Remy Shand – The Way I Feel


Remy Shand – The Way I Feel

Remy Shand può essere considerato un’indecifrabile meteora nel panorama musicale degli anni 2000,  è comparso improvvisamente sulla scena ed altrettanto repentinamente è sparito dalla ribalta internazionale. Un bellissimo album di debutto, un successo immediato, una manciata di singoli sfavillanti e poi più nulla. Cresciuto artisticamente nella sua città natale, Winnipeg in Canada, Remy Shand ha iniziato la sua attività suonando in varie rock band "locali", ma faticava a trovare qualcuno che condividesse il suo interesse per il classico sound jazz-funk e soul dell'inizio degli anni Settanta, che invece tanto piaceva a lui. La passione per il genere gliela aveva scatenata anni prima suo padre, quando portò a casa una cassa di vecchi album da un club che stava ristrutturando. Al Green, Curtis Mayfield, Sly & The Family Stone, gli Steely Dan, Stevie Wonder e Herbie Hancock sono diventati così gli idoli musicali di Remy: un ascolto di eccellenza, di grande impatto artistico ed emotivo, eppure profondamente distante da qualunque cosa fosse il rock suonato dai suoi coetanei a metà degli anni '90. Ma fortunatamente per Remy, il suo talento cristallino gli consentì di agire in autonomia, fuori dal contesto, facendo tutto da solo: così, nel giro di qualche anno produsse lo stupendo The Way I Feel, il suo primo e (purtroppo) ultimo disco. Shand alla fine ha scritto tutte le canzoni, suonato ogni strumento, cantato qualsiasi parte vocale, pigiato ogni pulsante delle consolle, eseguito ogni dissolvenza sui mixer. Insomma, a parte una sovra incisione di fiati su una traccia, è direttamente responsabile di qualsiasi suono troviamo su The Way I Feel, un album così perfettamente compiuto e conforme alla tradizione soul che il capo della Motown, Kedar Massenburg, non esitò un minuto ad ingaggiare Shand nella stessa “casa” spirituale che fu di Marvin e Stevie. Col senno di poi, se analizziamo il periodo, fu probabilmente Remy a fare un favore alla stessa Motown. Il suo album è infatti una delle cose migliori che la storica etichetta soul di Detroit abbia pubblicato in quel preciso momento storico, ovvero l’inizio del secondo millennio. The Way I Feel uscì nel Marzo del 2002 ed il successo fu immediato e fulminante, con la conseguente scalata delle classifiche, in particolare con il singolo Take A Message. Il genio di Shand si estrinsecò nella capacità di dipanare i fili del complesso intreccio degli arrangiamenti soul, rigirarli con sapienza e quindi riannodarli nuovamente insieme al fine di creare un’architettura inedita con nuove ed originali canzoni di sua composizione. Un’operazione che il giovane artista canadese mise a segno con sorprendente maturità ed un palese quanto naturale talento. Va sottolineato che già padroneggiare in modo corretto il modo con cui i suoni si combinano è un’impresa piuttosto difficile, che richiede un'intensità ed una concentrazione non comuni: se pensiamo ad esempio a quanti musicisti venivano utilizzati da Marvin Gaye per dare corpo alla sua la sua visione musicale del soul, l'impegno di Remy nel realizzarli così bene da solo diventa ancora più sbalorditivo. Per certi versi un tipo di talento come questo ricorda lo straordinario (ed unico in verità) Prince. Shand dimostra di non essere solo una sorta di one man band. Se si cimenta con una chitarra, diventa Ernie Isley,  se si siede davanti ad una tastiera, riesce a cogliere lo spirito di Stevie Wonder. È in sintonia con i loro vari stili e sa come integrarli tutti insieme. In The Way I Feel non c'è un wah-wah o un clavinet o un Moog fuori posto ed il falsetto di Shand così vicino a quelli di Curtis, Marvin o di Al Green, è quel tipo di benedizione innata che non può essere insegnata. Le sue composizioni originali colgono l’essenza stessa del soul degli anni Settanta. Remy parla di uscire, liberarsi, fare cambiamenti, seguire la propria anima, provare a realizzare il proprio potenziale, con l'amore sullo sfondo come spunto di base per la sua vena creativa. Le fondamenta di The Way I Feel sono basate sul classico songwriting: canzoni robuste e melodiche che sono ingannevolmente semplici nella loro struttura ma rivelano la loro forza solo attraverso ripetuti ascolti. Tuttavia un album come questo è vincente già al primo impatto, grazie alla sua dolce e sensuale essenza autenticamente soul declinata in modo fluido e moderno. Sì, certo Remy Shand ha un debito artistico evidente con i suoi idoli, il che non significa affatto che anche se si è già ascoltato ed amato  questo tipo di musica in passato, non si verrà ben presto catturati dal suono, dalla bellezza e dalla gioia pura di questo folgorante debutto, uno dei migliori nel suo genere da anni a questa parte.  Con canzoni accattivanti e formalmente perfette come "The Second One", "Liberate", "Take a Message" o “Rocksteady”  il viaggio nel mondo soul di Remy Shand sarà comunque un’esperienza esaltante. Il futuro era tutto suo ed avrebbe potuto essere grandioso: sarebbe interessante scoprire cosa sia realmente successo se dopo 16 anni da quel magnifico esordio di Remy Shand non si ha più traccia. Consigliato a chiunque apprezzi la buona musica, ma in particolare a coloro che hanno amato Marvin Gaye, magari recentemente Maxwell o genericamente parlando, per tutti coloro che hanno un debole per il soul più genuino.

Fats Theus – Black Out


Fats Theus – Black Out

Nel panorama musicale jazzistico dei primi anni ’70  (l'era d’oro del soul e del funk jazz), la figura e la vita del sassofonista Arthur James "Fats" Theus rimangono in gran parte oscure. Artisticamente parlando nasce all’interno del movimento della West Coast degli anni Cinquanta: come risultato delle sue frequentazioni "Fats" Theus ebbe modo di collaborare con diversi organisti jazz soprattutto nel decennio successivo, tra questi anche Reuben Wilson. La sua peraltro stringata discografia rivela che figurò in varie registrazioni in cui era l’organo Hammond a farla da padrone: ad esempio con l'organista Billy Larkin (Hold On! - 1965; Is not That A Groove! - 1966), e ancora con l'organista Jimmy McGriff (I’Ve Got A New Woman - 1968; The Worm - 1968 e Step One - 1969) ed infine anche con il chitarrista O'Donel Levy (Black Velvet - 1972). Black Out è una delle prime pubblicazioni della CTI di Creed Taylor e dal punto di vista stilistico è imparentata con le altre sessioni di funk jazz della fine degli anni sessanta e dei primi anni settanta molto in voga sulle famose etichette Prestige e Blue Note. La band a supporto del sassofonista include la star della chitarra soul-jazz Grant Green, il veterano Chuck Rainey al basso, Idris Muhammad alla batteria e l’organista Clarence Palmer. Green aveva fatto il suo ritorno alla Blue Note dopo il primo e prolifico periodo dal 1960 al 1965, ma questa volta la sua vena era fortemente influenzata dal jazz funk; il primo album di questa seconda vita fu Carryin' On del 1969. Su quella registrazione c’era anche l'organista Clarence Palmer, che non a caso, ritroviamo qui impegnato con Fats Theus. Idris Muhammad per parte sua era all’epoca un punto di forza della Blue Note e della Prestige e sarebbe diventato presto una star della stessa CTI. Il livello di musicalità delle sei tracce del disco è notevole ed il groove, che è proprio del dna di Muhammad, così come la sua ritmica sempre molto funky, risulta perfettamente appropriata al contesto. Il talentuoso Grant Green illumina la scena con i suoi fraseggi articolati e roventi. Non a caso sono proprio Grant Green e Idris Muhammad a farsi carico di gran parte del peso dell'album. Theus, più timidamente di quanto sia lecito aspettarsi dal titolare di un album, opera chiaramente nell’ombra del chitarrista, le sue sonorità sono spesso acide e tuttavia piuttosto accattivanti. Fats non è certo un sassofonista che fa della raffinatezza la sua cifra stilistica: ciononostante è in grado di impreziosire a modo suo una funky bossa come Stone Flower con arpeggi vorticosi e ruvidi staccati. Theus possiede un suono duttile ma acuto che di solito non è associato al jazz funk della fine degli anni sessanta. Con i suoi assoli orientati verso il be bop crea un contrasto intrigante: all'ascolto si evidenzia che Fats usa spesso un accento leggermente metallico, al punto che si è portati a pensare che il sassofonista suoni un tipo di sax, il Varitone elettrico, seguendo le orme di Eddie Harris e Sonny Stitt. In ogni caso è evidente che è proprio questo il sound caratteristico di questo oscuro musicista. Di fatto Theus si adatta perfettamente all'ambiente blues e funky, ma come detto offre anche eccellenti incursioni nel bop. Forse Light Sings è il momento clou di Black Out, quello dove emerge una più consistente carica di funk. Palmer si mette in evidenza con il suo Hammond, ci mette entusiasmo senza essere invadente, la batteria di Muhammad guida le danze mentre le note liquide della chitarra di Green mordono e rifiniscono il tutto. Black Out resta l'unica apparizione del chitarrista con la CTI, mentre inciderà un album a suo nome con l’etichetta gemella di Creed Taylor, la Kudu Records. In ultima analisi è un album abbastanza interessante senza essere una pietra miliare, ovviamente: se da un lato appare chiara la sua appartenenza al contesto storico nel quale è stato registrato, dall’altro mostra anche alcuni accenni di una sorta di lounge music che sembrano anticipare alcune tendenze future. La produzione di Taylor è comunque convincente, anche perché diversamente da altri suoi sforzi con la CTI, Black Out aggira mirabilmente i toni morbidi e patinati in favore di sonorità dove a dominare sono semmai i groove più grezzi e ruvidi. L’album ci consente anche di puntare i riflettori su un personaggio davvero oscuro come il sassofonista Fats Theus andando così a scoprire anche chi, come lui, non è salito alla ribalta internazionale del jazz.

Patrick Yandall – 10 South Riverside



Patrick Yandall – 10 South Riverside

Nell’ambito del movimento ormai comunemente denominato smooth jazz, Patrick Yandall è senza dubbio uno dei chitarristi più prolifici, talentuosi e nello stesso tempo sottovalutati. Veterano del genere da moti anni, il suo suono morbido e strutturato è riconosciuto e apprezzato ovunque al punto da consentirgli di avere collaborazioni con numerosi e importanti artisti di jazz contemporaneo. Tuttavia non ha ricevuto le attenzioni dovute dalla critica, nonostante abbia sfornato la bellezza di 21 album di una certa qualità e pur avendo ricevuto una nomination ai Grammy nella categoria "Contemporary Instrumental" per i suoi precedenti due lavori. Una curiosità su Yandall è che la sua musica in passato è stata usata regolarmente dal canale televisivo Weather Channel. Al di là di tutto, resta il fatto che Yandall è un bravo chitarrista, che manca forse di un pizzico di originalità, ma questo dipende in gran parte dal tipo di musica che ha scelto di suonare. Lo smooth jazz per sua stessa natura vive di atmosfere ovattate, quasi sempre prive di invenzioni e cambiamenti. Questo non significa non avere talento né tantomeno che nessuno in questo popolare sottogenere del jazz, riesca a produrre musica di qualità, tutt’altro. Con 10 South Riverside Patrick ci regala la sua ennesima bella produzione, che conferma innanzitutto la sua prolificità, ma anche la sua abilità di chitarrista e di compositore. Qui troviamo 14 tracce, 13 originali e una magnifica cover di "Breezin" di George Benson. Lo stesso Yandall dice del suo lavoro del 2018: "ho pensato ad un disco variopinto e stimolante come ho sempre cercato di fare anche in passato”. Tutto vero, dato che Patrick Yandall è un musicista modesto e dotato, un artista indipendente, senza il supporto delle grandi major discografiche, ma che fa della passione e dello stile il motore della sua incontestabile quanto solida ispirazione. Patrick si sente a suo agio nel suonare e produrre i suoi album da solo, lo fa molto bene in questo ultimo lavoro, così come lo aveva fatto sui precedenti A Journey Home ed Ethos. 10 South Riverside tributa anche un doveroso omaggio al compianto Chuck Loeb, con un brano intitolato "Free Flight", un pezzo potente che sicuramente renderebbe il maestro Chuck orgoglioso. Su Thumbs Up il chitarrista lascia molto spazio agli altri strumenti come l'organo vintage, lo xilofono e la batteria, dando così al brano un tocco acid jazz. Patrick Yandall scolpisce anche un monumento musicale al noto attore e comico inglese Rowan Atkinson con il pezzo Mr. Bean, un tema interpretato con grazia ed eleganza caratterizzato da un ritmo piacevole che appare intenzionalmente riproporre le atmosfere dei mitici Blackbyrds. Degna di nota anche la morbida, ondeggiante "Sunset in Monroe"  dedicata ad una città del Michigan, alla quale l’artista è particolarmente affezionato. Nel piacevole motivo sambeggiante di Kona Boy risuonano echi dello stile degli svedesi Mezzoforte. La title track offre un’atmosfera brillante ricca di richiami funky e soul, gli stessi che rimandano a King James Brown nel pezzo finale "Jump Back James". Con tutte le altre canzoni del disco, Momma T, It’s Always Been You, Thunder Road, Hermosa e Albany Park, Patrick non è certo avaro nell’offrire i giusti stimoli sonori: il suo è davvero un universo musicale colorato e positivo. D’altra parte, su nessuno dei suoi album Yandall è mai sceso a compromessi in termini di qualità, e il suo livello di impegno e il suo amore per questa musica sono indiscutibili. Se non vi siete ancora imbattuti nelle prodezze musicali di questo maestro della chitarra, forse vi siete persi qualcosa e questo bell’album è un buon punto di partenza per familiarizzare con Yandall e con la faccia migliore dello smooth jazz. In ogni caso anche se desiderate solo un po’ di buona musica, confezionata con gusto e sentimento, le canzoni di Patrick Yandall sono gioiellini nascosti che attendono solo di essere scoperti.

George Benson – Shape Of Things To Come



George Benson – Shape Of Things To Come

Non potevo esimermi dal parlare, prima o poi, di un musicista come George Benson. Icona della chitarra jazz ed al contempo idolo per generazioni di appassionati del soul, del pop e dell’r&b. Un fenomeno più unico che raro, si potrebbe dire ineguagliato, vista la sua capacità di essere così trasversale da abbracciare con uguale successo mondi musicali tanto distanti tra loro. George, non a caso, è considerato uno dei più raffinati ed eleganti chitarristi della scena mondiale, gode di un’ottima reputazione tra i jazzofili ed è inoltre dotato di uno straordinario talento vocale. Una combinazione incredibile quella tra la sua "mitica" chitarra Ibanez e la sua splendida voce: una simbiosi davvero unica. In una carriera come la sua che, come è facile immaginare, è stata lunghissima, ci sono moltissimi album al suo attivo e molti di questi sono lavori di grande pregio. Tra i tanti ho scelto Shape Of Things To Come, che è il disco del suo debutto con la mitica CTI di Creed Taylor. La scelta non è casuale, perché segna la consacrazione di una vera e propria star globale sulla scena del jazz. Il grande Taylor vedeva lontano ed ingaggiò Benson subito dopo la morte di Wes Montgomery nel 1968, e direi che sostituto migliore non poteva essere trovato. L’album è stato curato benissimo dall'arrangiatore Don Sebesky (che aveva lavorato precedentemente proprio con Wes Montgomery) e dall'ingegnere del suono Rudy Van Gelder. Bisogna poi parlare della band messa a disposizione di George Benson: come ospiti figurano due colossi come Herbie Hancock e Ron Carter (entrambi membri del Miles Davis Quintet, di cui Benson era stato a sua volta ospite), ed ancora il bassista Richard Davis e il pianista Hank Jones. La core band di Benson per queste date comprendeva l'organista Charlie Covington, il batterista Leo Morris e il percussionista Johnny Pacheco. I ricchi arrangiamenti che sono la firma musicale di Don Sebesky comprendono poi archi, fiati e coristi. Tutto era pensato affinchè Benson, per così dire, si conformasse più possibile allo stile di Wes Montgomery, tuttavia George era ed è un artista di grande personalità. Di certo era consapevole dei suoi mezzi artistici e non voleva certo seguire pedissequamente le orme del maestro ne le direttive della produzione. Impose dunque un suo personale controllo sulla registrazione, con risultati eccellenti. L’album inizia piuttosto morbidamente, con una leggera melodia soul-jazz intitolata "Footin 'It", brano scritto da Benson e Sebesky. L’orchestra risponde alla chitarra di Benson, che non manca di allungarsi in uno dei suoi assoli mentre l’organo di Covington inietta dosi di funk. Lo stile di Benson non è rotondo come quello di Wes Montgomery: è più tagliente e nervoso e George fa anche un interessante esperimento usando un dispositivo chiamato Varitone sovra incidendolo sulla sua chitarra. Richard Davis tira fuori con forza dal suo basso il groove mentre il percussionista Pacheco lavora mirabilmente sullo sfondo. La title track ha un andamento quasi da colonna sonora per una serie tv, con un bel dialogo tra l'organo hammond, i flauti e l'orchestra e la strana chitarra di George Benson, usata in modo non convenzionale. “Face It Boy, It’s Over” è un brano scritto nel 1968 che Benson trasforma in un solido numero di soul-jazz con il groove sugli scudi e vibrazioni che si infilano sotto la pelle anche grazie all’organo hammond. Il disco scorre fluido e piacevole tra la radicale rivisitazione di "Chattanooga Choo Choo" (praticamente irriconoscibile per come è stata trasformata) a "Do Not Let Me Lose This Dream" di Teddy White e Aretha Franklin, che George legge con un tocco di spirito latino. Forse è questo il pezzo dove il chitarrista rende maggiormente omaggio alla memoria di Wes Montgomery avvicinandosi al suo stile. Da notare il bellissimo arrangiamento dei fiati ad opera di Don Sebesky mentre anche Charlie Covington vola alto con il suo organo, pur lasciando ampio spazio per il brillante assolo di Benson. "Shape of Things That Are and Were" è un meraviglioso jazz blues notturno nel quale Benson sembra voler ribadire che in realtà lui è diverso da Montgomery. I fiati sono incisivi e sottolineano la componente blues della melodia, ma è il chitarrista a esibirsi in un assolo assassino con una scioltezza ed una naturalezza estremamente seducenti. Interessante poi la cover del successo di Boyce & Hart "Last Train to Clarksville" che dopo un’introduzione di armonica blues, si trasforma in un jazz funk vivace con fiati brillanti e il batterista Leo Morris in evidenza. Ron Carter qui dimostra la sua versatilità al basso ma George Benson si supera mettendo in campo il meglio del suo repertorio di chitarrista jazz, fatto di fraseggio, staccate, accordi e sequenze di note ineguagliabili. Shape of Things to Come è l’album dell’avvento di George Benson, non solo come solista jazz, ma anche come talentuosa star in divenire. In un decennio raggiungerà davvero lo status di popstar, perà sarà per sempre un chitarrista geniale,  si scoprirà cantante come pochi e si confermerà autore e produttore di gran livello. Oggi George Benson è un anziano e ricchissimo musicista, senz’altro appagato dalla sua formidabile carriera e dall’enorme successo planetario conseguito. Tuttavia pur essendo passato sulla sponda della musica commerciale, resta un formidabile jazzista ed un chitarrista come pochi nella storia. Questo è un album del suo passato che merita la qualifica di classico senza tempo poiché anche molti anni dopo la sua pubblicazione continua ad essere un ascolto  molto stimolante. Il George Benson di Give Me The Night e 20/20 è lontanissimo da queste atmosfere ma qui troverete un chitarrista jazz  che suona meravigliosamente nello stile che è proprio del suo dna. Caldamente consigliato.

Essence Of Funk – Essence Of Funk



Essence Of Funk – Essence Of Funk

Quale può essere esattamente l’essenza del funk? Una domanda che mi sono posto molte volte ed alla quale presumo si possano legittimamente dare numerose risposte. A mio parere il funk è prima di tutto una profonda sensazione ritmica, che cattura a livello fisico: una esplosione di pulsanti combinazioni di basso e batteria che vengono ammantate di ipnotici accordi e melodie blues e jazz. Ma la mia idea di funk è legata a quello elettrico della metà degli anni ’70, di Herbie, di Stevie, degli EWF, dei Funkadelic. Ho letto che alcuni osservatori delle cose afro americane lo collocano su un piano più elevato, dandone un’analisi più sociologica e metafisica: per questi il funk è una rappresentazione della quotidiana, faticosa arrampicata dell’esistenza umana fatta anche di note arruffate e contorte, di ritmi sincopati e di scoppiettanti fiati. Anche il vero jazz può dunque esser stato e continuare ad essere funk: in verità cominciò ad connotarsi tale moltissimi anni fa, con una forma diversa da quella che conosciamo tutti e tuttavia ad essa molto affine nello spirito. I musicisti di jazz cominciarono a diventare “funky” negli anni ’50, come contraccolpo alle correnti colte e cerebrali, quelle denominate cool e straight ahead; fu allora che alcuni artisti misero in atto un sorta di controriforma, incrementando l’uso di elementi di blues, di gospel e introducendo nella dinamica del jazz anche echi dei tradizionali canti di lavoro. Una strada che condusse all’hard bop e che poi completò il suo persorso con l’avvento delle strumentazioni elettriche. Un’ultima interessante notizia è che il primo esempio di uso della parola funk per una registrazione di jazz fu “Opus De Funk” di Horace Silver, risalente al 1953. Questa lunga introduzione è motivata dalla collezione di brani denominata proprio Essence Of Funk di cui voglio parlarvi. Questo è un album che è composto da titoli scritti tra la fine degli anni ’50 e quella degli anni ’60, cioè un periodo che si rivelerà essere l’epoca d’oro di quello stile che in seguito sarà chiamato soul-jazz. L’album in questione però risale al 1995, ovvero il momento di piena esplosione del fenomeno acid jazz (nome di fantasia, creato in Inghilterra… n.d.r.), una stagione durante la quale un’intera generazione andava riscoprendo le sue radici, e per farlo esplorava proprio i pezzi che rappresentavano quanto più possibile “l’essenza del funk”. Però va aggiunta una notazione: c’erano e ci sono moltissimi musicisti che suonano (anche molto bene) il funk, molti di meno sono quelli in grado di capirlo fino in fondo. Dando un’occhiata alla formazione di questa band, assemblata appositamente per l’occasione, possiamo già capire che questi appartengono alla seconda categoria. Una line-up incredibile, una riunione di musicisti che incutono rispetto e ammirazione con i loro stessi nomi: in ultima analisi ci troviamo davanti ad un gruppo di gente che conosce molto bene la materia. Per essere più chiaro è opportuno che riveli chi sono i formidabili strumentisti coinvolti nel progetto: Tom Browne alla tromba, Ron Carter al basso, Lenny White alla batteria, Billy Childs al pianoforte, Donald Harrison e Bennie Maupin ai sax. Si può definirla una super-band ? Certo, perché è esattamente questo quello che è. Il formidabile sestetto è stato messo insieme e diretto dal batterista Lenny White col preciso intento di dare nuova linfa a sette bellissimi brani che potremmo catalogare come classici dell’hard bop prima ancora che funk o soul jazz. L’operazione sembra essere perfettamente riuscita, dato che al di là di qualche accento elettrico, i contenuti sono tutt’altro che copie sbiadite o annacquate rispetto all’originale. Un aspetto piacevole e in qualche misura sorprendente di questa sessione è che il trombettista Tom Browne ha finalmente la possibilità di suonare vero jazz (in luogo della funky disco commerciale alla quale ci ha abituato) e bisogna sottolineare che lo fa davvero bene, risultando in ottima forma. Donald Harrison si distingue con il suo sax alto, dimostrandosi musicista di valore in tre dei sette pezzi. I restanti quattro sono nelle sapienti dita di Bennie Maupin che, come d’abitudine, giostra benissimo tra sax tenore, sax soprano e clarinetto basso, strumento atipico del quale è uno dei migliori interpreti di sempre. Il pianista Billy Childs completa il gruppo con la sua classe e la sua raffinatezza, regalandosi una pausa di divertimento in più, un po’ fuori dalle sue abituali corde. Ron Carter è un vero gigante del basso e non ha bisogno di presentazioni così come il bravissimo Lenny White che con la sua batteria dispensa sempre una grandiosa propulsione ritmica a tutto il progetto. Numeri senza tempo come "Cornbread" di Lee Morgan, "Freedom Jazz Dance" di Eddie Harris, "Jive Samba" di Nat Adderley e "Comin 'Home Baby" composta da Bob Dorough sono sicuramente brani che meritano attenzione. Gli originali qui sono solo tre: Loose Change di Ron Carter del 1986 e Eternal Flame di Bennie Maupin del 1977. A completare l’album troviamo Slow Drag di Donald Byrd, un pezzo composto nel 1967. Essence Of Funk è una registrazione molto attraente sia per i jazzofili appassionati di hard bop che per i cultori delle sonorità più elettriche o se preferite “acide”.  E’ diretto, potente, fisico, in una parola è funky. Pur senza mostrare grandi innovazioni, risulta piacevole e ricco di pathos: se sia esattamente l’essenza del funk non posso affermarlo con certezza, ma di certo è qualcosa che ci si avvicina tantissimo.

The Earth Disciples – The Getaway Train


The Earth Disciples – The Getaway Train

The Earth Disciples: chi sono costoro ? Sono certo che quasi nessuno sarà a conoscenza di questa band. Questo è infatti un gruppo praticamente sconosciuto, di cui si ha traccia solo per un singolo album e per una brevissima stagione di attività risalente alla fine degli anni ’60 ed ai primissimi anni '70. Non si sa molto di loro, la sorpresa più grande però arriva al momento dell’ascolto della loro musica perchè bisogna ammettere che in essa c’è qualcosa di inusuale, strano ed interessante. Dicevo che hanno un solo album all’attivo, intitolato The Getaway Train, registrato nel 1969 per l'etichetta Solid State di Sonny Lester, una compagnia specializzata in jazz un pò fuori dagli schemi. La band comprendeva Rudy Reid alle tastiere , Il figlio di Red Holloway, Jimmy Holloway alla chitarra (e occasionalmente alle tastiere), Reggie Austin al basso e Reggie Harris alla batteria. Tutti personaggi misteriosi, nessuno dei quali ha avuto in seguito una carriera di una qualche rilevanza. Eppure la proposta di questi ragazzi era una miscela molto originale di vari generi: quello che suonavano gli Earth Disciples sfidava davvero le categorizzazioni, superando in qualche modo i vincoli di stile ed andando a collocarsi su un piano diverso, piuttosto singolare. Diventa dunque difficile trovare le parole per descrivere in modo esaustivo The Gateway Train o anche solo per accostarlo a qualche altro album dello stesso periodo. La sensazione è quella che i contenuti fossero comunque di un certo livello, con un’alchimia sonora elaborata, dove la batteria e la chitarra meritano una menzione speciale, ma un ruolo importante veniva giocato anche dal piano elettrico e dalle fantasiose linee di basso. The Earth Disciples riuscivano ad unire passione e intensità con una punta di improvvisazione senza appesantire troppo il loro sound, che al contrario appare pervaso da una piacevole leggerezza. Erano gli anni della rivoluzione hippy, della consacrazione del rock a fenomeno planetario, del jazz elettrico e della nascita del funk. Ciò che gli Earth Disciples misero in atto fu certamente la commistione di ognuno di questi ingredienti con il soul, forse più nel senso spirituale che musicale del termine: in ultima analisi erano quattro giovani musicisti che si divertivano a suonare. Avevano intrapreso un viaggio sonoro nel quale fondevano i loro cuori e le loro menti in una singola entità artistica nuova e particolare. Ma gli echi del jazz, del rock psichedelico e del funk erano ben presenti nell’estetica musicale degli Earth Disciples, così come dai loro pezzi emergeva un lodevole gusto melodico, che tuttavia restava perennemente in bilico tra le atmosfere cosmiche tipiche del momento, una sorta di lounge ante litteram e la ricerca di soluzioni a loro modo sorprendenti. The Gateway Train è un album totalmente strumentale e potrebbe piacere senza dubbio agli appassionati di rock per la sua immediatezza e la sua genuina e spontanea essenzialità, priva di orpelli e di architetture troppo sofisticate. E’ un lavoro grezzo, quasi artigianale ed estremamente diretto. Tuttavia si percepisce in esso anche un’assimilazione del jazz elettrico, che sia pure velatamente, è parte della dinamica del gruppo. I dieci brani del disco sono tutti piuttosto brevi e sono spesso movimentati da cambi di ritmo e inaspettati mutamenti di atmosfera. A tratti si nota una qualche somiglianza con alcuni accenti tipici della scena di Canterbury, dove una vena di progressive rock veniva influenzata dalle contaminazioni jazzistiche, in evidenza soprattutto negli assoli. Come detto, gran parte delle parti solistiche e delle melodie sono affidate alla chitarra elettrica ed al Rhodes, che si fa carico, ovviamente, della struttura armonica dei brani. Dal punto di vista ritmico gli Earth Disciples sono figli del loro tempo, con la batteria sempre impegnata in complesse soluzioni percussive e il basso elettrico, molto vivo, ad inseguire le sue linee potenti e fantasiose. Un ruolo importante viene in questo caso giocato anche dalla chitarra. Il bravo Jimmy Holloway infatti quando non è impegnato in prima linea come solista si mette al servizio della band con un brillante e martellante lavoro di accompagnamento ritmico. La sensazione che si ricava dall’ascolto di The Gateway Train è quella di una lunga suite suddivisa in 10 movimenti che ruotano tutti intorno ad un unico filo conduttore di stampo psichedelico, nel quale la ripetitività dei temi ha un ruolo rilevante pur nella singolarità musicale degli specifici segmenti. I momenti migliori dell’album sono la delicata ballata strumentale La Bahemia, le due parti (1 e 2) dell’onirica Bitter End, la vibrante Rollin’ Over e la bella Serenade Of A Summer Butterfly. Con The Gateway Train ci troviamo di fronte ad un disco strano e in qualche modo speciale: un “unicum” sia dal punto di vista dei contenuti sia perché, dopo la sua pubblicazione, gli Earth Disciples non ebbero più l’opportunità di registrare nessun altro album. Non fu certo il solo gruppo a non dare seguito alla propria attività, ma di sicuro loro si resero protagonisti di un lavoro dai connotati artistici molto particolari e dalle caratteristiche musicali sfuggenti, come abbiamo visto, piuttosto difficili da catalogare. L’originalità di certo non mancava a questi quattro musicisti afro-americani che decisero di non conformarsi ai canoni del jazz o del funk o magari del soul come la maggior parte di quelli che suonavano alla fine degli anni ’60. In ultima analisi questi 33 minuti di “viaggio” sonoro non sono certo passati alla storia come un capolavoro, ma ci regalano lo stesso un interessante punto di vista alternativo sulla musica di quel periodo così ribollente di tumulti sociali ed artistici. Gli Earth Disciples seppero ritagliarsi uno spazio creativo tanto piccolo e stimolante quanto fugace ed effimero proprio in quel contesto di grande cambiamento. Il jazz qui è "borderline" ma per i più curiosi può essere un ascolto interessante.

Jazz Funk Soul – More Serious Business


Jazz Funk Soul – More Serious Business

Le super band sono un fenomeno musicale ambiguo e divisivo: se da un lato l’attrattiva esercitata dalla riunione di alcuni fenomenali musicisti in un unico progetto è qualcosa di quasi irresistibile, dall’altro può rivelarsi a volte un'operazione prevalentemente commerciale, con risultati artistici molto spesso di dubbia qualità. Nel caso del super gruppo denominato (non senza banalità, questo va detto...) Jazz Funk Soul siamo in una sorta di terra di mezzo. Ovviamente i nomi coinvolti e la loro classe assoluta fanno propendere verso un buon risultato del progetto J.F.S. I tre leader in coabitazione di questa formazione di stelle sono il tastierista Jeff Lorber, il sassofonista Everette Harp e il chitarrista Chuck Loeb: tutti nomi che rappresentano l’eccellenza nei rispettivi strumenti. Questo è un trio di veterani, esperti nell'elaborazione di ottimi groove, che nel corso delle loro carriere da solisti hanno scritto pagine memorabili della fusion e dello smooth jazz. Dal 2013, cioè da quando è partito il progetto Jazz Funk Soul, la popolarità del gruppo e l'entusiasmo del pubblico sono andati crescendo. Purtroppo la prima uscita di questa band fu una produzione discografica di cassetta piuttosto che un album concepito per il piacere di fare musica con un minimo di contenuti. Con la loro seconda pubblicazione le cose cambiano prospettiva ed il gruppo riesce ad andare oltre l’operazione di facciata. Il titolo, “More Serious Business”, sancisce già di per sé un netto cambio di passo, prima ancora che nel risultato finale, nelle intenzioni stesse dei musicisti, che evidentemente sentono di aver messo in campo quel qualcosa in più di cui si sentiva la mancanza. L’album del 2017 è un netto miglioramento rispetto al loro poco ispirato debutto del 2014. Sia chiaro, qui non si ascolta nulla che non sia mai stato proposto su decine e decine di similari produzioni di smooth jazz, ma è anche vero che il solo fatto che un disco suoni familiare non significa che non possa essere valido. Questo nuovo lavoro è stato evidentemente creato per soddisfare la domanda del loro crescente pubblico e More Serious Business in effetti è un buon disco, dove non mancano i brillanti assoli di sassofono, i riff di chitarra raffinati e gli interventi di tastiera molto funky ed accattivanti. Una ricetta che è già vincente, ma è ulteriormente arricchita dalle melodie coinvolgenti, dai ritmi all’insegna del groove (che si giovano della presenza di Vinnie Colaiuta alla batteria in quasi tutti i brani). Il tutto è perfettamente arrangiato con la classe e la raffinatezza che contradditinguono i tre leader. In More Serious Business appare chiaro che i Jazz Funk Soul si sono impegnati nel creare una raccolta di buona musica piuttosto che eseguire il compitino ad uso e consumo delle classifiche. Ad esempio una romantica ballata come "The Love?" non brilla per originalità, ma Everette Harp è talmente convincente con il suo sax alto da entrarti subito in testa mentre Loeb e Lorber accompagnano con classe e discrezione, mantenendosi quasi in disparte. In "Fall Departs" l’ospite d’onore è Nathan East, collega di Chick Loeb in un’altra superband come i Fourplay. East non delude ed è proprio il suo basso a mettere il turbo nel brano: Harp, Lorber e Loeb si prendono dei brevi assoli, fino a quando Nathan stesso illumina la scena con il suo sound unico e riconoscibile. "Tuesday Swings" mette in campo più energia, in un pezzo trascinante e ballabile, con il sax tenore a duettare con la tromba di Harry Kim e le belle linee di basso di Alex Al che vestono tutto di vivacità e brio. Una cosa è certa: in nessun momento Business More Serious cade di tono per quanto attiene alla qualità delle esecuzioni, alla classe nella produzione ed alla professionalità degli interpreti. Mancano forse quell’audacia e quella spontaneità care agli appssionati di jazz, così come la ricerca del rischio in favore dell’originalità. E’ un album che scorre fluido e patinato, perfetto per un ascolto serio ma facile e tranquillo: dopo una dura giornata di lavoro, per una serata con gli amici, magari per una bella gita nella natura. Trovate voi l’atmosfera giusta, i Jazz Funk Soul dispenseranno in ogni caso della buona musica ma resterete nella convinzione che non sia certo questo il luogo giusto per trovare spunti di innovazione e scoprire sonorità nuove. E’ smooth jazz ai massimi livelli ed è un bel passo avanti rispetto al sonnolento debutto di cinque anni fa. Tuttavia va detto che i Jazz Funk Soul devono fare un’ulteriore step per affrancarsi dall’essere percepiti come figli di un piano di marketing freddamente organizzato a tavolino. Basta poco, un pizzico di genuinità in più, un tocco di libera creatività e lo straordinario talento di questa super band potrà finalmente vedere la luce. Qualcosa che suoni davvero fresco e originale non è un miraggio per musicisti di questo calibro.

John Coltrane And Johnny Hartman


John Coltrane And Johnny Hartman

Di John Coltrane ho già parlato molte volte e non è un mistero che lo ritenga in assoluto uno dei più grandi geni musicali della storia della musica contemporanea. Nella sua vastissima discografia ci sono opere di importanza vitale per tutto il movimento jazzistico, molte delle quali possono essere considerate dei capolavori immortali. Tuttavia, in questo sconfinato repertorio di album registrati con tutti i più grandi artisti in circolazione tra il 1950 e la metà degli anni ’70, c’è un lavoro che, nella carriera del maestro di Hamlet, rappresenta una mosca bianca proprio per la sua singolarità. Questo straordinario album è di fatto l’unico che Coltrane abbia mai inciso con un vero cantante all’interno della propria band: esso è il frutto di una collaborazione, mai più replicata, con il vocalist Johnny Hartman, un vecchio amico di John che il sassofonista conosceva fin dai tempi nei quali entrambi suonavano nella band di Dizzy Gillespie, a fine anni quaranta. Era il 7 marzo 1963, quando John Coltrane realizzò uno dei suoi dischi più toccanti, nel quale condivideva la ribalta, non con un altro strumentista, ma insolitamente con un cantante. Inizialmente, quando il produttore Bob Thiele avvicinò Hartman portando la richiesta di Coltrane di registrare un album insieme, il cantante si dimostrò esitante poiché non si considerava all’altezza e soprattutto non pensava che lui e Coltrane fossero in quel momento compatibili musicalmente. Ma Thiele non si perse d’animo ed invece incoraggiò Hartman ad andare ad ascoltare Coltrane che si esibiva nel famoso locale “Birdland” di New York. Johnny rimase entusiasmato del concerto, e dopo l'orario di chiusura del club, lui e Coltrane, insieme al pianista McCoy Tyner, si misero a provare qualche canzone. Fu così che poco dopo Coltrane e Hartman decisero di registrare 10 brani da includere in un album di cui loro due fossero i leader in coabitazione. Successe però che sulla strada verso lo studio, alla radio ascoltarono Nat King Cole che cantava Lush Life, e Hartman decise subito che anche quella canzone doveva far parte del loro disco. Il giorno stesso l'album venne registrato al Van Gelder Studio di Englewood Cliffs, nel New Jersey. Una particolarità in merito a questa incisione fu che la band suonò una sola volta per ogni brano, eccetto che per “You Are Too Beautiful”, che richiese due registrazioni perché Elvin Jones ruppe una delle sue bacchette durante la prima. Dunque quando arrivarono in studio non avevano alcun programma, nessun accordo specifico e la registrazione risultò diretta ed immediata, anche se ovviamente tutti i musicisti conoscevano letteralmente a memoria queste canzoni . Il disco si erge come uno dei migliori di John Coltrane, un lavoro di grande bellezza lirica e carico di una palpabile intensità emotiva. Questo è dovuto al fatto che la voce baritonale di Johnny Hartman si fonde perfettamente con il sax tenore di Coltrane quasi a diventare una sorta di estensione vocale del bellissimo album precedente del sassofonista, intitolato “Ballads”. 'Lush Life', che come detto è stata un'aggiunta dell'ultimo minuto all'album, è una canzone che racconta al meglio la magica alchimia di questo insolito abbinamento tra un sax ed una voce maschile. Ad unirsi a Coltrane e Hartman quel giorno del 1963 furono il pianista McCoy Tyner, il bassista Jimmy Garrison e il batterista Elvin Jones, ovvero le fondamenta del quartetto di John. Dalle battute iniziali di 'They Say It's Wonderful', sulla quale McCoy Tyner incanta da par suo al piano, si intuisce che questo è un album con qualcosa di speciale. Quando Johhny Hartman entra in scena e canta, la prima sensazione è del tutto confermata; poi è la pura poesia del sassofono tenore di Coltrane a mettere il suggello ad un duetto magico. Coltrane sciorina un assolo di pura perfezione formale ed incomparabile passionalità. Tutte le canzoni sono cover di standard del jazz, tra le quali 'Dedicated To You', 'My One and Only Love', 'You Are too Beautiful' e 'Autumn Serenade', e ognuna di queste merita attenzione e rispetto. L’interplay tra i due leader e il trio di fenomenali accompagnatori è assolutamente strepitoso. Sulla bravura ed il genio dello straordinario John Coltrane non credo occorra aggiungere altro. Ma per completare la disamina dell'album va sottolineato come la voce profonda e morbida di Johnny Hartman sia bellissima, al pari della sua intonazione, sempre perfetta, e dell'interpretazione dei brani che suona tanto rimarchevole quanto passionale. Hartman è stato senza dubbio un cantante di jazz sottovalutato dal grande pubblico, anche se in verità conobbe una grande stima da parte della critica. Qui ci sono 31 minuti di jazz sublime e sofisticato che tutti dovrebbero ascoltare o meglio ancora che tutti dovrebbero possedere: John Coltrane And Johnny Hartman è un’autentica gemma senza tempo della musica del secolo scorso.

Azymuth - Fenix


Azymuth - Fenix

Dopo cinque anni di assenza, nel 2016 sono tornati sul mercato discografico i brasiliani Azymuth: il gruppo jazz funk più famoso del continente sudamericano e uno dei più rinomati anche a livello internazionale. Con 45 anni di carriera alle spalle ed un numero impressionante di album pubblicati, questa band carioca si è guadagnata il rango di vera e propria icona di quella particolare fusion fortemente influenzata da samba e bossa che loro stessi hanno chiamato “samba doido” (samba folle).  Il titolo di questa nuova fatica discografica è "Fênix" e la prima cosa da sottolineare è che lo scomparso tastierista e fondatore del gruppo Josè Roberto Bertrami è stato sostituito da Kiko Continentino. Il trio è, come prima, completato da Ivan Conti alla batteria e Alex Malheiros al basso. Diciamo subito che il sound caratteristico degli Azymuth non è cambiato, nonostante l’avvicendamento alle tastiere che sono, insieme alle ritmiche, la voce portante di tutta la loro architettura musicale. Dunque il jazz funk vibrante e propulsivo degli anni '70 è sempre protagonista assoluto, e la cosa non può sorprendere, dato che questo stile è quello che ha spinto il trio al successo internazionale e ha consolidato negli anni il loro status di numeri uno in Brasile. Bisogna ricordare che alcune dei loro brani degli anni ’70, cioè del periodo iniziale, sono delle vere e proprie gemme indimenticabili. Come non citare il singolo di grande successo del 1979 "Jazz Carnival", ad esempio, che ha raggiunto il diciannovesimo posto nelle classifiche del Regno Unito ma è ancora attuale ed energico oggi, con il suo ritmo scatenato ed il suo synth straordinario. (sigla di Mixer, Rai 2, ricordate?...) L’attuale trio rende il doveroso omaggio al suo ex tastierista, ma non manca di farlo da una nuova prospettiva, come anche il titolo del disco rammenta in modo appropriato ricollegandosi al mito della fenice che risorge dalle proprie ceneri. E’ il giovane ma esperto Kiko Continentino che si prende le chiavi per ritrovare il vecchio sound e contribuire a dare forma ad alcune nuove idee degli Azymuth del terzo millennio. Pianista, compositore e arrangiatore di grande talento, Kiko ha lavorato con artisti del calibro di Milton Nascimento, Gilberto Gil e Djavan, e qui non delude certo le aspettative riuscendo nell’intento di portare nuova energia e una ventata di fresca ispirazione al gruppo. Fenix è articolato su 9 tracce nelle quali si ritrova tutta la musicalità, l'espressività, la dinamica ed il calore che ci aspetteremmo dagli Azymuth, per certi versi risultando anche migliore del precedente “Aurora” del 2011. "Villa Mariana (De Tarde)" dà il via al gioco, introducendo al familiare cocktail di basso, piano elettrico, synth, percussioni e voci che vanno poi a costituire il nucleo portante del resto dell'album. Il dipanarsi dei brani è piacevolissimo, fluido e colorato: si va avanti tra lampi di disco samba, il funk jazz sempre ben presente e morbide ballate guidate magistralmente dal Rhodes. “Fênix” ad esempio è uno dei pezzi più energetici dell'album, un compendio della filosofia musicale degli Azymuth condensato in quasi 7 minuti di basso, sintetizzatori vintage, un bell’assolo di chitarra elettrica e un delizioso intervento di vocoder. Altri brani, come "Papa Samba", danno a Ivan Conti l'opportunità di mettere in mostra le sue abilità con la batteria e le percussioni, in quello che è uno dei più chiari esempi di come il gruppo riesca a fondere il funk con la tradizione brasiliana. Il basso di Alex Malheiros è come sempre un pilastro del trio, ed il veterano suona in modo molto brillante lungo tutto l’album ed in particolare sulla bella ballata "Orange Clouds". Il lavoro e la presenza del nuovo tastierista Kiko Continentino sono senza dubbio la più bella sorpresa per i fan di vecchia data degli Azymuth: Il giovane musicista non fa rimpiangere il maestro Bertrami e decora ogni secondo di Fenix con un uso davvero efficace del piano elettrico e dei sintetizzatori. Basta ascoltare “Batucada Em Marte” per apprezzare l’abilità di questo trio carioca nel creare un ricchissimo fronte sonoro, come sempre sospinto dalla più colorata e vivace delle ritmiche possibili. Nell’album non mancano i richiami alla vecchia scuola della musica brasiliana classica (Rio Doce) o agli accenti più etnici e tribali (Corumbà e O Matagal). Tuttavia è nei brani di estrazione più squisitamente jazz funk che gli Azymuth danno ancora una volta il meglio di se stessi. Il loro sound continua ad incantare ed a sorprendere, nonostante siano passati moltissimi anni dal loro esordio e in ultima analisi il loro stile non sia affatto cambiato. I fedeli seguaci degli Azymuth, che non sono certo pochi, anche di qua dall’Oceano, non resteranno delusi da Fenix e dalle sue atmosfere vintage.

Modern Jazz Quartet - Django


Modern Jazz Quartet - Django

Pensando alla storia del jazz siamo abituati a ricordare molto bene i grandi solisti che ne hanno segnato profondamente il percorso artistico e stilistico. Tuttavia ci sono stati anche dei gruppi che hanno avuto un ruolo di grande importanza e non vanno dimenticati. Il Modern Jazz Quartet fu uno di questi gruppi musicali: fu fondato nel 1952 da Milt Jackson (vibrafono), John Lewis (pianoforte e direzione musicale), Percy Heath (contrabbasso) e Kenny Clarke (batteria). Clarke fu  poi sostituito da Connie Kay nel 1955. Questo atipico e originale ensemble non aveva ne tromba ne sax nel suo organico, ma conobbe ugualmente grande notorietà grazie alla  versatilità ed alla indiscussa bravura dei suoi membri, che erano in grado di esprimersi con disinvoltura in diversi stili (bebop, cool jazz, third stream). Il suo tratto distintivo era però un’espressione contrappuntistica e classicheggiante, declinata alla perfezione in famosi brani come Vendome e Fontessa, per citarne un paio. Il quartetto in realtà non fu sempre unanimemente apprezzato, subì anche delle pesanti critiche: i motivi furono certamente da ricercare nello stile molto spesso “accademico”, nelle dichiarazioni di Lewis a proposito della loro stessa musica (lui la considerava quasi da camera) e non ultimo nella loro preferenza per un modo di presentarsi molto formale (il MJQ si esibiva in frac in sale da concerto tradizionali). Era quasi naturale che i componenti del quartetto venissero da alcuni accusati di voler piegare il jazz ad uno stile troppo "bianco", concettualmente lontano dalla musica afro americana. Questo non impedì certo al MJQ di affermarsi come uno dei gruppi jazz più sofisticati dell'era post-bop e la loro carriera durò infatti molto a lungo, dal 1952 al 1974 e poi ancora dal 1981 al 1995. La straordinaria alchimia tra pianoforte e vibrafono, così raffinatamente equilibrata, supportata da una sezione ritmica puntuale e tecnicamente ineccepibile devono però essere le chiavi di lettura di un ensemble unico ed irripetibile nell’intera storia del jazz moderno.  Django è un album del 1955 che viene considerato uno dei migliori del Modern Jazz Quartet: è il frutto di tre differenti sessioni di registrazione, effettuate nell’arco di 2 anni,  e vede la formazione nella sua composizione primigenia, dunque con Kenny Clarke alla batteria. Django inizia con la bellissima title track di Lewis, dedicata alla memoria dello straordinario chitarrista Django Reinhardt. Un brano che richiama l'enigmatica natura gitana di Reinhardt, particolarmente evidente nelle parti affidate al vibrafono di Jackson che si esprime con un tono raffinato e caldo. "One Bass Hit" è un inusuale omaggio a Dizzy Gillespie, nel quale è Percy Heath con il suo contrabbasso ad occuparsi della intricata melodia dimostrando la sua abilità, spesso sottoutilizzata. La lunare ballata di Lewis "Milano" rivela un accento mediterraneo ed evidenzia quell’approccio classicheggiante che può risultare tanto affascinante quanto controverso, a seconda di come ci si avvicina alla musica di questi artisti. Il pezzo forte dell’album è la lunga "La Ronde Suite" composta da quattro movimenti. E’ la composizione dove probabilmente emerge in misura maggiore l’ispirazione classica del quartetto. La complessa struttura è affrontata dal MJQ con indiscutibile grazia e grande raffinatezza: ogni membro si prende il suo spazio alternandosi con gli altri nel ruolo di solista e accompagnatore e distribuendo il proprio contributo in un perfetto gioco di equilibri. Le restanti quattro tracce sono le più vicine alla data di pubblicazione e risalgono al 1953: "The Queen's Fancy" è una “fuga” al tempo stesso semplice e sofisticata che si porta dietro un'aura definibile di distinta nobiltà, una sorta di firma sonora tipica del MJQ. "Delaunay's Dilemma" cambia un po’ il registro dell’album con una ventata di maggiore freschezza e libertà formale. Il brano consente ai musicisti di scatenarsi con alcuni scambi vivaci e divertenti: un modo per  dimostrare come anche il Modern Jazz Quartet fosse perfettamente all’altezza di districarsi tra ritmi sincopati ed assoli di stampo più squisitamente jazzistico. Esemplare è poi lo splendore discreto e misurato di uno standard come "Autumn in New York" e sublime è anche la cover di "But Not for Me": entrambe ci forniscono uno spaccato dell’estetica del MJQ attraverso il quale apprezzare l’abilità tecnica e l’attitudine all’improvvisazione dei quattro musicisti. La musica del Modern Jazz Quartet è strutturata in modo apparentemente rigido. Ma in verità la libera genialità del linguaggio del be bop (e persino del precedente swing) ha notevolmente ispirato la logica compositiva di John Lewis. Gli altri tre membri del gruppo non hanno problemi a dare un corpo alla sua visione del jazz, ma è Milt Jackson che sicuramente merita una citazione, soprattutto per il suo formidabile contributo allo sviluppo del vibrafono nella musica afro americana. Quello di Django è il più classico dei jazz possibili. In definitiva, lo stile stesso del Modern Jazz Quartet è diventato un’icona a sé stante. Di sicuro questo album è il luogo ideale dove apprezzare le molte virtù di uno dei migliori gruppi di jazz di tutti i tempi.

Sonny Stitt - Stitt Plays Bird


Sonny Stitt - Stitt Plays Bird

Sonny Stitt è stato  uno dei jazzisti che più strettamente hanno legato la propria carriera allo stile del bebop, di cui fu uno dei più fervidi propugnatori. Fu al contempo un artista tra i più prolifici in campo jazzistico, dato che nel corso della sua carriera registrò oltre 100 album, cosa che lo portò a collaborare con gran parte dei protagonisti della musica afro americana moderna. Il grande critico Dan Morgenstern lo aveva soprannominato "Lupo Solitario" per la sua passione instancabile per i concerti dal vivo ed anche per la sua maniacale devozione al jazz. Stitt nacque a Boston e nella sua famiglia aveva il padre che insegnava musica, suo fratello che era un pianista classico e sua madre che a sua volta era un'insegnante di pianoforte. Fu attivo fin dal 1945, con la prima orchestra be-bop, quella del cantante Billy Eckstine, il cui direttore musicale era Dizzy Gillespie. Agli inizi del suo percorso artistico suonò con Stan Getz, che all’epoca era ancora un illustre sconosciuto. Nonostante le esperienze in alcune swing band, Sonny aveva ben chiaro il percorso che lo avrebbe visto protagonista assoluto del bebop, lo stile che era la sua vera grande passione. E’ noto a quasi tutti gli appassionati di jazz che Sonny Stitt possedesse un suono molto vicino a quello del grande Charlie Parker e che, per questo motivo, con quest’ultimo non volesse essere confuso: un fatto che lo spinse addirittura al passaggio dal sax contralto al sax tenore. Sebbene da allora non siano mai mancate voci false e tendenziose in merito alla mancanza di originalità di Stitt, la verità è che all’inizio degli anni quaranta Sonny comiciò ad evolversi e ad affinare il suo approccio musicale arrivando alla fine ad un purissimo bebop, molto simile a quello di Parker, pur senza averlo mai ascoltato. Queste erano solo dicerie create ad arte, nella speranza di lanciare uno scoop giornalistico. Siamo già nel 1963 ed ormai dalla scomparsa di Charlie Parker erano passati ben otto anni quando Sonny accettò  quella che appare come una sfida alle malelingue, registrando questo album, intitolato per l’appunto “Stitt Plays Bird”. Un passaggio che era estremamente importante per Sonny Stitt, che proprio partendo dal confronto diretto con il repertorio classico del mito Charlie Parker intendeva dimostrare una volta per tutte da un lato il suo valore e dall’altro la sua personalità, che era ben distinta da quella di Bird. Per la registrazione dovette rispolverare il suo vecchio e abbandonato sax contralto, sul quale montò anche un diverso tipo di ancia: la Atlantic Records e il produttore Ahmet Ertegun puntavano ad avere un grande ritorno in termini di vendite, in virtù del reperotrio scelto tra i classici del grande Charlie ed alla bravura dello stesso Stitt. Una speranza di successo che non mancò di concretizzarsi. La band organizzata per la registrazione vedeva la presenza di due dei componenti del Modern Jazz Quartet ovvero il pianista John Lewis ed il batterista Connie Kay,  ai quali bisogna ancora aggiungere l’intelligente e sensibilissimo contributo di Jim Hall alla chitarra e il coinvolgente impulso ritmico del basso di Richard Davis. Il gruppo di musicisti conferiva ad ogni brano un calibrato melange di delicatezza e di vigore sul quale si innestano le splendide improvvisazioni di Stitt: sull’album ci sono otto grandi successi di Charlie Parker e un brano di Jay McShann. Siamo di fronte ad una raccolta di alto livello dentro la quale non è affatto facile individuare un brano che si possa considerare sopra tutti gli altri, ma “Scrapple From the Apple” è un numero di una tale bellezza da non lasciare indifferente nessuno. Tutti i pezzi in programma sono basati su celebri standard, la cui grande rilevanza nella storia del jazz viene spiegata in maniera magistrale nelle ampie ed esaustive note di copertina, firmate dal rinomato esperto di bebop Ira Gitler. Parker’s Mood, Constellation, Yardbird Suite, Ornithology, Now’s The Time sono titoli che provocano un brivido lungo la schiena a tutti gli appassionati di jazz ed il bravissimo Sonny Stitt ne da una lettura tecnicamente ineccepibile nonché un’interpretazione originale e colma di passione. Se uno degli scopi del disco era quello di mettere Sonny al cospetto dell’icona Bird e dimostrare al mondo di non essere da meno del celebre e sfortunato sassofonista di Kansas City, l’operazione può dirsi perfettamente riuscita. Stitt infatti dispensa lungo tutto l’album una assoluta padronanza nelle improvvisazioni, un perfetto controllo, un timbro agile e brioso ed una tecnica formidabile. E’ coadiuvato in questa non facile operazione da una band di grandissimi musicisti che hanno il merito di mettersi al suo servizio in modo intelligente e raffinato, liberando così la creatività e l’inventiva del solista.  La registrazione, che è stata rimasterizzata con tecnica rigorosamente analogica, partendo dai nastri originali, permette di ascoltare i nove brani in tutto il loro splendore sonoro e regala un’esperienza estremamente coinvolgente. Sonny Stitt è stato un grandissimo sassofonista che andrebbe certamente riscoperto e in parte rivalutato: molti appassionati di jazz conoscono benissimo il suo valore, mentre per coloro i quali non avessero confidenza con questo straordinario musicista, Stitt Plays Bird è un’occasione perfetta per assaporare 45 minuti di puro e genuino bebop nella sua forma più brillante.

Afro Elements – Out Of The Centre


Afro Elements – Out Of The Centre

Esplorando qua e là nel web,  capita di imbattersi in un gruppo dal nome interessante, ma di quel gruppo non si conosce niente, non si ha avuto occasione di ascoltare nulla. Però la band incuriosisce e allora si cercano informazioni, si approfondisce e con i canali disponibili si scopre anche la musica che fa: ed il sound a volte risulta subito confidenziale, addirittura può succedere che coincida con i propri gusti personali. Questo mi è successo con gli Afro Elements: un collettivo jazz funk britannico di cui ignoravo l’esistenza ma che, dopo un primo ascolto,  mi ha convinto e conquistato. La formula è quella classica del groove, dell’acid jazz, del funk: ovvero ritmo, basso pulsante, fiati, piano elettrico, chitarre taglienti, arrangiamenti secchi e qualche indovinato intervento vocale.  Ecco perché questi musicisti mi sono sembrati immediatamente familiari. E non solo, leggendo meglio ho scoperto che molti dei membri principali degli Afro Elements hanno avuto esperienze di studio o in tour con i Down To The Bone, i Crusaders, I Brecker Brothers, The Sunburst Band e perfino con gli Incognito. Cioè con il meglio proprio dell’acid jazz e del jazz funk: qui ovviamente il cerchio si chiude. Emergono due cose prima di tutto: questo è il tipo di musica matura, energetica e frizzante e tuttavia mai banale che continua a piacermi molto e poi la qualità della proposta che, per quanto si possa definire leggera, è senza dubbio di prim’ordine, grazie proprio alla bravura indiscussa di chi la suona. Con Out of the Centre, gli Afro Elements rispondono ad entrambe i requisiti: sono dieci solchi, in gran parte strumentali, che faranno la felicità di tutti gli appassionati dei suoni vintage, così in voga negli ’70 e ’80, ma risulteranno di grande attrattiva anche per tutti coloro che sono sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo. Come detto, il batterista Phil Nelson, il bassista Simon T. Bramley, il tastierista Neil "Laboratoire" Hunter e i due trombonisti Tim Smart e Jörgen Vedeler sono tutti fantastici strumentisti, e ci sono anche i chitarristi Andreas Haglioannu, Benny Finnerty (Crusaders, Brecker Brothers) e Tommy Emmerton, riescono a regalare qualcosa in più a questo Out of the Centre. Nel disco ci sono cover strumentali tanto inattese quanto originali, come la rielaborazione funk di "Eleanor Rigby" dei Beatles oppure dei bellissimi originali come "Formosa" (di ispirazione EW&F) . Presto ci si accorge che gli Afro Elements suonano con calore e brillantezza ma confezionano tutto con eleganza e rigore, grazie alla proprietà ed alla classe degli arrangiamenti. Una parte importante del merito va al lavoro  delle tastiere di Hunter (in particolare il suo piano elettrico non è da sottovalutare) ed il suo contributo è decisivo anche a livello compositivo: la sua scrittura offre lo spazio perfetto al bassista Simon Brmaley e a tutti i chitarristi coinvolti per far volare le loro agili dita. Ma una menzione va data anche alla parte ritmica di stampo afro-latino di Phil Nelson, che con il suo drumming dà una connotazione originale alla band. Come per la maggior parte dei collettivi funk e acid jazz, sono poi i fiati a delineare il sound e gli Afro Elements non fanno eccezione: grazie alla loro insostituibile presenza risulta più chiara la differenza con l’R & B contemporaneo ed il neo soul, aggiungendo  quell'incisività e quell’impatto che è esattamente ciò che lo specifico genere richiede. Il trombettista Graeme Flowers, i sassofonisti Mike LeSirge e Andy Ross (già con gli Incognito) si uniscono ai trombonisti Tim Smart e Jörgen Vedeler per formare una completa e potente sezione fiati. Questo non fa che arricchire i brani più veloci come "It Feels So Good", che si avvale anche dei vocalist Cherri Voncelle e Frances Jowle, o dominare la scena come ad esempio nello strumentale "Kamura San", uno dei pezzi più brillanti dell’intero album. Le due canzoni trainanti di Out Of The Centre sono tuttavia quelle cantate dalla bravissima Frances Jowle: "Lift Your Life" rimanda subito agli Incognito grazie alle ricche armonie vocali che l’arrangiamento pone in primo piano davanti ad un poderoso mix di fiati, bassi funky e chitarre accattivanti. L’assolo di sax è seducente e fantastico è anche l’intervento di Rhodes di Neil Hunter.  "(You're Just A) Waste of Time" replica le stesse atmosfere, con un ritmo più veloce e un favoloso tiro funky, in un approccio da dance acid jazz di quelli che catturano al primo ascolto. La chiusura dell’album è affidata a “The Sheriff parts 1 e 2” che è un magnifico strumentale pieno di tutte quelle alchimie tanto care alla musica black degli anni ’70. Un compendio di retro jazz funk nello stile dei film polizieschi di quel periodo: clavinet, piano elettrico, synth, fiati e ritmo sincopato si inseguono in un vortice musicale assolutamente irresistibile. Gli Afro Elements sono una fantastica scoperta, ma con un gruppo di musicisti così validi ed esperti era difficile sbagliarsi od anche solo trovare dei difetti. Si tratta di un vero collettivo musicale formato da gente, che nel mondo dell’acid jazz, milita senza dubbio nella massima categoria. In definitiva Out Of Centre è un album caldamente raccomandato.