Caribbean Jazz Project feat. Dave Samuels – Birds Of A Feather


Caribbean Jazz Project feat. Dave Samuels – Birds Of A Feather

Per descrivere il Carribean Jazz Project la cosa migliore è probabilmente citare ciò che loro stessi ritengono il loro obiettivo artistico: “far vivere un tour dei Caraibi attraverso la musica”. Il gruppo, a partire dal 2002, ha sviluppato un sound unico ed accattivante, estremamente riconoscibile e molto apprezzato. Il Caribbean Jazz Project ha subito diversi cambiamenti di formazione nei quasi 15 anni trascorsi dalla sua nascita. Ma se c’è una costante in mezzo a tutte le trasformazioni del gruppo questa è il vibrafonista Dave Samuels, il cui strumento rimane al centro del suono di questo singolare ensemble. Samuels è il motore, la mente creativa ed il promotore di tutto il collettivo che sta dietro al progetto C.J.P. La trasformazione del Carribean Jazz Project si è concretizzata con la sostituzione del sassofonista Paquito D'Rivera con Ray Vega alla tromba e quella, dal punto di vista sonoro forse ancora più significativa, dello specialista di steel drums Andy Narell con il pianista Dario Eskenazi. E’ evidente la volontà di dare una connotazione meno rigidamente territoriale al target del gruppo.  A questo punto la formula musicale delineata da Samuels è ancora incentrata su una sintesi tra le atmosfere latine (e caraibiche ovviamente) e le armonie jazzistiche occidentali, americane ed europee, ma si coglie il desiderio di spostare il baricentro del suono dei C.J.P. verso un contesto generalmente più jazzistico che nel passato. Su questo album, intitolato Birds of a Feather, Samuels ha arrangiato i brani, molti dei quali sono sue composizioni, per fare un uso il più possibile efficace della strumentazione a disposizione. Dave ha prestato particolare attenzione a dare risalto alla tromba di Ray Vega su alcuni dei brani, come ad esempio "On the road". Formalmente, la musica del Carribean Jazz Project si configura in un tono soft, piuttosto rilassato, senza il fuoco dei roboanti fiati o dei ritmi frenetici che sono spesso il tratto distintivo della musica latina. Piuttosto, la sua gamma dinamica rimane entro i confini di quella espressa dal vibrafono o dalla marimba di Dave Samuels, mentre gli altri strumenti colorano lo spettro in sordina, con molteplici dettagli, ed emergendo solo a tratti, come fa ad esempio la chitarra acustica di Romero Lubambo nel trascinante samba "Turnabout". Oltre a Lubambo che è un chitarrista brasiliano universalmente riconosciuto per il suo talento (ha collaborato con artisti del calibro di Dianne Reeves o di Kenny Barron)  ci sono anche altri ospiti illustri: Randy Brecker alla tromba, Mark Walker alla batteria e Café alle percussioni. "Picture Frame", uno degli originali firmati da Dave Samuels, si snoda come una piacevole bossa nova che permette alle enormi potenzialità espressive del vibrafono di manifestarsi al meglio. E’ qui che anche un fenomeno come Randy Brecker coglie in pieno lo spirito della musica brasiliana e invece di prendersi completamente la scena  gioca meravigliosamente, attraverso il suo magico flicorno, con i toni chiari e scuri che sono la caratteristica del brano stesso. Allo stesso modo il lavoro di Ray Vega con la sua tromba è misurato eppure davvero penetrante, in particolare sul brano "Against The Law", una rumba di cui è il vettore del tema conduttore e nel quale si prende lo spazio per un magnifico assolo. Questo particolare pezzo che è stato scritto dal batterista Dafnis Prieto, potrebbe essere considerato la delizia di ogni percussionista: è costruito magistralmente su una struttura poliritmica nella quale i temi contrastano gli con gli altri, fino a fondersi in un unico complesso tessuto. Ma la menzione speciale a Prieto vale per tutto il lavoro svolto sul Birds Of A Feather, dato che è evidente fin dalle battute iniziali che una delle caratteristiche peculiari che colpiscono l’ascoltatore è proprio la freschezza della sua batteria. La personalità così singolare della musica di questo gruppo, dalla vocazione smaccatamente latino-americana, viene determinata in larga misura dalla perfetta integrazione degli strumenti a percussione con la capacità di Prieto di inchiodare con precisione i ritmi “richiesti” dalle melodie. Oltre ai brani originali, Samuels ha incluso tra i contenuti di Birds of a Feather anche due cover di estrazione canonicamente jazzistica ai quali viene però data una lettura latineggiante in sintonia con il resto dell’album. "Tell Me A Bedtime Story" di Herbie Hancock si sviluppa come un cha-cha, con ciascuna delle frasi che compongono la melodia che riceve la dovuta enfasi attraverso l'allungamento del fraseggio: vibrafono e tromba sono protagonisti assoluti. E poi c'è "Weird Nightmare" di Charles Mingus anche questa eseguita su una ritmica cha cha, analogamente a quanto descritto per il brano di Hancock, Dave Samuels regala emozioni attraverso il morbido tocco del suo vibrafono, ma anche il pianoforte di Dario Eskenazi brilla nel suo solo e così fa Ray Vega, in questo caso utilizzando il caldo suono del flicorno. I Carribean Jazz Project  propongono un repertorio che intrattiene gradevolmente senza annoiare, tra una bossa nova, una rumba e un cha-cha, tutto sommato si resta entro i confini del jazz, con il valore aggiunto della presenza costante del vibrafono del leader Dave Samuels. Lui è senza dubbio una delle più autorevoli personalità per quanto concerne il suo strumento, ed è tra l’altro il musicista che più di ogni altro ha cercato di dare spazio anche ad una percussione un po’ dimenticata come la marimba, fin dai tempi degli Spyro Gyra. Birds Of Feather è un ascolto consigliato sia nel caso si voglia ascoltare del jazz  diverso, con una forte connotazione latina, sia che si preferisca utilizzarlo in modo più disimpegnato come sofisticato sottofondo per una serata tra amici o, perché no, per allietare un bel viaggio in auto.

Larry Coryell - Barefoot Man: Sanpaku


Larry Coryell - Barefoot Man: Sanpaku

Anche Larry Coryell ci ha lasciato. In quest’annata che sembra essere particolarmente nera per i musicisti, dobbiamo piangere la scomparsa di uno dei più originali ed interessanti chitarristi che il jazz (ma non solo) abbia conosciuto. Ha fatto in tempo, il nostro Larry, a lasciarci un ultimo formidabile album che a questo punto verrà ricordato come una sorta di testamento artistico di un musicista che nel corso della sua lunga carriera ha comunque marcato più di una pietra miliare. Ascoltare con attenzione Barefoot Man: Sanpaku di Larry Coryell è una vera full immersion nella musica del 20° secolo: jazz senza dubbio, ma anche jazz-rock, funk e progressive. Quello che esce da queste sette nuovissime tracce è bellissimo, sotto molti punti vista. Passione, virtuosismo, originalità sono tutte racchiuse nella complessa ed articolata struttura di Barefoot Man: Sanpaku. Si respira un’aria di intensa profondità e genuina creatività dal primo all’ultimo minuto, come raramente capita, soprattutto in questi ultimi tempi. Larry Coryell è conosciuto come il "Padrino della Fusion", un appellativo ampiamente motivato dalle sue precedenti esperienze, in particolare quelle degli anni ’70 con gli Eleventh House. I quattro incredibili musicisti che lo affiancano in questa nuova avventura (John Lee (basso) – Lee Pierson (batteria) – Dan Jordan (sax/flauto) – Lynne Arriale (piano)) danno un significato pieno alla parola fusion. Ogni brano mette in mostra la bravura di questi artisti con i loro rispettivi strumenti, fondendo al contempo le individualità in un insieme innovativo dai contorni a volte frenetici, a volte compassati, a tratti persino lirici. Il disco, pubblicato alla fine del 2016 è così intitolato per ricordare lo storico album Barefoot Boy del 1971, uno dei capolavori di quel jazz che già aveva varcato i confini del rock. Il lavoro ha il feeling delle registrazioni live in studio e può essere considerato a tutti gli effetti un disco di jazz anche se all’interno di questa definizione è ecletticamente vario e diversificato. “Sanpaku” ad esempio è chiaramente un brano di estrazione funk, dal groove potente e caratterizzato da un fantastico interplay tra i musicisti, tra i quali si fa notare lo splendido sax soprano di Dan Jordan. “Back to Russia” è costruita sul lavoro di pianoforte di Lynne Arriale e sugli arpeggi della chitarra di Coryell: l’atmosfera che si respira è molto vicina a quelle del progressive rock anche se man mano che si procede si fa sempre più jazzata, fino all’assolo del leader, che ricorda a tratti Al Di Meola. "If Miles Were Here" mette in luce l'influenza che Miles Davis ha avuto su Coryell. È un brano complicatissimo che sa essere melodico e dissonante allo stesso tempo, probabilmente quello che più ricorda la musica che Larry faceva negli anni ’70. Una delle peculiarità tecniche di Coryell come chitarrista è un’innata capacità di passare in un attimo da diteggiature velocissime ad altre più lente: il brano “Improv On 97” ne da una dimostrazione, esplorando lucidamente i territori affascinanti del jazz elettrico. La parte melodica e acustica del repertorio di questo album la ritroviamo sull'eterea ballata “Penultimate”, uno stupendo pezzo di musica che profuma di tango ed emana passione da ogni singola nota. Notevole l’assolo di basso di John Lee e molto intenso anche quello di flauto del bravo Dan Jordan. “Manteca” va a toccare in modo inaspettato il lato più caraibico del jazz con un interpretazione energetica, piena di vigore e ritmo dove anche il funk è sempre ben presente. È il terreno ideale per le scorribande elettriche e distorte delle dita leggere e rapidissime del formidabile Larry Coryell. Se fino ad ora i puristi del jazz, potevano avanzare qualche appunto sulla reale natura di questo disco, “Blue Your Mind” arriva per accontentare anche i più tradizionalisti: non potrebbe essere una chiusura più felice per Barefoot Man: Sampaku, il suggello in pieno stile hard bop che probabilmente mancava a questa collezione di magnifici e variopinti brani. Il maestro Larry Coryell avvolge tutto con la sua magia, in un esplosione di emozioni veicolate dall’abilità delle sue dita che scivolano ora velocissime ora delicate sulle corde della chitarra. Ti prende e ti porta esattamente dove vuole: non importa che si tratti di jazz, se si parli di fusion o di funk, non disturba nemmeno che per un momento si conceda al vecchio amore del progressive rock. L’incanto della grande musica di Larry ti cattura inesorabilmente. La cosa triste è che da oggi questo gigante della chitarra elettrica lo potremo ascoltare solo attraverso la testimonianza dei suoi album.

Joe Sample & NDR Big Band - Children Of The Sun


Joe Sample & NDR Big Band - Children Of The Sun

La musica di Joe Sample (scritta o suonata) non è di solito associata in modo particolare con i ritmi e le melodie di estrazione sudamericana: di fatto il suo lessico elettivo è sempre stato quello del jazz e della fusion o più recentemente dello smooth jazz. Detto questo, va sottolineato che Children Of The Sun, ovvero il suo ultimo album prima della scomparsa, commissionato e registrato dalla NDR Big Band, è un lavoro che sorprendentemente risulta intriso di profumi e colori caraibici e latini. Il motivo per una tale svolta nel repertorio del popolare pianista di Houston è facilmente spiegabile, ma va raccontato. L’ispirazione per un excursus nelle atmosfere del caribe risale addirittura al 1995, quando Sample suonò, durante un tour, al St. Croix Jazz Festival. Joe trascorse un po' di tempo sull'isola dopo quel concerto, esplorando con interesse questa meraviglia del Mar dei Caraibi: fu colpito in particolare dal contrasto tra il suo splendido paesaggio e la sua storia. St. Croix fu infatti parte del "Middle Passage", ovvero uno dei punti caldi del cosiddetto triangolo della tratta degli schiavi, tra l'Africa e il Nuovo Mondo. Questo luogo apparentemente idilliaco era stato teatro di sofferenze e tormenti, nonostante la bellezza delle sue spiagge e del suo mare cristallino. Dopo essere ritornato da St. Croix, la sua mente creativa cominciò a riempirsi di idee musicali, melodie e temi influenzati da tutto quello che il pianista aveva visto ed ascoltato. Joe Sample trascrisse quelle suggestioni per poi riporle in un cassetto dove rimasero per 20 anni in attesa della giusta occasione. L’opportunità arrivò nel 2014, quando il suo amico trombonista Nils Landgren invitò Sample a scrivere del materiale originale per la NDR Big Band. A quel punto al mitico Joe vennero in mente quelle partiture dimenticate e così fu un gioco da ragazzi ritrovarsi con undici splendidi brani, nuovi di zecca, pronti per essere arrangiati in un taglio adatto ad una grande orchestra.  Nils Landgren fu designato a tutti gli effetti nel ruolo di  solista, mentre il raffinato batterista Steve Gadd fu ingaggiato per dare un tocco unico alla sezione ritmica. Per parte sua, la NDR Big Band, orchestra europea con sede ad Amburgo, dimostra ancora una volta che la musica è un linguaggio universale, abbracciando con calore e professionalità le belle composizioni originali di Joe Sample ed interpretando al meglio anche i colori della musica caraibica. I suoi componenti vantano tutti una grande professionalità: è un insieme imponente di grandi musicisti le cui individualità generano un sound poderoso e coeso. Inutile dire che il progetto è arricchito dal magnifico pianoforte del pianista texano: in ogni circostanza Joe sa essere agile o cristallino, delicato o scattante, come meglio non si potrebbe. Prendiamo ad esempio "I Wanna Go Home": pesca il suo mood da una melodia popolare di Trinidad, dando così il via all’album in un modo inequivocabilmente orientato verso le atmosfere caraibiche ed in particolare i fiati della big band si presentano dando un saggio della loro incredibile forza. Steve Gadd imbastisce il groove di batteria sul quale tromboni, trombe e sax creano un muro sonoro di notevole impatto, qui come in tutti gli altri brani. Il trombone di Landgren non è realmente parte dell'orchestra, viene usato come strumento solista (e che solista aggiungerei…) in alcuni brani, mentre i membri della NDR si ritagliano a turno un ruolo da protagonisti con interventi puntuali e di pregevole fattura. Quello che colpisce di Children OF The Sun è la miscela di jazz, blues, funk, gospel e musica latina perfettamente adattata alle caratteristiche di una big band. "Buttermilk Sky" da la sensazione di una traccia perduta dell’album di Joe degli anni ‘70 Rainbow Seeker, con i suoi fiati che sottolineano le variazioni armoniche della melodia condotta dal piano di Sample, il quale si prende anche lo spazio per un breve assolo dove sintetizza in pochi tocchi le sue ben note doti. "Island Of The Mind" si allontana dal funk per entrare in una sorta di curioso jazz da camera, che è esattamente il territorio nel quale la NDR Big Band si trova più a suo agio:  l’arrangiamento fa brillare l'eleganza della complessa e dotta composizione di Joe Sample. Queste due anime del pianista, quella jazz-funk e quella classica, sono fuse con un equilibrio quasi perfetto in "Gold In The Cane"; una introduzione in stile classico, seguita da un ritmo di calypso mescolato con la raffinatezza del jazz Ellingtoniano. "Blue Abyss" è un tuffo nel jazz mainstream, un brano carico di swing che si snoda attraverso una serie di fantastici assoli. Questo album non era destinato ad essere il canto del cigno di Joe Sample, tuttavia dal punto di vista compositivo, quasi tutte le sfaccettature e le peculiarità del suo stile sono presenti. Alla luce dell’improvvisa scomparsa di Joe Sample, avvenuta qualche mese dopo questa registrazione, Children Of The Sun rappresenta un elegante suggello su una lunga, feconda ed estremamente influente carriera artistica.  Fedele alla sua primaria ispirazione, lo stridente contrasto tra la bellezza e il dolore è perfettamente catturato dalle note di questo lavoro che si può considerare coma la registrazione più ambiziosa nel vasto catalogo di Sample, il che non è un'impresa da poco. Children Of The Sun è il testamento di uno dei migliori e probabilmente sottovalutati compositori di jazz degli ultimi cinquant’anni. Senza dimenticare il suo prodigioso talento come pianista e come arrangiatore.

Down To The Bone – Dig It


Down To The Bone – Dig It

A volte può essere piacevole anche ascoltare una band che suona, oggi, nel 2017, la musica che era in voga all’inizio degli anni ’90. Quella era l’epoca dell’esplosione della corrente denominata acid jazz e loro, i Down To The Bone, erano già immersi in tutto e per tutto dentro a quel movimento. Ad oltre vent’anni di distanza questo singolare gruppo di musicisti persevera nel proporre il suo “vintage acid jazz” con granitica caparbietà ma anche ottimi risultati. Down To The Bone prende il nome dal primo jazz club di Londra che si chiamava più in breve "To The Bone". Il progetto è figlio della mente creativa del produttore e DJ Stuart Wade  che, pur essendo il deus ex machina di tutto, non ha mai suonato in prima persona uno strumento nella sua stessa band: né in sede di registrazione, né durante i concerti dal vivo. Tuttavia le sue idee musicali sono così brillanti che il gruppo ha avuto successo, soprattutto in Gran Bretagna ed in seguito anche negli USA. Esiste un filo conduttore, mai interrotto, che è cominciato con il primo album From Manhattan To Staten nel lontano 1996 e arriva fino all’uscita di questo nuovo lavoro intitolato “Dig It”, datato 2014. E’ da sottolineare che sono addirittura tre i gruppi di musicisti coinvolti nei Down To The Bone: la Live UK Band, la Live USA Band ed infine il mini collettivo usato per le registrazioni in studio e dunque per gli album. Tutti seguono, come detto, le linee guida di Stuart Wade, il quale sarà anche un dj ma dimostra di saper anche assemblare un eccellente repertorio musicale e naturalmente produrre nel migliore dei modi questo manipolo di bravi musicisti. Niente invenzioni particolari, nessuna esplorazione avanguardista, solo un genuino mix di funk, jazz e soul con tanti fiati e groove a volontà: ovvero la formula classica dell’acid jazz. Le analogie con la musica degli Incognito sono inevitabili: l’amicizia, gli interessi comuni, le stesse passioni musicali fanno sì che il sound sia in linea di massima piuttosto simile. Certo la band di Bluey Maunick è un punto di riferimento ineguagliabile e d’altra parte i Down To The Bone propendono più verso la musica strumentale, ma la matrice è quella. Ed echi di altre mitiche band dell’acid jazz britannico sono parimenti udibili, ad esempio James Taylor Quartet, New Jersey Kings o Vibraphonic. Dig It propone una cavalcata funky in dieci brani, tutti piuttosto lunghi, solo due dei quali sono cantati dalla brava vocalist Katie Leone (guarda caso appartenente alla “famiglia” Incognito). Il piano elettrico, il vibrafono (!), i fiati sempre potenti e puntuali , basso, batteria e percussioni creano un tappeto sonoro inconfondibile, lo stesso che è possibile ascoltare dal vivo in alcuni storici  club londinesi, come il Jazz Cafè o il Marquee o ancora la Brixton Academy. Su Dig It tutto scorre fluido e piacevole, ogni cosa è al suo posto grazie agli arrangiamenti sempre efficaci, caratterizzati da un perfetto equilibrio tra parti corali ed assoli, senza protagonismi od eccessi di virtuosismo. Il groove è potente come vuole la migliore scuola di quell’acid jazz che tanto mi piace e che dopo tanti anni continua ad essere una delle migliori espressioni della musica contemporanea. Meritano una citazione particolare sia il tastierista Oli Silk, il cui uso del Rhodes incanta gli ascoltatori attenti ai dettagli, che la bravissima cantante Katie Leone, che mette in mostra le sue indubbie qualità di soul singer dalla vocalità potente e cristallina. Si capisce per quale ragione lei sia una delle nuove cantanti degli Incognito. Dig It è dunque un album ad alto fattore di divertimento, per chi lo ha suonato e soprattutto per chi lo ascolta. Semplice e diretto, genuino e allegro, l’ultimo lavoro dei Down To The Bone invita a battere il piede a tempo con il funk ed il soul venato di jazz che questi ragazzi hanno saputo esprimere dalla metà degli anni ’90 fino ad oggi. Stuart Wade rimane il produttore, l’arrangiatore ed  il direttore artistico di questa bizzarra macchina da groove dal sapore deliziosamente retrò ma al tempo stesso molto attuale: i suoi preziosi collaboratori aggiungono la qualità che solo i musicisti di grande spessore sanno donare. Inutile aggiungere che i Down To The Bone sono un “must have” per tutti gli appassionati di acid jazz, ma rappresentano anche una valida alternativa a tutta quella musica piatta e priva di mordente che inflaziona le radio e di cui si alimentano i talent show.

Tom Kennedy – Just Play!


Tom Kennedy – Just Play!

Musicista noto principalmente per la sua abilità con il basso elettrico, Tom Kennedy su questo suo “Just Play!” ha messo insieme un settetto formato da elementi di livello assoluto per rileggere, con nuove interpretazioni, alcuni  ben conosciuti standard del jazz. Tom arriva così al suo quarto album come leader: per gran parte della sua carriera Kennedy ha preferito dedicarsi al  basso elettrico sia per affrontare il jazz tradizionale che per approcciarsi a quello più contemporaneo. Tuttavia la prima esperienza musicale di Kennedy è stata proprio con il contrabbasso, alla tenera età di undici anni. In questo album il bassista sfodera proprio il suo prezioso strumento d’epoca per guidare la registrazione in modo brillante ed autorevole. L'album assume un significato particolare per il bassista dato che è dedicato a suo fratello Ray, pianista e compositore, con il quale ha anche lavorato in passato, dal 2008 affetto dalla sclerosi multipla e perciò non più in grado di suonare. Con il contributo da parte di musicisti del calibro del sassofonista George Garzone, del trombettista Tim Hagans e dei formidabili chitarristi Lee Ritenour e Mike Stern, Kennedy ed il suo gruppo (Dave Weckl alla batteria!) appare in splendida forma in questa emozionante sessione di jazz infusa di puro hard bop contemporaneo. A cominciare dalla classica meraviglia firmata da Sonny Rollins intitolata "Airegin" dove il lavoro di contrabbasso di Kennedy è in grande evidenza, non soltanto nello smagliante assolo. Un altro dei momenti migliori è la brillante "Moanin'" di Bobby Timmons. George Garzone si dimostra uno dei principali punti di forza del disco: il suo sax tenore si impone con personalità e manifesta una straripante potenza espressiva in ogni fraseggio. Lee Ritenour, con il quale Kennedy ha collaborato in molte altre occasioni, non è certo da meno su questo bel brano soul jazz, confermando la sua attitudine ad esprimersi con naturalezza anche quando esce dal suo abituale habitat della fusion. In "The Night Has A Thousand Eyes" si può apprezzare l’eccezionale gioco di dita di Kennedy sul suo magnifico contrabbasso, ma è la sezione fiati formata dalla tromba di Hagans, dal trombone di John Allred e dal secondo sax di Steve Wirts ad avere il ruolo principale. Il brano è semplicemente spettacolare e la lettura che ne dà il gruppo nel suo assieme valorizza appieno la scrittura originale di Victor Young. Come spesso accade ovunque sia coinvolto, è anche il formidabile Dave Weckl ad offrire delle solide performance, raffinate e virtuose. Come nell’immortale "Ceora" di Lee Morgan, nella quale il gioco di spazzole è eccellente, mentre il pianista Renee Rosnes non è da meno dei suoi colleghi, aggiungendo un tocco di dolcezza sui tasti a rendere fantastica questa cover. L'unico pezzo non appartenente alla categoria degli standard del jazz è, forse, anche il più significativo dell’intero album: si tratta di una composizione originale di Mike Stern intitolata "One Liners", in cui il chitarrista prende letteralmente il centro della scena. Il suo sound è come sempre molto particolare e suggestivo e negli oltre dieci minuti di durata si ha modo di coglierne tutte le splendide sfumature cromatiche e la diteggiatura velocissima e precisa. Tornando agli standard, troviamo un arrangiamento di Kennedy dello stupendo e celeberrimo classico di Duke Ellington "In A Sentimental Mood". Il sax di George Garzone ed il piano di Renee Rosnes sugli scudi per una reinterpretazione che in verità non si allontana molto dalla versione originale. "In Your Own Sweet Way"  è una sincera dedica al maestro Dave Brubeck e vede un formidabile lavoro pianistico di Rosnes, nell’unico dei brani non a caso registrato in trio. L’energica "Bolivia" firmata da Cedar Walton, è introdotta dal puntuale basso di Tom Kennedy, mentre qui forse più che in ogni altro momento del disco è straordinario l’assolo di Garzone: scattante e nervoso eppure sempre lucidissimo nel districarsi nel mare di note di questa complessa icona dell’hard bop. Il set si conclude sulle familiari note del classico di Cole Porter "What Is This Thing Called Love". Per questo standard immortale Kennedy sceglie una lettura sinuosa e notturna in partenza, fino all’esplosione ritmica dello stesso bassista coadiuvato dal solito effervescente Weckl; su questa base diventa protagonista ancora una volta il sax tenore con una incredibile raffica di note scoppiettanti. È un compendio di quello che dovrebbe essere il be bop nella migliore delle sue interpretazioni. Il titolo di questo album cattura, in fondo, tutta l’essenza della musica con due semplici parole: Just Play! Come dire suonare e basta! Il cast è ricco di talento e virtuosismo, le emozioni non mancano, i brani sono stati scelti con cura ed eseguiti con passione e divertimento. Con questo lavoro del 2013 Tom Kennedy ha fatto centro, accreditandosi come uno dei migliori specialisti contemporanei del contrabbasso.

Chick Corea – The Ultimate Adventure


Chick Corea – The Ultimate Adventure

Ci sono alcuni musicisti che trovano la propria nicchia artistica dentro alla quale lavorano nel corso di tutta la loro carriera, raffinando sempre più le loro metodologie compositive e mantenendo freschi ed innovativi i loro contenuti. Ma ce ne sono anche altri, il cui vorace appetito musicale li “costringe” ad esplorare un mondo musicale più ampio, in continua evoluzione, sia pur nella continuità di  una voce  che resta personale ed immediatamente riconoscibile. Durante il loro percorso, questi pionieri coraggiosi trovano continuamente nuove fonti di ispirazione e modi alternativi per ampliare il loro punto di vista, riuscendo a restare coerenti e concentrati nel contesto di un quadro generale che rimane quello del loro lessico musicale elettivo. Chick Corea è senza dubbio uno di questi: a settan’anni e passa, il pianista non mostra alcun segno di rilassamento nella sua intelligente curiosità, ne tantomeno di appagamento dentro un’area confortevole e ben definita. Anzi, al contrario continua a spaziare tra le numerose correnti del jazz con lo stesso entusiasmo e la stessa passione dei primi anni della sua carriera. In quasi sessant’anni di attività ininterrotta Chick Corea ha scritto e suonato moltissimo: ha sviluppato dei singolari progetti che vanno dal post bop del suo sestetto Origin, alle esplorazioni free dei Circle, dagli eleganti duetti con il vibrafonista Gary Burton o con il pianista Herbie Hancock, alla fusion con accenti rock dei mitici Return to Forever al fianco del chitarrista Al di Meola. Senza dimenticare i progetti più ambiziosi sviluppati in proprio come i concept album The Leprechaun (Polydor, 1976) e The Mad Hatter (Polydor, 1978) dove si mescolavano le atmosfere jazz rock con le più complesse delle scritture acustiche. E poi tutta una serie di album jazz nei quali ha dimostrato di essere uno dei pianisti più innovativi ed importanti del 20° secolo. The Ultimate Adventure è una registrazione del 2006, e trae ispirazione da un romanzo di L. Ron Hubbard, una sorta di omaggio di Chick a Scientology. Album complesso e di largo respiro ha come sempre una base jazz ma si dilata e si alimenta anche dalle tradizioni musicali ritmiche e melodiche spagnole, arabe e africane. Corea riunisce per l’occasione un grande gruppo di musicisti ricongiungendosi con vecchi amici come il batterista Steve Gadd ed il flautista Hubert Laws, così come conoscenze artistiche più recenti, come il polistrumentista Tim Garland o la band che lo ha accompagnato sull’album Rhumba Flamenco. Allo stesso modo dei suoi concept album degli anni '70, The Ultimate Adventure aspira a trovare il punto di equilibrio ed il nesso logico tra i molti mondi musicali di Corea, ma mentre alcune delle vecchie alchimie di quei lavori suonano oggi un pochino datate, l'uso che Corea  fa della tecnologia è qui integrato in modo più organico e moderno. Nel mescolare il pianoforte acustico, i fiati, le molteplici percussioni, ovviamente i sintetizzatori, il piano elettrico Fender Rhodes e le ritmiche elettroniche si respira un senso di naturalezza, del tutto privo degli eccessi dei quali Chick Corea è stato talvolta accusato nel passato. Lo stile, le suggestioni e le emozioni che il pianista si porta dietro come tratto distintivo sono ovviamente ancora del tutto presenti, ma bisogna dire che The Ultimate Adventure si sposta anche in avanti, proiettandosi oltre. Chick esplora ad esempio la musica africana e magrebina, filtrandole attraverso la sua personalissima lente compositiva, o ancora riprende il tema a lui caro della tradizione spagnola con uno spirito ancora più innovativo di quanto fatto precedentemente. E’ interessante notare tuttavia che ogni influenza, ogni suggestione proveniente da mondi estranei viene in qualche misura assorbita all’interno di un quadro stilistico che riporta all’idioma di riferimento di Corea: il jazz.  L’album è prevedibilmente più ricco di percussioni di ogni altra cosa pubblicata in passato (ci sono ben tre percussionisti) e gli accenti etnici danno un sapore diverso alle già affascianti creazioni di Chick, ma non bisogna dimenticare che al di là delle sperimentazioni e delle novità ritmiche, qui la musica è sempre di eccellente qualità. Si tratta di un jazz elettrico molto variegato con accenti che spaziano attraverso tante diverse correnti abbracciando jazz rock, world, fusion, progressive, avanguardia e ovviamente il jazz, per un risultato che è del tutto accattivante: impegnativo ma accessibile, una combinazione perfetta di testa e cuore. Parlare dei singoli brani in un concept album come questo non ha molto senso. L’opera va ascoltata come una lunga suite divisa in vari movimenti ed anche se non c’è un motivo ricorrente, non è difficile cogliere il senso di continuità che percorre The Ultimate Adventure dall’inizio alla fine. Con questo ambizioso progetto artistico Chick Corea ha dimostrato ancora una volta che, per un genio come lui, è possibile continuare ad ampliare i propri orizzonti musicali senza mai perdere la propria identità: è il miracolo di un uomo che nella sua straordinaria carriera ha avuto molto spesso un impatto importante e  significativo sulla musica moderna.

Vibes Alive – After hours


Vibes Alive – After hours

Il vibrafono è stato inventato negli USA nel 1921 ed ha trovato presto un certo seguito tra i musicisti di jazz. Leggende come Lionel Hampton, Gary Burton, Milt Jackson, Cal Tjader, Bobby Hutcherson e Dave Samuels hanno contribuito nel corso degli anni a rendere lo strumento relativamente popolare. Più recentemente la corrente acid jazz ha in qualche misura riscoperto il vibrafono, mettendo in luce oltre al già famoso Roy Ayers, anche Roger Beaujolais (Beaujolais Band, Vibraphonic), Maxton Beasley (Incognito) Mike Benn (Duboniks) ed alcuni altri. Il famoso tastierista Jeff Lorber, grande scopritore di talenti e produttore di gran classe, nel 1997 diede voce alle ambizioni di un giovane vibrafonista di nome  Dirk Richter, dandogli la possibilità di pubblicare un solido debutto discografico uscito sotto lo pseudonimo di Vibes Alive. Dirk Richter, d’altra parte, è un predestinato, dato che già da bambino ha intrapreso lo studio del vibrafono, diventando presto un serio professionista di questo affascinante strumento. Immersosi completamente nella scena jazz locale di Pasadena, ha incontrato il chitarrista e compositore Randall Crissman che, in seguito, diventerà l’altra faccia del progetto Vibes Alive. Vibes Alive è un’idea musicale piuttosto particolare, dato che si concentra su uno strumento come il vibrafono, al quale al giorno d’oggi viene quasi sempre preferito il sax o il pianoforte. Deliziosamente onomatopeico, il nome della band non solo descrive la natura emozionale del sound, ma anche il fatto che nel suo cuore pulsa il vibrafono di Dirk Richter, usato come fulcro di una forma moderna ed evoluta di contemporary jazz. Analogamente a quanto fatto dal maestro inglese Roger Beaujolais con i suoi Vibraphonic, Dirk Richter si fa carico di gran parte dell’impalcatura musicale, sostenendo in prima persona le liquide melodie da lui stesso composte ed innestandole su un tappeto ritmico dal forte richiamo agli anni '70. Richter riesce bene nell’intento perché è abile come solista jazz ma è perfettamente a suo agio anche nell’affrontare in scioltezza il repertorio più leggero. A undici anni di distanza dal primo disco arriva la seconda versione dei Vibes Alive, protagonista ovviamente ancora il bravo Dirk Richter che cerca nuovamente di portare il vibrafono sulla scena jazz con la sua formula leggera, fatta di arrangiamenti accattivanti, piacevoli melodie ed un bel groove di base. L’album, intitolato After Hours, è stato scritto e prodotto in collaborazione con il chitarrista Randall Crissman, già presente sull’opera prima della band, e vanta la partecipazione di una superba schiera di musicisti. L’atmosfera di  After Hours è un’amalgama di sofisticate vibrazioni jazz contemporanee, cosa che lo pone, anche se molti anni dopo, su una linea di continuità con il disco d’esordio. La partecipazione di Jeff Lorber, Luis Conte, Jimmy Johnson, Gary Meek, Bob Summers e Vinnie Colaiuta è un valore aggiunto dal peso artistico e tecnico inestimabile per i Vibes Alive ed il loro contributo è immediatamente percepibile ascoltando questo interessante album. Sono undici le tracce presenti su After Hours ciascuna delle quali vede Randall Crissman in veste di coautore. La bellezza del disco sta tutta nella sua magia d’insieme, ma non mancano i momenti salienti da ricordare. “Lighthouse” introduce al meglio il tenore generale dell’album, riscaldando da subito l’atmosfera grazie al ritmo vivace e al suono del vibrafono doppiato da uno sfumato synth. L’andamento languido e suadente della title track è ulteriormente impreziosito dal sax di Gary Meek che dà il suo significativo contributo anche sulla funkeggiante “Lunch Truck”. Su questo bel brano si segnala anche un eccezionale Jeff Lorber con il suo piano elettrico. Gary Meek passa al flauto per “Sambahia” che dimostra la varietà delle composizioni andando ad abbracciare anche il samba brasiliano. "Bright Lights" resta in territorio latino dal punto di vista ritmico, ma il pezzo forte è offerto da un grande assolo di chitarra di Crissman, e non sono da meno sia il vibrafono di Richter che la bella tromba con sordina di Bob Summers. E’ sontuosa “Open Door”, un morbido pezzo che consente al vibrafono e alle tastiere di tessere melodie jazzate guidate dai pattern del sintetizzatore di Jeff Lorber. “In The Garden” da modo al talento di Richter di esprimersi in una sofisticata interpretazione della classica ballata jazz attraverso i meravigliosi suoni del vibrafono. Colaiuta alla batteria e Conte alle percussioni danno un tocco di eccellenza ulteriore. Il divertimento puro e semplice della band è particolarmente evidente in “Blews Blues”: un numero di be bop jazz scattante e irresistibile nel quale ogni singolo membro della band si esibisce nel suo assolo, rendendo questo il momento migliore di tutto l’album. “Walk Away” è ricca di groove ed è molto interessante ascoltare l’inusuale connubio sonoro tra chitarra elettrica e vibrafono. “Magnolia” infine è ancora una volta un brano convincente: una delizia laid-back estremamente accattivante che entra in testa e si fatica a dimenticare. I Vibes Alive offrono una visione musicale che si distacca notevolmente dall’appiattito smooth jazz che si può ascoltare al giorno d’oggi e d’altra parte un ritorno in auge del vibrafono è cosa auspicabile ed attesa da tempo. After Hours è certamente un passo avanti sulla (lunga) strada per la rinascita della più armoniosa e melodica delle percussioni.

Jazz Proof – Jazz Proof


Jazz Proof – Jazz Proof

I Jazz Proof sono una giovane band britannica formata da cinque elementi che propongono una musica orientata al jazz funk ed influenzata da artisti del calibro dei Brecker Brothers, dei Weather Report o David Sanborn. I Jazz Proof compongono i loro brani in proprio ed eseguono degli eccellenti e contemporanei originali che fanno del groove il loro tratto distintivo. Questo vero e proprio collettivo di musicisti di grande talento è attivo sulla scena jazz di Londra, città nella quale non è difficile poterli seguire nei numerosissimi concerti live, che, di fatto, sono stati il vero motore del loro crescente successo. La band non ha alcun appoggio da parte delle grandi majors discografiche e di conseguenza può contare solo sulla qualità della sua offerta artistica e sulla visibilità garantita dalle esibizioni dal vivo. Il materiale di base è un jazz molto geometrico e raffinato con una propensione ben definita verso la parte più elettrica e funk dello spettro musicale. Anche se relativamente nuovi nel contesto della scena britannica, i membri principali della band, Dan Redding (chitarra), Duncan Eagles (sax), George Bone (tastiere), Max Luthert (basso) e Louie Palmer (batteria) sono in grado di esprimere una vibrante e contagiosa energia, portando al contempo una buona dose di originalità nel mondo del contemporary jazz. Una misura del successo di questo nuovo ed interessante gruppo è il fatto che alcuni dei migliori musicisti del Regno Unito possono essere annoverati tra i loro ospiti: tra questi Derek Nash (Jools Holland) e Martin Shaw (Sting, Natalie Cole). Viste le premesse era molto interessante scoprire cosa avrebbe potuto riservare la loro opera prima: ebbene Jazz Proof non delude le aspettative, andando oltre il semplice debutto e presentandosi come un album solido e compiuto, privo di ingenuità e ricco di spunti piuttosto stimolanti. Bastano davvero poche note per capire di che pasta sono fatti i cinque londinesi. “Pain Boudin” apre l’album con il suo ritmo vivace ed un bel sax, ma la prime vere vibrazioni arrivano dallo stupendo assolo di piano elettrico di George Bone: groove funky jazz a mille, confermato dalla chitarra di Dan Redding. Duncan Eagles con il suo sax tenore aggiunge un’ulteriore parte improvvisata, nel contesto di un brano dove tutto fila liscio e fluente dall’inizio alla fine. Si continua sulla stessa lunghezza d’onda con “Proof In The Pudding” nella quale il feeling jazzistico è ben presente sia pure sostenuto dal magnifico tiro di una sezione ritmica che fa dell’energia pulsante il suo punto di forza: basso e batteria formano una base precisa per i puntuali interventi dei tre solisti. “Peppers” vira su atmosfere latineggianti, ammiccando alle sonorità della bossa senza mai perdere di vista l’anima jazz funk. È un pezzo bellissimo in cui Duncan Eagles dimostra di padroneggiare molto attentamente anche il sax soprano e Dan Redding mette in evidenza un'ottima padronanza anche con la chitarra acustica. Interessante l’assolo del bassista Max Luthert che prende qualche secondo di scena prima del finale corale. Potrebbe essere una sorta di paradigma dello stile jazz funk la successiva “Garstang Blue”: il sax è acido ma sempre gradevole nel suo assolo che domina il brano per oltre metà della durata per poi lasciare spazio ad un organo Hammond che in un contesto come questo non poteva davvero mancare. Il riff che si ripete è deliziosamente cantabile e stimola a continuare l’ascolto. Un ascolto che non fa mancare l’interesse nella bella “The Wriggler”, che si permette di citare “Girl From Ipanema” nascondendola tra le note del fluidissimo assolo di Rhodes di Bone, un pianista che più si procede nel disco e più si apprezza. Allo stesso modo devo ammettere una particolare predilezione per lo stile ed il fraseggio del giovane Duncan Eagles con i suoi sax. “Lurking” è il brano che suona maggiormente alla stregua di altri esempi di contemporary jazz, ed è degno di nota l’assolo di chitarra elettrica di Dan Redding il quale evidenzia un tocco molto raffinato.  L’onnipresente piano elettrico introduce il funky groove  di “The Nash” la cui parte iniziale sta tutta nella chitarra elettrica di Redding, questa volta suonata con un tono più moderno ed aggressivo, a testimonianza di eccellente versatilità. Bello ed inusuale il duetto sax – basso che, in seguito, sulle ali del bel timbro del tenore di Eagles, porta dritto verso il finale. L’atmosfera si fa più rilassata e blueseggiante sulla morbida “Dinner With Dave”, un’eccellente occasione per ascoltare George Bone esibirsi al pianoforte ed godere nuovamente del sax di Duncan Eagles che è davvero il valore aggiunto di questa band. Si fa notare il liquido assolo di basso fretless del bravissimo Max Luthert. Gagliardamente come era cominciato Jazz Proof si chiude con “Cracker”: anche in questo caso si tratta di un numero giocato su un ritmo vivace, stacchi perfetti ed assoli vertiginosi, tra questi finalmente trova spazio Louie Palmer con la sua batteria, che non manca di entusiasmare per precisione e potenza. I Jazz Proof con il loro album omonimo segnano un felice debutto nel panorama discografico ed in più danno prova di grande maturità e tecnica. Forse sono meno cerebrali e sofisticati degli Snarky Puppy, ma nella maggiore semplicità del loro progetto musicale c’è comunque una qualche affinità con i loro più famosi colleghi americani. Il tempo e le prossime registrazioni ci diranno come e quanto questi cinque talenti inglesi potranno evolversi. Nel frattempo siamo già certi che i Jazz Proof suonano un jazz elettrico moderno, spinto da un inesauribile entusiasmo e da una grande energia creativa. Nel segno del groove e cavalcando sempre l’onda lunga del miglior funk degli anni ’70. Consigliato.

Jah Wobble & Bill Sharpe - Kingdom Of Fitzrovia


Jah Wobble & Bill Sharpe - Kingdom Of Fitzrovia

Bill Sharpe è un tastierista britannico meglio noto per la sua militanza nel gruppo funky dance degli Shakatak, nei quali il tratto distintivo era proprio l’onnipresente suono del pianoforte acustico di Bill. Negli anni ’80 gli Shakatak ebbero un grandissimo riscontro di pubblico con brani indimenticabili come Easier Said Than Done, Nightbirds, Invitations e molti altri: fu un breve ma intenso successo discografico, piuttosto atipico se si considera la natura per lo più strumentale delle loro composizioni. Pur mantenendo attivo il progetto Shakatak, Bill Sharpe ha anche pubblicato a suo nome alcuni album, ma soprattutto ha collaborato con altri artisti come Gary Numan, Don Grusin e Jah Wobble. È dall’incontro tra due personalità così diverse come Sharpe e Wobble che nasce quella sorta di laboratorio musicale chiamato Kingdom Of Fitzrovia; il primo un paladino della fusion e del funk, il secondo una leggenda del punk. Il bassista Jah Wobble ha fatto parte dello storico gruppo Public Image Ltd, ma in seguito ha lavorato con Holger Czukay e Jaki Liebezeit dei Can, BJ Cole, Sinead O'Connor e Baaba Maal. Il denominatore comune del sodalizio tra questi due apparentemente opposti poli è la comune passione per Miles Davis, i Crusaders, Art Blakey, i Weather Report e gli Headhunters. Il crescente entusiasmo dei due, iniziato con una sessione di registrazione casuale, si è sviluppato nella stesura del materiale per un album dai contenuti imprevedibili nella forma stilistica e piuttosto interessante dal punto di vista musicale. Suona infatti come un onirico viaggio che parte da lontane eco degli anni ’70 per toccare atmosfere dub e ammantarsi a tratti anche di jazz. Il lavoro si stacca nettamente sia dalla produzione di Sharpe che da quella di Wobble in favore di una musica di difficile catalogazione nella quale, a sorpresa oltre alle tastiere ed al basso le melodie sono dettate dalla tromba e dal flicorno di Sean Corby il cui sound finisce per essere il filo conduttore di tutte le composizioni. Kingdom Of Fitzrovia (un quartiere di Londra) nasce e si evolve come un concept album che trae la sua ispirazione dalla eterogenea e colorata architettura di questo bel distretto del centro della capitale britannica, cercando di coglierne in musica gli umori, le sensazioni e le emozioni. Qui hanno vissuto in passato  Virginia Woolf, George Bernard Shaw e Arthur Rimbaud ed ancora oggi è abitato da numerosi artisti, i suoi contrasti e la varietà degli edifici e delle attività commerciali e lavorative lo rendono uno dei quartieri più particolari ed affascinanti di Londra. Bill Sharpe e Jah Wobble confezionano una sorta di quadro musicale impressionistico, rarefatto e multicolore, così particolare da sorprendere e stupire l’ascoltatore. Non si trovano le brillanti fughe di pianoforte degli Shakatak e nemmeno le spigolosità dei Public Image. Forse la prima cosa che viene in mente è il Miles Davis di In A Silent Way, un paragone importante che ovviamente fa riferimento ad una sensazione piuttosto che ai reali contenuti. E non può non essere evocato anche il Mark Isham di alcuni dei suoi lavori più jazzati. Tuttavia in Kingdom Of Fitzrovia si percepisce intensamente una tensione drammatica, una profondità ed un impatto emotivo che raramente è dato di ascoltare: le composizioni si susseguono quasi come un continuum melodico nel quale le tastiere e la tromba si alternano su un tappeto ritmico minimale, dominato dai riffs del basso. È un effetto sonoro piuttosto affascinante ed ipnotico, un viaggio tra le vie, i palazzi, i negozi e la gente di un pezzo importante di una delle più belle tra le capitali mondiali. Non inganni il primo brano “You Make Me Happy”: l’andamento da canzone ritmata, stile Shakatak, e il fatto che sia cantata (PJ Higgins) sono l’eccezione in un album che è invece quasi del tutto strumentale. Il flicorno di Sean Corby si presenta subito, cesellando i contrappunti del pezzo nel quale Bill Sharpe fa sentire la sua abilità con un bell’assolo di piano elettrico. Da lì in avanti inizia la vera cavalcata sonora di Kingdom of Fitzrovia: “Rush Hour” si alimenta del suo sincopato ritmo drum‘n bass, restituendo subito l’atmosfera di traffico e movimento, mentre la tromba si prende la scena, in un bel duello con uno stralunato synth. La title track vive di emozioni più rilassate e solari, ricordando a tratti le piccole grandi composizioni di un Burt Bacharach più moderno. Un flicorno da film western di Sergio Leone introduce un’enigmatica “Spanish Place” in cui la melodia iberico mediterranea fa da contrasto ad un tappeto armonico e ritmico completamente futuristico e concentrico, come una sorta di loop ripetuto all’infinito. Ma ad un tratto il brano prende una piega diversa e vira su un jazz spaziale ed onirico di largo respiro. In “Loquacious Loretta” bastano pochi secondi per ritrovarsi in pieno territorio “MilesDavisiano”, immersi in quello stesso magma musicale che abbiamo apprezzato in capolavori come il citato In A Silent Way o Bitches Brew. Una parte importante la gioca Sean Corby con la tromba, ma qui è davvero notevole l’assolo di Rhodes così come il lavoro di basso e il gioco di spazzole della batteria del bravo Marc Layton-Bennett. È ancora jazz elettrico di ottima fattura quello che si ascolta nella liquida e fluente “In The Beat Of The Night”: notturna e fascinosa al punto giusto. Il drum ’n bass ritorna prepotentemente su “Matter Transfer”, il numero forse più complesso e ostico dal punto di vista melodico di tutto l’album. “Serenades & Serendipity” è notturna e inquietante, e quasi come una colonna sonora di un film noir, ci conduce tra lampioni e nebbia, tra vicoli e maestose architetture con grande magia. Kingdom Of Fitzrovia è un esperimento musicale piuttosto complesso e articolato: costruito sulle tastiere del bravissimo Bill Sharpe, che dimostra così la sua versatilità, e sugli ossessivi ed ipnotici giri di basso di Jah Wobble. Il resto del lavoro è affidato al timbro ed all’espressività del flicorno e della tromba del talentuoso Sean Corby che appone un marchio distintivo a tutto il concept. In questo album il jazz non è solo un ombra lontana, ma è ben presente insieme a molta elettronica e tanti spunti musicali di ottimo livello.  Non è musica per tutti ed i fan della scintillante e patinata formula degli Shakatak o del ruvido dub rap dei Public Enemy resteranno probabilmente delusi dalla collaborazione tra Bill Sharpe e Jah Wobble. Per tutti coloro che ricercano le proposte più particolari e coraggiose, Kingdom Of Fitzrovia sarà invece una piacevole scoperta ed un ascolto stimolante ed evocativo.

Brazilian Groove Band – Anatomy Of Groove


Brazilian Groove Band – Anatomy Of Groove

Non é commpletamente musica brasiliana, ma non é nemmeno pienamente musica americana. Non è solo samba, ma non è nemmeno puro funk! Questa è la sintesi che potrebbe riassumere il progetto che si cela dietro al nome Brazilian Groove Band. L'idea è scaturita dalla mente del sassofonista, compositore, arrangiatore e produttore brasiliano Leo Gandelman, uno che in Brasile è da anni un personaggio molto popolare ed influente, ma gode di una certa fama anche negli Stati Uniti. Per un esperimento come questo ha pensato bene di riunire (in territorio americano) alcuni dei migliori musicisti del suo paese più qualche illustre ospite yankee. Leo ha per cominciare invitato alcuni dei suoi più celebri collaboratori, come  Reuben Wilson, Juliano Zanoni e Charlie Hunter, con la scusa di registrare una semplice jam session. In realtà, Gandelman sapeva quanto l'entusiasmo contagioso di questi validi strumentisti avrebbe potuto solleticare e smuovere la tradizionale pigrizia dell’ambiente musicale brasiliano. Lo scopo era quello di mescolare maliziosamente il funk degli anni ’70 con la ritmica e la cultura della tradizione carioca.  Una ricetta questa, che seppure già provata precedentemente (Banda Black Rio, Djavan, Cama de Gato, ovviamente gli Azymuth), sembrava comunque essere particolarmente stimolante, ma necessitava di essere dettagliatamente assimilata dalla band in tutte le sue sfumature. Grazie al forte sostegno da parte dell’amico e co-produttore Juliano Zanoni, è nato in primo luogo il nome della band: “Brazilian Groove Band”, perché dentro di certo ci doveva stare il groove, ma il richiamo al Brasile non poteva essere trascurato. Dalla scelta del nome, dalla stesura degli arrangiamenti ed infine dalla registrazione dei primi brani, è venuto fuori inevitabilmente anche il titolo dell'album "Anatomy Of Groove", che altro non significa se non voler ribadire una precisa filosofia musicale e mettere un suggello sull’interscambio pan americano tra Sud e Nord America. Ne esce un energetico mix di groove brasiliani e lo spirito musicale urbano di New York, venato di sapori jazzistici.  La registrazione risale al 1999 ma ha visto la pubblicazione solo un decennio dopo, nel 2009. L’atmosfera è ricca di sonorità vintage anni ’70 per un risultato che abbonda di funky jazz e percussioni brasiliane, tesi a creare un impatto musicale che ricorda alcuni dischi della Kudu Records nel suo periodo migliore, ma a tratti anche le più riuscite registrazioni di Acid Jazz. Fiati roboanti, ritmi accattivanti, riff di basso magnetici, energia a profusione ed un tono allegro e ottimista sono le peculiarità salienti e distintive dei Brazilian Groove Band. Tutto molto semplice e diretto con quel tono rilassato e in qualche misura scanzonato che solo le vere jam session possono comportare. In sostanza Gandelman e Zanoni hanno scritto tutto il materiale, ma al tempo stesso hanno lasciato molto spazio per l’improvvisazione dei singoli musicisti: la cosa bella di una riunione estemporanea come questa è il divertimento che traspare in ogni singola canzone. Molta libertà e, dunque, molto, moltissimo intrattenimento. Il brano di apertura, "Safari", è un funky afro beat che sa essere arioso eppure anche intenso. “Pirulito” è tutta giocata sui riff di fiati che galleggiano su una base funky samba in cui basso e chitarra fanno da guida per tutti gli altri strumenti. “Charlie 1” riporta subito agli anni ’70 con il suo organo Hammond in evidenza e la bella chitarra di Charlie Green, Jr. a cesellare accompagnamenti e assoli,  pur mantenendo sotto traccia un inconfondibile sapore carioca. In Anatomy Of Groove ci sono molte tracce che affiancano con estrema naturalezza e fluidità il samba alle sonorità vintage degli anni ‘70, come ad esempio "Pau Grande" e "Lollipop". Altri brani sono veramente e genuinamente funky come ad esempio "Groove In The Head" e "Bananeira" ispirata dal classico di Joao Donato (Banana), ma nella sostanza completamente stravolta. Anche se il titolo farebbe supporre il contrario “Prince Samba” ha connotazioni da vero e proprio pezzo di acid jazz. “April 7th” è un veloce funk che richiama alla mente i Tower Of Power o i Memphis Horns. “Dance” ammicca alla pista da ballo, ma fa sentire anche la sua matrice brasiliana. Per chiudere in bellezza c’è "Hip Baiao": un numero davvero interessante, dove la ritmica sembra quasi anticipare quelle che saranno le caratteristiche del nu jazz e l’atmosfera si fa più jazzata e riflessiva. Così disse Leo Gandelman in un’intervista di presentazione dei Brazilian Groove Band:  “Abbiamo deciso di iniziare le sessioni alla fine della notte per avere un po' di silenzio pre-registrazione. Quindi siamo usciti dallo studio alle quattro del mattino nel pieno inverno di New York! E' stata un'avventura, ma il suono che abbiamo creato ha un qualcosa di artigianale e genuino e riflette alla perfezione quella atmosfera.”  Anatomy Of Groove è un album che farà la gioia degli appassionati di funk e dei suoni degli anni ’70. Tuttavia sarà interessante anche per tutti coloro che apprezzano la musica brasiliana moderna e potrebbe raccogliere consensi perfino tra i più aperti e curiosi tra i seguaci del jazz vista la presenza massiccia di assoli ed il sapiente uso degli arrangiamenti di fiati.

Eric Gale – In A Jazz Tradition


Eric Gale – In A Jazz Tradition

Eric Gale è stato per tutta la sua vita artistica un chitarrista molto stimato e richiesto, non è certo un caso se moltissimi musicisti e cantanti lo hanno reclutato per oltre quarant’anni, a partire dagli anni ‘50. Il suo stile, che era fortemente influenzato dal blues e dal soul, aveva però un sound molto peculiare ed è stato senza dubbio uno dei chitarristi più riconoscibili del panorama musicale internazionale. L’inconfondibile tocco della sua chitarra semi acustica può essere ascoltato su moltissime registrazioni, anche al di fuori del jazz, ma è soprattutto nei suoi lavori come leader che è davvero possibile apprezzare il valore ed il talento di questo misconosciuto maestro delle sei corde. Nato nel 1938 a Brooklyn da genitori originari delle Barbados, Eric Gale ha iniziato con il contrabbasso all'età di 12 anni, passando in seguito al sax, al trombone ed alla tuba prima di approdare definitivamente alla chitarra. Nel 1975 è stato uno dei fondatori degli Stuff, un’influente funky band creata insieme ad  altri tre artisti di grande spessore come Steve Gadd, Cornell Dupree e Richard Tee. L’essenza del suo stile è basata sul soul, sul blues e sull’r&b degli anni '50 e '60 ma la matrice jazzistica del suo fraseggio è ben presente nella sua cultura musicale e nel suo modo di suonare. Certo in carriera non sono state molte le occasioni nelle quali Gale ha potuto esprimersi nell’idioma del jazz classico, tuttavia quando il chitarrista di New York lo ha fatto, i risultati sono stati di grande livello. L’album "In A Jazz Tradition" del 1987, è esattamente questo: una svolta importante rispetto alla produzione precedente ed un distacco  netto da quel suono funky fusion che per molti anni aveva caratterizzato tutta l’attività artistica di Gale. Quello che si può ascoltare in queste sette tracce è sorprendente, soprattutto se paragonato agli album del periodo alla corte della CTI. Quelli erano dischi delineati dalla tipica produzione di Creed Taylor: una firma sonora grandiosa, per certi versi quasi ridondante, qui invece siamo in un territorio completamente diverso. Infatti In A Jazz Tradition è stato prodotto dal bassista Ron Carter che ha collaborato strettamente con Eric Gale allo scopo di arrivare ad una registrazione essenziale, incentrata su un classico suono di chitarra jazz, privo di ogni inutile orpello e pesanti arrangiamenti. L'ascoltatore si trova così al cospetto di un vero ed estremamente pulito sound di puro soul-jazz con una forte dose di bebop. Il quintetto guidato da Eric Gale e da Ron Carter è completato dal sassofonista Houston Person, dall’organista Lonnie Smith e dal batterista Grady Tate. Del set di canzoni che compongono questo bell’album, “Eric’s Gale” è il brano composto dal chitarrista in prima persona, mentre un paio di pezzi sono firmati da Ron Carter ("Loose Change" e "Blues Fo All") ed infine quattro sono gli standard, tra cui "Bloomdido" di Charlie Parker e "Jordu" di Duke Jordan. Tutto il disco dimostra di essere accattivante: si tratta della registrazione del momento migliore di tutta la carriera di Eric Gale, è un lavoro semplice e diretto nel quale il chitarrista riscopre il vero senso del jazz mettendo in evidenza tutte le splendide connotazioni cromatiche del suo personale linguaggio strumentale. La band al suo servizio è perfettamente funzionale allo scopo e l’essenzialità dell’arrangiamento esalta al massimo la raffinata tecnica ed il morbido tocco di Gale. Che siate o meno dei fan del compianto Eric Gale vi esorto alla ricerca ed all’ascolto di “In A Jazz Tradition”, in quanto perfetta espressione jazzistica di uno dei grandi chitarristi del nostro tempo. Una testimonianza resa ancor più preziosa dalla sua unicità, dato che, nel catalogo del chitarrista, questo è il solo album interamente concentrato sul jazz. Di fatto è la sua registrazione definitiva.

Frank Sinatra – Come Fly With Me


Frank Sinatra – Come Fly With Me

Mentre mi accingo a parlare di un mito,  mi faccio due semplici domande: la prima è Frank Sinatra è stato o no un cantante di jazz ? La risposta è facile ed è sì, non sempre i suoi album sono andati nella direzione dello swing ma molto spesso ne sono permeati fino nel profondo, basti pensare alla militanza nelle orchestre di Tommy Dorsey ed Harry James o alle collaborazioni con Count Basie o Billy May. Il secondo interrogativo è più complicato: come si fa a scrivere compiutamente di Frank Sinatra? Come si può parlare senza banalità di una delle più grandi voci della musica di tutti i tempi? La mia umile risposta sta nelle poche righe che seguono. Forse oggi Frank sarà anche una leggenda un po' dimenticata, ma di sicuro quello che mi viene da dire è che Sinatra rappresenta l’essenza del canto, Sinatra incarna la classe, Sinatra è lo swing, Sinatra è, e sarà per sempre, “la voce”. Frank è stato e continua ad essere una vera icona, un cantante unico ed insuperato, un personaggio istrionico ed anche controverso che è stato senza dubbio il più importante solista nella musica popolare del 20° secolo. In una carriera professionale che è durata 60 anni, ha dimostrato una straordinaria capacità di mantenere vivo il suo appeal e una grande coerenza nel perseguire i suoi obiettivi musicali, nonostante il passare del tempo ed i cambiamenti nelle mode. The Voice è balzato alla ribalta durante l'epoca dello swing degli anni ‘30 e '40, ha contribuito a definire "the sing era" degli anni '40 e '50, e ha continuato ad attrarre ascoltatori anche dopo l’avvento del rock and roll, cominciato attorno alla metà degli anni '50. Come esempio pensiamo al fatto che Frank raggiunse il primo posto nelle classifiche già nel 1940 e a distanza di cinquant’anni, nel 1994, vendeva ancora milioni di copie dei suoi dischi. Questa immensa popolarità e la sua longevità artistica sono il segno distintivo del suo successo come cantante. A lui va ascritto anche il merito di aver promosso con determinazione la canzone popolare americana, in particolare quella degli anni ‘20, '30 e ‘40. Sinatra ha avuto la forza e la bravura di impossessarsi del repertorio dei grandi compositori di quel periodo, come ad esempio Jerome Kern, Irving Berlin, George Gershwin, Cole Porter o Richard Rodgers e renderlo cosa propria, reinterpretando come meglio non si poteva fare le loro canzoni. Questa operazione, inusuale per un mero interprete come lui,  ha portato alla  riscoperta di un immenso ed inestimabile patrimonio musicale rendendo quelle melodie dei classici immortali. In seguito saprà fare altrettanto, per citarne due, con Burt Bacharach o Antonio Carlos Jobim: basterebbe questo per farne un fenomeno artistico: ma oltre alle sue scelte di repertorio, oltre al suo gusto per le grandi composizioni, c’è soprattutto la sua voce. Una voce unica, un’intonazione meravigliosa, un timbro che è sempre stato e sempre sarà inconfondibile e inimitabile. Sinatra aveva una superba ed innata capacità di galleggiare sui tempi, sulle pause, di giocare sugli arrangiamenti e sui ritmi con una maestria che ha qualcosa di soprannaturale. Che lo si ascoltasse sui suoi innumerevoli album, nelle esibizioni dal vivo, all’interno di un film, alla radio o alla televisione, The Voice ha sempre cantato gli standard in un modo tale da consacrarne il fascino a perenne memoria. Le sue canzoni ricordano ad ogni ascoltatore un’epoca meno complicata per la musica e forse più felice per tutti. Un’era in cui gli  appassionati non convivevano con un’industria musicale inflazionata di generi diversi e letteralmente invasa da una immensa quantità di artisti, dai più sorprendenti ai più terribili come siamo abituati in questi anni. Tenere il passo con tutto ciò che oggi  ci bombarda (con una qualità troppo spesso bassissima) è abbastanza difficile. Eppure, alla fine, basta rivolgersi ai classici come quelli di Frank, che ci prendono per mano e ci riportano indietro a quel tempo semplice ed incantato, popolato da melodie indimenticabili. Posso solo aggiungere a livello personale: Mr. Sinatra, grazie per perpetuare questa magia. Ma veniamo ad uno dei suoi dischi più famosi e riusciti: “Come Fly With Me” che fu registrato nel 1957, ed uscì nel 1958 con l’arrangiamento di Billy May e la partecipazione della sua grande orchestra. Il concept dell’album era quello di illustrare un viaggio musicale intorno al mondo e celebrare il volo in aereo come conquista sociale per un numero sempre più grande di persone. I titoli delle canzoni ed il tono ottimista della musica tengono fede all’idea che Sinatra e May avevano in mente ed ammiccano al sogno americano che era nel pieno del suo boom. Perfino la deliziosa copertina, disegnata come le illustrazioni pubblicitarie in voga alla fine degli anni ’50, va nella stessa direzione. Come Fly With Me soddisfa tutte le esigenze: sia che preferiate i brani malinconici e rilassanti come Autumn in New York e Moonlight in Vermont, oppure quelli più allegri, brillanti e jazzati, questo è un disco orecchiabile e piacevole da ascoltare dall’inizio alla fine. La voce di Frank Sinatra non ha tempo, non conosce generazioni e continua ad affascinare anche a distanza di sessant’anni da quel lontano 1957. E questo album è, nel suo genere, un piccolo capolavoro. Hanno gli stessi meriti, Frank e Billy; perché Frank è sempre Frank ed ha un senso per la musica ed il ritmo che nessuno prima di lui ha avuto e nessuno dopo avrà mai: come faccia la sua voce a “posarsi” sulle melodie in quel modo è un mistero insondabile; ma la big band e gli arrangiamenti che Billy appronta per l'occasione sono deflagranti e incendiano l’atmosfera come meglio non si potrebbe. Come Fly With Me è quello che si può oggettivamente definire un classico e pur non raggiungendola, rasenta la perfezione, è qualcosa di semplice, diretto e bello come raramente capita di ascoltare. Mentre le note della grande orchestra di Billy May e la fantastica voce di Sinatra avvolgono l’ascoltatore è facile comprendere il motivo per cui un’eredità artistica come quella di The Voice, può magari essere temporaneamente accantonata, ma mai potrà essere dimenticata. La stella di Frank Sinatra è comunque destinata a brillare per sempre.

SBO - Weniger Ist Nicht Immer Mehr


SBO - Weniger Ist Nicht Immer Mehr

SBO è l’acronimo di Slavko Benic Orkestr: nove musicisti provenienti dalla Germania in grado di produrre una fusione di funk, jazz e latin music del più alto livello con tecnica, passione ed energia. SBO evidenzia un chiarissimo richiamo alle band fusion del passato. Il segno di discontinuità del progetto rispetto alla produzione degli anni ’80 e ‘90  è però tutto nei contenuti musicali che si possono ascoltare nel loro primo album " Weniger Ist Nicht Immer Mehr" che si spinge più indietro nel tempo, in un'operazione di recupero ed aggiornamento anche del sound dei mitici anni '70. Il cd propone un repertorio che trasporta con disinvoltura e proprietà di linguaggio musicale nelle atmosfere degli spy movies, in quelle dei polizieschi televisivi o direttamente nel cuore di Cuba. Bastano davvero pochi minuti e si resta conquistati dalla contagiosa vivacità e dal potente suono che questi musicisti tedeschi riescono a generare. La band non vanta alcuna stella internazionale tra i propri membri e tutti gli artisti coinvolti sono circondati da un certo alone di mistero, tuttavia si può apprezzare quanto sia elevato il livello tecnico dei singoli e come l’amalgama tra di loro sia dei più riusciti. Il groove è il filo conduttore ed è gagliardamente presente in ciascuna delle nove tracce di Weniger Ist Nicht Immer Mehr (la cui traduzione suona pressappoco: di meno non sempre è meglio, un chiaro riferimento al numero consistente dei membri di SBO). Gli amanti del funk strumentale con abbondanti contaminazioni jazzistiche e molti richiami alla migliore tradizione latino-americana troveranno in questo album pane per i loro denti. Attraversato da una vibrante energia, il gruppo dispensa brillanti dosi di coralità ed una profusione di pregevoli assoli che non mancheranno di soddisfare anche i palati più esigenti. L’album inizia nel migliore dei modi con la trascinante “Rappelkiste”, introdotta da roboanti fiati e un’irresistibile ritmo funky sincopato. Un assolo di basso rappresenta il primo stacco ma non solo: è l’immediata dimostrazione di quanto i musicisti della band siano anche singolarmente molto dotati: una caratteristica subito dopo ribadita dal sax che entra prepotentemente in scena per lasciare infine spazio ad un bell’assolo di chitarra elettrica. Tutto molto seventies, tutto molto bello. “Fuck The Clave” ci introduce nella lettura che SBO dà dei ritmi e delle atmosfere latine. Su una base ritmica funky-salsa sono prima la tromba e poi ancora il sax tenore a darsi battaglia in assoli  di pregevole fattura. Quello che colpisce è l’affiatamento ed il senso di unità che questi tedeschi riescono ad esprimere con i loro ottoni perfettamente arrangiati. “Me And B” rimanda al soul jazz degli anni ’70, un sound vintage che è il perfetto vettore per un magnifico assolo di trombone e per quello altrettanto stimolante di un organo Hammond fluido ed acido quanto basta. Gli accenni di jazz più tradizionale della successiva “Is Dit Jetz Jazz”  sono lì a ricordarci che SBO è un ensemble che può tranquillamente spingersi oltre i confini del funk o dell’acid jazz per inoltrarsi con successo anche sui sentieri più intricati del jazz contemporaneo, sia pure esso elettrico. Molto interessante l’assolo di pianoforte che sa essere melodico e ritmico con la giusta dose di equilibrio. Atmosfera più rilassata, quasi da ballata smooth jazz per “Ok, Eins F R  Die Liebe…” in cui è la chitarra elettrica a prendersi la scena mentre i contrappunti fiatistici contribuiscono in maniera determinante a creare un magico sound quasi da big band. Inaspettato e bellissimo l’intermezzo di un vibrafono il cui assolo conduce al finale pennellato questa volta da un ottimo flicorno. Senza indugiare oltre sul morbido tessuto delle ballads, ecco arrivare un altro gran bel funk: “Yes, Maybe No” riassume tutti i classici temi cari a questo genere musicale, ritmica uptempo, chitarra wah wah, il basso pulsante e i soliti potenti fiati a far da passaggio  e da collante ai vari solisti. “Spy Games” dice tutto già dal titolo, e se si procede con l’ascolto sono l’organo Hammond, la chitarra choppata, e gli ottoni all’unisono che ci trasportano magicamente dentro un film di spionaggio o un poliziesco degli anni ’70. Bellissima per il feeling vintage ma anche e forse soprattutto per la serie di assoli, breaks e riffs che accompagnano tutto il brano. Se vi piace la musica cubana o più in generale il latin jazz “Kananga” è il pezzo che fa per voi. Costruita su una classica ritmica salsa, veloce ed energica, sprigiona tutto il calore e la festosa allegria di una band che davvero potrebbe venire dal centro dell’Avana piuttosto che dalla fredda Germania. E’ il Caribe al suo meglio. “Finale Furioso” non potrebbe che essere la chiusura di questo bel lavoro: un conclusione spettacolare che riassume in un unico brano tutti i temi toccati dal progetto SBO. Come in un piccola suite funky jazz, ci sono sezioni più lente e ritmi frenetici all’interno della stessa composizione, nella quale spiccano il bell’assolo di sax e la solita roboante sezione fiati che non poteva non mettere il suo sigillo ad un lavoro che proprio dal sapiente arrangiamento dei sax, delle trombe e  dei tromboni trae la sua firma sonora. Slavko Benic Orkestr è una magnifica sorpresa ed un nome da ricordare per il futuro: se riusciranno a ripetersi ed a migliorare il già eccellente risultato ottenuto con Weniger Ist Nicht Immer Mehr, ci troveremmo al cospetto di una realtà che può tranquillamente valicare i confini nazionali tedeschi e proporsi al mercato internazionale come una delle band più interessanti dei nostri giorni.