Dave Weckl - Transition
Dave Weckl - Transition
Dave Weckl è uno dei più acclamati batteristi del mondo, un vero fenomeno dal suo strumento per tecnica, velocità, precisione ed inventiva. Weckl è un vero e proprio punto di riferimento per chiunque si voglia confrontare con la batteria ed è da annoverare senza dubbio tra i migliori cinque drummer contemporanei al mondo. Di sicuro questa fama è figlia di una lunga gavetta e di un perfezionismo maniacale ma la sua reputazione è maturata anche per merito della sua celebrata militanza, durata sei anni, con le band di Chick Corea. Weckl è nato a St. Louis ed è cresciuto ascoltando soul e jazz; ha ricevuto il suo primo set di batteria all'età di otto anni e ha quindi forgiato il suo inconfondibile stile attraverso l'ascolto di un mito della batteria jazz come Buddy Rich, ma anche prendendo a piene mani dalle ritmiche del funk e dell’R&B. Diplomatosi in musica jazz presso l'Università di Bridgeport, si è poi spostato a New York per godere delle grandi possibilità offerte dalla metropoli. E’ qui che si è unito ad un gruppo fusion chiamato Nitesprite, attirando finalmente l'attenzione di un grande batterista e produttore quale Peter Erskine. L’ex Weather Report è stato determinante per il prosieguo della carriera di Dave Weckl, che ottenne da quel momento in poi un forte slancio verso il successo. Transition è il terzo album di Dave Weckl per l'etichetta Stretch Records e come indica lo stesso titolo riflette una nuova direzione nella proposta musicale del batterista, un momento di transizione e di passaggio foriero di inediti approcci tecnici ed di una band aggiornata. Sono sette i brani che compongono questa registrazione del 2000, nella quale il batterista si avvalse della presenza di un amico di lunga data come il bravo sassofonista Brandon Fields. Insieme a quest'ultimo, con il quale Dave aveva ed ha un rapporto di amicizia ed un intenso e proficuo interplay, l’album vedeva la partecipazione del bassista Tom Kennedy e della più recente acquisizione della band in quel momento, il formidabile tastierista Steve Weingart. Weckl si presenta in grande spolvero e si cimenta con nuove tecniche percussive che prevedono ad esempio un inusuale utilizzo dei bongos e di varie percussioni metalliche che arricchiscono e colorano la nuova configurazione della sua già ricca batteria. Transition mette in mostra la mostruosa abilità tecnica del leader, il quale come d’abitudine fornisce generose dosi di ritmo ad altissima energia ed una raffinata gestione della velocità e del controllo: un marchio di fabbrica che ha caratterizzato Dave Weckl sia nella Elektric Band che nella Akoustic Band di Chick Corea. In questo album vediamo che i due approcci (elettrico e acustico) vanno nella direzione di una certa convergenza. Se da un lato infatti il drumming di Weckl resta potente e carico di groove, dall’altro è evidente anche una ricerca stilistica orientata ad una maggiore leggerezza. "Mild Hysteria" ad esempio propone la batteria in un veloce poliritmo sul quale la band suona con un tempo diverso: così la melodia sembra cambiare ad ogni singola sezione solistica. "Group Therapy", scritta da Brandon Fields, mette in luce la sua bella voce di sax ed un ottimo funky groove di tutto il gruppo. Strutturalmente molto interessante è anche la sinuosa "Passion" con Steve Weingart e le sue magnifiche tastiere a giocare in tandem con la delicata atmosfera percussiva di Weckl. Fields è ancora affascinante nel suo assolo che contribuisce ad accrescere l'impatto sull'ascoltatore. "Crossing Paths" è un altro grande pezzo dalla melodia orecchiabile, in questo caso contrassegnato dalla prominente presenza del potente basso di Tom Kennedy. Nel suo insieme, la Dave Weckl Band è un gruppo jazz rock piuttosto particolare, per certi versi unico nel suo genere. La sua identità musicale fatta di tecnica sopraffina e tanta energia sembra aver felicemente abbattuto il confine tra solista e accompagnatore creando una stratificazione sonora molto intrigante e di grande suggestione. Una formula che può appagare in egual misura sia gli appassionati di jazz che quelli più orientati verso la fusion.
Fertile Ground - Perception
Fertile Ground - Perception
La band soul-jazz chiamata Fertile Ground è probabilmente tra i collettivi musicali più visionari, originali ed innovativi che possa capitare di ascoltare. La ragione? I Fertile Ground fanno quello che vogliono e non pagano tributo ad alcuna delle correnti o delle tendenze in voga. Sono afrocentrici, politicamente impegnati nella comunità, esteticamente evoluti ed artisticamente avanzati. Non sono ascrivibili a nessuna delle attuali "categorie" (leggi: prigioni) della musica nera fin dal lontano 1998. Facciamo dunque un passo indietro e vediamo che la band fu fondata a Baltimora dal tastierista James Collins nel 1998 come un mini gruppo di tre elementi con la vocalist Navasha Daya ed il batterista Marcus Asante. Il progetto era implementare la canzone soul americana con i ritmi di varie parti del mondo senza canoni precisi e restrizioni. Nel 1999 alla band si sono aggiunti il percussionista Ekendra Das, il veterano trombettista Freddie Dunn e il virtuoso sassofonista Craig D. Alston. Collins creò anche un’apposita etichetta discografica, la Blackout Studios ed i Fertile Ground ebbero la possibilità di auto prodursi così i primi due album (Field Songs e Spiritual War). Nel 2000, il proprietario dell'etichetta Counterpoints Records, Jake Behnan, scoprì la band e ne divenne un fan entusiasta, al punto da voler riunire il meglio dei primi due album in una compilation intitolata “Perception”. Fu un successo immediato in Asia ed in Europa. Seguirono un cambio di batterista (il nuovo fu Mark Prince), un lungo tour e anche due nuovi album, entrambe molto interessanti (Seasons Change del 2002 e Black is… del 2004). Successivamente a livello discografico ci furono solo un album di remix (Remixed) e una riedizione del primo storico album Field Songs Revisited. All'inizio del 2010, i membri di Fertile Ground decisero di prendersi una pausa per concentrarsi sui loro progetti personali, il risultato è stato una disdetta per tutti gli appassionati perché da quel momento di fatto il gruppo non ha pubblicato più nulla. Sarebbe bello se questa stasi creativa dei Fertile Ground finisse al più presto. Nel frattempo non ci resta che goderci quello che è il segno più tangibile e completo del loro talento e cioè questa compilation intitolata come detto prima Perception. Un mix indovinato dei primi singoli della band e molti brani selezionati dai loro primi due album. Il set si apre con il canto/poesia afro di "Libations" sostenuta solo da percussionisti. Un inizio che non deve ingannare sulla natura musicale del gruppo che infatti è seguito dal brusco cambio di stile di “Spiritual War”, un profondo groove soul-jazz che, pur se pilotato da un ritmo afro, mette subito in evidenza la splendida vocalità di Navasha Daya ed evidenti echi di jazz e blues. Un brano che è influenzato sia da Gil Scott-Heron che dalla musica più matura di Marvin Gaye ed anche dai primi lavori di Jon Lucien. Con un sound però decisamente moderno. “Broken Branches” è una canzone molto accattivante, arricchita da un arrangiamento funky soul ricco di fiati su un medio tempo molto articolato. Bellissimi gli assoli di sax di Alston e di Freddie Dunn alla tromba. Una strana ritmica ci accoglie in “Be Natural”, anch’essa dominata dai fiati e dalla convincente voce di Navasha. Atmosfera latineggiante per la veloce “Peace & Love” con le percussioni ancora sugli scudi. Bellissima poi “Let The Wind Blow” una canzone sofisticata e di ampio respiro che corre, si ferma, riparte e mette nel cocktail anche un altro bell’assolo di sax. Groove latino e linee di basso ipnotiche per “Colors Of The Night” che Freddie Dunn impreziosisce con un intervento di tromba di stampo jazzistico. “Patches In The Shade (Stay Strong)” è invece uno funky shuffle molto black: bello l’assolo di synth di James Collins. Altri punti salienti dell'album sono i brani più jazz-oriented proposti dai Fertile Ground: "Ghetto Butterflies", "Homage (Yesterday)" e "My Friend the Moon" tre canzoni che esaltano le ottime doti vocali afro black di Navasha Daya, ma soprattutto le qualità strumentali dei musicisti. In realtà, nelle 16 tracce contenute in Perception, non c'è un vero momento di debolezza. La profonda anima soul, la presenza di un filo conduttore jazzistico, lo spirito world/afro genuino unito alle atmosfere semplici e dirette ma originalissime rendono questa compilation in qualche misura l’album definitivo dei Fertile Ground. Questa band è un segreto molto ben custodito della scena soul-jazz. La speranza è che tornino presto a farsi sentire con produzioni attuali per confermare le stesse fantastiche vibrazioni che hanno saputo trasmettere in passato ma proiettandosi nel 21° secolo con nuovo slancio e la medesima passione. Se riuscissero ad avere più risonanza a livello mediatico il (meritato) successo questa volta potrebbe essere davvero planetario.
Eric Gunnison - Voyageur
Eric Gunnison - Voyageur
Quando non ascolto musica dalla mia personale discoteca mi piace molto esplorare il web a caccia di novità, artisti sconosciuti e giovani o meno giovani talenti di cui la rete è davvero piena. Qualche volta si fanno degli incontri interessanti e ne esce materiale anche per questo blog. E’ questo il caso del pianista e compositore Eric Gunnison, di cui ignoravo l’esistenza ma che, dopo un ascolto su You Tube, ha attirato la mia attenzione e mi ha spinto a cercare maggiori informazioni e testare la sua produzione discografica. Nativo di New York, ma con residenza stabile nella città di Denver in Colorado fin dal lontano 1980, Eric ha portato avanti una brillante carriera musicale durante la quale si è affermato come uno dei pilastri della vibrante scena jazz della Mile High City in veste di strumentista, di bandleader e di educatore. Attivo da più di 30 anni come sideman e pianista/tastierista di studio, Gunnison è stato anche un insegnante presso la Lamont School Of Music di Denver e al Conservatorio del Colorado. Gunnison grazie alla sua competenza ed alla sua bravura ha avuto l’opportunità di esibirsi con artisti jazz di fama internazionale con una particolare specializzazione per le cantanti. Dopo due album di estrazione jazzistica tradizionale, pubblica ora questo nuovo lavoro che vede una sterzata decisa verso una fusion raffinata e non commerciale, caratterizzata da un sound che recupera atmosfere vintage e fa uso del piano elettrico e del sintetizzatore. Voyageur, questo è il titolo dell’album, resta comunque un disco di jazz, sia pure jazz elettrico. Le contaminazioni con il funk o se volete con la fusion sono evidenti, dettate anche dalla scelta della strumentazione, ma il cuore della musica di Eric Gunnison è prevalentemente radicato nel contesto della migliore tradizione sia per quanto riguarda la tecnica dell’improvvisazione, sia per la struttura armonica dei brani. Per questa registrazione il pianista è affiancato da un gruppo di musicisti piuttosto sconosciuti ma non per questo meno validi. Bijoux Barbosa, Matt Houston, Christian Teele, Randy Chavez, Kirwan Brown, Mike Marlier sono i compagni d’avventura scelti da Gunnison per questo progetto. Il disco inizia con quello che probabilmente è il brano più fusion di Voyageur: ”Journey To Akumal” è dominato dal synth che detta la melodia su un ritmo latineggiante. L’atmosfera è un mix affascinante di new age, fusion e progressive e l’assolo centrale di Eric è assolutamente degno di nota per inventiva e originalità. Come il titolo lascia presagire “G-Funk” si sposta più decisamente verso il funk groove, mentre la melodia è condotta prima da un magistrale piano acustico e poi, sempre in pieno territorio jazzistico, da un Rhodes che farà la gioia dei molti seguaci del piano elettrico. “Tribute” affronta il tema della ballata jazzistica in modo piuttosto canonico, il trio piano – basso – batteria è la formula scelta da Gunnison per questo rilassato brano, etereo e molto gradevole. Il pianista di Denver si cimenta anche con un numero in stile bossa con “Midnight Samba” ed anche in questo caso la scelta cade sul classico pianoforte. Su di una base ritmica brasilianeggiante, Gunnison si esibisce in uno splendido assolo, dimostrando una notevole padronanza di questo particolare stile. Il pezzo forse più interessante dell’album è “Lodo Blue”, veicolato da una ritmica sincopata e scoppiettante, Eric fa sfoggio di talento e tecnica con il piano elettrico, ricreando un feeling jazz rock da anni ’70 che al mio orecchio suona irresistibile. Evidenziando una predilezione per le ritmiche latin funk, Gunnison si mette nuovamente al pianoforte acustico per proporre un altro bel brano intitolato “Five Years Ago”, colorato da un ulteriore saggio di bravura e fantasia nell’improvvisazione. “Eurasian Lullaby Redux” è animata da una particolare tensione emotiva, con continui cambi di ritmo e di atmosfera, ma a fronte di un’eco quasi new age suona come una rilassata ballata jazzistica. A chiudere questo album ci pensa un brano per piano solo intitolato “Lost Soul”, perfetto per le indubbie doti strumentali di Gunnison. Una menzione particolare deve però essere doverosamente assegnata anche al bassista Eduardo “Bijoux” Barbosa ed al batterista Matt Houston che si distinguono in tutto l’album per la ritmica puntuale ed alcuni assoli piuttosto pregevoli. Voyageur è decisamente una proposta interessante ed una bella scoperta nel mare magnum delle pubblicazioni musicali di questi ultimi tempi. Eric Gunnison dimostra di essere un pianista di tutto rispetto, che oltre ad un’ottima tecnica individuale, riesce ad esprimere anche delle notevoli doti di compositore. Senza particolari ambizioni o manie di protagonismo offre del buon jazz contemporaneo colorato di forti tinte fusion. Al giorno d’oggi può bastare così.
Bob Mintzer – All L.A. Band
Bob Mintzer – All L.A. Band
Bob Mintzer è uno dei più straordinari ed importanti sassofonisti in attività. Il suo sound pieno e vigoroso, il suo fraseggio sapiente e la sua fluida espressività ne fanno certamente uno degli esponenti più in vista del sassofono contemporaneo a livello internazionale. La “voce” degli Yellowjackets, è un musicista super impegnato: è quasi sempre in tour con la popolare band fusion, con il proprio quartetto, o magari con le big band, formula jazzistica di cui è diventato un vero e proprio punto di riferimento. Nonostante ciò Mintzer non perde occasione per scrivere musica jazz di qualità per tutte le situazioni che lo vedono coinvolto. Mintzer è anche docente di composizione presso la University of Southern California a Los Angeles, ruolo che condivide con gli amici di lunga data Peter Erskine, Alan Pasqua, Vince Mendoza e Russell Ferrante. Partecipa anche a laboratori musicali in tutto il mondo, scrive libri su una varietà di argomenti inerenti la musica, è presente in molteplici registrazioni in qualità di solista ospite o direttore artistico. In sostanza Bob è uno di quei musicisti che vivono la loro professione a 360 gradi con una grande passione e con encomiabile impegno. “All L.A. Band” è la sua ultima fatica come direttore della più recente versione della sua Big Band: quella che ha sede a Los Angeles e annovera tra i suoi membri tutti musicisti dell’area Californiana. Anche se il nome del sassofonista Bob Mintzer figura quale titolare solitario del progetto, l'All L.A. Band è in realtà una reciproca collaborazione con il celebre batterista Peter Erskine, ovvero quella che fu la ritmica dei Weather Report. Oltre al ruolo di batterista, Erskine ha prodotto l'album, mentre Mintzer si è occupato delle dieci belle composizioni e degli arrangiamenti. Tra gli stili musicali più vicini al cuore di Bob ci sono l’afro-cubano ed il funk, ed è naturale che vi sia abbondanza di entrambi su All L.A. Band. Per questo album Mintzer ha scelto la crema dei musicisti ed i risultati sono prevedibilmente eccellenti. Basti sapere che la sezione trombe è affidata a Wayne Bergeron, mentre quella dei tromboni è sotto la supervisione di Bob McChesney. È interessante notare che, Mintzer ha scelto di utilizzare solo tre sassofoni: il contralto di Bob Sheppard, il baritono di Adam Schroeder e lui stesso stesso al tenore. Per quanto riguarda la sezione ritmica, troviamo il pianista Russell Ferrante, il chitarrista Larry Koonse, il bassista Edwin Livingston ed il percussionista Aaron Serfaty pilotati abilmente dalla batteria del navigato e sempre straordinario Peter Erskine. L’apertura dell’album è affidata ad un primo omaggio di Mintzer alla musica cubana, il latin jazz solare e contagioso di "El Caborojeno" ci porta subito in atmosfera caraibica, nello stesso modo in cui più avanti la big band ci delizia con brani come "Ellis Island" e "Latin Dance". Virata funk per "Slo Funk" che fu scritta una quarantina di anni fa per la band di Buddy Rich, e poi anche per "Home Basie" e "New Rochelle", composta in origine per gli Yellowjackets. Tutti brani che se da un lato evidenziano una ritmica più marcata e aggressiva, nella sostanza restano intrinsecamente jazzistici per quanto concerne gli arrangiamenti e gli assoli. "Havin 'Some Fun" è un numero in pieno stile Count Basie, ed è un piacere ascoltare un big band dei giorni nostri esibirsi in uno swing orchestrale così magistralmente suonato. "Original People" ricalca ugualmente le orme dei classici dello swing. Straordinaria la veloce, roboante "Runferyerlife", (precedentemente ascoltata in Old School dello stesso Mintzer) dove è possibile ascoltare uno dei migliori assoli di Mintzer ed uno scoppiettante intervento di trombone di McChesney. L'album si chiude con "Tribute", un sentito omaggio al trombettista Thad Jones ed ai molti altri eccellenti musicisti che hanno militato nella mitica big band di Count Basie. E’ evidente che il fulcro di questo album e dell’intera orchestra sia proprio Bob Mintzer con il suo sax tenore: i solisti più in evidenza oltre al leader sono sicuramente Bob Sheppard, Adam Schroeder, Bob McChesney e Russell Ferrante al pianoforte. Tuttavia al di là dei singoli è il suono della L.A. Band che riesce nell’intento di affascinare l’ascoltatore con un repertorio vivace e sempre interessante, mai noioso o eccessivamente pesante. Nel solco della migliore tradizione ma con un tocco di modernità e leggerezza che non stonano affatto, Bob Mintzer e Peter Erskine hanno messo insieme un progetto straordinario, condensato in questo bellissimo album che può vantare tra le altre cose una coerenza impressionante. Questo è jazz di alto livello che dovrebbe catturare sia l’appassionato che l’ascoltatore occasionale. A mio parere All L.A. Band è una delle migliori pubblicazioni del 2016.
Don Sebesky – Giant Box
Don Sebesky – Giant Box
Don Sebesky è un nome che alla maggior parte dei lettori non dirà quasi nulla, ma agli appassionati più attenti risulterà invece molto più popolare. Sebesky fu infatti l’arrangiatore di fiducia del produttore Creed Taylor e dunque il responsabile del sound di molti degli album della Verve, della A & M, e della quasi totalità delle produzioni della CTI/KUDU. Don è il musicista la cui maestria orchestrale ha contribuito a rendere artisti come Wes Montgomery, Paul Desmond, Freddie Hubbard, e George Benson più popolari e meglio accettati al pubblico al di fuori del jazz. Pur avendo subito critiche per il suo approccio particolare verso un genere che non ha mai amato l’uso delle orchestre, va detto senza remore che Don Sebesky è un musicista e compositore tra i più eleganti e completi del suo campo, un artista con una solida conoscenza dell'orchestra ed una coraggiosa visione dell’uso che se ne può fare nel jazz e nella fusion. Sebesky ha letteralmente creato uno stile, attingendo con intelligenza dal grande jazz delle big band, dal rock, dalla musica etnica, da quella classica di tutte le epoche, e perfino dall'avanguardia. Egli stesso ha citato Bela Bartok come suo compositore preferito, ma nel suo lavoro si sentono anche forti echi di Stravinskij. Don Sebesky ha iniziato la sua carriera professionale come trombonista mentre era ancora studente alla Manhattan School of Music, lavorando con Kai Winding, Claude Thornhill, Tommy Dorsey, Maynard Ferguson, e Stan Kenton. A partire dal 1960 ha lasciato il trombone per concentrarsi sull’arrangiamento e la conduzione d’orchestra. La svolta decisiva nel suo percorso artistico fu l’incarico di arrangiare l’album di Wes Montgomery “Bumpin'” (1965) che resta uno degli esempi più interessanti del suo lavoro nel jazz insieme a “The Shape of Things to Come” di George Benson, “From the Hot Afternoon” di Paul Desmond, e “First Light” di Freddie Hubbard. Tuttavia fu proprio questo originale ed articolato album intitolato “Giant Box” che attirò i riflettori di pubblico e critica: infatti il cast messo a disposizione da Creed Taylor per l’occasione consente di ascoltare all’opera un vero concentrato di star. In effetti Giant Box può essere considerato il più ambizioso tra i numerosi progetti di Taylor per la CTI ed è indicativo il fatto che fu affidato in prima persona al prezioso lavoro di Don Sebeky. Il successo planetario della 2001 Space Odissey di Deodato (arrangiata proprio da Don) aveva fatto affluire copiose ed impreviste quantità di denaro nella casse della CTI e Taylor decise di utilizzare quasi tutti i migliori musicisti che aveva a disposizione nel suo “roster”, mettendo alla guida di tutto Don Sebesky. La all-star band era così composta: Freddie Hubbard, Randy Brecker, Hubert Laws, Paul Desmond, Joe Farrell, Grover Washington, Jr., Milt Jackson, George Benson, Bob James, Ron Carter, Jack DeJohnette, Billy Cobham, Airto Moreira, Jackie Caino e Roy Kral, una cosa mai vista su un unico album. Il risultato è una vera e propria opera di ampio respiro che condensa e sublima tutto il sound distintivo e l’identità unica che ha caratterizzato la storia dell’etichetta CTI. Un album che propone degli adattamenti classici (Firebird di Stravinsky ad esempio è unita in modo sorprendente con "Birds of Fire" di John McLaughlin), alcune orchestrazioni elaborate ed ardite, delle cover di brani pop, ed il giusto spazio per i solisti per mostrare tutto il loro talento. Ed infatti tutte le stelle riunite in questa registrazione riescono a brillare al loro meglio. Desmond suona particolarmente ispirato in una scintillante e romantica "Song To A Seagull" che esprime al contempo, in modo chiaro, il concetto di orchestrazione jazz che il maestro Sebesky ha nelle sue corde artistiche. Hubbard e Washington si esibiscono da par loro sul brano, appropriatamente intitolato, "Free as a Bird": lo stile è quello delle big band e qui sono i fiati a caratterizzare il sound. Sebesky fu lasciato libero di sperimentare ed il suo talento nell’arte dell’arrangiamento orchestrale si delinea splendidamente (e con grande inventiva) ad esempio sulla citata "Firebird/Birds Of Fire" o sulla particolare "Fly/Circles" che vive le sue due anime contrastanti in modo molto originale. “Semi-Touch” va toccare il cuore del jazz dei seventies attraverso un sound funky quasi da blaxploitation ed è un tripudio di ritmica e groove. Che si tratti di atmosfere jazzistiche, di rivisitazioni di brani classici o che l’atmosfera viri sulla fusion, Sebesky riesce a mantenere un perfetto equilibrio, sintetizzando in modo magistrale le molteplici anime della musica moderna. L’album uscì in origine come doppio LP all’interno di un elegante box, con all’interno un libretto di fotografie e un'intervista esclusiva a Don Sebesky, mentre la ristampa su CD condensa tutto in un singolo disco, in accordo con la maggiore capacità di registrazione del supporto più recente. Giant Box rappresenta ancora oggi un’opera musicale in qualche misura sensazionale e mantiene viva la memoria di quanto forte ed importante fosse la CTI all’apice della sua parabola.
Joe Beck - Beck
Joe Beck - Beck
Il chitarrista Joe Beck ha goduto di un grande credito nell’ambiente fusion fin dall’inizio degli anni ’70. Le sue credenziali come session man comprendono anche le collaborazioni con artisti del calibro di Miles Davis, James Brown, Paul Simon, Frank Sinatra e Gil Evans. Durante gli anni '80 ha poi realizzato una serie di ottimi album fusion e pop-jazz per la DMP, e successivamente ha proseguito la sua carriera continuando a produrre numerosi cd, fino al 2008 quando gli fu diagnosticata una grave malattia ed in seguito morì a soli 62 anni. Beck ottenne il suo vero, primo successo nel 1975 con questo album omonimo concepito in stretta collaborazione con David Sanborn e registrato per la CTI, l’etichetta del produttore Creed Taylor che dominava la scena fusion dell’epoca. “Beck” non è mai stato pubblicato su CD, e risulta disponibile solo attraverso il canale dell’importazione giapponese. Il disco è sicuramente un capolavoro di metà degli anni '70, il cui focus artistico è incentrato su un formidabile mix tra funky jazz e fusion. Fondamentale per la riuscita della registrazione furono senza alcun dubbio i musicisti coinvolti, che vanno da un giovane David Sanborn al sax al grande Don Grolnick alle tastiere, passando per il basso di Will Lee e la batteria di Chris Parker. Tutte le otto tracce dell'album sono state registrate in solo due giorni di sessioni di studio. (In origine sul vinile erano solo sei, mentre la versione cd prevede due inedite bonus tracks). Alcune sovraincisioni sono state inserite in un’ulteriore giornata di lavoro ed infine ci fu l’aggiunta di un minimo di archi arrangiati da Don Sebesky. "Star Fire" apre il set con un bell’unisono tra la chitarra di Joe Beck ed il sax di Sanborn: il sound è inequivocabilmente fusion e il dipanarsi del brano mette in risalto l’alto livello di interplay tra i due solisti ed il resto della band. Il groove è potente in un inseguirsi di stretti fraseggi di sax e cavalcate chitarristiche. Bellissima ed intensa “Cactus” firmata da Don Grolnick, un brano che diventerà un classico con il quale si cimenteranno molti chitarristi in seguito. "Texas Ann" è un altro pezzo originale di Beck, dove Sanborn si mette in luce con un sentore di blues mentre lo stesso chitarrista sciorina un assolo di pregevole fattura sulla base delle tastiere di Don Grolnick. In "Red Eye" si respira aria di funk: su un medio tempo la discreta orchestra d’archi di Sebesky offre uno splendido sottofondo per l’assolo del sax acido di David Sanborn, il quale dimostra di essere già il fenomeno che in un decennio conquisterà le classifiche internazionali di contemporary jazz. La chitarra di Beck è al solito un misto di psichedelia, rock e jazz tanto affascinante quanto originale. Il brano più funk dell’album è "Café Black Rose", un numero che mette in mostra l'impegno del gruppo nel produrre un groove jazz graffiante ed energetico sulla base di una ritmica estremamente sincopata e nervosa. L’ospite Steve Khan aggiunge un tocco particolare con la sua slide guitar, incrementando la sensazione di funky alla Sly Stone. “Brothers And Others” gioca su tre distinte fasi: l’iniziale e la conclusiva molto blueseggianti e la sezione centrale che con un cambio di ritmo sposta repentinamente il baricentro nel territorio della fusion; sia la chitarra di Joe che il sax di David ben si adattano alla situazione. Chiude i giochi l’altra bonus track “Spoon’s Theme”, un brano suonato ad alta velocità che è un vero concentrato di puro jazz elettrico anni ’70, il feeling è esattamente quello delle serie tv poliziesche di quel periodo che tanto ci entusiasmavano. “Beck” è un ascolto essenziale per chiunque sia interessato al funk jazz della metà degli anni '70. Gli ingredienti classici sono tutti lì, in bella mostra: la tecnica, le idee e le composizioni sono proprio come dovrebbero essere. E di più, Joe Beck conduce al meglio l’amico David Sanborn e tutta la band in un viaggio fantastico tra vibrazioni positive, arrangiamenti essenziali ma efficaci ed un genuino spirito funk fino al cuore del tipico CTI sound. Quello di cui personalmente sono un ammiratore incondizionato.
Idris Muhammad – Power Of Soul
Idris Muhammad è stato un ottimo batterista che in carriera ha avuto molteplici esperienze musicali: dal jazz al soul, dal funky alla fusion il barbuto drummer ha attraversato con disinvoltura e padronanza ogni variante stilistica. Tecnicamente ineccepibile e famoso per la potente e precisa scansione ritmica ha trovato il suo momento di maggior splendore durante la sua militanza con CTI di Creed Taylor. Diventato professionista a soli sedici anni, Muhammad ha suonato principalmente soul e R & B all’inizio degli anni ‘60 per poi passare al jazz dopo il 1965, quando divenne membro della band di Lou Donaldson. In seguito, sotto contratto per la Prestige Records tra il 1970 e il 1973, è comparso come sideman su moltissimi album registrati dalla famosa etichetta jazz. Idris Muhammad, dopo essersi ritirato a New Orleans nel 2011, è venuto a mancare nel luglio del 2014 all'età di 74 anni. Power Of Soul, insieme con un pugno di altre registrazioni per la CTI è una delle ragioni per cui Idris Muhammad è passato alla storia come uno dei batteristi più dotati di genuino groove feeling. La band è tra le migliori che si possano desiderare: alle tastiere Bob James, al sassofono Grover Washington, Jr., alla chitarra Joe Beck, alla tromba Randy Brecker, ed infine alle percussioni Ralph MacDonald. La magnifica produzione di Creed Taylor, così tipicamente seventies è la ciliegina sulla torta: l'anima jazz sublimata da un genuino funky groove. Ed è proprio il funk a volare veloce e potente su tutto il disco, in particolare sulla title track (brano di Jimi Hendrix), con gli stupendi assoli di Grover Washington e Bob James, perfettamente a loro agio sulla ritmica scandita da Idris Muhammad. Particolare ed entusiasmante l’assolo di chitarra di Joe Beck che è speciale anche per il suo andare in leggero controtempo. Quattro brani per soli 34 minuti complessivi sono fin troppo pochi per i contenuti di Power Of Soul: ma è una sorta di concentrato emozionale di quello che era capace di esprimere Muhammad in quel particolare momento storico. Siamo a metà degli anni’70 (1974), questo album rappresentava il debutto del batterista per l’etichetta parallela KUDU all’interno del più vasto universo della CTI, un esordio che non avrebbe potuto essere più felice. Non c’è una traccia debole in Power Of Soul: “Loran’s Dance" di Grover Washington è dark ed intensa, perfino inusuale per gli standard compositivi del grande sassofonista a ribadire che da lì in avanti il suo ruolo nella musica internazionale sarà di primo piano sia come compositore che come straordinario esecutore. Bellissima “Pieces Of Mind” di James che suona fantasiosa e leggera ma non banale, ed è da incorniciare l’assolo di soprano di Grover Washington, come il successivo intervento di tromba offerto dal magico Randy Brecker. Se siete appassionati di piano elettrico è imperdibile anche il solo di James. “The Saddest Things” con la sua atmosfera rilassata ed orecchiabile non fa che confermare la sensazione di qualità e ottime vibrazioni che pervade tutto l’album. Ogni musicista ha qui piena libertà creativa e Idris Muhammad mantiene saldamente la barra del ritmo con quel suo stile sobrio ed asciutto da metronomo vivente. Power Of Soul è un approccio al jazz che è sì leggero e abbordabile, ma al contempo è anche musicalmente complesso. C'è una grande forza in queste quattro tracce: può intrattenere, può far riflettere o semplicemente farvi battere il tempo con il piede con un sorriso di soddisfazione sulle labbra. Questo è il luogo dove il jazz ed il soul si incontrano, si uniscono e si esaltano, spinti da un’anima funk, e a me piace moltissimo.
Hank Crawford - Wildflower
Hank Crawford - Wildflower
Hank Crawford, ovvero un sax alto dalla voce inconfondibile, piena di emozione ed intensità, che interpreta in modo completo ed esaustivo entrambe le anime della tradizione afroamericana: quella jazz e quella blues. Nato a Memphis, Crawford è cresciuto nel segno del blues fin dalla più tenera età. Ha iniziato suonando il pianoforte, ma è passato al sassofono contralto quando suo padre gliene regalò uno. Tra le sue principali influenze lo stesso Hank cita Louis Jordan, Earl Bostic, e Johnny Hodges. Le sue registrazioni degli anni '60 per la Atlantic Records lo hanno reso a buon diritto uno dei sassofonisti più importanti del genere soul-jazz. Grazie ad un fraseggio di classe cristallina e ad un feeling unico, Hank Crawford è indubbiamente da considerare alla stregua dei grandi maestri del suo strumento. Ed infatti quando il grande produttore Creed Taylor lanciò la sua rivoluzionaria etichetta CTI nel 1970, volle ingaggiare immediatamente proprio un fuoriclasse come Crawford. Wildflower, registrato nel 1973, è uno degli otto album pubblicati a suo nome tra il 1971 e il 1978, ed è probabilmente il migliore per la CTI e uno dei più rappresentativi della carriera di Crawford. Come spesso accade quando si tratta di produzioni della CTI, i puristi del jazz potrebbero non apprezzare completamente un album come Wildflower, a causa delle sue evidenti contaminazioni con il funk e la fusion, ma questa opinione non è a mio parere del tutto condivisibile. Il disco è infatti di pregevole fattura e validi contenuti ed in ogni caso non nasconde affatto la sua natura soul funk. Prodotto e arrangiato da Bob James con un cast stellare di musicisti che comprende Joe Beck, Idris Muhammad, Richard Tee e Bob Cranshaw e supportato da una straordinaria sezione fiati di specialisti newyorkesi di altissimo profilo, Wildflower è un album che Crawford aveva cercato di fare fin dal suo arrivo nella scuderia di Creed Taylor. Registrato in soli due giorni, tutta la band offre una perfetta tavolozza per le variopinte pennellate melodiche di Crawford, il quale affonda le sue radici proprio nella sapienza e nel controllo del fraseggio. Ne esce un lavoro fresco e moderno che ancora oggi risulta perfettamente godibile, nonostante i quarantatre anni trascorsi. Si inizia con "Corazon" e subito il groove domina la scena, su un ritmo latino, i fiati roboanti introducono Crawford ed il suo sax; immediatamente dopo è il turno del magnifico Rhodes di Richard Tee, infine rientra Hank per piazzare il suo irresistibile assolo. Sulla bella title track troviamo un accattivante coro in sottofondo sul quale Crawford trasforma una semplice melodia pop in un torrente di emotività e ottime vibrazioni soul. "Mr. Blues" dice tutto già nel titolo, infatti l’atmosfera è profondamente bluesy sia per l’arrangiamento che per la tipica ritmica. Il buon Hank nuota nel suo elemento naturale con fluidità e disinvoltura rendendo il brano davvero molto piacevole. Gli arrangiamenti di Bob James sono grandiosi ma mai invadenti, misurati al punto giusto e soprattuto puntano in una sola direzione: evidenziare la bellezza del suono soul blues del contralto di Crawford. Fantastico il modo in cui Hank dispone a piacimento della melodia in "You’ve Got It Bad Girl" di Stevie Wonder, supportato dal suono di una grande band. Come si fa a non apprezzare il tipico sound delle produzioni di Creed Taylor? Oltre al talento di goni singolo musicista sono gli arrangiamenti che fanno la differenza e rendono tutto così unico e spettacolare. Chiude l’album la romantica "Good Morning Heartache", con un Crawford intimista e passionale a ricamare fraseggi raffinati. Questo Wildflower è un disco così caldo e ricco di groove che l'unica forma di soul-jazz contemporaneo che gli si può accostare è quella altrettanto valida del Grover Washington, Jr. di Feels So Good e Mister Magic. In altre parole, è un album indispensabile, in particolare perché rappresenta, al meglio, un fulgido esempio di quello che era il vero jazz groove degli anni '70.
Victor Bailey – That’s Right !
Victor Bailey – That’s Right !
Questa è una recensione che oggi appare più doverosa di quanto non avrebbe dovuto già essere. Il grande bassista Victor Randall Bailey, nato il 27 Marzo 1960 a Philadelphia, è scomparso l’altro ieri a 56 anni a causa di complicazioni dovute alla SLA di cui soffriva da tempo. Bailey è cresciuto in un contesto fortemente caratterizzato dalla musica. Il padre, Morris Bailey, scriveva canzoni pop negli anni '60 e '70 per artisti come Patti LaBelle e gli Stylistics, e suo zio, Donald Bailey, ha suonato la batteria con il trio di Jimmy Smith. Non sorprenderà quindi che Victor iniziò a suonare il pianoforte all'età di sette anni, passò alla batteria tre anni più tardi, per poi dedicarsi definitivamente al basso elettrico all'inizio della sua adolescenza. Da giovanissimo si trasferì a New York e fu da subito un ammiratore della tecnica bassistica del grande Jaco Pastorius che per lui era un vero e proprio idolo. Nel giro di un anno del suo arrivo in città, la reputazione di Bailey come bassista era tale che fu assunto dai Weather Report proprio per sostituire Jaco. Da questo punto in poi, la fama di Victor ebbe un’impennata su scala globale e si guadagnò la stima incondizionata dei musicisti sia nell’ambiente jazzistico che al di fuori di questo. Una reputazione altissima che è stata senza dubbio aiutata dal suo eclettismo. Bailey infatti non si limitò a suonare nei gruppi jazz fusion ma collaborò anche con numerosi artisti provenienti dal mondo dell’R & B, dell’hip-hop e del pop, tra i quali Mary J. Blige e Madonna. Alla fine degli anni '80 Bailey registrò un album solista che fu accolto con entusiasmo dalla critica, ed ai fan piacque ancor di più, dato che raggiunse il numero 1 nella classifica di jazz contemporaneo di Billboard. Dal punto di vista tecnico Bailey è un vero maestro del basso elettrico e dimostra costantemente la sua abilità musicale e la sua intelligenza artistica, sia che sia impegnato nel funky e nello slap, sia che assuma toni più lirici e passionali suonando in modo più convenzionale. Non a caso Bailey è un musicista che gode dell’ammirazione della totalità dei suoi colleghi. “That’s Right” del 2001 è un album che coglie Victor Bailey nel pieno della sua maturità artistica, quando era ancora lontano dalla degenerazione della terribile malattia che lo costrinse in seguito ad abbandonare l’attività. Ed è una prova convincente: pochissimi improvvisatori sarebbero in grado di trovare il potenziale jazzistico in due classici dei Funkadelic, ma questa è un’operazione che riesce benissimo a Victor. Uno dei nove brani di questo eccellente album infatti è un medley di “Knee Deep" e "One Nation Under a Groove". Bailey non reinterpreta questi brani della fine degli anni ’70 mantenendo la loro struttura vocale, ma lo fa arrangiandoli come pezzi di jazz fusion strumentale e la cosa funziona benissimo. C’è molto materiale pregevole sull'album: si spazia dalla delicata "Joey" (una canzone che Bailey ha scritto in memoria di un cugino che è stato ucciso in una rapina a Philadelphia) alla super funky "Goose Bump". "Black on Bach" è influenzata dal funk e dalla musica classica allo stesso tempo e Bailey riesce a tirare fuori il meglio di due mondi opposti senza mai apparire banale o pretenzioso. Non manca il lucido omaggio a Pastorius nella strana “Where’s Jaco”. La title track ci riporta prepotentemente nelle atmosfere dei Weather Report. “Nothing But Net” è un numero di jazz contemporaneo vivace e nervoso nel quale è concentrata tutta la tecnica bassistica di cui Victor è capace. L’eclettismo di Bailey emerge anche in “The Rope-A-Dope” un numero che resta in bilico tra jazz rock e fusion regalando momenti di groove e di grande virtuosismo. That’s Right riassume in un album quello che Victor Bailey è stato. Ci dice ad esempio che, nonostante lui avesse la mentalità e la preparazione tecnica di un improvvisatore jazz, era però lontano da essere elitario e snob. Ci dice anche che come musicista padroneggiava il jazz, il rock ed il funk con grande disinvoltura ed una brillante apertura mentale. Victor Bailey si rendeva perfettamente conto, con grande umiltà e lucidità, che anche i più grandi musicisti jazz possono imparare e trarre beneficio dalla varietà degli stili e delle tendenze. That’s Right ! è un gran bel lavoro, consigliato a tutti coloro che apprezzano la fusion intelligente e la musica vera, onesta e sincera. Victor Bailey è stato un grandissimo bassista e la sua scomparsa purtroppo lascia un importante vuoto nel panorama musicale internazionale.
Tony Williams - Young At Heart
Tony Williams - Young At Heart
“Il centro attorno al quale girava il suono del gruppo” Questa è la definizione che il grande Miles Davis diede di Tony Williams: una frase che non lascia spazio a dubbi, a ribadire che questo è uno dei più grandi batteristi del ventesimo secolo. Non sorprende, quindi, che la morte di Williams, avvenuta nel 1997 per un attacco cardiaco dopo un banale intervento chirurgico sia stato un grande shock per tutto il mondo del jazz. A solo cinquantuno anni, Tony era così giovane, in buona salute ed in forma, che la sua prematura scomparsa sconvolse tutto l’ambiente. Quasi come se i trentacinque anni di carriera già trascorsi non fossero che un istante, e rappresentassero solo l’antipasto di quello che avrebbero potuto essere altri decenni di musica in sua compagnia. Lo stile così caratteristico e particolare che Tony Williams ha creato nel corso della militanza nel Miles Davis Quintet, alla metà degli anni '60, è da considerarsi uno dei più influenti ed importanti della storia del jazz. Ma anche nei tre decenni successivi il batterista nativo di Chicago dispensò musica e registrazioni di grande livello, ferfino quando, spinto dalla sua curiosità intellettuale si spinse nei territori della fusion e della contaminazione con il rock. La storia artistica di Tony nasce con il padre che era un sassofonista, il quale diede l’opportunità al figlio di provare a confrontarsi con l’ambiente dei professionisti e di mostrare fin dalla più tenera età il suo potenziale ed il suo innato talento. Quindi prese lezioni da Alan Dawson, e a misura del sua precocità, a quindici anni lo si poteva già ascoltare nell’area di Boston (dove si era trasferita la famiglia), impegnato in varie jam session. Alla fine degli anni ‘50, Williams suonò spesso con il sassofonista Sam Rivers per poi spostarsi a New York nel 1962 (quando aveva appena diciassette anni), e suonare regolarmente con un altro grande del sax come Jackie McLean. Questo fu il suo trampolino di lancio e nel giro di pochi mesi si unì a Miles Davis, che lo trovò perfetto per la sua capacità di sostenere ritmi complessi con grande rigore, mantenendo una notevole libertà espressiva ed ispirando al contempo tutti gli altri musicisti. Era nata, insieme a Herbie Hancock e Ron Carter, una delle sezioni ritmiche più straordinarie della storia del jazz. “Young At Heart” è l'ultima incisione del batterista, registrata sei mesi prima di morire, ed il titolo (giovane nel cuore) suona oggi quasi tristemente ironico. L’album ci mostra Williams in uno stato d'animo più morbido, quasi più conciliante rispetto ai ruggenti e ruvidi passaggi precedenti. Una sorta di sublimazione del suo drumming eccezionale in favore di uno stile carico di sfumature ma più leggero e dunque idealmente perfetto per supportare il pianista Mulgrew Miller ed il bassista Ira Coleman. Tutto senza che nemmeno per un attimo venga meno il suo infaticabile swing, il suo tipico “muro” ritmico. Questo trio è stato anche l'ultimo gruppo con il quale Williams è andato in tour, a conferma del fatto che il batterista si trovava in quel momento perfettamente a suo agio con la formula piano / basso / batteria. La formazione a tre è un contesto nel quale Williams non si era mai veramente impegnato nei suoi anni di leadership, ed appare evidente quanto in questo caso la fonte d’ispirazione sia stata lo storico sodalizio con Herbie Hancock e Ron Carter all'interno del quintetto di Miles Davis. Delle undici tracce presenti in Young At Heart, sei sono standard del jazz e su questi Mulgrew Miller brilla particolarmente con il suo pianismo ricchissimo di sfaccettature, un perfetto terreno per le sue brillanti idee musicali: suggestioni che corrono liberamente sul tappeto dei ritmi scoppiettanti forniti dalla magica batteria di Tony Williams. E’ bellissimo ad esempio come il pianista si cimenti nella riarmonizzazione della classica ballata "Body and Soul". Favolosa anche la composizione "Promethean" di Tony Williams stesso, così intensa e forte, nella quale lo straordinario Miller cesella al piano frasi melodiche e armoniche di puro stampo bop come se un gioco da ragazzi. Tony è monumentale per tecnica e groove su questo brano ed altrettanto avvincente appare su "You And The Night And The Music" che vede protagonista anche il contrabbasso di Ira Coleman con uno stupendo assolo. L’interplay eccellente del trio è in piena evidenza soprattutto sulla reinterpretazione di "On Green Dolphin Street" dove a fronte di un tappeto ritmico raffinatissimo, Mulgrew Miller delizia gli appassionati di pianoforte con un saggio di virtuosismo senza pari. "Neptune For Nothing" è un’altra perla di Tony Williams che qui viene letta in modo più riflessivo rispetto alla registrazione precedente del batterista ed ancora una volta va sottolineato quanto siano straordinarie le estrapolazioni degli accordi modali di cui si fa carico Mulgrew Miller. Young At Heart potrebbe anche non essere considerato dai numerosi fan come portatore del tipico sound di Tony Williams, ma in realtà si tratta di una logica conclusione di una brillante ed unica carriera nel jazz. E’ la testimonianza finale (e per questo ancora più importante) del valore di un artista straordinario, dotato di una tecnica inarrivabile e di un talento sopraffino e tuttavia sempre vicino al cuore dell’ascoltatore. Caldamente consigliato.
Lindsey Webster – You Change
Lindsey Webster – You Change
Fin dal primo ascolto Lindsey Webster riesce ad attirare l’attenzione e ci accorge presto che è una gran bella rivelazione. La sua voce soul, ricca e particolare, affascina combinandosi con il talento naturale di musicista ed un bella presenza scenica. La giovane Lindsey si considera fortunata per essere cresciuta a Woodstock, dove già da bambina ha potuto coltivare la sua passione per la musica. Frequentava una scuola elementare dotata di un programma di educazione musicale ed è qui che la Webster imparò a suonare il violoncello. Dopo aver studiato per 10 anni questo inusuale strumento, la musicista si traferì a New York per frequentare la “Fiorello LaGuardia School Of Music”. In seguito scoprì che la sua vera aspirazione era quella di cantare e, complice la sua maturazione artistica, decise di puntare tutto sulla propria vena cantautoriale. Nel 2009 Lindsey incontrò il suo partner, il tastierista Keith Slattery, e con lui al fianco finalmente iniziò una vera carriera professionale. In tandem con il suo compagno, ha lavorato nei club, nei bar e nei piccoli teatri del circuito newyorkese arrivando ad auto produrre un album che ha raccolto rapidamente diversi premi musicali indie. Già in questa prima registrazione si potevano ascoltare brani di ottima fattura, nei quali erano presenti tutte le caratteristiche peculiari sia della cantante sia degli degli arrangiamenti e delle composizioni. Naturale quindi che non tardasse ad arrivare un contratto con l’Atlanta Records: il viatico ideale per poter finalmente registrare le dieci tracce di questo You Change. Anche questo disco ottenne subito ottime recensioni da parte della stampa indipendente e molti critici lo giudicarono una delle migliori pubblicazioni del 2015 in ambito soul. Non si può non essere d’accordo, dato che l’album è davvero notevole. L’atmosfera sonora è generalmente rilassata e piacevole, immediatamente accattivante. Il tono è sofisticato senza essere appariscente, sincero senza essere sentimentale e ciascuna delle dieci canzoni taglia un vestito perfetto per la notevole voce di Lindsey. Alcuni recensori hanno paragonato Lindsey a Sade ed anche ad Anita Baker. E certamente ci sono effettivamente echi di Sade, forse più nello stile compositivo che nella vocalità vera e propria, e magari potrebbe ricordare qualcosa anche di Miss Baker. Tuttavia Lindsey Webster non ha bisogno di ricorrere alla potenza vocale o ad una tecnica vocale pirotecnica in quanto si concentra piuttosto su uno stile semplice ed essenziale, ma non per questo meno interessante e originale. E tanto per trovare un riferimento, sarei tentato di accostarla in modo particolare a Norah Jones. Le canzoni dell'album sono tutte gradevolmente arrangiate ed interpretate con passione e trasporto dalla brava Lindsey. “Fool Me Once”, “I Found You”, “In Love” e la title track “You Change” sono i punti forti di questo lavoro. Leggero e delicato, il disco scorre fluido e piacevole ed è percepibile una chimica positiva tra il pianoforte di Keith Slattery e la vocalità della Webster, a tutto vantaggio di un ottimo risultato finale. Ogni brano può vantare una bella melodia che è in grado di emozionare ed intrattenere al di là delle aspettative. Alla fine You Change lascia soddisfatti e questo è quello che conta.
Niels Voskuil - On Her Return
Niels Voskuil - On Her Return
C’è molto talento in giro per il mondo. Spesso purtroppo resta nell’ombra, qualche volta, con molti sacrifici, riesce ad emergere ed a farsi strada. Nel competitivo ambito dei batteristi mi è capitato di ascoltare un ragazzo olandese che ha attirato la mia attenzione. Niels Voskuil, è un batterista ventieseienne, nato in un piccolo villaggio nel nord dell'Olanda, dove ha iniziato a suonare la batteria all'età di tredici anni. In seguito ha continuato a perfezionarsi con lo strumento, specializzandosi principalmente nel jazz e in particolare nella jazz fusion, un’esperienza che lo ha portato molto presto ad essere un musicista a tutto tondo. Oggi vive a L'Aia e nel 2011 si è anche diplomato al Conservatorio di Amsterdam. Niels tra la sua ispirazione da batteristi come Vinnie Colaiuta, Gary Husband e Tony Williams, ma ha a suo volta uno stile originale: forte, energico e crudo, il giovane olandese lascia un sacco di spazio per l'improvvisazione. Anche nella composizione dei brani Voskuil si distingue per una sua marcata originalità, infatti trae inaspettatamente la sua ispirazione creativa dalla musica classica di Bach, Palestrina ed Eric Satie, ma una grande influenza sul suo sviluppo musicale sembrano averla anche artisti come il chitarrista Allan Holdsworth ed altri grandi esponenti della fusion. Quando è invitato a definire se stesso, Niels non pensa in termini di generi o stili, vuole essere visto come un musicista piuttosto che come un mero batterista e per questo non classifica i diversi tipi di musica in stili differenti. Niels ha un unico sogno, che cerca di perseguire con tutte le sue forze: creare musica sincera ed onesta, possibilmente con i migliori musicisti del mondo. Nel 2012 viene pubblicato il suo primo album, On Her Return che è davvero un debutto discografico degno di nota. Diversi sono i musicisti che hanno contribuito alla registrazione di questo primo lavoro, come il bassista olandese Frans Vollink (Randy Brecker, Richard Hallebeek), il bassista americano Ernest Tibbs (Allan Holdsworth, David Garfield), il sassofonista Andy Suzuki (al Jarreau, Chick Corea) e il pianista americano Steve Hunt (Allan Holdsworth, Stanley Clarke). Fondamentalmente On Her Return è un album di sofisticata jazz fusion dove tutte le composizioni sono originali, e nel quale si respira un’atmosfera inusuale per questo tipo di genere musicale. Il tono è estremamente rilassato, mai nervoso: Voskuil si ritaglia giustamente uno spazio di primo piano ed il suo drumming non manca di attirare l’attenzione, creando un intrigante contrasto con l’etereo, quasi rarefatto suono che la band produce. Il brano “9° North” è da subito un perfetto esempio del suo modo di intendere la musica: ritmo sincopato, tecnicamente complesso ed in continuo mutamento sul quale la band si esibisce in un paio di assoli degni di nota in particolare con il sax di Andy Suzuki ed il bel pianoforte di Steve Hunt. Da notare anche la pulsante energia fornita dal bassista Frans Vollink che contribuisce alla fluidità della composizione. “South Sweden” mette subito in primissimo piano proprio il basso di Vollink, mentre la batteria del leader continua a fornire una ritmica inusuale, spesso in controtempo. L’intervento di Suzuki con il suo sax soprano è da applausi per intensità e pathos. La formula si ripete anche sulla bella title track, che ci porta dentro atmosfere eteree e spaziali, grazie in particolare al bell’intervento di synth di Steve Hunt. “Sue” ricorda momenti del miglior progressive al confine con il jazz rock ed è un’escursione felice e gradita. La stessa cosa può descrivere il successivo “Inner Mirror”, brano che sui ricami del basso e le sferzate della batteria dipinge un quadro impressionista e suggestivo. Sugli scudi ancora una volta il magnifico uso del synth da parte del bravissimo Steve Hunt. “Triangles, Square And Water” inizia con l’immancabile assolo che ogni batterista inserisce nei propri album, ma presto lascia spazio ad un cambio repentino di sensazioni dato che la band entra in gioco spostando il baricentro verso una sorta di space jazz estremamente intrigante. On Her Return è un bellissimo ed originale debutto per questo giovane batterista. Ricco di atmosfere particolari e non privo di una sua evidente personalità che pare destinata a crescere di pari passo con la naturale maturazione di Niels Voskuil, dal quale è lecito aspettarsi grandi cose in futuro. Un album che si distingue in mezzo a tanti altri e al quale se proprio si vuole trovare un difetto, si potrebbe addebitare con dispiacere una eccessiva brevità.
Herbie Hancock – Man Child
Herbie Hancock – Man Child
Per Herbie Hancock il 1973 fu un anno di radicale cambiamento di rotta. Dopo aver registrato qualche album per la Warner Bros. nel triennio 1969-72, in cui si palesavano i prodromi della contaminazione con il linguaggio fusion, il pianista svoltò decisamente verso un più accessibile jazz-funk strumentale. In primis con Headhunters e poi con i successivi album per la Columbia, come Secrets e Man Child. Confrontare il gruppo di Hancock di Sextant con gli Headhunters sarebbe come paragonare il quintetto di Miles Davis di fine anni ‘50 con il cast ascoltato in seguito su Bitches Brew. A dire il vero, non sono stati pochi quelli che hanno rifiutato sdegnosamente il sound di Man Child, bollato troppo superficialmente come un prodotto eccessivamente commerciale. In compenso ci furono folte schiere di appassionati di jazz funk (e non solo) che apprezzarono immensamente il groove irresistibile di brani come "Hang Up Your Hang Ups", "The Traitor" e "Steppin' In It". Inoltre, a rendere Man Child un album imperdibile, Hancock si esibisce qui in assoli memorabili, così come fa anche il sassofonista Bennie Maupin. Man Child è senza dubbio uno degli album più spavaldamente funk della carriera di Herbie Hancock, un lavoro dove i brani sono caratterizzati da brevi, ripetuti riff da parte della sezione ritmica, dei fiati e del basso inframmezzati dagli assoli straordinari di Herbie al piano elettrico ed ai synth. L’album vede infatti una minor partecipazione della band nelle improvvisazioni per dare il maggior spazio possibile a Hancock che mette in mostra una formidabile confidenza con questo stile più leggero, valorizzato da un arsenale di tastiere che, per l’epoca, era qualcosa di eccezionale . Ma la vera specificità del nuovo suono di Man Child sta nell'aggiunta della chitarra elettrica, affidata alle mani sapienti di Melvin "Wah-Wah Watson" Ragin, DeWayne "Blackbyrd" McKnight e David T. Walker. L’ampio uso del wah-wah è esattamente ciò che contribuisce a dare all'album un’impronta molto funky, unitamente come è ovvio alla sezione ritmica nel suo insieme. La sezione fiati dal canto suo gioca ad alternarsi con il piano elettrico, il sintetizzatore e la chitarra in un innovativo ed ipnotico botta e risposta. Paul Jackson, Bill Summers, Harvey Mason, Bennie Maupin, e Mike Clark formano il nucleo del gruppo degli Headhunters con cui Hancock aveva registrato per i tre anni precedenti e questo rappresenta il loro ultimo album come band. La classe del maestro Hancock non conosce confini, sia che si tratti di jazz mainstream, sia che si cimenti in divagazioni di carattere più accessibile, il grande pianista riesce (quasi) sempre a produrre musica stimolante ed originale. "Hang Up Your Hang Ups" da il via all'album con quel suono di tastiera e chitarra così caratteristico a cui accennavo precedentemente. Hancock galleggia dolcemente sopra i riff funk del wah wah di Watson, mentre i fiati di tanto in tanto si incuneano nella tessitura musicale. Fondamentalmente il brano è una sciolta jam session in stile Headhunters, ma è al tempo stesso un’orecchiabile funky disco. “Bubbles” è molto calma e rilassata pur essendo interessante ed organica. La dimostrazione che gli Headhunters possono cimentarsi anche in toccanti numeri d’atmosfera con la stessa scioltezza con la quale affrontano il funk più estremo. Stupendo l’assolo di sax Wayne Shorter. “Sun Touch” ci trasporta nel cuore dello space funk degli anni ’70 e gli amanti del piano elettrico ameranno alla follia ciò che Herbie riesce a proporre qui. E’ un suono etereo e rilassato pur rimanendo energico e vivace. Con la ritmata “Steppin’ In It” torniamo nel territorio del groove elegante e propulsivo, in uno dei pezzi più genuinamente funk che Hancock abbia mai scritto. Simpatico l’intervento di armonica di Stevie Wonder. Si tratta di un’interpretazione della black music esattamente come dovrebbe essere. Allo stesso modo “The Traitor” mette in mostra tutta l’anima funk degli Headhunters, tra ritmiche complesse, linee di basso irresistibili e gli immancabili assoli di Hancock, tra i quali si distingue quello di synth. Se siete alla ricerca dell’Herbie Hancock più orientato verso il jazz puro allora è meglio non guardare da queste parti. Ma se siete interessati al funk o agli altri mondi esplorati da questo gigante della musica Man Child è un ottimo album per iniziare, dal momento che ciò che propone è un ascolto accessibile, colorato ed energico nel contesto della più alta qualità artistica. Man Child altro non è se non un classico, un album che è, senza dubbio, uno dei migliori dischi jazz funk mai realizzati. Coloro che amano il jazz contaminato da un abbondanti iniezioni di funk non dovrebbero assolutamente perdersi questo eccellente lavoro di Herbie Hancock.
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