The 14 Jazz Orchestra - The Future Ain't What It Used to Be


The 14 Jazz Orchestra - The Future Ain't What It Used to Be

Guidata dal produttore ed arrangiatore Dan Bonsanti, questa grande band contemporanea, con base a Miami, si presenta al pubblico con una collezione accattivante e moderna nella quale la cartteristica predominante sembra essere la varietà. Dunque troviamo classici e standard del jazz ma anche brani più oscuri che ben si prestano ad un'ambientazione ricca, strutturata e curata in ogni dettaglio. Gli arrangiamenti sono bellissimi, non c’è dubbio, e gli assoli faranno drizzare le orecchie a tutti gli appassionati della buona musica. Quello che ne esce sono alcuni grandi pezzi firmati da giganti come Chick Corea, Eliane Elias e Wayne Shorter reinventati con uno spirito innovativo, ed accanto a questi dei classici pescati in altri generi ("16 Tons (Give or Take) o" I'll Be Seeing You "). Da sottolineare che uno degli aspetti più interessanti del gruppo è che prende il nome dai 14 musicisti abituali, ma al contempo qui ci sono pure un manipolo di ospiti incredibili. Fenomeni del jazz come Randy Brecker, Mark Colby, Mark Egan, Danny Gottlieb e Rick Margitza si alternano insieme al sassofonista Ed Calle ed altri artisti del sud della Florida. Sotto la direzione del già citato Dan Bonsanti, l'ensemble comprende illustri maestri di Jazz impegnati nelle facoltà di musica del Miami Dade College, della Barry University, della Florida Atlantic University e dell'Università di Miami. Individualmente, i membri della “14" hanno registrato e suonato con molti dei più grandi artisti Jazz e Pop del nostro tempo, dalle grandi band di Stan Kenton, Maynard Ferguson, Mercer, Ellington e Woody Herman fino a personaggi come Billy Eckstine, Sarah Vaughan, Jon Hendricks, Mel Torme, Jaco Pastorius e Stanley Turrentine. Ed inoltre possono vantare collaborazioni anche con i fratelli Brecker, Eliane Elias, Bob Mintzer, Bob James e Arturo Sandoval, Frank Sinatra, Tony Bennett, Peggy Lee, Nancy Wilson, Ray Charles e artisti pop / rock diversi come Barbara Streisand, Marvin Gaye e The BeeGees, solo per citarne alcuni. La grande band adotta un approccio Jazz contemporaneo sfoggiando un vasto assortimento di stili, che si estrinsecano nel repertorio di straordinari compositori jazz come Billy Strayhorn, Joe Henderson, Chick Corea, John Scofield e Wayne Shorter e artisti pop come Paul McCartney e John Lennon. Tanto sconosciuta quanto superbamente piacevole, la 14 Jazz Orchestra è una scoperta inattesa e particolarmente gradita nell’ambito del panorama jazz attuale. Con una operazione che ricorda la Big Fat Orchestra di Gordon Goodwin, gli arrangiamenti di Dan Bonsanti sono davvero il massimo in termini di ricchezza e varietà. Il solista del gruppo è il sassofonista Ed Calle, che non delude le aspettative e si dimostra un eccellente strumentista dal timbro caldo e avvolgente. The Future Ain't What It Used to Be regala alcuni dei momenti più swing che potrete ascoltare l'anno prossimo (l’album infatti esce ufficialmente il 1 ° gennaio 2019). Basta ascoltare con attenzione uno dei miei brani preferiti, "Blue Miles", per avere un assaggio di quello che questi musicisti possono offrire agli appassionati di jazz. Ho controllato personalmente, ma non sono riuscito a trovare nessun canale YouTube per la 14 Orchestra, un vero peccato perchè al giorno d’oggi sarebbe un’opportunità davvero interessante per promuovere la musica della band. Ma se metterete le mani su questo album,  troverete brani convincenti e piacevoli come "Dance Cadaverous" e "Firewater" di Buster Williams. Il funk ad alta energia di "Rice Pudding", che è un vero e proprio pezzo killer, con il suo assolo di chitarra che regala momenti di grande divertimento con l'anima del jazz dentro. Gli arrangiamenti sono sempre eccellenti e il disco vanta una registrazione perfetta che rende questi brani indimenticabili ed estremamente piacevoli: ne avrete conferma quando, terminato l’ascolto vi verrà la voglia di riascoltare tutto da capo. Il gruppo è certamente da annoverarsi nella categoria delle "big band", ma all’interno di questo formidabile contenitore troverete diversi mood e stili: prima di tutto un assolutamente delizioso jazz ma anche altri colori e declinazioni. Non è facile scegliere un brano preferito tra gli undici proposti, in quanto qui non ci sono davvero punti deboli. Questo The Future Ain't What It Used to Be mi è piaciuto moltissimo e non dubito che piacerà anche alla maggior parte di chi lo ascolterà. Come recita il titolo dell’opera, forse il futuro non è quello che dovrebbe essere, ma grazie a questa grintosa, eccentrica, stravagante orchestra di musica jazz, il domani sembra davvero dannatamente brillante, funky e pazzamente swing. Credetemi: è un eccellente modo per cominciare il nuovo anno all'insegna della musica di qualità.

Rob Franken – Fender Rhodes


Rob Franken – Fender Rhodes

Rob Franken è stato una delle figure chiave in Europa per quanto concerne l’uso del piano elettrico negli anni '60 e '70. Nome non molto conosciuto, fu tuttavia trai primi a buttarsi con convinzione e di conseguenza a padroneggiare il piano elettrico Fender Rhodes, senza dimenticarsi della sua passione anche per l'organo Hammond B3. Nato in Olanda nel 1941, questo oscuro jazzista rimase decisamente affascinato dalle possibilità espressive del piano elettrico, uno strumento che verso la fine degli anni '60 stava guadagnando sempre più credito in ambito jazz. Franken in realtà nasce come uno specialista dell'Hammond, ma la sua vera e propria ossessione per il Rhodes lo portò di fatto all’utilizzo quasi esclusivo della nuova ed emergente tastiera. Rob Franken ha iniziato la sua carriera con il duo folk Esther e Abi Ofarim, per poi iniziare a suonare con il Klaus Weiss Trio a metà degli anni '60. In seguito ha formato la sua leggendaria piccola combo, The Rob Franken Organization. La Rob Franken Organization  pubblicò due album: "Pon my soul” nel 1967 e Ob-la-di-ob-la-da nel 1969. In realtà egli suonò anche con Toots Thielemans in qualità di pianista e organista e fu il tastierista fisso per la Peter Herbolzheimer Rhythm Combination e Brass. Durante la sua relativamente breve carriera, Franken ha avuto modo di suonare in oltre 400 album ed è stato un artista molto apprezzato da tantissimi musicisti. La sua improvvisa ed inaspettata scomparsa a causa di un'emorragia interna all'età di 42 anni, nel 1983, ha concluso la sua oscura ma notevole carriera: il tragico evento capitò solo tre giorni dopo la sua ultima sessione di registrazione con la Rhythm Combination e Brass. Fender Rhodes è in verità un album bellissimo. Una registrazione che rappresenta una delle gemme del piano elettrico di tutti i tempi e peoprio per questo motivo dispiace che non abbia avuto il successo che meritava. Gli appassionati del Rhodes non possono assolutamente trascurare un disco come questo, dove la favolosa tastiera è in piena luce, suonata con maestria e groove e valorizzata come raramente capita di ascoltare. Le registrazioni qui sono tutte degli anni '70 e sono state riprese in piccoli jazz club in Olanda come il famoso Jazz Cafe di Laren. E’ anche un album profondamente jazz, dove le contaminazioni funk o rhythm and blues sono solo una suggestione lontana. Tra l’altro il buon Rob riesce anche a fare un buon uso del synth, senza abusarne, ma colorando di modernità alcuni brani. Sono 11 le canzoni che compongono Fender Rhodes di cui solo quattro sono originali di Franken. Nella track list spiccano due classici come Blue Bossa di Kenny Dorham e This Masquerade di Leon Russell. Le formazioni che si alternano nei vari pezzi coadiuvano alla perfezione il tastierista nella sua cavalcata quasi sempre da solista: da notare che tra gli ospiti figurano i nomi di Jimmy Owens e Clark Terry alla tromba e quello, inevitabile, di Toots Thielemans all’armonica. Su This Masquerade troviamo anche uno dei più grandi bassisti del jazz di tutti i tempi: Niels-Henning Ørsted Pedersen. E’ un vero piacere ascoltare il piano elettrico così massicciamente e sapientemente utilizzato. In questo album assurge al ruolo di protagonista assoluto e si può apprezzarne in modo totalmente immersivo tutte le sfaccettature espressive ed i caldi colori di cui è capace. Merito anche di un mastering stupendo e certamente anche della scelta del repertorio, all’interno del quale le canzoni rivelano come Rob Franken sia stato un genio del Rhodes, tanto formidabile quanto misconosciuto. Imperdibile.

Jerry Van Rooyen - At 250 Miles Per Hour


Jerry Van Rooyen - At 250 Miles Per Hour

Come già è capitato in passato, ogni tanto mi succede di imbattermi in musicisti per i quali l’aggettivo “sconosciuto” è quasi riduttivo. Tuttavia tra queste carneadi musicali spesso e volentieri si nascondono dei grandi talenti. Jerry Van Rooyen è una di queste recenti scoperte, un musicista del quale ammetto di non aver mai sentito nemmeno parlare in precedenza. Questo trombettista e arrangiatore il cui vero nome è Gerard van Rooijen, nacque il 31 dicembre 1928 a L'Aia nei Paesi Bassi. Prese le sue prime lezioni di musica e di tromba all'età di otto anni e dopo pochissimo tempo entrò a far parte di una banda di ottoni. Successivamente studiò musica al conservatorio della sua città per diplomarsi in seguito come insegnante. La sua vera carriera professionale iniziò nel 1944, come primo trombettista in uno gruppo jazz olandese. Dal 1955 proseguì il suo percorso artistico e professionale con la famosa orchestra radiofonica olandese “The Ramblers” dove svolgeva anche il ruolo di arrangiatore.  Nel frattempo continuò a suonare con un proprio gruppo jazz nei nightclub in giro per la nazione. Ad un certo punto Van Rooyen si trasferì a Parigi, dove conobbe e collaborò Michel Legrand, Claude Bolling e Gilbert Bécaud e trovò anche un ingaggio come direttore d’orchestra e arrangiatore per la Fontana Records. Una vera e propria svolta nella sua carriera arrivò però nel 1965 quando a Berlino incontrò il produttore cinematografico Pier A. Caminneci, per il quale realizzò almeno sette colonne sonore. I film di Caminneci  erano probabilmente tra le più stravaganti e bizzarre pellicole del loro tempo, ma diedero a Jerry Van Rooyen una buona opportunità per esplorare nuovi territori musicali. Tra le cose più significative realtive alla carriera di questo artista olandese, bisogna ricordare che Van Rooyen ha scritto la colonna sonora delle Olimpiadi del 1972 a Monaco e ha lavorato inoltre con Quincy Jones, Benny Bailey, Stan Getz, WDR Bigband e Metropole Orkest. Sono 18 i brani dell'album di cui ho scelto di parlare, intitolato “At 250 Miles Per Hour”:  sono stati originariamente scritti e registrati da Van Rooyen proprio per quei film horror un po’ kitsch di Pier A. Caminneci, Necronomicon/Succubus o per il lungometraggio sul mondo delle corse How Short Is the Time for Love. Ci sono poi le composizioni che Van Rooyen ha registrato per il sexy thriller del regista Ramon Comas, Death on a Rainy Day, e la commedia del regista Freddie Francis The Vampire Happening. E’ un album strumentale anche se alcune linee melodiche sono vocalizzate, come voleva la tendenza di quegli anni. La musica di Van Rooyen ha un forte accento jazz orchestrale che spesso lascia il posto al funk e ai sapori pop degli anni '60. Il secondo brano del CD, "The Great Bank Robbery", tratto da How Short Is the Time for Love, è una vivace melodia con un filo di suspense, un assolo di organo, bassi pulsanti e un bel lavoro di batteria. Inizia con una sentore di funk e poi si conclude con un pò di swing. "Death Walks in Heels", era parte della colonna sonora del film Succubus (1968): si tratta di un brano di bebop molto interessante, mentre "Lullaby in Bed", è una lussureggiante bossa nova piena di archi dalle molte suggestioni. L’ascolto rivela come Van Rooyen prestasse una particolare attenzione nell’arrangiamento dei suoi temi, usando molti timbri, arricchendo il suono di svariati colori e inserendo spunti percussivi e ritmici molto originali. Jerry Van Rooyen, come abbiamo visto, prima di specializzarsi nel campo della composizione di musica per film d'azione, ha lavorato come trombettista jazz e ha avuto esperienze anche come strumentista classico suonanado con la Netherlands Symphonic Orchestra. Questa sua doppia sensibilità, quella di compositore e quella di musicista, si estrinseca senza dubbio nella sua musica. Per questa ragione i suoi brani sono meravigliosamente stratificati e molto ben congeniati, sebbene i musicisti da lui utilizzati abbiano spesso lo spazio per improvvisare e divertirsi in libertà, come impone la scuola jazzistica. In At 250 Miles Per Hour di fatto c’è molto jazz, si respira a tratti un’atmosfera lounge, si trovano echi della blaxploitation e del funk ma soprattutto si percepisce un’affinità con la musica nostrana di Riz Ortolani, Piero Umiliani, Ennio Morricone, Stefano Torossi.  In ultima analisi è un ottimo album, cinematico e pieno di energia: a tratti un po’ kitsch, ma pieno di spunti musicali di grande interesse. Un tuffo nelle atmosfere della fine degli anni ’60 e dei primi anni ’70 dove i rare grooves e i suoni vintage la fanno da padroni sottolineati da una grande maestria negli arrangiamenti ed un’indubbia creatività.

Herbie Hancock – Gershwin’s World


Herbie Hancock – Gershwin’s World

Herbie Hancock è senza ombra di dubbio uno dei più grandi pianisti jazz della storia. Nella sua carriera si è cimentato con grande successo sia nel più tradizionale jazz classico che nelle sue incarnazioni più sperimentali, senza dimenticare le “divagazioni” più leggere influenzate dal pop e dal funk. Dopo alcune uscite non proprio all’altezza delle aspettative, come ad esempio la riedizione degli Headhunters con “Return of the Headhunters”, un album come Gershwin’s World rappresenta per Hancock un ritorno ai suoi elevatissimi standard di qualità. Questo disco è infatti di gran lunga la cosa migliore che il maestro abbia pubblicato dopo essere entrato nella scuderia della Verve nel 1995. Ovviamente molto soddisfatti del risultato di questo ambizioso ed impegnativo progetto, i discografici della Verve si sono lasciati un pò andare definendolo "una delle più significative registrazioni jazz del decennio. Una dichiarazione probabilmente eccessiva che tuttavia non toglie nulla al fatto che Gershwin’s World sia da considerare indubbiamente un album pienamente riuscito. Per certi versi la personalità dirompente di Hancock è talmente forte da mettere un sigillo di temperamento e carattere molto significativo sui classici del grande compositore americano. Al punto che paradossalmente questo album avrebbe potuto intitolarsi forse meglio Hancock's World:  non è certo semplicemente un altro tassello nella serie apparentemente infinita di omaggi al mondo di Gershwin. Herbie fa tesoro delle gemme senza tempo pescate nel songbook del genio di New York dell’inizio del ‘900, dando a questo progetto un respiro di vasta portata e mettendoci tutta la sua arte ed il suo talento. Sono brani che conosciamo molto bene, che sono stati suonati e reinterpretati migliaia di volte e ciononostante mantengono un fascino ed una melodicità che, anche a quasi cento anni di distanza, ha del prodigioso. Il tocco sapiente di Hancock, accompagnato da uno stuolo di vere e proprie star del jazz non fa altro che valorizzare una musica che fece toccare a Gershwin le vette del firmamento musicale, al pari di degli altri grandi musicisti del tempo, Cole Porter e Irving Berlin. La selezione comprende 14 brani, il primo dei quali è una rapida "Overture" di 55 secondi di sole percussioni africane e batteria. L’ascolto approfondito di "The Man I Love", rivela la presenza di Joni Mitchell, che a malapena avevo riconosciuto, ma che di fatto figura nei crediti del disco. L’interpretazione trasmette una sensualità dai toni rochi e affascinanti più di quanto non ricordassi capace la sua voce. La Mitchell ritorna per una seconda ed altrettanto avvincente versione di "Summertime", dove risalta anche l'armonica meravigliosa suonata da Stevie Wonder ed il formidabile sax soprano di un ispirato Wayne Shorter. La famosa "St. Louis Blues" non ha nulla a che fare con Gershwin, se non l'epoca in cui fu composta, ma ascoltando il risultato, impreziosito dal meraviglioso piano di Hancock e la maestosa voce di Stevie Wonder, condita dalla sua armonica cosa si può dire ? Nulla da eccepire: anche perchè Herbie aggiunge al suo pianoforte un’iniezione di organo Hammond B-3 che ci fa pensare a quanto sarebbe bello se il maestro lo utilizzasse di più. La canzone forse si dilunga un po’ nel divertimento soul e funk ma quando il grande Stevie dice "Posso giocare?", anche il grande Herbie non può dire di no. "Here Come de Honey Man" si avvale di un originale arrangiamento di Hancock che vede la presenza del trombettista Eddie Henderson, del sassofonista Kenny Garrett e del sax tenore di James Carter. Tutto parte da una profonda riorganizzazione del tema, che suona forse ancora più evocativo della stessa versione di Gil Evans per il Porgy & Bess del divino Miles Davis. Gli stessi tre grandi musicisti appaiono anche in una particolare versione di "It Is not Necessarily So" perfetta sia nell’arrangiamento che nell’esecuzione. Chick Corea  e Hancock si esibiscono in una divertentissima performance a due per soli pianoforti su "Blueberry Rhyme" composta dal celebre pianista James P. Johnson. Ascoltare questi due maestri ripristinare la loro alchemica unione come fu nel 1978 nell’immortale “An Evening With”  è una vera e piacevolissima sorpresa. Hancock lascia volare le sue dita su una versione in quartetto di "Cotton Tail" (per la quale va ricordato che Duke Ellington basò la composizione su "I Got Rhythm" di Gershwin). Qui si riaccende la magia del quintetto di Miles con Herbie e Wayne e la bravissima Terri Lyne Carrington che prende il ruolo che fu di Tony Williams e Ron Carter quello di Ira Coleman. L'incredibile assolo di sax tenore di Shorter sprona Hancock ad altezze pianistiche ineguagliabili. L’ approccio è più riflessivo ed armonioso su "Preludio in C # Minore", un paesaggio sonoro atmosferico, esaltato dall'avvincente voce da soprano della star dell'opera Kathleen Battle. E per completare il quadro estremamente ambizioso di questo progetto, Hancock esegue anche due suite molto intense con l'Orpheus Chamber Orchestra:  "Lullaby" ed il "Concerto per pianoforte e orchestra in Sol, Secondo Movimento" del compositore Maurice Ravel. L’album viene concluso con una nota intima e delicata attraverso una dolce interpretazione per piano solo della celebre "Embraceable You." La bravura tecnica incontestabile, l’ampiezza e la profondità della sensibilità artistica di Herbie Hancock vengono pienamente espresse da questa magnifica collezione: l’album è assolutamente bellissimo ed in parte anche sorprendente. Con Gershwin's World il maestro Hancock mette in atto una favolosa celebrazione del centenario del grande George Gershwin, esaltando al contempo il proprio talento e la propria classe.

Ed Motta - Criterion Of The Senses


Ed Motta . Criterion Of The Senses

Di Ed Motta ho già parlato in passato. Con la recente uscita di un suo nuovo album, colgo l’occasione per occuparmi nuovamente di lui. Ed Motta è sì cresciuto in Brasile, ma con la passione per il soul, il funk ed il rock. La sua carriera tuttavia è iniziata con un genere diverso da questi, agli esordi egli faceva infatti musica dance brasiliana, con una effimera band chiamata  Conexão Japeri. In realtà il percorso artistico e professionale di Motta ha vissuto, nel corso degli anni, molti cambiamenti di rotta, proprio perché il musicista di Rio era alla ricerca della sua vera identità musicale. Con il precedente album del 2013, Ed sembrava aver trovato la propria destinazione musicale elettiva. "AOR” era un omaggio a quel Adult Oriented Rock venato di soul e funk, sofisticato e piacevole, che ricordava in parte gli Steely Dan e in qualche misura anche il suo idolo Donny Hathaway. Ebbene Ed Motta ha ampliato e perfezionato l'estetica di "AOR" prima con "Perpetual Gateways 2015", un disco stupendo registrato in America con il produttore di Gregory Porter, Kamau Kenyatta. Ora Ed svela al pubblico la sua ultima offerta, intitolata "Criterion Of The Senses", un album che cristallizza perfettamente il suono jazz-soul-rock della fine degli anni '70 e che rappresenta senza dubbio la migliore espressione artistica del bravo musicista brasiliano. E’ facile parlare delle influenze di Ed Motta dimenticandosi di elogiare la sua indubbia originalità. Sebbene le sue ispirazioni musicali siano spesso trasparenti e immediatamente riconoscibili, e, per inciso, ammesse senza problemi dallo stesso Motta, la chiave della sua recente produzione è il modo in cui filtra queste influenze attraverso la sua sensibilità unica. E’ così che arriva a qualcosa che suona fresco, originale e contemporaneo, piuttosto che scontato e retrò. Criterion Of The Senses contiene otto canzoni e dura solo 34 minuti: potrebbe sembrare breve secondo gli standard odierni, ma è un lavoro di sostanza e, naturalmente, possiede la lunghezza ideale per il vinile, il mezzo preferito di Motta per veicolare la sua musica (ricordo che vanta una collezione di 30.000 dischi). Il nuovo LP inizia con un groove dolce chiamato "Lost Connection To Prague", una meditazione sull'alienazione dell’uomo moderno, dove la voce ricca e soul di Motta è incorniciata da accordi jazz di piano Rhodes. Da sottolineare l’intervento del chitarrista Tiago Arruda, sorprendente nel suo stile alla Larry Carlton. Gli appassionati di soul ameranno anche la notevole "The Sweetest Berry", una canzone mediamente ritmata, romantica, nella quale emerge l’eco del cantante preferito di Motta, il grande Donny Hathaway, una parte importante del suo DNA musicale. Un brano la cui virtù principale è la sua relativa semplicità. Un’atmosfera che contrasta con il successivo brano "Novice Never Required", che è invece teso, basato su una sofisticata architettura jazz-funk tale da movimentare in modo intelligente il tenore dell’album. "Required Dress Code" è più leggera e lascia trasparire una piacevole prossimità con certe canzoni di Christopher Cross o degli Steely Dan. "X1 In Test" vuole omaggiare la fantascienza mantenendosi dal punto sonoro nel territorio di Donald Fagen, mentre "The Tiki's Broken There" è innanzitutto un sinuoso duetto con la cantante femminile Cidalia Castro. Ricorda il mistero dei film noir e si muove su sentieri molto originali e particolari in quanto ad arrangiamento e melodia e si distingue anche per qualcosa che non si ascolta spesso nei dischi pop e cioè un delizioso assolo di clarinetto basso. Più diretto è il divertente pop-rock intitolato "Shoulder Pads", un evidente omaggio di Motta agli anni '80, ironico quanto basta e condito da synth ed un arrangiamento che richiama Rod Temperton e Micahel Jackson. "Criterion Of The Senses" è un disco che garantisce un ascolto coinvolgente e consente di entrare nel mondo intrigante di Ed Motta in cui tutte le canzoni risuonano come sogni che richiamano alla mente qualche emozione del passato pur guardando sempre dritto al futuro. In definitiva, è un'esperienza molto soddisfacente ed estremamente interessante per varietà e originalità di arrangiamenti ed esecuzioni. Lo spettro sonoro spazia dal Soul alla Fusion fino al Funk e al Soft Rock di stampo californiano con la stessa eccellente qualità. E tutto è arricchito dalla voce piena e profonda del formidabile Ed Motta. Se da un lato i nomi dei musicisti presenti sull’album potrebbero non significare molto per noi europei, dall’altro la loro abilità musicale spiega da sola perché sono il meglio del Brasile dagli anni Settanta ad oggi. C'è una linea sottile ma molto importante tra l'essere prevedibili e banali e riuscire a rimanere freschi, accattivanti e sempre stimolanti. Ed Motta si colloca proprio lì, sopra questo discrimine fondamentale, facendo musica che intreccia il groove con il soul, il jazz sofsticato, il vigore del funk e il rock  della west coast americana con disinvoltura e grande proprietà di linguaggio. Non asseconda mai le aspettative dando semplicemente all'ascoltatore ciò che si aspetta, piuttosto entra magicamente nell’anima consegnandoti ciò che forse nemmeno ci si rende conto di volere. Queste canzoni sono storie a sé stanti, piccole vignette e scenari fugaci disegnati sulla musica più bella. Il risultato è un album che si rivolge tanto agli appassionati di jazz quanto a quelli di soul e più in generale a coloro che apprezzano l'eleganza nella musica e l’intelligente eloquenza nei testi. Grande Ed Motta.

Roger Smith – Consider This




Roger Smith – Consider This

Ci sono musicisti che, pur se dotati di grande talento, non raggiungono mai una vera notorietà e restano confinati all’interno di quelle nicchie di ascolto privilegiato ad esclusivo uso di una ristretta cerchia di appassionati. Uno di questi artisti è il tastierista Roger Smith, che è più noto per la sua militanza nei Tower Of Power che per la sua pur non indifferente carriera da solista. Nato nel 1945 a Dallas, Texas, Roger Smith, fu incoraggiato fin dalla più tenera età dalla sua stessa famiglia a prendere lezioni di musica. Cresciuto in seguito nella zona rurale della California centrale, dove i suoi genitori erano a mezzadria, iniziò a studiare pianoforte sebbene fosse principalmente autodidatta. Negli anni '60, ha prestato servizio nell'esercito, continuando a suonare e formando una band di blues, i Blind Melon. Per un colpo di fortuna, l'artista blues Freddie King, il cui pianista regolare non era riuscito a presentarsi ad un appuntamento per un concerto, gli diede un lavoro, forzandolo così a congedarsi dall'esercito. Questo fu l’inizio della carriera di Smith, che andò in tour con King e poi suonò con vari altri artisti in ambito blues, ma anche jazz, country e pop. Le collaborazioni furono molteplici: Gerald Albright, Jeff Beck, Rick Braun, Gladys Knight, Willie Nelson, Phil Perry, ovviamente i Tower Of Power ed infine Dave Koz e Peter White. Bisogna aspettare il 1996 per il debutto di Smith come solista, con l’album My Colors. Durante il periodo in cui questo disco era in lavorazione, il figlio e il padre di Smith morirono entrambi in un tragico incidente ed il risultante tumulto emotivo aggiunse un tocco malinconico alla sua musica, una qualità che lo ha a lungo contraddistinto. Con il tempo il suo orientamento musicale virò tuttavia verso lo stile tipico dello smooth jazz, pur non perdendo di vista il jazz ed il blues. Roger è anche un validissimo specialista dell’organo Hammond B3 e questa sua passione è rappresentata al meglio dai due album della serie Jazz Rosco: è qui che l’anima più jazzistica e la sua profonda cultura blues emergono in tutta la loro forza espressiva. Roger è musicista dalla scrittura suggestiva e brillante, molto ricca di sfumature e con una evidente profondità espressiva, inoltre può vantare uno stile tastieristico accattivante e fluidissimo, sia che si cimenti con il piano acustico sia che si esibisca con il Rhodes o l’organo Hammond. E’ per queste ragioni che Roger Smith può piacere non solo al pubblico del jazz, ma anche a tutti coloro che apprezzano un più contemporaneo e spigoloso approccio: quale in effetti è quello che l’artista riesce a dare attraverso elementi di funk, soul e R & B. Tra i musicisti con cui Smith ha spesso lavorato e che sono via via apparsi nei suoi album, ci sono il sassofonista Dave Koz, e i chitarristi Ray Obiedo e Michael Gregory. Da oltre un ventennio questo oscuro pianista e organista ha prodotto dei solidi ed interessanti album che sono sia jazz che funky, ma è chiaro che non gli sono stati attribuiti i meriti che un artista del suo livello dovrebbe ricevere. Consider This è un album piacevole e simpaticamente ricco di groove, che, come prevedibile, ha contribuito ad aumentare la sua notorietà grazie anche al contributo dell'infallibile Dave Koz e di un’altra icona del contemporary jazz come Peter White, che ha scritto e ha suonato la chitarra sulla vivace "Workin It It". Il disco è dunque riccamente condito dalla presenza di musicisti di alto profilo ma Roger Smith, il cui approccio variegato e versatile ricorda in qualche misura quello di George Duke, si esprime al meglio anche in proprio. E’ dinamico e passionale sia che elabori il groove soul-jazz vintage di "Rough Cut" (con gli arrangiamenti di fiati della premiata ditta Norbert Statchel e Adolpho Acosta dei Tower of Power) sia che torni al vecchio amore blues in "Vega". Roger non disdegna di sconfinare in altri tipi di atmosfere come su "Hali Imaile (The Maui Song)" che è influenzato dalla cultura hawaiana. Su tutto spicca il pianismo sempre preciso eppure piacevole ed elegante di Smith che a mio parere è il suo vero punto di forza: un ascolto consigliato per tutti gli appassionati di tastiere jazz. Consider This è un solido tassello che si aggiunge al suo sottovalutato catalogo e si  presenta con una manciata di canzoni che dovrebbero rendere felici i fan del genere. Non a caso il successivo album Both Sides, ha avuto anche un certo riscontro a livello di ascolti ed è infatti entrato nella Top 10 della classifica Jazz di Billboard per ben 17 settimane. Questo può essere un punto di partenza per scoprire tutta la produzione di Roger Smith, che ha molte frecce al suo arco e, a dispetto della sua scarsa fama, può interessare ad una vasta platea di ascoltatori.

Soulstance - Electronic Chamber Jazz


Soulstance - Electronic Chamber Jazz

I fratelli Enzo e Gianni Lo Greco sono due musicisti ben noti sulla scena musicale italiana ed internazionale. Baresi come Nicola Conte e Paolo Achenza, appartengono a quella nouvelle vague con base nel capoluogo pugliese che alla fine degli anni ’90 si è distinta come una delle più creative ed interessanti proposte musicali acid jazz, nu jazz e nu bossa. Il loro successo si deve principalmente ai progetti ed alle diverse produzioni che li hanno visti protagonisti e conosciute con svariati nomi: Quintetto Lo Greco, Quintetto X e soprattutto Soulstance. Soulstance è in pratica un duo formato dai due fratelli con l’aggiunta di alcuni collaboratori e ciò che propone è una brillante evoluzione della classica miscela di jazz , bossa, lounge ed elettronica tanto cara alle dinamiche delle loro etichette discografiche: la Schema Records e la Irma Records. Enzo Lo Greco suona il contrabbasso, il flauto, il piano, la chitarra, oltre a essere programmatore, compositore e arrangiatore. Le sue numerose collaborazioni con varie formazioni jazz, sia live che "in studio" gli garantiscono un'esperienza eccezionale, che ha plasmato la sua personalità di 'virtuoso' e di compositore e ricercatore di nuovi suoni. Gianni Lo Greco suona batteria e percussioni, compone e arrangia. La sua caratteristica distintiva è senza dubbio il suo vibrante stile alla batteria, molto personale anche quando si parla d’improvvisazione. Gianni possiede un drive batteristico pieno di swing che sa essere al contempo naturale e colpisce in particolare la sua padronanza dei ritmi africano-cubani e latino-americani. Cresciuti ed evolutisi artisticamente nel mezzo di una scena musicale estremamente creativa e fortemente innovativa come quella barese, i fratelli Lo Greco si ispirano alla musica dei grandi musicisti del passato attingendo alle loro grandi passioni come la bossa nova e il cool jazz. Dopo alcune precedenti pubblicazioni, con il nuovo album i Lo Greco coronano il loro sogno traendo il massimo risultato da un grande ed attento lavoro di composizione e arrangiamento. L'organico e la scrittura fanno chiaro riferimento alle sonorità sognanti dei paesaggi nordici e alle visioni oniriche di matrice jazzistica ricche di atmosfere, di tappeti e tessiture sonore che cesellano le immagini quasi come se fossero un racconto cinematico o pittorico.  Già in passato i Lo Greco Bros hanno contaminato i suoni della loro produzione con un mix di generi apparentemente diversi ma in verità molto ricchi di elementi comuni come l’improvvisazione e la psichedelia, il tutto viene arricchito da una stimolante dose di energia, tipica della loro sezione ritmica. “Electronic Chamber Jazz” si apre ad un largo ventaglio di commistioni che, come prevedibile, vanno dal jazz al funk fino alla lounge music con inserti elettronici e più in generale con uno sguardo aperto davvero a 360 gradi sulla musica. Il loro interessante approccio, che ha comunque il pregio di essere molto originale, ricorda sia quello di Kamasi Washington sia il sound rivoluzionario del new british jazz di Shabaka Hutchings e Binker and Moses. C’è poi sempre viva e presente la fusione con le sonorità elettroniche, che ha le sue radici lontane in autori ed artisti importanti come ad esempio quelli della famosa etichetta tedesca E C M: Kenny Wheeler, Jan Garbarek, Eberhard Weber, Michael Brecker, Claus Ogermann, Vincent Mendoza o Michel Colombier. Un patrimonio quello della ECM troppo a lungo dimenticato ma che recentemente è tornato ad essere oggetto di culto e che anche un maestro come Nicola Conte ha deciso di rivisitare. Quello dei Soulstance è un progetto che vuole essere molto ambizioso e si pone in un contesto musicale all'avanguardia come è giusto che sia per compositori e musicisti di lungo corso come sono di fatto i fratelli LoGreco. Il valore artistico dei musicisti che hanno collaborato al progetto danno una grande forza alle esecuzioni ed infondono creatività ad ogni brano, risultando contributi preziosissimi ed indispensabili. L’intelligente e colta musica di Electronic Chamber Jazz scorre fluida ed intrigante per tutta la lunghezza dell’album, proponendosi all’ascoltatore con il raro pregio di essere sempre stimolante ed interessante, senza mai risultare troppo pesante o cervellotica. Una menzione particolare meritano i brani Orbit, Waiting For The Sun, Zoom, Atlantis e la conclusiva Song For Narcisus. Con il nuovo capitolo del progetto Soulstance, i LoGreco Bros. aggiungono un ulteriore tassello alla loro prestigiosa carriera. Siamo di fronte ad un coraggioso ed aperto mix di jazz classico e suoni contemporanei combinati insieme nel migliore dei modi: con gusto, equilibrio e classe. Eccellente.

Bob James - Expresso


Bob James - Expresso

Potrebbe essere interessante porsi una domanda in ambito jazzistico. Quale pianista viene in mente tra quelli che registrarono i primi album all’inizio degli anni ‘60 che abbia continuato ad avere un'influenza significativa sulla musica contemporanea nei decenni a seguire? Se la risposta che vi è venuta di getto è "Herbie Hancock" avreste colto nel segno, indubbiamente. Ma, ugualmente, se la risposta al quesito è stata “Bob James” non avreste sicuramente sbagliato. Prima di tutto, come Hancock, anche Bob James è ancora una parte attiva ed importante nel panorama jazzistico mondiale. E, sia pure con stili ed approcci differenti, è anche lui un musicista che ha esplorato e sperimentato molti generi nel corso di una lunga e brillante carriera. Bob James ha sempre avuto uno stile pianistico ben definito sia quando ha utilizzato il piano acustico sia quando si è approcciato alle tastiere elettriche, con una particolare predilezione per il Rhodes. Il suo periodo con la CTI, a metà degli anni ’70 ha prodotto album memorabili, opere innovative che hanno avuto il supporto di grandi musicisti a quel tempo giovani quali Grover Washington, Jr., Idris Muhammad, Eric Gale, Ralph MacDonald. In seguito la collaborazione con David Sanborn, Marcus Miller e Nathan East è stata tanto prolifica quanto interessante ed è valsa all’ormai 79enne pianista la fama (meritata) di essere uno dei padri dello smooth jazz. In effetti Bob James ha giocato un importante ruolo nell'affermazione di quella musica contaminata da fonti più leggere ma pur sempre radicata nella cultura jazzistica. Pensiamo solo al supergruppo Fourplay, giusto per fare un esempio recente. Il nuovo album di Bob si intitola Espresso ed è freschissimo di pubblicazione: segna anche il ritorno di James come leader dai tempi ormai lontani di Urban Flamingo (2006). Il disco è in qualche misura un salto indietro allo stile col quale aveva iniziato, configurandosi come un trio di pianoforte con alcuni nuovi brani originali e qualche cover di brani vecchi, analogamente a ciò che aveva fatto in Bold Conceptions, del 1962. E’ indubbiamente un Bob James nostalgico, che però pone dei limiti ben precisi al suo ritorno al passato. Infatti la scelta dei suoi accompagnatori rispecchia un gusto moderno e dinamico: Billy Kilson (batteria) e il giovane e promettente Michael Palazzolo (basso acustico) sono il cuore pulsante di questo suo ultimo trio. Non è la prima volta che James torna alle sue radici jazz (ad esempio lo fece con Straight Up e Take It From The Top) tuttavia lui è da sempre meglio conosciuto quale paladino del jazz contemporaneo e dunque il suo ripercorrere le strade della tradizione è un evento molto gradito e significativo. Il feeling con i due inediti accompagnatori è nato dopo una serie di concerti al Blue Note Club di New York, cosa che ha convinto il maestro ad utilizzare il medesimo line up anche in Espresso. "Bulgogi" è il brano d’apertura: l’interplay del trio appare subito eccellente e non può sfuggire la sottile e sofisticata performance di Kilson alla batteria. Da par suo il pianista mostra un tocco fluido, preciso e raffinato, di chiara estrazione bop. Il primo segnale di una certa vicinanza con uno stile più contemporaneo arriva con la seconda traccia inititolata "Shadow Dance". Qui sia la ritmica che lo stesso pianoforte di James suonano più smooth, ma certamente non così tanto da allontanare i puristi del jazz. Se ci si concentra invece sulla melodia si capisce ben presto che il brano possiede molta più profondità della maggior parte del jazz contemporaneo: si riconosce bene la scrittura tipica di Bob James. Le abilità compositive di James sono molto più complesse e ponderate di quanto gli venga accreditato: alla soglie degli 80 anni il maestro non ha perso le proprie notevoli abilità. Quanto detto è valido anche per un pezzo come "Mojito Ride". "One Afternoon" rappresenta una pausa dal formato del trio che colloca il pianoforte di James al cospetto di un’orchestra: è un intermezzo più classico che jazz e presenta Angela Scates all’oboe. Troviamo un feeling un po' più funk nella ritmata "Topside" che ricorda la musica degli anni ’70  e ci permette di ascoltare James impegnato con il sintetizzatore e il piano elettrico. "Boss Lady" avrebbe potuto essere uno dei brani più morbidi dell'album, ma Palazzolo e Kilson fanno sì che ciò non accada, grazie ad una dinamica muscolarità che lo spinge ad essere uno dei numeri più forti di Espresso. "Ain’t Misbehavin" di Fats Waller viene proposta come una rispettosa cover di un pezzo di jazz tradizionale: è swing quanto basta, brillantemente vivace e risulta alla fine un piacevole ascolto. Ci sono poi due canzoni che probabilmente rappresentano alla perfezione il senso di continuità creativa che lega il Bob James di oggi a quello di oltre 40 anni fa: sono Mr. Magic e Submarine. La prima fu un grande successo di Grover Washington nel 1975. Guarda caso  come arrangiatore e tastierista di quel bellissimo disco c’era proprio Bob James. In questa versione contemporanea ritroviamo la canzone di Ralph MacDonald e William Salter con un nuovo giro di basso e batteria, perfetto per mettere in risalto la versatilità e la bravura del duo Kilson / Palazzolo. La seconda, "Submarine", è un aggiornamento del classico del 1974 intitolato "Nautilus", presente sul primo disco dell’era CTI, una delle più belle composizioni di James. E’ fuor di dubbio che questo sia il pezzo più vicino alla musica degli anni '70. Tuttavia la lettura è ironica, con Bob James che assimila i suoni dell’hip hop così come gli artisti hip-hop hanno spesso incorporato "Nautilus" nella loro musica. Espresso non è un album che si arrocca dietro il classico schema del trio acustico piano / basso / batteria, fossilizzandosi su una singola corrente del jazz: tra tradizionalismo e progressismo, Bob James non ha mai scelto con snobismo intellettuale una sola tra queste due forme espressive. Di fatto la sua musica migliore arriva proprio quando riesce a percorrere con raffinatezza e leggerezza entrambe le strade. Unendole con perizia, come ha fatto spesso in passato e come, mirabilmente, continua a fare qui sul suo ultimo album. Lunga vita al maestro Bob James.

John Coltrane - Both Directions At Once: The Lost Album


John Coltrane - Both Directions At Once: The Lost Album

Può, nel 2018, un album di jazz classico, impegnativo e colto raggiungere la vetta delle classifiche di vendita rivaleggiando per quanto possibile con la musica trash alla quale il presente ci ha abituato? La risposta sta nel successo tanto imprevisto quanto consistente che una registrazione inedita di John Coltrane, risalente a 55 anni fa, sta ottenendo in tutto il mondo. Era il 6 marzo del 1963, quando il geniale John Coltrane e il suo stellare quartetto con McCoy Tyner, Jimmy Garrison ed Elvin Jones entrarono presso gli studi Van Gelder con l’impegno di registrare un album, come avevano fatto tante altre volte. Un album che però era detinato ad andare perduto per essere solo recentemente ritrovato. La spiegazione sul perché ci siano voluti cinquantacinque anni prima che questo “Santo Graal” del jazz fosse messo a disposizione degli appassionati sta tutta nella sua particolare genesi. La prima settimana di marzo del 1963 fu particolarmente densa di impegni per John Coltrane. Era nel bel mezzo di una maratona di due settimane al Birdland e si preparava a registrare il famoso album con Johnny Hartman, cosa che fece il 7 marzo. Ma ci fu una seduta di registrazione il giorno prima che fino ad ora sapeva di leggenda, dato che mai aveva visto la luce. Come accennato dunque, mercoledì 6 marzo, Coltrane e il suo quartetto si trasferirono al Van Gelder Studios a Englewood, nel New Jersey e registrarono materiale per un album completo, incluse diverse composizioni originali mai proposte altrove. La giornata trascorse tra varie prove, registrazioni, tagli, alternative takes. Alla fine del consueto lavoro, Coltrane lasciò gli studi di registrazione portando con se dei nastri che finirono nella sua casa nel Queens, dove viveva con sua moglie Naima. Sono proprio quei nastri, che sono rimasti intatti per tutto questo tempo, che l’etichetta Impulse! ha deciso di andare a cercare e tramandare ai posteri. Dopo aver contattato la famiglia di Coltrane, l’operazione discografica ha preso corpo e finalmente nel 2018 è arrivata la pubblicazione di Both Directions At Once: The Lost Album, che ci dà l’opportunità di ascoltare un altro capolavoro del genio di Hamlet, finora sconosciuto a tutti. In questo album ci sono due originali completamente inediti e mai ascoltati prima. Untitled Original 11383 e Untitled Original 11386, entrambi suonati con il sassofono soprano. Oltre ai due inediti, troviamo One Up, One Down,  pubblicato in precedenza solo su un bootleg live presso il Birdland,  che qui si ascolta per la prima volta in una registrazione in studio. Tra le altre rarità, una registrazione particolarissima perché priva della parte di pianoforte di Impressions. Questa sessione in studio è caratterizzata anche dalla prima registrazione di Coltrane di un brano come Nature Boy, che avrebbe poi inciso nuovamente solo nel 1965: da notare che le due versioni differiscono notevolmente. L’altra composizione non originale dell’album è Vilia, tratta dall’operetta di Franz Lehár  “La vedova allegra”. Anche questa è una novità nel repertorio del maestro ed in ultima analisi è anche motivo di curiosità, in particolare dopo aver preso atto che il quartetto la fa suonare come una ballad jazz, molto lontana dalle atmosfere classiche. Dall'aprile del 1962 al settembre del 1965, mentre era sotto contratto con l'etichetta Impulse!, John Coltrane lavorò quasi sempre con gli stessi musicisti. Dopo la sua morte, prematuramente avvenuta nel 1967, questo gruppo formato da Coltrane al sassofono tenore e soprano, McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al basso ed Elvin Jones alla batteria  divenne noto come il "classico quartetto". Il gruppo era potente, elegante e estremamente profondo. Era anche equilibrato, creativo ed innovativo come raramente è capitato nella storia del jazz. John era un artista con grandi ambizioni, con una visione chiara e futurista e con uno slancio musicale fuori dal comune. E’ il periodo nel quale puoi percepire nel quartetto una convinzione ed una integrità artistica assolutamente straordinaria: in quegli anni uscirono dalla mente di Coltrane alcuni dei pezzi più famosi della band, come lo spirituale ed onirico A Love Supreme, registrato alla fine del 1964. Il quartetto si muove meravigliosamente tra ballate, blues ed il grande songbook americano con un’astrazione ed un inventiva assolutamente prodigiose. Troppo ghiotta ed inattesa la scoperta di questa registrazione del 1963 per darla definitivamente per perduta.  È difficile immaginare che avrebbe potuto essere ignorata o dimenticata per sempre. La musica di The Lost Album non sembra, nel suo contesto, un vero passo avanti rispetto a ciò che l’artista stava sperimentando in quel momento: Coltrane  lavorava sull’improvvisazione come punto di partenza centrale, muovendosi avanti e indietro simultaneamente attorno alla melodia, ma sempre con rigore ed equilibrio ed un grande rispetto per le precedenti esperienze del jazz. Fin dalla registrazione di "My Favourite Things" nel 1961, che fu un successo, considerando che si trattava di jazz non proprio facile, Coltrane era diventato riconoscibile e famoso. Il suo successivo rapporto di lavoro con Bob Thiele, il boss della Impulse!, era basato sull’idea che lui dovesse e potesse espandere il suo pubblico, non certo ridurlo. Sei mesi prima della sessione di questo album perduto, aveva registrato un disco con Duke Ellington; il giorno successivo ne avrebbe fatto un altro con il cantante Johnny Hartman. Era nel pieno di quel paradosso artistico che può vivere un artista popolare quando deve sforzarsi di ripetere un successo passato e cercare di non arenarsi su quanto proposto precedentemente. Ma il senso di forza e di inevitabilità che associamo alla musica di Coltrane non si era esaurito. Anzi quale prodotto della sua diligenza, dell’irrequietezza, delle sue ossessioni, del suo genio, la sua musica andava sempre più evolvendosi. In Both Directions At Once: The Lost Album c'è l'idea del "nuovo" e poi c'è qualcosa come Slow Blues o Impressions che trascendono il senso della novità, andando oltre. Sono usciti molti album dopo la morte di John Coltrane, spesso erano registrazioni dal vivo o comunque erano costruiti su del materiale già conosciuto. Nessun disco di Trane era mai emerso precedentemente dalle poveri di un armadio dimenticato, ne tantomeno ci aveva dato l’opportunità di ascoltare cose inedite del grande genio del sax. Fosse anche solo per questo The Lost Album avrebbe un valore incommensurabile. Ma qui c’è di più: c’è l’istantanea di un artista globale, di un uomo dalla visione musicale integra e futurista. E’ la testimonianza tangibile, fino ad oggi mancante, di uno dei più grandi musicisti della storia del jazz e non solo. 

Chick Corea Elektric Band – To The Stars


Chick Corea Elektric Band – To The Stars

È difficile credere che siano trascorsi dieci anni dalla precedente registrazione del pianista Chick Corea nella sua mai sopita vena elettro-jazz: la Elektric Band. Il maestro, in questi anni si è concentrato su una grande varietà di progetti, tra cui il sestetto Origin, il suo nuovo trio con Jeff Ballard e Avishai Cohen, e i classici duetti con Gary Burton. Ma, come anche il suo sodale Herbie Hancock, pure lui impegnato negli ultimi dieci anni in un contesto prevalentemente acustico, il grande Chick non ha certo perso l’attrazione per una più ampia tela musicale: la sua passione per il jazz rock e per i gruppi elettrici non lo ha infatti mai lasciato completamente. E così nel 2004 arrivò finalmente la pubblicazione di To the Stars, un nuovo atteso album di Corea registrato con il supporto della sua formidabile Elektric Band. Il disco forse non raggiungerà gli standard elevatissimi di Inside Out, cioè di quello che è stato probabilmente il lavoro più bello della band, risalente agli anni '90, ma è pur sempre un album di gran pregio. A differenza di quanto fatto in campo acustico e nel jazz mainstream, come è noto, il lavoro elettrico di Corea ha avuto, nel corso degli anni, la sua parte di detrattori ma anche un folto gruppo di fans. Le principali critiche mosse alla Elektric Band sono (da sempre) un eccesso di auto-indulgenza, troppa retorica e la tendenza a voler strafare a livello tecnico. Se, a voler essere obiettivi, può esserci un po' di verità in queste accuse, la realtà è che Chick Corea ha sempre ritenuto che le sue band elettriche fossero le più complete forme espressive dal punto di vista musicale, e ciò risale addirittura ai suoi giorni di gloria con gli storici Return to Forever. La Elektric Band non nasconde la sua natura muscolare e con il chitarrista Frank Gambale, il sassofonista Eric Marienthal, il bassista John Patitucci e il batterista Dave Weckl, crea davvero un potente ed energico sound fusion. Corea e compagnia offrono un jazz rock strutturato e potente, che non dimentica il groove e l’emozione, pur se attraverso numerosi passaggi incredibilmente difficili ed intricati. Nell’album si spazia tra atmosfere diversificate ma tutte ugualmente dinamiche. Si passa da "Mistress Luck -A Portrait" tinta di sapori latini, al funk più diretto di un brano come "Johnny's Landing" fino ad arrivare alla più lunga e stratificata "The Long Passage". Qui la moglie cantante di Corea, Gayle Moran costruisce un coro multitraccia molto efficace, facendo tornare alla mente i tempi dei Return To Forever. Il Chick Corea elettrico è stato spesso paragonato ad altri mostri sacri della sua generazione, e tra questi vanno citati senza dubbio i Weather Report, la Mahavishnu Orchestra e tutti i vari progetti fusion di Hancock. Ci sono indubbiamente delle affinità, ma un aspetto è indiscutibile se si vuole dare una valutazione complessiva: la musica della Elektric Band  ha una sua propria identità ben precisa e riconoscibile. Se da un lato questa versione attuale del pianista è cosa ben diversa dai Return to Forever, non ci può essere alcun dubbio che entrambi siano derivati dalla stessa (geniale) mente musicale. La cosa è evidente subito in apertura, con "Check Blast", che mette insieme suoni  bizzarri e nervosi, mini-assoli trascinanti dove tutti i musicisti hanno il loro breve spazio da solista in duetto con Dave Weckl. Indubbiamente è jazz rock proiettato nel 21° secolo, ma chiaramente proviene dallo stesso compositore che ha creato Hymn To The Seventh Galaxy e Romantic Warrior. Lo stile caratteristico di Corea può non suonare adatto a tutti i gusti, ma la sua forte personalità ed una tipica unicità gli conferiscono chiaramente un peso difficile da liquidare in modo superficiale. Ed a voler guardare Chick è capace anche di scrivere pezzi complessi che riescono comunque a rimanere accessibili. Non mancano le sorprese all’interno di un contesto tutto elettrico: "Alan Corday" è una storia tutta acustica, con un "assolo impossibile" per chitarra classica di Frank Gambale. Chick Corea stesso sostiene che il pezzo, ispirato ad un ritmo di fandango originariamente ascoltato in un disco del chitarrista di flamenco Paco de Lucia, è "tecnicamente la melodia più impegnativa che abbia mai scritto". Insomma il grande maestro Chick e la sua formidabile Elektric Band riescono a navigare tra passaggi tecnicamente vertiginosi, ritmiche intricatissime (Dave Weckl al solito fenomenale) e melodie complicatissime eppure mai meno che musicali. Come notazione necessaria ma non vitale ai fini strettamente artistici, va detto che To the Stars è ispirato ad un libro di fantascienza di Ron Hubbard, il fondatore di Scientology, di cui Chick è un fervente seguace da molti anni. Questo non influisce minimamente sull’opera che resta un affare musicalmente scollegato da speculazioni filosofiche o religiose di qualsivoglia genere. Si tratta di grande musica: tecnicamente suonata in modo ineccepibile e ricca di contenuti e spunti di grande valore. In ultima analisi l’ultimo album della Elektric Band è davvero un gradito ritorno al jazz rock energico e complesso, quello stesso che per Chick Corea ha significato successo e popolarità.

Scott Petito – Rainbow Gravity


Scott Petito – Rainbow Gravity

Scott Petito è un nome relativamente sconosciuto. Ma in realtà lui è un pluripremiato compositore, arrangiatore e produttore. Scott è soprattutto un bassista e un polistrumentista di grande talento che ha suonato in centinaia di registrazioni nei più svariati stili musicali. Petito ha maturato una vasta esperienza attraverso il suo lavoro principalmente nel jazz e nel folk: ha lavorato, giusto per fare degli esempi con musicisti del calibro di James Taylor, Pete Seeger, The Band, Jack DeJohnette, Don Byron, Dave Brubeck, Chick Corea, Roy Haynes, John Scofield e molti altri importanti artisti. Scott Petito vanta anche una preparazione musicale di primordine avendo studiato composizione e arrangiamento nella più importante fucina di talenti che esista negli Stati Uniti, il Berklee College of Music di Boston. Ha inoltre prestato la sua opera alla BBC, a Robert Redford e al Public Broadcasting Service americano componendo colonne sonore e jingle. Il suo lavoro di musicista e compositore ha ricevuto riconoscimenti anche dal Billboard Magazine. Il suo primo album da solista, intitolato "Sbass Music", è un disco per solo basso di pura ambient music, molto etereo e particolare, che ha raccolto molti consensi ed è stato trasmesso da numerosissime stazioni radio negli Stati Uniti e nel resto del mondo. “Rainbow Gravity”, è il nuovo album del bassista, freschissimo di stampa. Petito convince subito con questo suo secondo impegno come leader, anche grazie al vero e proprio melting pot di musicisti di fama mondiale che è riuscito a mettere insieme. Una sfilata di stelle del jazz tra le quali figurano il sassofonista Bob Mintzer, il trombettista Chris Pasin, il chitarrista David Spinozza, i tastieristi Rachel Z, David Sancious e Warren Bernhardt, i batteristi Jack DeJohnette, Peter Erskine, Simon Phillips e Omar Hakim, il vibrafonista Mike Mainieri e il percussionista Bashiri Johnson. Con questo gruppo di formidabili musicisti a disposizione, il talentuoso polistrumentista ha scritto e arrangiato una raccolta di nove composizioni originali che mescolano il jazz moderno, l’R & B, il funk e la musica sudamericana, più una commovente interpretazione di "Lawns" di Carla Bley. Rainbow Gravity è un perfetto esempio di come può essere letto il nuovo jazz elettrico nel presente. L’album nasce da un lavoro collettivo, con tutti gli artisti che hanno contribuito, in varia misura ma con indubbia qualità, sia al progetto complessivo che all'esecuzione dei singoli brani. Questo avviene in un modo che, come afferma lo stesso Petito, mostra "una vero spirito di collaborazione ed una mirabile abilità tecnica". La musica contenuta in Rainbow Gravity rimanda al jazz elettrico della fine degli anni '60 e dei primi anni '70: agli esperimenti rivoluzionari di Miles Davis in "In a Silent Way" e "Bitches Brew" o all'energia ed alla complessità ritmica della Mahavishnu Orchestra, Herbie Hancock, Chick Corea e soprattutto dei Weather Report. Insomma l’ispirazione principale viene dai tanti innovatori che hanno letteralmente inventato nuovi suoni e stravolto gli stilemi del jazz, influenzando di conseguenza tutta una generazione di musicisti a venire. Musicalmente parlando questo è un progetto pieno di creatività e la cosa è tangibile fin dalle prime note, ascoltando la funky Sly-Fi o la successiva latineggiante Sequence Of Events. L’album tra l’altro può vantare un’invidiabile e piacevole varietà di atmosfere e gli assoli di Scott Petito, in particolare quelli all’ottavino, sono melodici e raffinati.  Il brano A Balsamic Reduction mette in evidenza sia quest’ultimo aspetto che un’equa distribuzione delle parti soliste. Il progetto prende il titolo dalla teoria della gravità dell'arcobaleno, un concetto di fisica quantistica che contraddice la teoria del Big Bang e propone per contro che il tempo si estenda e continui all'infinito. Un’idea questa che Petito come musicista e compositore persegue attivamente cercando di creare un senso di atemporalità nella sua musica. Il suo sforzo è quello di catturare un momento o una sensazione che potrebbe continuare all'infinito. Come spiega lo stesso Petito: "l'esperienza nel suonare e nell'ascoltare la musica può sospenderci nel tempo e allo stesso tempo portarci in posti nuovi con infinite possibilità. Quella relazione tra la musica e la nostra vera essenza dell'essere mi ha sempre colpito come la più umana delle esperienze." E’ così che Rainbow Gravity trasporta l’ascoltatore in un viaggio fuori dalle mode e dai luoghi comuni, sorprendendolo con il più classico jazz hard bop così come con il funky più ritmico o magari con i toni morbidi ed eterei della new age (Masika e Dark Pools). A volte più vicine al contemporary jazz, altre più sperimentali ed audaci, le composizioni di Scott sono perfetti racconti musicali, piene di narrazioni ingegnose che spingono alla meditazione ed animano il suo virtuosismo e quello dei suoi stellari compagni d’avventura. Rainbow Gravity non è il classico disco di jazz elettrico ne tantomeno di smooth jazz. Si può dire che tracci (o cerchi onestamente di farlo) una terza via che raccoglie suggestioni da molti stili e generi e grazie al contributo di una squadra di formidabili musicisti consente al bassista Scott Petito di dare vita a un album originale ed alternativo, non privo di motivi per essere ascoltato ed apprezzato.

Art Farmer - Crawl Space


Art Farmer - Crawl Space

Alcune delle più belle registrazioni della mitica etichetta CTI della fine degli anni '70 furono quelle guidate dal flicornista Art Farmer. Sebbene Farmer avesse l’abitudine di includere in questi lavori del materiale non troppo popolare (in questo caso Art suona un suo originale, due brani di Dave Grusin e un pezzo del pianista Fritz Pauer) e considerando che spesso utilizzava dei musicisti normalmente non avvezzi a suonare insieme, i risultati erano generalmente piuttosto gratificanti. Su questo Crawl Space), il focus è quasi interamente sullo stesso Art Farmer a cui si uniscono il tastierista Grusin, il chitarrista Eric Gale, il flautista Jeremy Steig, Will Lee o George Mraz al basso e il batterista Steve Gadd. E di fatto la magia del timbro caldo e pastoso del flicorno di Farmer catalizza l’attenzione dell’ascoltatore. Ricordo di aver comprato questo album basandomi sull'ascolto dei primi minuti della seconda traccia, "Siddhartha". Il tono e l'articolazione di quelle poche note mi suggerirono che c'era qualcosa di molto interessante in Crawl Sapce, ed in effetti non sbagliavo. Ovviamente conoscevo Art Farmer da molto tempo: la sua lunga carriera al seguito di alcune delle stelle più luminose del jazz ed una più che consistente discografia da solista sono la testimonianza che questo musicista appartiene all’elite mondiale della storia del jazz. L'unica cosa negativa che posso addebitare a questo album è che è fin troppo breve: solo quattro tracce, per un totale di circa 35 minuti. Un piccolo difetto che per la verità era abbastanza comune nelle registrazioni della CTI.  Ma se in un disco la qualità è elevata, come in questo caso, la sua lunghezza diventa alla fine un parametro irrilevante. Forse l'aspetto più forte di Crawl Space è il modo in cui il gruppo, molto ben comandato dal leader, è riuscito a resistere alla tentazione di strafare; un peccato nel quale cadono a volte i musicisti di jazz. C’è una sensazione di grande equilibrio e nemmeno la lunghezza dei brani (tra gli 8 e i 10 minuti) è foriera di noia e di ripetitività. Qui non troverete performance roboanti solo per mettere in mostra la competenza tecnica degli esecutori o per stupire l'ascoltatore. Tutto si combina bene: gli assoli così come le parti corali restano interessanti e misurate. Raffinata è forse il termine più corretto per definire la musica di Crawl Space, anche se di sicuro non la si può considerare piatta o inespressiva. Ad un quadro generale già positivo, nell’analisi di un album come questo vanno aggiunti i contributi dei grandi musicisti inclusi nella registrazione. La batteria di Steve Gadd, ad esempio è diretta e sofisticata al tempo stesso, così come lo splendido lavoro di chitarra di Eric Gale, che si inserisce alla perfezione nel contesto con i suoi assoli melodici. Dave Grusin è eccellente con il suo piano elettrico in entrambi i ruoli di solista e di supporto, mentre anche i due bassisti che si alternano offrono la giusta pulsione ritmica. Art Farmer infine possiede una timbrica eccezionale e padroneggia il suo flicorno con grande maestria tecnica: sembra indugiare più sulle tonalità basse e profonde ma questo non significa che non si possa esprimere anche sui registri superiori. Di fatto quando sale verso l’alto lo fa con grande naturalezza rendendo le note acute dei momenti carichi di grande intensità. Art Farmer è indubbiamente il leader di questo album e tuttavia non domina indebitamente ogni traccia, ogni momento di musica: è così che ogni artista ha qui la possibilità di brillare in vario modo e misura su tutti i brani. Dalla title track che apre sontuosamente l’album, alla successiva ed enigmatica Siddharta, senza dimenticare Chanson e Petite Belle, le atmosfere sono caratterizzate da suoni tipicamente anni ’70. Il groove è quello funky elettrico in voga in quegli anni d’oro, che furono senza dubbio i più creativi per le correnti innovative del jazz. Molto spazio viene dato al flauto di Jeremy Steig, che lascia un’impronta molto forte su tutte le composizioni, contribuendo in modo determinante a delineare la fisonomia di Crawl Space. Sono solo 4 i brani di questo lavoro, tutti molto lunghi ed articolati e tutti molto interessanti: come già detto sarebbe stato ancora meglio se ne fossero stati inseriti di più. Il jazz moderno e gradevole di un ispirato Art Farmer avrebbe meritato maggior spazio all’interno di questa registrazione. Dopo una vita passata a cavalcare il miglior hard bop sulla piazza, il grande flicornista e trombettista dell’Iowa aprì con Crawl Space la sua parentesi con la CTI records di Creed Taylor, dimostrando di essere a suo agio con ogni tipo di idioma musicale, con lo stesso talento di sempre. Questo è un disco consigliabile a tutti, compresi coloro che non hanno grande familiarità con il jazz, ma di sicuro rappresenta una scelta irrinunciabile per gli appassionati di rare grooves e vintage sounds.

Tristan – Full Power


Tristan – Full Power

Da qualche anno si è affacciato alla ribalta internazionale un nuovo gruppo di origine olandese che prende il nome di  Tristan:  è una band formata da musicisti locali di grande esperienza che è caratterizzata da uno stile vintage, con forti connotati Acid Jazz. Le chitarre ritmiche funky, l’organo Hammond, il piano elettrico Fender Rhodes e i synth si combinano con una potente sezione ritmica e delineano i contorni di un insieme di notevoli individualità artistiche. Insieme alla bella voce della cantante Evelyn Kallansee, i Tristan  hanno trovato la formula giusta per esprimere al meglio le loro potenzialità. Ovviamente non poteva mancare una sezione fiati perfettamente amalgamata nel contesto del gruppo: un sound così curato non può non evocare altre grandi band funk jazz ed infatti loro sono stati soprannominati gli Incognito olandesi, anche se all’interno della loro musica si possono trovare spunti dei Tower OF Power o dei più recenti Snarky Puppy. Pur non avendo ancora raggiunto un successo globale, i Tristan sono una band molto interessante e ricca di contenuti, specialmente grazie al loro innegabile groove, alle belle composizioni ed agli arrangiamenti molto raffinati: per gli appassionati del genere jazz funk sono senza dubbio una proposta da tenere in considerazione. Sul sito della band olandese c'è una citazione del famoso chitarrista Steve Lukather (uno dei fondatori dei Toto) che afferma: "li amo ... sono il meglio degli anni '70 trasportato al 2013" ... Questo pensiero è condivisibile, e l’operazione “vintage” è perfettamente organica, ma personalmente vedo questo progetto più come un tentativo di tenere viva la tradizione della musica suonata contro l’imperante moda dell’elettronica programmata sinteticamente. 'Full Power' è il sorprendente album di debutto di questa band, datato 2014, nel quale i musicisti olandesi si divertono a suonare insieme raccogliendo il testimone della vera musica jazz funky soul. I Tristan hanno messo in piedi un progetto moderno e stimolante, corroborato da numerosi interventi vocali e sostenuto da una vigorosa carica strumentale. L’album è saldamente radicato nel passato ma non manca di dimostrare un forte legame con il presente. "Full Power" è un disco davvero forte: ci sono molti numeri veloci e ricchi di groove, come ad esempio la piacevole "Moontune", la brillante "Keep On" o ancora "Step Into Bright Light" e “Echo”. Tutti brani ben costruiti e ballabili, in grado di trasmettere energia positiva e un grande impatto sonoro. "Riverflow" ad esempio ha quel classico tocco jazz funk della fine degli anni '70, pieno dell’inconfondibile mescolanza di ritmo, voce soul e fiati in abbondanza. Girano dei bei filmati professionali su YouTube che evidenziano la grande musicalità di questa band e confermano che l’abilità dei Tristan sia nelle composizioni che negli arrangiamenti non è certo un fatto casuale. I colori di questo variopinto arcobaleno musicale sono in parte dati dalla voce soul della dinamica Evelyn Kallansee, una cantante dall’indubbio talento che si inserisce alla perfezione nelle architetture musicali del gruppo. Insieme a lei ci sono i validissimi musicisti che fanno parte della band: quello che ne esce è una fantastica fusione funky soul con una forte ispirazione jazzistica. La sezione ritmica composta da Sebastiaan Cornelissen alla batteria, il percussionista Martin Gort e il bassista Frans Vollink è straordinariamente precisa e fornisce il groove giusto e perfettamente funzionale allo stile ed al genere dei Tristan. I componenti del gruppo meritano tutti una citazione e non fa eccezione il fluido e virtuoso tastierista Coen Molenaar, che incanta l’ascoltatore facendo volare le sue dita sul piano elettrico e sull’organo Hammond. Il chitarrista Thomas Bekhuis si distingue per il suo sapiente tocco  sia ritmico che melodico, dispensando buon gusto e aggiungendo una dose di equilibrio a tutto il progetto. I fiati e persino gli archi sono arrangiati e suonati con attenzione e rigore, risultando decisivi nel donare un suono pulito ma potente alla musica dei Tristan. Ogni traccia di questo album rivela un'incredibile attenzione per i dettagli ma riesce al contempo ad emozionare. Gli altri artisti che hanno contribuito alla realizzazione di questo formidabile debutto discografico sono Remko Smid: Sax, Florian Sperzel: Trumpet, Martin Hiddink: Tromba e Flugelhorn, Harm-Jan Teule: Sax, Paul Rademaker: Trombone, Tom Beek: Sax soprano e Oscar Schulze: Vibrafono. Giudicato nel sua interezza e valutato per i contenuti Full Power è uno degli album più convincenti che mi sia capitato di ascoltare negli ultimi anni.  Se vi piace quel tipico e frizzante jazz funk degli anni '70 e se avete amato l’acid jazz degli anni ’90, questo è il disco che fa per voi. A dispetto dell’essere un’opera prima, Full Power è un album molto compiuto e di valore ed i Tristan sono una vera e propria ventata di piacevole quanto sofisticata aria fresca in un panorama musicale altrimenti alquanto stagnante.

Bill LaBounty – Into Something Blue


Bill LaBounty – Into Something Blue

Bill LaBounty è un personaggio schivo. Cantautore e pianista, formò nel 1969 a Nashville, Tennessee, , un gruppo chiamato Fat Chance con l’amico Steve Eaton, per poi tentare la fortuna nel 1972, trasferendosi a Los Angeles: l’esperienza fallì per futili motivi e così il gruppo si sciolse. Da qui nasce la carriera solistica di uno dei migliori cantautori della West Coast, un artista che con la sua sensibilità ed il suo talento è riuscito a scrivere pagine di musica memorabili che purtroppo non hanno avuto il successo internazionale che avrebbero meritato. Come altri musicisti dell’area californiana lo stile di LaBounty è influenzato anche dal jazz contemporaneo, che, pur essendo piuttosto sfumato nella sua musica, resta comunque uno dei punti di riferimento fondamentali. Non a caso i suoi arrangiamenti sono sempre raffinati e complessi e nei suoi lavori si respira un atmosfera di eleganza e compostezza sottolineata dalla presenza dei migliori musicisti sulla piazza, provenienti spesso dall’ambiente jazz/fusion. Bill La Bounty è un vero specialista del piano elettrico, una tastiera che nelle sue opere non manca mai, sia esso il Wurlitzer o il più popolare Fender Rhodes: insieme alla sua caratteristica voce sono questi i suoi marchi di fabbrica inconfondibili. Alcuni suoi album hanno una più marcata radice nella musica popolare americana e negli anni ’90 parte delle sue composizioni furono addirittura decisamente country, soprattutto quelle scritte per altri artisti, ma Bill è da annoverarsi tra quei cantautori che meglio identificano il sound tipico della West Coast. La scarna discografia solistica di Bill in un arco di oltre 40 anni comprende: Promised Love (1975), This Night Won’t Last Forever (1978), Rain My Life (1979, disco a dir poco splendido) Bill LaBounty (il suo capolavoro del 1982 che contiene la celeberrima Livin’ it up). Questi primi 4 album furono incisi per la Warner Bros. Nove anni dopo uscì The Right Direction (1991), e a distanza di ben 13 anni fu pubblicato Best Selection (2004) che altro non era se non un’antologia di successi. Ci vollero la bellezza di diciotto anni perché Bill LaBounty pubblicasse un lavoro inedito, il cui titolo era Back To Your Star (2009): di nuovo un album bellissimo. Nel 2011 la Rhino Records France ha fatto uscire un cofanetto con 4 CD che raccoglievano tutta la produzione di Bill con in più un sacco di inediti: il titolo era Time Starts Now. Il suono era stato ripulito e risultava decisamente più energico rispetto agli originali. Nelle lunghe pause a livello di attività solistica il nostro Bill non è rimasto tuttavia inattivo, componendo canzoni per molti artisti come ad esempio Randy Craword e collaborando con musicisti del calibro di James Taylor, Jeff Porcaro, Larry Carlton, Steve Lukater, Lenny Castro, Steve Gadd e David Sanborn. La lettura attenta delle sue canzoni, delle sue composizioni e dei suoi arrangiamenti fanno affiorare alla mente il paragone con il miglior Donald Fagen di The Nightfly o del Joe Jackson di Night And Day, ma anche con Christofer Cross, Gino Vannelli, Marc Jordan o Michael McDonald. Into Something Blue è il suo ultimo album datato 2014 ed è di questo che voglio parlarvi. Pubblicato a “soli” cinque anni dal precedente inedito è un lavoro molto interessante, un’ideale continuazione del precedente Back To You Stars, probabilmente maggiormente tinto di jazz rispetto alle ultime uscite. Comprende 11 nuove canzoni, tra cui alcune sue meravigliose composizioni ed alcune cover come Funny But I Still Love You di Ray Charles e Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan. Nella curatissima versione CD giapponese è inclusa una bonus track intitolata Corporate Rock And Roll che però resta un rock di maniera e nulla più. Quello che dovete aspettarvi sono suoni morbidi, vellutati, arrangiamenti discreti ma concreti e raffinati, sonorità decisamente jazz, colorate spesso di sapori blues. E in più un’inedita carica di energia. E’ il sound della West Coast del terzo millennio con tutto il fascino e la piacevolezza di quello degli anni ’70 arricchita da un tocco di moderna sensibilità. Bill LaBounty è splendido alla tastiere ed i musicisti che lo accompagnano per l’occasione brillano come sono soliti fare tutti gli artisti che anche in passato hanno lavorato con il cantautore americano. Una citazione la merita Mark Douthit al sax tenore, decisamente superlativo ed ancora il famoso Larry Carlton, virtuoso della chitarra, qui presente in vari brani. Ma si sa, Bill nei suoi album utilizza i migliori musicisti disponibili sulla piazza. West-coast sound, cool modern blues, contemporary jazz sound, il tutto condito da delle liriche sempre intelligenti. Into Something Blue possiede un sound adatto alle orecchie più raffinate, perfetto per chi frequenta i territori del pop più raffinato venato di jazz e, perchè no ? per chi ama gli artisti di nicchia. Apre le danze All This Time, superba e dai suoni languidi ma ispirati, seguono e vanno segnalate soprattutto Funny But I Still Love You di Ray Charles, in stile blues, una Lover Man assai apprezzabile così come un classico di Jerry Leiber e Mike Stoller: If You Don’t Come Back. Il brano meno convincente, come forse era prevedibile, è invece la cover di Subterranean Homesick Blues di Bob Dylan. Ma va detto che un po’ tutte le canzoni hanno qualcosa da dire e racchiudono un forte impatto emozionale. L’ultimo lavoro di Bill LaBounty è un album che riserba un ascolto di grande atmosfera che consiglio a tutti coloro che amano quel certo tipo di musica a cavallo tra pop, jazz, blues, soul e West Coast. Aristocratico ed elegante è anche un bellissimo modo per accostarsi ad un grande e misconosciuto musicista che da quasi 50 anni è in grado di regalare al pubblico ottime vibrazioni e grande qualità in tutto quello che fa.

Lindsey Webster - Love Inside


Lindsey Webster - Love Inside

Circa due anni fa avevo già parlato di Lindsey Webster: oggi torno molto volentieri su di lei in occasione dell’uscita del suo ultimo album Love Inside. Giunta al quarto disco, ma ancora relativamente sconosciuta fuori dagli States, Lindsey si ripropone sul mercato discografico con l’intenzione di riuscire ad abbracciare un pubblico finalmente internazionale. La lunga ed articolata title track di questo suo recentissimo lavoro può davvero essere un buon modo per presentare, ad un ascoltatore che non la conosca, il talento di una cantante come Lindsey Webster. Un brano come Love Inside, infatti, mette in risalto i punti di forza di Lindsey: la voce e l'abilità compositiva prima di tutto ma anche la straordinaria sinergia che si è instaurata con suo marito e collaboratore musicale, il pianista e arrangiatore Keith Slattery. Eleganza, divertimento, raffinatezza: questi sono in sintesi  gli aggettivi che meglio descrivono la musica di questa cantautrice americana che è chic e morbidamente sofisticata, nel suo mix di soul e jazz. La Webster, di album in album continua a migliorarsi ed a mostrare un sempre forte interesse per l’r&b e per il soul, declinati con quello stile ricco di classe di cui sono state formidabili interpreti donne come Anita Baker, Phyllis Hyman, Angela Bofill e Angela Winbush e, perché no, la stessa Sade. La Webster attinge dalla tradizione della musica nera americana con rispetto ma senza proporre un’imitazione “artificiale” o forzatamente riverente. E’ innegabile il fatto che, pur pagando il suo tributo al classico,  la bella Lindsey possieda una sua spiccata personalità ed il suo sound, unitamente al suo materiale originale, riescano a delineare un marchio distintivo ben preciso. Canzoni come "A Love Before", "Bad Grammar", "Opportunity" e "Do not Give Up On Me", con le loro melodie orecchiabili e i ritornelli accattivanti, sono piccoli gioielli pronti per una generazione a venire, che nel ricordo delle grandi interpreti del passato, si proietta nel futuro. Siamo di fronte ad un tipo di musica soul-jazz costruita su degli arrangiamenti molto azzeccati e sempre gradevoli, che non possono far altro che indurre l’ascoltatore ad un piacevole appagamento uditivo. Certo l’alchimia è diversa da quella di altri talenti come quelli di Maysa Leak e Lalah Hathaway, ma va tenuto conto del fatto che la Webster non è afro americana, con tutto quello che ciò comporta in termini di timbrica vocale ed impatto interpretativo. In ogni caso Lidsey appare ancora più sicura e carismatica rispetto alle sue precedenti pubblicazioni, e di sicuro non mancherà di sorprendere proprio dal punto di vista vocale. Love Inside sa essere un disco vario, proponendo oltre ai pezzi più smaccatamente soul anche brani di funk jazz ben costruito, sia armonicamente che ritmicamente, come "Free To Be Me” (con ospite il chitarrista Norman Brown). Qui troviamo in risalto la batteria di Lance Comer, ma davvero notevole è anche la performance di Lidsey, intensa per virtuosismo e pathos. C’è pure l'impegno sociale nei testi, come in "Dream", ispirata al discorso del Dr. Martin Luther King del 1963, ed anche qui la brava cantante si esibisce in modo tutt’altro che banale. Lidsey Webster ribadisce tramite questo ultimo album che lei ha la gamma vocale ed il talento di cantante necessario per rivaleggiare con tutte le sue colleghe contemporanee. "One Last Time" ha delle sfumature tipicamente latine, ed è squisitamente eseguita dalla band, mentre la bella "Walk Away" mette in luce anche la bravura di Keith Slattery alle tastiere. La semplice ma inesorabilmente melodica "By My Side" è uno dei punti di forza di Love Inside. Ti cattura dalla prima battuta e non ti lascia andare fino a quando la corsa nel groove non è finita: per questo resta forte il desiderio di riascoltarla. I musicisti si esprimono tutti al massimo livello con la chitarra di DeMicco e la batteria di Marcus Finnie che meritano una menzione particolare tutta per loro. Lindsey Webster possiede quel raro mix di ingredienti che possono renderla una vera protagonista del jazz contemporaneo dei prossimi anni. Sui suoi album troviamo innanzitutto la sua bella voce ma anche l’abilità interpretativa, la capacità di scegliere il repertorio e di arrangiarlo nel migliore dei modi grazie anche al suo compagno tastierista Keith Slattery. La sua scalata creativa verso la vetta ha raggiunto un altro gradino ma non è certo arrivata al culmine delle sue potenzialità. In ogni caso Love Inside è un album molto piacevole: è confezionato con estrema eleganza e molto buon gusto e mi sento di raccomandarlo non solo agli appassionati di soul e jazz contemporaneo ma a tutti coloro che apprezzano semplicemente la buona musica.

Marcus Miller – Laid Back


Marcus Miller – Laid Back

Marcus Miller, ovvero "il basso", nel senso più alto del termine, vogliate perdonarmi il gioco di parole. Per arrivare al suo livello servono una grande mano destra, una prodigiosa mano sinistra (o viceversa), tanto cuore e al tempo stesso una mente fuori dal comune, oltre naturalmente ad un talento straordinario. A quelle vette ci sono arrivati in pochi, e tra questi c’è arrivato senza dubbio lui, il divino Marcus Miller. Il più virtuoso tra i musicisti delle quattro corde, il più funk tra gli specialisti della tecnica slap e, come è noto, il collaboratore prediletto del grande Miles Davis nell’ultima fase della carriera, senza dubbio una delle più avventurose e sperimentali della parabola del genio di Alton. Marcus il campione del mondo del basso elettrico, Marcus il vincitore di due Grammy Awards, dell’Edison Award for Lifetime Achievement in Jazz 2013, del Victorie du Jazz 2010 e nominato artista per la pace dell’Unesco 2013. Marcus Miller non è solo uno strumentista eccezionale ma è anche un fine compositore ed un produttore di gran classe. Insomma Miller è una delle figure più rappresentative della musica contemporanea. La notizia del momento riguarda l’uscita del suo nuovissimo ed ultimo album, intitolato Laid Back: un ulteriore capitolo di una carriera fantastica all’insegna della più totale ecletticità. Miller attinge alla sua conoscenza enciclopedica del jazz, del funk, del soul e dell'hip-hop per accompagnare gli ascoltatori in un viaggio che fa vedere come tutti questi generi, tutti questi stili possano conciliarsi tra di loro. Non sorprenderà a questo punto accorgersi che un album di Miller possa includere tanto le atmosfere del jazz, quanto anche qualcosa di talmente funky da ricordare la musica degli Incognito o dei Parliament. All’insegna di una duttilità e di una varietà di generi senza pari, ancora una volta Marcus regala momenti di puro intrattenimento insieme ad altri più intensi e riflessivi. Ride, Marcus Miller, alla fine di "Trip Trap", il numero dal vivo che apre l’ album Laid Black, e ne ha motivo, vista la sua bravura. Un brano che naviga nell’hip-hop contemporaneo non disdegnando nemmeno le ultime tendenze della musica Trap, innestate in un'ambientazione dai toni delle improvvisazioni jazz. Miller non fa che ribadire il motivo per cui rimane uno degli improvvisatori più creativi nel basso elettrico: Il pezzo live finisce con una strabiliante jam session tra le tastiere ed il sax, fino all’epilogo che lascia il posto agli applausi del pubblico ed alla risata di Miller. La seconda traccia di Laid Black, "Que Sera Sera, è una canzone che Marcus ha sentito nella versione cantata da Doris Day sia sul grande schermo che nella sua sit-com televisiva risalente al 1958 e continuata fino al 1973. Furono Sly and the Family Stone a realizzare la cover funkeggiante che è la strada che il bassista riprende oggi. La versione di Marcus Miller è una combinazione di funk e blues costruita attorno alla voce malinconica del cantante belga Selah Sue. Un altro bellissimo remake di Laid Back è Keep ‘em Runnin’ degli Earth, Wind & Fire: all’epoca dell’uscita dell’album All 'n All fu una vetrina per il lavoro di basso di Verdine White, uno dei fondatori di questo leggendario gruppo. Il bassista di New York trasforma la traccia in uno strano pezzo di hip-hop in cui la percussiva e brillante performance del basso è il punto focale. "Sublimity, Bunny's Dream", riprende un tema del suo progetto del 2015 intitolato Afrodeezia, un album dove ha collaborato con musicisti africani, brasiliani e caraibici per rendere omaggio agli antenati afroamericani deportati dalla madrepatria in America durante il triste periodo della tratta degli schiavi. "Sublimity" mette in campo un leggero swing con un Miller rilassato in perfetta sintonia con le percussioni in stile africano. Non mancano i numeri di puro funk jazz come 7-T’s, No Limit o Untamed nei quali, come è lecito aspettarsi, il virtuosismo di Marcus raggiunge l’apice della sua inarrivabile qualità. Ma Laid Back riserva anche momenti rilassati e romantici come la bella Preacher’s Kid o la lenta ballata Someone To love. Come sempre accade con i progetti discografici di Marcus Miller, Laid Black rivela un artista perfettamente a suo agio con le tendenze musicali del momento ed al contempo attento custode della tradizione e perciò sempre moderno ed innovativo. L’ultimo album del grande Marcus è ancora una volta un momento significativo di una carriera costellata di importanti tappe artistiche. Pur non raggiungendo le vette dei precedenti The Sun Don’t Lie, M2 o Marcus,  Laid Back è un lavoro molto interessante che mi sento di raccomandare caldamente.

Count Basic – More Than The Best


Count Basic – More Than The Best

A partire dalla fine degli anni ’80, Il fenomeno Acid Jazz ha avuto una larga diffusione in tutta Europa e ha trovato il suo punto di massimo splendore con l’avvento del decennio successivo. Anche in Austria il movimento ha avuto seguito ed il migliore esempio proveniente dalla terra della musica classica è stato un gruppo chiamato Count Basic. Nato come un progetto personale del chitarrista Peter Legat, i Count Basic hanno iniziato la loro attività musicale alla fine del 1991. Peter Legat è un musicista di grande talento che tra l’altro ha anche insegnato jazz al Conservatorio di Vienna. I Count Basic hanno sposato fin da subito le sonorità classiche dell’acid jazz, facendo del groove funk/soul spruzzato di jazz il cuore della loro musica. Il leader Peter Legat non ha disdegnato nemmeno delle puntate verso il mondo dello smooth jazz,  inserendo negli album della band degli strumentali dai toni morbidi ed orecchiabili, estremamente graditi alle radio di genere. Di fatto i Count Basic ottennero un successo quasi immediato con il singolo 'All Time High'.  Poco dopo la cantante Kelli Sae divenne una collaboratrice fissa  di Legat ed ancora oggi i Count Basic si avvalgono della sua importante presenza sia scenica che vocale. I successivi due album, intitolati Life, Think It Over e Movin’ In The Right Direction, ottennero un buon successo di pubblico e di critica a metà degli anni ’90, contribuendo a far entrare i Count Basic nel novero delle migliori band di Acid Jazz . Nel corso del tempo numerosi musicisti sono entrati e usciti dalla formazione del gruppo, tra questi Willi Langer (basso), Dieter Kolbeck (tastiere), Dirk Eichinger (batteria), Laurinho Bandeira (percussioni), Christian Radovan (trombone), Martin Fuss (sassofono tenore) e Karl Bumi Fian (tromba). Sebbene in linea generale io non sia particolarmente appassionato delle compilations o  dei greatest hits, ci sono alcuni casi nei quali ritengo possa valere la pena prenderli in considerazione. Ad esempio questo More Than the Best, mette insieme alcune delle canzoni che hanno reso i Count Basic una cult band. Ci sono i singoli di successo del gruppo, da "M.L. in the Sunshine" a "Joy + Pain", passando per "On the Move" e “Trust Your Instinct”, ma in questa eccellente raccolta di composizioni originali e cover troviamo anche ben 5 brani inediti, cosa che la rende particolarmente appetibile. Peter Legat come sempre ha scritto personalmente tutte le canzoni, tranne due e come al solito mostra una perfetta padronanza della chitarra nonché un notevole gusto compositivo. I Count Basic fanno del groove uno dei loro cavalli di battaglia, basando i loro pezzi su un ottimo impatto sonoro caratterizzato da articolate linee di basso e dalla ritmica sofiticata. Come valore aggiunto, la band può offrire un Peter Legat che fa parlare la sua chitarra con un attento uso del wah-wah e la spontanea fantasia dei suoi assoli. "Wes Who?"  è un esempio efficace di questa formula: su un classico ritmo smooth jazz è proprio la chitarra del musicista austriaco a rendersi protagonista del brano. L'apertura dell’album è riservata a "Oceans", cantata dalla dinamica Kelli Sae che con la sua voce profonda ed armonica riesce facilmente ad affascinare l'ascoltatore. La Sae ha una gamma vocale assolutamente degna di nota ed è anche un’interprete molto convincente, potente e sensibile. Non è certo un caso se si resta quasi stupiti dal suo modo di interpretare un brano come "License to Kill", che da una luce inedita ed intrigante ad una delle famose canzoni che hanno fatto da tema per i film di James Bond. E c’è da sottolineare anche l’intelligente arrangiamento di Peter Legat, in grado di offrire alla canzone una tensione emotiva e sensuale con il suo mix tra lo voce solista di Kelli Sae e gli schemi melodici dove non mancano moderni suoni di synth. Quando poi arriva il turno dei brani conosciuti come M.L. In The Sunshine o Joy + Pain ci si rende conto che anche a 20 anni di distanza mantengono un loro fascino e non hanno perso lo smalto di quando sono state pubblicate. Dicevo poco fa che Count Basic ha inserito in questa compilation ben cinque nuove canzoni, e nessuna di queste delude: il groove è rimasto quello dei tempi d’oro. Chi ha apprezzato gli Incognito, i Brand New Havies, gli Jamiroquai non può non fare altrettanto con questo gruppo austriaco dal respiro internazionale. More Than the Best è una raccolta molto interessante che unisce la retrospettiva alle novità. In ogni caso all'interno del disco non mancano precisi riferimenti allo smooth jazz, tuttavia decliinato nella sua forma più essenziale, mai eccessivamente patinata. Un album solido ed anche vario dunque, che ci offre una panoramica esaustiva sul talento di un musicista come Peter Legat, da oltre 20 anni paladino, con i suoi Count Basic, di quel groove accattivante e variopinto che siamo soliti definire acid jazz. 

Unit 3 Deep – Groove Theory


Unit 3 Deep – Groove Theory

Gli Unit 3 Deep sono una nuova band di contemporary jazz formata  dal pianista e tastierista Patrick Cooper, dal bassista David Dyson e dal batterista Duane Thomas. La formazione ha visto la luce nel 2015 ma i membri hanno precedentemente lavorato come turnisti suonando per numerosi musicisti tra i quali Walter Beasley, i Pieces of a Dream, gli Spur of the Moment, i New Kids on the Block, Rahsaan Patterson, Marion Meadows e molti altri. L’attività di supporto ad altri artisti continua anche adesso, nonostante il nuovo impegno in prima persona come solisti. Personalmente sono sempre molto interessato ai nuovi gruppi che salgono alla ribalta e gli Unit 3 Deep hanno attirato subito la mia attenzione. Groove Theory è il loro album di debutto, freschissimo di pubblicazione, dato che è disponibile dal 1 ° marzo 2018. Il gruppo ha pensato di arricchire il suo sound con la presenza di alcuni ospiti speciali: la vocalist Lori Williams, il chitarrista Alvin White, i sassofonisti Walter Beasley, Phillip "Doc" Martin e Craig Alston, il trombettista Dreandre "Re Dre" Schaifer e il percussionista Alfredo Mojica. La maggior parte del materiale è originale ed è stato composto sono dalla band, con l'eccezione di due soli brani. La musica del gruppo è focalizzata su una forma sofisticata e superiore di smooth jazz, rispetto a quest’ultimo sicuramente meno patinata e più stimolante dal punto di vista creativo. Già dopo i primi accordi del primo pezzo intitolato Friday, ci si rende conto che questa formazione possiede una precisa determinazione a spingersi in un territorio ambizioso. Si nota immediatamente il lavoro preminente del basso elettrico di David Dyson che non è affatto subordinato all’architettura complessiva dei brani ma assume un ruolo quasi dominante, mentre tutti gli arrangiamenti suonano molto più contemporanei ed articolati del classico smooth jazz. E’ particolarmente interessante il gioco di contrasti che la band riesce a creare mantenendo il  basso e la batteria su di un piano dinamico e nervoso, mentre la chitarra e le tastiere lavorano egregiamente sulla struttura armonica, spesso declinata su ritmi più rilassati. La tensione e l’emozione nascono proprio dai tempi contrastanti. Sulla notevolissima Friday c’è da notare un esuberante assolo di tromba di Schaifer che sottolinea come la natura di questo disco sia meno commerciale e più jazz oriented della media. Sus City invita l'ascoltatore ad assaporare un’affascinante incursione nei climi latini brazilian oriented: la cantante Lori Williams vocalizza in stile samba/bossa in questo che è un omaggio alla musica sudamericana in piena regola. Moving Forward è un orecchiabile brano dal tempo medio che scorre come un tranquillo ruscello di montagna in cui la melodia sembra quasi seguire il corso naturale delle acque. Il basso resta un fattore primario, ma le tastiere qui si prendono una giusta porzione d’importanza. Ain’t Nobody è la cover della famosa canzone di Rufus e Chaka Khan, pubblicata nel lontano 1983, ma ancora attuale. La canzone nella versione originale ovviamente vive della potenza selvaggia della eccezionale cantante afroamericana. Gli Unit 3 Deep filtrano il pezzo attraverso un’ottica meno sgargiante ma più riflessiva e indubbiamente più jazzata: l’alchimia sta nella capacità di scomporre quanto basta la composizione per poi rimettere insieme i tasselli con una intelligente e coraggiosa dose di innovazione. Molto bello il lavoro della chitarra di Alvin White, che peraltro si fa valere in tutto l’album. La band è in piena ricerca di una nuova strada per il cool jazz del terso millennio e quindi non c’è titolo più adatto di “In Progress”. Ritmicamente è del tutto appropriato e questo numero colpisce l’ascoltatore con il basso elettrico ed il sax che sono gli strumenti che per larghi tratti dominano la scena. In particolare sono proprio la linea del basso e l’assolo di quest’ultimo a lasciare il segno, mentre il piano acustico di  Patrick Cooper ribadisce che la barriera con la musica commerciale è stata abbondantemente superata dagli Unit 3 Deep in favore di qualcosa di più artisticamente evoluto e complesso. Groove Theory è il manifesto programmatico della band: con il basso funky slap che incarna perfettamente l'essenza del groove attorno alla batteria sincopata e sempre molto viva. Un esempio davvero perfetto di moderna fusion jazz della miglior qualità, con un cambio di atmosfera finale davvero sorprendente nel quale entra prepotentemente la chitarra elettrica. E’ un po’ come ascoltare i Return To Forever e la Mahavishnu Orchestra traslate nel 2018. I Do Not Know Why è una canzone del ’99 scritta da Jesse Harris che divenne popolare come singolo della cantante Norah Jones. Questa cover è interpretata da Lori Williams con lodevole perfezione formale. L’appartenenza del gruppo alla cerchia del miglior contemporary jazz è ribadita da un brano come So Good che ha nella tromba “davisiana” con sordina di Dreandre "Dre King" Schaifer il suo punto di forza. Il bassista David Dyson offre ancora una volta una base pulsante e vivace sulla successiva Funk Gumbo, su cui gli altri musicisti espandono il groove come meglio non si potrebbe. Il brano finale è il più lungo dell'album: It Is Not Over Yet è una lenta ballata jazzistica, carica di pathos ed atmosfere notturne e romantiche, sottolineate dagli assoli del pianoforte, del sax e da quello meraviglioso del basso fretless. Il formidabile trio Unit 3 Deep, con la collaborazione di un manipolo di validissimi musicisti, ha confezionato un album di debutto che tiene pienamente fede al titolo: la teoria del groove non sarà un assunto scientifico, ma se la bellezza della musica ha comunque un suo valore specifico, allora questo progetto riesce nell’intento di indovinarne la formula. Gli Unit 3 Deep sono una band da tenere d’occhio, il prossimo album ci dirà di più su dove possono arrivare i loro già notevoli talenti.