acid jazz. Questo grazie alla sua onestà intellettuale, alla grande passione per la musica e ad una straordinaria dedizione verso il suo lavoro ed il groove: cose che sono percepibili in ogni nota, in tutte le sfumature armoniche, in qualsiasi delle sue soluzioni ritmiche. Il musicista mauriziano, nato però nel Regno Unito, ha dunque finalmente pubblicato il suo terzo disco, la nuovissima raccolta di composizioni originali nata dalla collaborazione con il fido Richard Bull (Incognito, Basia, Acoustic Alchemy, Maysa). Per coloro che sono abituati a conoscere il Bluey dell'ambientazione Incognito, sarà un piacere ascoltare questa sua anima più intima, così come era successo con i suoi 2 precedenti lavori da solo. Bluey confessa che lavorare in solitudine gli permette di scavare ancora più a fondo nella sua ispirazione e che questo alla fine è un modo "per sfuggire alla band". Parole sue: "Quando vivi in una famiglia numerosa, nella stessa casa, ogni tanto è bello fare le valigie nel cuore della notte e sparire dove nessuno conosce il tuo nome, vivere al di fuori del mondo e fare delle cose senza pensare al quadro generale". La caratteristica che ancora una volta distingue Bluey da tutti gli altri è la sua straordinaria capacità di creare melodie accattivanti arrangiate in modo originale e ritmicamente sempre interessanti. Tinted Sky non vuole far leva su niente altro che non sia la sua voce, la sua chitarra e la qualità sonora complessiva dell'album. C’è una precisa scelta di discontinuità rispetto agli Incognito, con delle atmosfere più semplici e un evidentemente limitato dispiegamento degli strumenti. In effetti tutto l'album è stato suonato da Bluey e Richard Bull. Tutto appare più asciutto, meno opulento ma non per questo dimesso o superficiale. L’album è stato creato al ritmo di una traccia al giorno dal concepimento fino al completamento della registrazione. Il mixaggio è stato poi fatto il giorno seguente. Ma un grande artista come Bluey ha delle influenze? La risposta è sì, ed è facile riconoscere gli echi di alcune delle sue fonti, quali ad esempio Curtis Mayfield, Shuggie Otis, Boz Scaggs, Marvin Gaye e perfino Hall e Oates, oltre agli scontati Stevie Wonder ed Earth,Wind & Fire. Le undici canzoni di Tinted Sky si susseguono con estrema fluidità e grande naturalezza: in semplicità eppure al contempo con la giusta profondità. La traccia introduttiva è anche il brano utilizzato per la promozione dell’album: "You Are The One" conquista al primo ascolto e accarezza come un soffio di brezza estiva. "Don’t Ask Me Why" è una bella canzone sulla fine dell’amore sottolineata dalla solita accattivante melodia. Tinted Sky prosegue poi con l'ipnotico "Back Here Again", che ammiccando allo smooth jazz fa da vetrina per la magia della chitarra di Bluey e per la sua proverbiale fluidità di scrittura musicale. "From the Break of Dawn” torna sul sentiero del formato canzone, fino al bel finale dominato dal synth di Richard Bull. L’album presenta anche un pezzo vincente come "Had To Make You Mine" che potrà facilmente entrare nelle classifiche internazionali: voce seducente e linee di basso funk irresistibili sono ingredienti che non possono non attrarre. "Make It Last Forever" colpisce per l’irrequietezza ritmica ed i cambi di atmosfera, mentre "Nobody Knows" è nuovamente un’occasione per apprezzare le doti di chitarrista di Bluey. Ma l’album è capace di regalare ancora momenti di grande musica con gli ultimi numeri del suo formidabile arsenale artistico: “Unaware”, "Crazy’ Bout You", la title track “Tinted Sky” e la bellissima “Floating World” che chiude il disco in maniera perfetta. Molte di queste canzoni sono lo specchio di una vita vissuta, di esperienze personali, di opinioni socio-politiche e commenti sull’attualità. Non si tratta solo di amore e banali canzonette, Bluey dimostra di poter andare oltre e di poterlo fare come sempre con un’impareggiabile maestria nel comporre musica e offrirla all’ascoltatore nella migliore veste possibile. Il capostipite del movimento britannico dell’acid jazz e di quello del jazz funk ha fatto ancora centro. Grazie di esistere mister Incognito, Jean-Paul "Bluey" Maunick, senza di te la scena musicale sarebbe certamente più povera e triste.

Eric Marienthal – It’s Love


Eric Marienthal – It’s Love

Il più iconico e popolare tra gli strumenti del jazz è senza dubbio il sassofono. E innumerevoli sono i grandi musicisti che hanno illuminato la scena mondiale proprio grazie al loro talento nel suonare un sax: tenore contralto o soprano che fosse. Tra i tanti grandissimi artisti venuti alla ribalta a partire dai primi anni ’80 c’è anche Eric Marienthal. Eric è un sassofonista californiano classe 1957, di grande esperienza e di indubbio talento. Fin da bambino manifestò una grande passione per la musica, tanto che già  durante il periodo scolastico  ebbe il primo contatto con il suo futuro strumento. Parole dello stesso Eric: “pensavo che il sax fosse piuttosto bello", non aveva torto dato che per forma e timbrica si tratta di uno strumento davvero molto attraente. Inoltre il giovane Marienthal rimase colpito dalla musica che suo padre ascoltava in casa, in particolare quella degli anni '40 e '50, erano artisti come Boots Randolph, Nat King Cole e Frank Sinatra. In verità a Eric piaceva anche la tromba ma fu il suo insegnante ad insistere affinchè si impegnasse definitivamente con il sax e così alla fine suo padre gliene comprò uno di marca Selmer. I suoi studi musicali da brillante studente culminarono con il diploma al Berklee College of Music, dal quale uscì con il massimo dei voti. Da quel momento in poi la carriera artistica del bravo Marienthal non ha conosciuto soste ed è andata sempre in crescendo, al punto da renderlo uno dei più rinomati e talentuosi sassofonisti dei nostri tempi. Ma Eric Marienthal non va solamente annoverato tra i migliori talenti della sua generazione, è anche uno dei musicisti più impegnati e richiesti del jazz contemporaneo. Con 15 album solisti all’attivo ed innumerevoli collaborazioni e apparizioni nei lavori dei più grandi artisti odierni si può indubbiamente riconoscere al sassofonista californiano un grande successo personale, in gran parte dovuto ad una timbrica personale ed incisiva ma anche in virtù di una notevole personalità. It's Love è il penultimo lavoro solistico di Marienthal, uscito nel 2012 mentre il sassofonista era impegnato contemporaneamente con il gruppo Jeff Lorber Fusion (nello specifico per la registrazione dell’album Galaxy). Entrambe i dischi riflettono il talento multiforme di Marienthal, sia come improvvisatore creativo che come interprete del jazz contemporaneo, con un forte richiamo al funk groove. It's Love è stato prodotto dal chitarrista Chuck Loeb, che appare anche tra protagonisti dell’incisione. La band è composta da musicisti di grande spessore come il tastierista degli Yellowjackets Russell Ferrante, il batterista Gary Novak e il bassista Tim Lefebvre. Una delle passioni musicali di Marienthal è il soul e non a caso il brano di apertura dell'album è una bella cover dell'iconico pezzo "Get Here" di Brenda Russell. Introdotto dal pianoforte di Ferrante, il contralto di Marienthal entra direttamente nel cuore della melodia con un grande impatto emozionale: un flusso lirico impressionante che non era facile da interpretare nel contesto dello smooth jazz. Ma la disciplina di Eric lo rende onesto e lascia che il sentimento proprio della bella canzone arrivi fino all'ascoltatore, senza esibizionismi o eccessi di alcun genere. Ma ancora meglio Marienthal riesce a fare sulla rilettura in chiave  contemporanea del meraviglioso standard "In a Sentimental Mood" di Irving Mills: davvero il brano non assomiglia a nessuna versione che possiate aver ascoltato in tempi recenti.  Si parte con un intro di chitarra di Chuck Loeb che evoca Wes Montgomery e quindi la scena passa nelle mani di Russell Ferrante e soprattutto al sax di Marienthal: ne risulta una cover indimenticabile. It’s Love è una bella e romantica ballata scritta a quattro mani da Marienthal e Loeb, mentre "Two in One" è un pezzo midtempo ricco di groove in cui Eric si esibisce al sax soprano. "Babycakes" e "St. Moritz" sono altri due brani interessanti in questo caso composti dal sassofonista insieme con Jeff Lorber. Il primo ricorda i Crusaders dei primi anni ‘70, con Marienthal a prendere spunto da Wilton Felder e Loeb ispirato da echi di Larry Carlton. Su "St. Moritz", la tromba di Till Brönner aggiunge profondità e ulteriore lirismo tra le atmosfere caraibiche e i momenti più funky. It's Love è un album molto rilassato, orecchiabile ma solido: l’arrangiamento è di prim’ordine e l’esecuzione impeccabile. Al contrario di altri progetti di smooth jazz, pur risultando come da prassi, patinato e curatissimo, può vantare delle interessanti declinazioni emotive, e non manca mai in termini di passione e di groove. Marienthal è un sassofonista dalla timbrica calda ed avvolgente che vale certamente la pena di ascoltare con attenzione, gustandosi ogni sfumatura del suo fraseggio. Insieme ad altri due fenomeni del sax contralto come David Sanborn ed Everette Harp si distingue dalla massa come uno dei migliori specialisti in circolazione.

Pete Belasco – Lights On


Pete Belasco – Lights On

Per coloro che non hanno familiarità con la musica e lo stile di Pete Belasco, l'album "Lights On" del 2012 sarà sicuramente una rivelazione. Una rivelazione dai contenuti così intriganti che spingerà alla ricerca dei due precedenti lavori e sicuramente anche dell’ultimo Strong And Able del 2019. Il talentuoso cantautore e musicista di New York ha fatto il suo debutto nel lontano 1997 con "Get It Together" che, all'epoca, fu descritto come un "brillante esempio di R&B, blues e jazz fusion". Pete, ha uno stile vocale che rimanda immediatamente a Marvin Gaye e Curtis Mayfield, e fin da subito è stato inserito nella lista dei nuovi artisti responsabili del fenomeno comunemente indicato come neo soul. Più che il primo disco, forse ancora immaturo, è stato il secondo cd del 2004, intitolato "Deeper" a suscitare un notevole interesse sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, complici alcune composizioni molto accattivanti come "Hurry Hurry", "Keep On" e "Wonderful Woman". Sedimentato il successo per oltre sette anni, Belasco ritornò finalmente sul mercato discografico nel 2012 con "Lights On", ricreando  nuovamente la sua originale miscela di jazz, R&B e soul. Un album sontuoso questo "Lights On": magicamente seducente. Esattamente com’è nelle corde artistiche di Pete Belasco, anche qui si ritrovano quelle atmosfere ovattate, morbide, quasi vellutate che permettono alla voce pigra del cantante di esprimersi al meglio. A volte ricorda Smokey Robinson, a tratti, come detto, Marvin Gaye o ancora Curtis Mayfiled. La carriera musicale di Belasco è iniziata come pianista, anche se alla fine si è concentrato sul sassofono, suonando in varie band durante il liceo e studiandolo al college. Uno sfortunato incidente in cui Pete si ruppe entrambe le mani finì per essere la causa involontaria della svolta verso il canto. Con un stile di canoro sempre piacevole, anche se occasionalmente per così dire "assonnato", Belasco è un artista capace di coinvolgere nel segno del minimalismo e della delicatezza, grazie anche alla qualità intrinseca delle sue composizioni. Ecco perché il risultato è quasi sempre sbalorditivo e la magia del suo cocktail di voce e pochi ma ben collocati strumenti risulta così spesso vincente. I suoni sono deliziosi, e nel complesso questo vale anche per gli arrangiamenti, in cui spicca un uso massivo del piano elettrico. Si respira un aura di raffinatezza, ed è incredibile come pur insistendo su un’atmosfera rilassata al limite del pigro, non ci si annoi mai, ma al contrario si è quasi spinti a prolungare l’ascolto.  L'album prende il via con il fantastico "I Ain’t Doin It", che evidenzia la sensualità di Belasco. Il taglio del brano è relativamente semplice ma sono proprio quel candore e quella profondità che rendono “I Ain't Doin’ It ” un formidabile inizio, dando un’impronta inconfondibile a tutto il disco. "Lights On" è un pezzo altrettanto affascinante a cavallo tra smooth jazz e R&B contemporaneo, con un sound e una produzione incantevoli. "Rock It" cambia in modo intelligente il leit motiv del disco, alimentando un mood più jazz anche se pur sempre leggero. Il falsetto di Belasco è accattivante, così come sono belle le sue linee di piano acustico.  "Just Me" è una dimostrazione del virtuosismo di Pete al sax, al piano, oltre che alle percussioni. Dolcissima è ancora "My Eyes" che brilla particolarmente offrendo un buon groove ed una fine progressione armonica grazie anche al sapore latino della ritmica. Altrettanto evocativo è il brano "Later" che non sarebbe fuori posto in una registrazione dei Miracles. Tra l’altro è molto interessante e suggestivo l’uso che viene fatto dei fiati, un aggiunta “intelligente” negli arrangiamenti del cantante newyorkese che per buona misura non ne abusa mai. Sia "Stubborn" che "Repay You" giocano sugli stessi toni che dominano tutto l’album: delicatezza e sensualità. Lo stesso feeling che caratterizza due brani leggermente più mossi come "Down" e "Sweeter" dove è sempre il romanticismo a farla da padrone. "One" conferma che Marvin Gaye è una fonte d’ispirazione certa, per quanto declinata in modo personale, mentre la chiusura dell’album è affidata al brano più inusuale di tutto il disco intitolato "Who’s The Man". Lights On è un album che suona sempre raffinato e avvolgente, così come va riconosciuto a Pete Belasco di essere un musicista di classe, in grado di scrivere solide composizioni. Il suo inconfondibile falsetto, la scrittura così minimal eppure completa ed il suo talento nel suonare vari strumenti sono la sintesi della statura di un artista. Se si vuole proprio trovare il pelo nell’uovo gli si può forse imputare la mancanza di un po’ di brio in più, cosa che avrebbe contribuito a meglio sviluppare alcune intuizioni melodiche. Indipendentemente da ciò, il fascino di Belasco sta proprio nel suo approccio romantico e rilassato: nel suo caso questa è una precisa scelta stilistica. Un taglio al quale il cantante non vuole rinunciare ed al quale resta ancorato senza compromessi e con grande integrità da oltre 23 anni.

Malcolm Strachan – About Time


Malcolm Strachan – About Time

Sebbene abbia iniziato come musicista jazz, studiando al Leeds College of Music, il trombettista scozzese Malcolm Strachan ha trascorso praticamente tutta la sua carriera suonando come session man per una grande varietà di artisti non direttamente coinvolti nella musica afroamericana per eccellenza. Tra questi posso citare Mark Ronson, Amy Winehouse, Corinne Bailey Rae, Cinematic Orchestra e i famosissimi Jamiroquai. Parallelamente ha partecipato fin dall’inizio al progetto The Haggis Horns, un settetto orientato al funk di cui ho parlato poco tempo fa e che rappresenta uno dei migliori esempi attuali di questo genere. Tuttavia Strachan ha sempre desiderato scrivere e registrare un album di jazz in prima persona e finalmente oggi quel sogno è diventato realtà con About Time. Un titolo che in parte riflette il lungo viaggio che Malcolm ha compiuto professionalmente in questi ultimi 20 anni. Le atmosfere di “About Time” si distaccano nettamente dal funk-groove degli Haggis Horns, poiché qui il trombettista da libero sfogo alla passione per il jazz convenzionale, e nel farlo si fa carico di tutte le composizioni come pure di tutti gli arrangiamenti del disco. Uno dei punti forti di questo lavoro del trombettista scozzese è la sua “spudorata” eleganza commerciale. Si potrebbe dare a questo giudizio un’accezione negativa, e tuttavia sarebbe sbagliato: la godibilità di questo album è davvero adatta ad ogni palato, da quello più esigente a quello meno smaliziato. I brani mantengono una lunghezza più che accettabile, non sono mai debordanti e gli arrangiamenti sono equilibratamente studiati (anche quelli con l’orchestra, quando presente). C’è un tocco di modernità e in qualche momento Strachan non disdegna di citare il tanto amato funk, ma di fatto si tratta di un album di buon jazz. Non necessariamente questo genere deve rispondere a criteri di difficoltà musicale a tutti i costi e non è giusto essere sospettosi se da appassionati ci si imbatte in qualcosa che suona immediatamente fruibile. D’altra parte è noto quanto il jazz sia solitamente riservato ai suoi gelosi cultori ed anche come per l’ascoltatore occasionale sia opportuno maneggiarlo con cura. In questo caso si può ragionevolmente sostenere che Malcolm Strachan abbia raggiunto un favorevole compromesso tra l’anima più colta e complessa e quella più accessibile del jazz stesso. Il nucleo della band, in queste registrazioni, è composto dal leader accompagnato da George Cooper (pianoforte), Courtny Tomas (contrabbasso) ed Erroll Rollins (batteria). Il quartetto è poi arricchito in vari momenti del disco da altri musicisti: ad esempio, nella traccia di apertura Take Me to the Clouds possiamo ascoltare Atholl Ransome al sassofono tenore, Danny Barley al trombone e Karl Vanden Bossche alle percussioni. Ransome, Rollins e Cooper sono tutti membri degli Haggis Horns, quindi è chiaro da dove provenga lo straordinario interplay e la coesione di questo ensemble. L’iniziale e vivace Take Me To The Clouds, o la più sommessa Aline, evocano le colonne sonore italiane degli anni ‘60 e ‘70, mentre in altre occasioni il respiro degli arrangiamenti ci conduce oltre Oceano, al jazz dei grandi pionieri della storia di questo genere come accade in Mitchell’s Landing. L'influenza degli anni passati a suonare funk si fa sentire su un brano come Time for a Change, che gioca tutto sul groove, con un riff di fiati accattivante, morbido e senza eccessive ruvidità. Così succede anche in Uncle Bobby’s Last Orders. La delicatezza non manca, complice anche l'aiuto degli archi di Richard Curran che è responsabile di questi specifici arrangiamenti: ad esempio in I Know Where I’m Going, in cui qualcuno potrà rinvenire un tocco di Herb Alpert provenire dalla tromba del leader. Aline, la melodia che Stachan ha scritto in memoria di sua madre, morta a 38 anni, è un'altra composizione affascinante e distensiva. Si respira un’atmosfera di qualità in ogni aspetto di About Time: la produzione è limpida e ariosa, e Malcolm Strachan si rivela un musicista completo quando si cimenta al pianoforte nel brano Just The Thought of You o nella riflessiva ballata Where Did You Go? Questo è un bellissimo album, ricco di sfumature, in qualche misura anche inusuale considerando le esperienze passate di Malcolm Strachan. In tutto il lavoro sono piacevoli le variazioni dei temi e dei ritmi che spaziano con disinvoltura dalle vibrazioni latine alle bellissime ballate, dai groove funky-soul alle atmosfere cinematografiche, tutti pregevolmente condotti da un grande gruppo di esperti musicisti. Roba di classe, niente da dire. Il jazz è sempre stato la grande ed intima passione di Strachan, ma il funk, il soul, anche il pop sono stati per anni il suo lavoro quotidiano. Fino ad ora. Adesso l’attesa è finita, il jazz è tornato.

Urban Soul – Nothing Is Impossible



Urban Soul – Nothing Is Impossible

Allontanandosi dal rigore formale del jazz classico ed entrando di conseguenza in quel vasto mondo, più commercialmente appetibile, che oggi chiamiamo smooth jazz , ciò che troviamo è uno stile musicale estremamente variegato ed in alcuni casi non privo di interesse.  Se da un lato il richiamo al jazz è forte e ben presente dall’altro l’estrema eterogeneità dello smooth jazz è di certo fonte di contaminazione da parte di moltissime influenze per così dire “leggere” che vanno dal soul al funk, dal rock melodico all’r&b. Sono davvero innumerevoli i grandi artisti che hanno navigato con la loro arte su entrambe le sponde di questo vasto mare, da Larry Carlton a Kenny G o Al Jarreau, attraverso Bob James, Lee Ritenour, Bobby Lyle, David Sanborn, Ramsey Lewis, Spyro Gyra, Brian Culbertson, Kirk Whalum, Dave Grusin ed un lunghissimo elenco impossibile da stilare per intero. Sebbene non sia un fan accanito dello smooth jazz e abbia spesso preferito concentrarmi su stili più ricercati e storicamente maggiormente ricchi di valori, riconosco a questo sotto genere una sua eleganza formale nonché una apprezzabile propensione per un approccio gradevolmente melodico. E d’altra parte va riconosciuto che la gran parte della musica che viene attualmente prodotta non vira quasi più verso il jazz convenzionale in favore di una commistione continua tra generi affini: di sicuro alla ricerca di una maggiore fruibilità ma anche allo scopo di far emergere, se possibile, nuove forme espressive. Gli Urban Soul rientrano alla perfezione in questo contesto: loro sono una coppia di musicisti svedesi, il trombettista Jonas Lindeborg e il sassofonista Andreas Andersson, che per dare vita al loro progetto hanno voluto circondarsi di un buon numero di grandi nomi dello smooth jazz, modellando così un valido esempio di jazz contemporaneo. Va loro riconosciuta una grande competenza musicale e al contempo quell’onestà intellettuale che sta alla base di ogni buono sforzo artistico. Autoprodotto e concepito nella sua interezza dagli stessi Urban Soul, 'Nothing Is Impossible' è un album di spessore, composto da 10 brani, che includono pezzi strumentali ma anche qualche episodio cantato. Nello specifico le voci più importanti sono quelle di Bill Champlin e Michael Ruff, cioè non proprio gli ultimi arrivati e non a caso paladini di quel genere denominato West Coast che tanta buona musica ha regalato negli anni ’70 e ‘80. E poi è da sottolineare il contributo alle tastiere del concittadino svedese del duo, Jonathan Fritzen e quello alle chitarre del bravo Peter Friestedt anche lui scandinavo. Il duo svedese ha quindi riunito una band fortemente orientata verso lo smooth jazz con il preciso intento di suonare la musica che più di ogni altra ha influenzato il loro stile e che risulta essere più vicina alla loro reale ispirazione. Il progetto Urban Soul è un viaggio interessante e non privo di una sua originalità nelle atmosfere morbide e suadenti del jazz contemporaneo, declinato attraverso una visione più emozionale che tecnica ed anche per questo meno fredda di altri prodotti musicali paragonabili. L’ascolto è la migliore via per apprezzare appieno quale strada hanno intrapreso questi due musicisti europei, partendo da quella Svezia che si conferma essere il terzo polo più importante nella discografia mondiale. I brani sono tutti piuttosto intriganti, a partire da quella perfetta introduzione all’album che sono "M Avenue" e  “The Wall”: due pezzi che sono un vero e proprio manifesto di come dovrebbe suonare idealmente oggi lo smooth jazz.  E poi ci troviamo al cospetto della maestria vocale del grande Bill Champlin, che arricchisce di toni West Coast  la bella ballata "Hands Of Love". Gli Urban Soul seducono con i ritmi dal sapore latino accennati in "We Didn’t Know” completata dalla suadente voce di Sara Nordenberg. Michael Ruff presta il suo splendido talento alla ballata "Dearest Child", un brano delicatissimo che culla dolcemente l'ascoltatore con grande sensibilità. “1989” è uno splendido esempio di contemoprary jazz, ritmicamente e armonicamente perfetto, nel quale la chitarra di Peter Friestedt non può non essere ammirata ed apprezzata. “Finally” è nuovamente una ballata, lenta e discreta ma piena del fascino emanato sia dagli incisi strumentali ed anche e soprattutto dalla voce di Lovisa Lindkvist che quasi invita a sognare pomeriggi assolati e candide spiagge. Un sogno in musica che continua con "Open Arms", una cover basata su tromba e sax sul bellissimo tema dei mitici Journey. Sono certo che non mancherete di apprezzare la sonorità della tromba di Jonas Lindeborg e la voce del sax di Andreas Andersson che si distinguono lungo tutto il dipanarsi di Nothing Is Impossible con sobrietà e ottima tecnica. Se siete dei cultori dello smooth jazz e ancora non conoscete gli Urban Soul questo album è un’ottima occasione per concedere un ascolto attento al duo svedese e godersi 40 minuti di ottima musica. Tuttavia un disco come questo è perfettamente godibile anche da un pubblico più incline ai più difficili scenari del jazz convenzionale e risulterà gradevole ed accattivante anche per una platea più vasta di ascoltatori maturi.

The Haggis Horns – What Come To Mind


The Haggis Horns – What Come To Mind

Quasi tutti conoscono la musica degli anni '70, in tanti hanno ricordi legati a quella incredibile stagione di grandi fermenti: insomma chi non ama quel decennio? Molti degli artisti più importanti e rispettati di tutti i tempi hanno avuto il loro massimo splendore in questo magico arco di 10 anni che va dal 1969 al 1979, e molti generi intramontabili sono nati proprio in quel preciso periodo: tra questi uno di particolare interesse è il funk. Nei suoi momenti d'oro, il funk (insieme al diametralmente opposto progressive rock) fu uno dei generi musicali più popolari e diffusi anche grazie alla presenza creativa di gruppi notevolissimi come Earth, Wind and Fire, Parliament-Funkadelic, Kool and the Gang, The Ohio Players, Tower Of Power, BT Express, Chicago. Questi ed altri ancora scuotevano le classifiche ed animavano le discoteche degli anni '70, caratterizzando profondamente le tendenze musicali e influenzando anche il costume dell’epoca. E nella loro musica c’era molto di più del semplice divertimento: c’era tecnica, virtuosismo, qualità compositiva, originalità ed energia. Gli anni ’80 cambiarono lo scenario ed il funk perse molto della sua carica innovativa, andando via via con lo sfumarsi sempre di più e finendo più che altro col fondersi con altri stili e generi. Anche per queste ragioni, di questi tempi, il funk non ha la stessa popolarità di una volta e non attira l’attenzione del pubblico come accadeva 50 anni fa. Inoltre anche quando esce un album degno di nota, spesso è eccessivamente pervaso di elettronica, sinth, sequencer e campionamenti. La conseguenza è una carenza di corpo e di passione: di certo, tranne rare eccezioni, ci si scopre a rimpiangere le chitarre, i bassi e soprattutto le magnifiche sezioni fiati che fecero la fortuna delle band degli anni ‘70. Ebbene il funk perduto, il sound genuino e gagliardo degli artisti oggi definiti vintage è esattamente il territorio dove lavorano oggi gli Haggis Horns. Gli Haggis Horns sono una band scozzese di 7 elementi, specializzata nel sottogenere noto come "deep funk" che è fondamentalmente la forma di funk che tutti gli appassionati vorrebbero sempre ascoltare. Un tipo di musica ricco di sentimento, senz’altro più grintoso, in generale più aspro e diretto di molte altre forme edulcorate e tropo patinate in voga di questi tempi. Questi scozzesi innamorati del vintage sound possono a buon titolo fregiarsi del fatto di essere sintonizzati sulla giusta lunghezza d’onda sia per le qualità tecniche che per lo stile e l’energia che sprigionano. I membri della band hanno lavorato con gli artisti più famosi tra quelli che il funk lo hanno frequentato e con esso possiedono una reale familiarità come Jamiroquai, John Legend, The Roots, Amy Winehouse, Mark Ronson, o perfino i Duran Duran, solo per citarne alcuni. Se si vuole parlare del loro sound, gli Haggis Horns possono tranquillamente essere catalogati come funk con una attitudine verso il jazz, e in questo album sembrano quasi voler superare i loro limiti. Su What Come To Mind la band combina con disinvoltura ed uguale maestria sia brani strumentali molto trascinanti come "Return of the Haggis" che pezzi R&B più lenti e passionali come "Give Me Something Better" fino ad arrivare ad omaggi disco come "Digging in the Dirt". L’alchimia ed il fascino di questo gruppo sono dovuti principalmente al fulcro del loro sound che risiede nella magnifica sezioni fiati. Sono trombe, tromboni e sax a risultare la forza trainante dietro a tutti i brani di questo album ed ancor di più durante le loro esibizioni dal vivo. Sono musicisti esperti che conoscono i loro strumenti e amano fare ciò che fanno, il che si traduce in una gioiosa macchina da guerra che non solo suona sempre perfettamente a fuoco in ogni circostanza, ma riesce immancabilmente ad innescare un senso di divertimento e dinamicità nell’ascoltatore. Ciò che viene evocato dagli Haggis Horns è un grande omaggio al funk di un tempo fatto con grande credibilità ed una bella dose di originalità da dei seri  professionisti. Il  "deep funk" della band scozzese è apprezzabile per la genuina e rigorosa interpretazione che gli Haggis Horns riescono a darne: tanto diretta e ruvida quanto deliziosamente accessibile. Un jazz funk “cantabile” abbastanza leggero per essere suonato anche in una discoteca o in una serata in casa con gli amici, ma al contempo sufficientemente intenso e virtuoso per essere apprezzato anche da un pubblico più vicino al jazz. Un progetto divertente, elastico, non cervellotico eppure nemmeno banale o semplicistico. Dopo aver conosciuto gli Haggis Horns avrete la certezza che il funk non è mai realmente uscito di scena, sta semplicemente cambiando i suoi protagonisti. 

Omar Hakim & Rachel Z - The Trio Of Oz


Omar Hakim & Rachel Z - The Trio Of Oz

Scoprire casualmente il progetto The Trio of Oz di Omar Hakim e Rachel Z  è stato uno di quei piaceri inaspettati che di tanto in tanto si verificano, specialmente se si è avidi ricercatori di musica. Non avevo avuto occasione in precedenza di imbattermi in questo lavoro del 2010, ma dopo aver saggiato le qualità di questo trio sono contento che sia successo. Il batterista Omar Hakim, dopo aver pubblicato un paio di album da solista non proprio esaltanti a causa di una chiara vocazione commerciale, ha finalmente trovato una formula che mi è apparsa subito molto convincente. Per dare finalmente una svolta alla sua produzione artistica in un modo che fosse degno del suo indubbio talento, Omar ha messo insieme una mini band denominata Trio Of Oz e quello di cui vi parlo è purtroppo il loro primo e finora unico album. D’altra parte Hakim ha un curriculum che parla da solo: ha suonato con Miles Davis, Herbie Hancock ed i Weather Report, ma l’elenco delle sue collaborazioni (anche fuori dal mondo del jazz) sarebbe davvero troppo lungo da riportare. Universalmente apprezzato per la sua versatilità, l’abilità tecnica ed il magnifico groove che è in grado di sprigionare, Omar Hakim è uno dei batteristi e session man più importanti degli ultimi quarant’anni. Trio Of Oz nasce grazie al sodalizio (non solo artistico) con la pianista Rachel Nicolazzo (alias Rachel Z.), completato da un’altra donna: la contrabbassista Maeve Royce. I tre musicisti hanno creato un album emozionante e per certi versi anche inatteso. Sia Hakim che Rachel hanno in passato frequentato territori molto lontani dal jazz, in alcuni casi davvero in antitesi. Ma qui si concretizza una sorta di miracolo musicale poiché la scelta dei brani pescati dal mondo del rock farebbe presagire esiti molto diversi. Ed invece eccoci davanti ad un incontestabilmente vero disco di jazz. Un jazz moderno ma rispettoso della tradizione dove l’alternanza degli stati d’animo passa dalla tensione alla malinconica dolcezza, dalla gioia di vivere alla riflessione, spingendo magneticamente a scoprire quello che verrà dopo. Qualcuno potrebbe obiettare che l’album non contiene composizioni originali ma solo covers. Bene, questo è senza dubbio vero, ma il consiglio è quello di ascoltare con la mente aperta: i temi e le melodie sono firmate da altri, ma una volta che il trio ha finito di presentare la traccia di base dei brani (ovviamente nell’idioma jazzistico), non ci sono più regole e strutture. Si entra nel regno di Oz… e la magia ha inizio davvero. E in quel preciso momento non importa che tu sia o no un fan degli artisti responsabili di queste canzoni (tra cui "Lost" dei Coldplay, "In Your Room" dei Depeche Mode, "King of Pain" dei Police, "Sour Girl" dei Stone Temple Pilots, "Angry Chair”di Alice In Chains, e "I Will Posses Your Heart" di Death Cab For Cutie). Il Trio di Oz li prende e li fa propri. Di fatto dopo pochi secondi di ascolto non si può fare a meno di rimanere colpiti dal sound e dal groove che scaturisce dalla band. Il batterista Omar Hakim dimostra una volta per tutte che il suo talento è eccezionale ed il suo modo di suonare è uno dei più spettacolari dei nostri tempi, anche se si esprime con la lingua del jazz e non solo quella della fusion o del funk. E’ il paradigma del drumming moderno, in grado di spaziare tra stili e generi diversissimi con la stessa naturale disinvoltura: un modello di riferimento per chiunque si approcci alla batteria. Lui ha anche gestito in prima persona il mixaggio dell'album e supervisionato la registrazione in ogni suo aspetto: semplicemente Hakim ha colto perfettamente l'atmosfera del Trio. Il risultato è un disco nitido, preciso e immediato, esattamente come dovrebbe essere. Mi piace sottolineare quanto sia degno di nota il suono di contrabbasso di Maeve Royce, che ha svolto un lavoro eccezionale non tanto in termini di volume, quanto di sensibilità e tecnica. A proposito, Maeve Royce ha di certo un curriculum meno impressionante di Hakim e Rachel Z, ma il suo basso acustico si integra alla perfezione con il trio, dando una spinta significativa ad ogni brano. Basta porre l’attenzione ad esempio ai suoi adorabili passaggi con l’archetto su "Det Tar Tid" o godersi la sua introduzione perentoria ed accattivante di "I Will Possess Your Heart". O ancora quando si destreggia con un brano di pura estrazione rock blues come "Whipping Post". Il già citato "I Will Possess Your Heart" mostra anche lo speciale tipo di potenza pirotecnica che Hakim è in grado di scatenare con la sua batteria. Rullate selvagge, ma totalmente in controllo, con Rachel Z che mantiene un solido sottofondo di accordi su cui imbastire intrecci ritmici tanto arditi quanto ipnotici. E poi non si può ovviamente non parlare di Rachel Z stessa, che in carriera ha collaborato con alcuni grandi del jazz come Wayne Shorter, Larry Coryell e Al Di Meola e nel contesto del trio sembra trovarsi davvero a suo agio. Il suo stile pianistico con il Trio of OZ spazia dai lontani echi di Monk alle sequenze veloci dal sapore di bebop. Riversa nell'esecuzione, con intelligenza e ottima tecnica, deliziose cascate di note che si amalgamano sulle trame ritmiche dei suoi compagni d’avventura. Vola sulla tastiera con la grazia e l'immaginazione di Keith Jarrett senza risultare mai una vana imitatrice. Attraverso Trio Of Oz, Omar Hakim e Rachel Z cercano di conciliare due anime contrastanti come il jazz ed il rock, scegliendo una via non facile, e cioè quella che vede prevalere lo stile più colto e raffinato su quello più popolare e diretto. Le collaborazioni che i due hanno avuto con numerosi artisti pop/rock hanno evidentemente sortito un effetto benefico. Lo scambio e l’interazione tra le due culture musicali è servito da trampolino per la creazione di un nuovo modo di coniugare due mondi tanto diversi. Quello che ne esce è una sorta di ibrido mutante, un soggetto musicale che cerca di catturare il divertimento del rock senza compromettere l'integrità colta del jazz. In realtà, alla prova dell’ascolto, il Trio Of Oz fa pendere l’ago della bilancia sonora molto più dalla parte del jazz che verso quella di altre forme musicali moderne. Si rifugge dalla trappola dell’ipertecnicismo a tutti i costi, si evitano le chitarre funamboliche, i sintetizzatori, i volumi eccessivi e la ricerca del virtuosismo ad effetto. La strada è invece quella di una pacata ed intelligente rilettura del classico trio jazz nella quale Hakim e Rachel Z, insieme a Maeve Royce, sembrano piuttosto ridefinire il concetto di "jazz rock" con una formula avvincente e piena di passione che tuttavia, pur profumando di contaminazioni, resta saldamente nel solco della tradizione. Però il bello del Trio Of Oz sta proprio nel fatto che ogni volta che il jazz pare sul punto di risultare troppo conservativo o incatenato nei suoi schemi i tre musicisti fanno uno scatto in avanti,  trovando quel delicato equilibrio tra il retaggio del passato e la spinta verso il futuro. Consigliato a tutti.

Lalo Schifrin – Black Widow & Towering Toccata


Lalo Schifrin – Black Widow & Towering Toccata

Cosa hanno in comune il tema originale di Mission Impossible, la colonna sonora di Bullitt o quella della saga dell’Ispettore Callaghan, la sigla del popolarissimo Starsky & Hutch, la musica di Organizzazione U.N.C.L.E. o ancora quella di Mannix ? Sono tutte opera del talento creativo di Lalo Schifrin, un compositore e pianista argentino che dalla metà degli anni ’60 ha musicato un numero enorme di film, molte serie televisive e contemporaneamente ha pubblicato anche una trentina di album. Se alcuni temi musicali entrano nell’immaginario collettivo ed a distanza di anni non smettono di catturare l’attenzione degli ascoltatori, per Schifrin forse parlare di genio non è poi così azzardato. Nel suo caso a quanto detto si aggiunge un’attività di compositore di musica per balletti, da camera, orchestrale e perfino quella di pianista jazz. A questo punto se avete una passione per gli anni '70, per il jazz rock e per il sound delle colonne sonore poliziesche, d’azione e di spionaggio l’ascolto di questo cd è praticamente obbligatorio. Lalo Schifrin registrò Black Widow nel 1976 e fu il suo debutto per la leggendaria etichetta CTI. Subito a seguire incise anche Towering Toccata che fu pubblicato però nel 1977. Entrambi questi album riuniti qui in unico cd, presentano alcuni dei più grandi musicisti jazz di quel periodo tra cui Eric Gale, Steve Gadd, Hubert Laws, Jon Faddis, Anthony Jackson e Joe Farrell, solo per citarne alcuni. Tenendo fede al suo caratteristico stile, Schifrin innesta un'atmosfera funk jazz su alcuni classici temi cinematografici e tra questi anche a Jaws di Steven Spielberg, ma non solo. Lo Squalo, (come fu chiamato in Italia) mantiene una sua freschezza ancora oggi, e arrivò al numero 14 nella classifica dei singoli nel Regno Unito. Lo stesso album Black Widow è andato molto bene come vendite, raggiungendo il numero 22 nella hit americana jazz. Anche grazie al buon risultato commerciale e incoraggiato dalla positiva reazione del pubblico, Schifrin registrò quasi subito il seguito ideale di Black Widow, intitolato Towering Toccata. Si tratta di un'altra collezione di groove fluidi, disco funk, fusion e jazz rock oltre che di alcuni temi rielaborati per adattarsi al concetto generale dell'album. Ad esempio c’è la versione da discoteca del tema di King Kong, firmato John Barry, che a sua volta ha riscosso un certo successo. Entrambi questi album sono oggi giustamente considerati dei classici. Ma il vero tesoro non lo si trova in queste pur interessanti rielaborazioni, bensì nei brani originali, quelli che incarnano al meglio l’essenza del jazz funk. Ovviamente possono suonare datati, in fondo sono un prodotto del loro tempo e lo specchio di una certa generazione, tuttavia hanno ancora un fascino irresistibile e contengono spunti musicali che non possono lasciare indifferenti. Al contrario hanno quell’esatto mood che oggi definiamo vintage sound o chiamiamo rare grooves. Basta guardare indietro nel tempo con interesse ed immergersi in quel mare di nostalgia e ricordi che questi due intriganti album possono offrire per godere appieno del loro grande valore. Black Widow e Towering Toccata si completano perfettamente a vicenda: al punto che inseriti in questo modo su un unico supporto quasi non si avverte un vero punto di separazione da un album al successivo. Tutto scorre senza soluzione di continuità e con una affascinante sensazione di raffinatezza storica. Tra l’altro la qualità audio di questo cd è straordinariamente pulita e chiara, senza alcuna evidenza di distorsione. Le sezioni fiati sono precise, i bassi sono profondi e la dinamica generale appare ben bilanciata, perfettamente naturale, pur essendo vecchia di 40 anni. Non resta che lanciarsi nell’ascolto con la certezza di trovarsi al cospetto di una straordinaria galoppata musicale in grado di combinare la destrezza musicale del jazz con i ritmi del funk e della dance, ma quella sofisticata. L’abilità di Lalo Schifrin come arrangiatore è ovviamente di alto livello e le sue doti di tastierista non possono essere sottovalutate. Anche per questa ragione è difficile dire se sono preferibili le cover oppure i brani originali: Schifrin ha questa innata capacità di riuscire a rielaborare i temi trasformandoli in qualcosa di diverso. Gli esempi citati prima (Jaws e King Kong) ne sono una dimostrazione, ma anche "Quiet Village" e "Moonglow & Theme From Picnic" restituiscono le stesse emozioni. Personalmente però ho una predilezione per i brani originali del compositore argentino: siano essi colonne sonore o pezzi realizzati appositamente per essere inseriti in un album. E’ qui che il groove diventa incontenibile, il funk regna sovrano e l’approccio jazzistico si fa più evidente. Il potere evocativo e, per così dire cinematico dei numerosi brani da non perdere di questi due album è costante. Grazie alla suggestione della musica ogni volta sembra di assistere ad un forsennato inseguimento, oppure ci si aspetta un complotto spionistico, o ancora quasi si può seguire un indagine di polizia. Paradigmatico in proposito è proprio il brano Black Widow: un intreccio di archi costruito sapientemente attorno a un groove di basso funky che si arricchisce di bordate di fiati e tocchi di piano elettrico. La stessa architettura che viene declinata in ogni variante possibile anche su altri splendidi pezzi come Dragonfly, Turning Point, Baja, Tabù. Il passaggio all’album Towering Toccata non riserva alcuna sorpresa dato che il tenore della musica non cambia di molto. Curiosa la scelta di rielaborare la celebre Toccata e Fuga di Bach: a parte il riff che tutti conoscono, Schifrin confeziona un brano funky che risulta perfino difficile far risalire ad un brano classico. Magnifici sono poi i temi di Most Wanted (serie tv) e Roller Coaster (film) e piuttosto interessanti due brani latineggianti come Macumba e Midnight Woman. Se da un lato il palese sapore disco-funk può scoraggiare l’interesse degli integralisti del jazz, gli arrangiamenti elegantissimi ed anche fantasiosi di Lalo Schifrin rendono i due album tutt’altro che banali o noiosi. Inoltre c’è da considerare che queste sessioni di registrazione sono state animate da una band di super-stars in grado di trattare il materiale con grande energia e stile da vendere. Il risultato finale è un cd che, nel suo complesso, rappresenta forse il top della lunga discografia del tastierista e compositore argentino. A mio parere è un lavoro imperdibile per qualsiasi appassionato di buona musica, in particolare per coloro che amano il jazz funk e le commistioni disco argutamente costruite su di un feeling jazzistico che non viene mai meno. Se poi nel vostro cuore c’è un posto speciale per le colonne sonore dei lungometraggi e le sigle delle serie tv poliziesche, di spionaggio o d’azione, Lalo Schifrin è la risposta definitiva.