Robert Glasper Experiment - Artscience
Robert Glasper Experiment - Artscience
Per quasi un decennio, Robert Glasper è stato il portabandiera della fusione tra la musica jazz, l'hip-hop, il soul ed il rock, arrivando a reinventare brani dei Nirvana, come "Smells Like Teen Spirit" o dei Radiohead quale “Packt Like Sardines in a Crushd Tin Box”, e trasformandole in energetici pezzi di elettro-funk. Glasper con la sua band Experiment, formata dal cantante / sassofonista Casey Benjamin, dal batterista Mark Colenburg, e dal bassista Derrick Hodge riesce a scavalcare generi diversi, creando un proprio stile che è però radicato nel jazz e nell’R&B. ArtScience è un riflesso delle qualità e degli interessi musicali dei singoli componenti dell’Experiment, gli stessi che hanno portato alla nascita di questo formidabile gruppo. Un concetto espresso nelle note del nuovo album: "Il mio popolo ha dato al mondo così tanti stili musicali, e allora perché limitarsi a suonarne uno solo? Vogliamo esplorarli tutti”. ArtScience è il seguito di Black Radio 2, del 2013, nel quale la band utilizzò i rapper Common, Snoop Dogg e Lupe Fiasco, e le cantanti Jill Scott e Norah Jones. Sul secondo capitolo così come sul primo della serie Black Radio, Robert e la sua band erano rimasti per lo più sullo sfondo, dando maggior spazio ai loro ospiti, spesso illustri. La formula ha funzionato: entrambe gli album hanno avuto riconoscimenti di critica e successo di pubblico. Il set è stato registrato a New Orleans in circa due settimane ma, per ArtScience, Glasper ha cambiato rotta e ha deciso di fare tutto in casa, in particolare per quanto riguarda le parti vocali. Il leader e pianista canta da solista su "Thinkin Bout You" mentre Benjamin, che di fatto è il vocalist del gruppo, è al centro di "Day By Day", "Tell Me a Bedtime Story" e "Hurry Slowly". ArtScience non suona come un classico disco di jazz o R&B; vira piuttosto sul funk degli anni ‘80 e sul soul del decennio successivo, senza un riferimento preciso o un territorio definito sul quale soffermarsi. Si percepisce il tentativo di lasciarsi andare ad un progetto completo, non solo su un paio di canzoni come in precedenza. Un tono romantico scorre attraverso l'album, con testi che parlano delle diverse fasi delle relazioni d’affetto e d’amore. "Thinkin Bout You" ad esempio è una dolce ballata in cui la voce di Glasper viene filtrata dai consueti strumenti di elaborazione (vocoder, harmonizer), rafforzando in qualche misura l'aura sentimentale della canzone. Su "You and Me", è Benjamin a cantare, ma in questo caso gli effetti sulla voce sono meno spinti, l’atmosfera però è comunque suggestiva e ipnotica, mentre il tenore è sempre quello della canzone d’amore. Negli anni passati l’Experiment ha certamente avuto un orientamento più groovy, tuttavia i suoni che si ascoltano sono completamente radicati nella firma caratteristica del gruppo. "No One Like You," dura più di nove minuti, ed incarna perfettamente lo spirito di Glasper, essendo il brano più espansivo e completo: qui si fondono i molti punti di forza individuali mischiando mirabilmente diversi generi con la ciliegina sulla torta data dall’eccellente assolo di sax soprano di Benjamin. "Day By Day" è un classico brano da discoteca postmoderno con una bella linea di basso di Derrick Hodge e l’affascinante piano elettrico di Glasper a sottolineare il tutto. La cover della "Tell Me a Bedtime Story" di Herbie Hancock è forse più vicina alla versione pop-soul di Quincy Jones del 1978 anche se non così ricca nell’arrangiamento ed anche in questo caso Robert offre uno splendido assolo di Rhodes. "Find You", con la sua fusione di funk e prog rock, è un classico di Derrick Hodge: avrebbe potuto essere tranquillamente in Black Radio 2, ma qui è il bassista ad essere la voce solista, mentre l’ospite Mike Severson aggiunge un break eccezionale di chitarra elettrica nel bel mezzo di un labirinto di variazioni. La band torna sul binario del jazz con la bella "In My Mind", brano guidato dalle sincopate rullate della batteria di Mark Colenburg. "Hurry Slowly” gioca finemente su un sottile equilibrio tra l’intricata sensibilità melodica degli Steely Dan ed un arioso indie pop." Written In Stone" (anche questa con Severson alla chitarra) mescola atmosfere alla David Bowie con echi new wave ed il funk. L’album si chiude con una rilettura neo soul di "Human" degli Human League, sorprendente e molto personale. ArtScience è lo sforzo più compiuto di Robert Glasper e i suoi Experiment, la loro fusione perfetta di jazz contemporaneo, hip-hop, neo-soul, pop, e rock ha trovato probabilmente un nuovo apice ed è sicuro che il loro stile continuerà ad influenzare moltissimi altri artisti. La finestra sul jazz è ridotta all’essenziale e forse si vorrebbe uno sviluppo più esteso in questo senso. Ma il Robert Glasper Experiment presenta ogni volta un nuovo quadro per le future esplorazioni e la scoperta di nuove frontiere musicali, ArtScience in questo senso è un ottimo ed ulteriore passo in avanti. Sperimentazione e creatività senza sacrificare l’accessibilità: musica di un futuro già scritto.
Alan Hewitt & One Nation - Evolution
Alan Hewitt & One Nation . Evolution
Alan Hewitt è un tastierista di talento, noto come solista principalmente nell’ambito dello smooth jazz. Come produttore ha avuto l'onore di lavorare con Maurice White degli Earth Wind and Fire per oltre mezzo decennio, coronando questa collaborazione con il “Greatest Hits” degli EWF che ha raggiunto il disco di platino nel 2000. E’ stato inoltre tastierista in tour per la leggendaria band rock dei Moody Blues, e l'elenco delle sua partecipazioni sia come produttore che come musicista sono numerose ed importanti. Alan Hewitt è anche il compositore di colonne sonore di una lunga lista di produzioni cinematografiche e televisive. Dal punto di vista musicale Hewitt prende ispirazione con naturalezza dal jazz contemporaneo, dalla fusion ma anche dal pop e dal rock. Il suo ultimo album, "Evolution" è un perfetto esempio di fusione tra rock, jazz e progressive. Alan ovviamente padroneggia il pianoforte e tutte le tastiere e si avvale della collaborazione di JV Collier al basso, Sonny Emory alla batteria, Jamie Glaser e Duffy King alla chitarra e di due ospiti speciali come Orianthi e Alex Boye. La formazione ci dice, prima ancora di ascoltare una sola nota, che Alan Hewitt & One Nation sono una band di musicisti dotati di grande virtuosismo, tutti molto rispettati dai loro colleghi. Abituato alle atmosfere ovattate e forse un pò banali dei precedenti album di Hewitt da solista, non immaginavo questo genere di lavoro e di conseguenza le mie aspettative non andavano al di là di una modesta curiosità. Ora, dopo aver sentito le dodici tracce di "Evolution" mi accorgo di essere incappato in qualcosa degno del massimo rispetto e di grande attenzione. Anche se formalmente piuttosto lontano dal jazz, musicalmente "Evolution" non ha punti deboli, è una raccolta di grandi brani magistralmente eseguiti. È fresco, è potente ed energico, è retro ed è moderno, in due parole: è convincente. Si tratta di una sintesi molto ben riuscita di vari generi musicali tra di loro piuttosto distanti e caratterizzati da strutture sonore alquanto differenti. Qui troviamo infatti la fusion degli anni’70 e molto del miglior progressive dello stesso periodo, ma anche il funk e il rock. Alan Hewitt è un virtuoso della tastiera, ma stupisce la sua raffinata sensibilità nella creazione di questi sorprendenti paesaggi sonori definiti su una molteplicità di ritmi sofisticati. Si va dalla elastica e pirotecnica fusion di "Devotion" alla variopinta e frammentata atmosfera rock di "Wunderland", passando per il soul funk latineggiante di "Revelation” (ft. Alex Boye)" e lo scintillante prog-rock di "Utopia” (ft. Orianthi). Dopo i primi brani si intuisce chiaramente che si sta ascoltando uno degli album di crossover più brillanti, lucidi e maturi degli ultimi anni. L’abilità compositiva di Alan Hewitt e la padronanza sulle tastiere sono davvero impressionanti, esemplificate al meglio nella cavalcata progressive di "Into The Eye (ft. Orianthi)" così come sulla jazzistica "Big Bang", dal ritmo sincopato e originalissimo. Alan Hewitt si fa conduttore dei talenti di questa band, composta da veri maestri dei loro strumenti, riuscendo anche a lasciare il giusto spazio a tutti i musicisti ed esaltare le individualità. E così è piacevole ascoltare la bella voce di Alex Boye, apprezzare la chitarra della brava Orianthi, che come sempre, è tecnicamente superba ma senza eccessi. Fantastico è anche Duffy King che affascina con la sua elettrizzante sei corde in alcuni dei pezzi più significativi. Una menzione particolare infine per quel fenomeno di Sonny Emory alla batteria, che per tutto l’album dispensa ritmo ed energia da par suo, adattandosi a tutti gli stili con intelligenza e versatilità. Non ci sono dubbi che Alan Hewitt sia un grande talento della nostra epoca, circondato da un gruppo di musicisti (One Nation) che valorizzano al meglio le sue qualità. Il risultato è "Evolution" un album che mette in mostra una superba tecnica strumentale e al contempo riesce ad emozionare, senza diventare mai freddo o fine a se stesso. E’ ovvio che qui il jazz o la fusion sono solo un piccola parte dell’alchimia e gli appassionati cultori del purismo forse farebbero bene ad evitarlo, tuttavia gli ascoltatori più curiosi, e di sicuro i seguaci del progressive rock, troveranno molti motivi per apprezzare un’opera come questa. In ultima analisi è un disco che dimostra qualora ce ne fosse bisogno, che i veri musicisti, con veri strumenti sono ancora in grado di creare e suonare composizioni stimolanti ed interessanti, come mai potrebbero fare loop, campionamenti e tecnologia.
Jay Graydon - Bebop
Jay Graydon - Bebop
Chissà quante volte ascoltando una bella canzone pop avrete pensato “ma come è arrangiata bene” “come suona ricca ed elegante”. Probabilmente stavate ascoltando una produzione di Jay Graydon. Sconosciuto alle masse, Jay Graydon è un personaggio di grande rilevanza per tutta la musica contemporanea e in particolare per quella particolare corrente della cultura americana che prende il nome di West Coast. Noto principalmente per il suo ruolo di produttore e arrangiatore, si è distinto per il sound caratteristico e sofisticato che ha saputo infondere a tutti gli artisti con i quali ha avuto modo di collaborare. Chitarrista di talento, Graydon ha però portato avanti gran parte della sua carriera ricoprendo un ruolo piuttosto defilato e non da protagonista, dedicandosi con enorme successo sia alla direzione artistica che alle tecniche di registrazione. Un’attività che gli ha fruttato due Grammy Awards e la stima incondizionata di tutto il panorama musicale internazionale. Nato nel 1949, a Burbank, in California, ha fatto il suo incredibile e precoce “debutto” nel mondo della musica all'età di due cantando con il padre nello show televisivo di quest’ultimo. E d’altra parte Jay proviene da una famiglia di musicisti; suo fratello Gary suona la chitarra anche se non professionalmente e suo padre era, come detto, un cantante e cantautore. La sua versatilità lo ha portato ad abbracciare molti stili e correnti che spaziano dall’r&b al pop all’aor al jazz. E’ proprio traendo ispirazione da questa molteplicità di interessi e da un amore nato in tenera età che Jay Graydon ha dato alla luce una imprevedibile e inaspettata raccolta di composizioni originali di jazz in stile bebop. Ed è anche naturale (forse un po’ banale) che l’album in oggetto sia intitolato proprio “Bebop”. Una festa scintillante di musicalità, improvvisazioni solistiche, cambiamenti armonici avanzati e ritmi sincopati, nella migliore tradizione jazzistica ma con un tocco di modernità. Dieci tracce, tra le quali una intro di diciannove secondi estratta proprio da quello "show TV di Joe Graydon del 1951", in cui il piccolo Jay Graydon dice a suo padre che gli piace il bebop. In pratica quarantanove anni dopo Graydon finalmente da alla luce un progetto tutto imperniato sullo stile jazzistico che lo affascinò sin da bambino. Bebop si avvale di una bella registrazione digitale e offre una estesa gamma di frequenza e delle dinamiche molto naturali, a differenza di altri prodotti simili. Questa qualità si sposa magnificamente con il bebop e le sue funamboliche variazioni armoniche, come succede ad esempio con la formidabile batteria di Dave Weckl o con le altre delizie musicali sciorinate dal sassofonista Brandon Fields, dal bassista Dave Carpenter, e dal pianista Bill Cantos. Il disco trasmette all’ascoltatore un alto livello di piacere d’ascolto. Ciò è particolarmente evidente in un brano come "Blow Man" durante il quale il notevole assolo di pianoforte di Cantos e le splendide frasi melodiche e armoniche provenienti dal sax di Brandon Fields vengono esaltate perfettamente. Il progetto è prettamente acustico, e lo stesso Jay Graydon suona quasi sempre una chitarra semi-acustica, approfondendo la sua padronanza dell’improvvisazione solistica e catturando in modo mirabile l'essenza stessa del bebop, in un modo assai convincente per un artista che mai si era cimentato con il jazz puro. Con questo album Jay aggiunge altre e più vivaci sfumature al suo già policromo disegno musicale: non cerca alcuna scorciatoia e nessuna facile soluzione nascondendosi dietro la distorsione, l’alto volume o utilizzando tutti i tipi di gadget elettronici possibili. Bisogna essere un musicista di valore per cimentarsi a questi livelli, e Jay Graydon sicuramente dimostra chiaramente la sua abilità e la sua versatilità proprio su questo tanto atteso lavoro di jazz. Tra i brani, tutti molto divertenti e interessanti, una menzione particolare va a “Oh Yes There Will” che apre di fatto l’album e fa capire subito che qui il jazz c’è eccome. E poi "Go ‘Way Moon", con la sua atmosfera raccolta e rilassata o la bluseggiante “C-Bop”. Simpatica la versione jazzistica dell’inno americano che assume contorni inaspettatamente da ballata jazz. Graydon gestisce il suo ruolo di solista attraverso la filosofia del “less is more” con gusto e misura, dispensando sottile intelligenza e precisione tecnica senza mai mancare della giusta ironia. Bebop non solo consegna Jay Graydon alla ribalta del jazz contemporaneo con un’idea d’infanzia portata finalmente a compimento ma conferma il suo mosaico musicale arricchendolo con un nuovo e stimolante tassello, per la gioia dei suoi vecchi fan e con l’inaspettato apprezzamento dei jazzofili più appassionati.
(P.S.: L'unica nota negativa riguarda la copertina dell'album che merita senza dubbio una nota di demerito per la sua approssimazione che non rende affatto giustizia ai contenuti che sono viceversa di grande spessore.)
Roy Hargrove – Rh Factor - Distractions
Roy Hargrove – Rh Factor - Distractions
Roy Hargrove è un musicista da sempre fortemente orientato verso l‘hard bop (e anche uno tra i più acclamati "giovani leoni" del jazz). Divenne uno dei trombettisti più in evidenza nell’America della fine degli anni ‘80 e continua ad essere un personaggio di primo piano del jazz contemporaneo. Splendido specialista sia alla tromba che al flicorno, il texano Roy ha incontrato il maestro Wynton Marsalis nel 1987, quando quest'ultimo musicista visitò il liceo di Hargrove a Dallas. Impressionato dal brillante suono dello studente, Marsalis inserì subito Hargrove nella sua band e lo aiutò ad ottenere ingaggi importanti con musicisti del calibro di Bobby Watson, Ricky Ford, Carl Allen, e il gruppo Superblue. Roy ha anche frequentato il Berklee College Of Music prima di trasferirsi a New York City, dove la sua carriera ha preso definitivamente il volo. Roy Hargrove oltre che talentuoso è anche culturalmente molto curioso e ama a volte spingersi oltre i rigidi stilemi del jazz; si può dire che abbia una doppia anima musicale, ed infatti nel 2006 ha pubblicato due album contemporaneamente. Questo Distractions, (con il marchio Rh Factor a sottolineare una evidente discontinuità) tutto elettrico ed influenzato dal funk e dal neo-soul ed un altro lavoro di matrice post bop, completamente acustico (canonicamente a suo nome). La sua casa discografica, la prestigiosa Verve, si è dimostrata quindi molto collaborativa nel supportare l’artista e assecondare sia il suo lato tradizionale che quello più moderno. Distractions, come Hard Groove fu nel 2003, è una registrazione incentrata sul neo-soul-jazz con una buona dose di funk e fusion inserite nel mix. Hard Groove era il primo esperimento di Hargrove fuori dall’ambito hard bop: quel disco aveva contenuti interessanti e spunti innovativi con in più un sacco di ospiti speciali, tra i quali D'Angelo, Common, Erykah Badu, Karl Denson, Steve Coleman, Q-Tip, Meshell Ndegeocello, e Cornell Dupree per citarne alcuni. Distractions è stato invece registrato con la sua band, con la presenza del solo D'Angelo nel brano "Bull *** t" ed il grande sassofonista David "Fathead" Newman presente sulla metà delle tracce. Altri musicisti presenti che erano presenti su Hard Groove sono inoltre Renee Neufville, che canta e suona il piano Wurlitzer; Sparks Bobby alle tastiere, il sassofonista Keith Anderson e il batterista Willie Jones III. C'è sicuramente una vibrazione molto più “urban soul” in questo album ed anche il groove generale è più severo e rigoroso. A distanza di dieci anni dalla sua uscita si può affermare che Distractions è un disco visionario e anticipatore di future tendenze, al punto che a tratti ricorda le ultime stimolanti uscite del Robert Glasper Experiment. Tutto è giocato su degli arrangiamenti essenziali e moderni, fatti di un tappeto armonico intrigante, a tratti ipnotico e sui suoni urbani del nuovo millennio, mentre le ritmiche ammiccano al funk e all’hip hop. "Distractions" apre, chiude e si ripete brevemente lungo tutto l’album come tema ricorrente, tocca Miles Davis, lo cita, ma non si fa portare alla deriva dal Maestro, lo fa con un suono che è tagliente, quasi spigoloso. Come dicevo l’ombra di un onesto e sincero urban soul è particolarmente presente in questo lavoro di Hargrove, in particolare sulla ballabile e swingante "Crazy Race", sul buon funk di "Holdin 'On" e sulla piacevole "On the One". Tutti brani caratterizzati dalla bella voce di Renee Neufville. "Family" è una ballata jazz-soul dal tono impressionista ed entusiasma per il magnifico sound del leader al flicorno. "Kansas City Funk" e "A Place" sono calati profondamente nel funk (quest'ultima alla maniera dei P-Funk e degli Ohio Players), ed è meraviglioso ascoltare Newman, Anderson e Roy Hargrove cavalcare il groove con i loro fiati di gran classe. "Bull *** t" è invece un brano di hip hop elettronico (blip-hop). La partecipazione di D'Angelo (che ha prodotto la canzone) aggiunge struttura e ritmo, ma sorprendentemente risulta essere forse l’unico punto debole dell’album essendo anche l'unica melodia dove in qualche misura manca il lirismo. Aspira al Miles Davis di On the Corner senza averne di quest’ultimo l’intensità. Distractions è comunque un lavoro gratificante, divertente, godibile e moderno. Gli echi di futuro che sono chiaramente avvertibili ne fanno un album di grande fascino e di sicuro interesse. Roy Hargrove si dimostra un trombettista di notevolissima caratura, dotato di un timbro cristallino e versatile, un musicista tecnico e sempre carico del giusto feeling, sia che si immerga nei groove del neo soul jazz come in questo caso, sia che percorra la strada maestra del jazz della tradizione.
Brian Clay - Groove Story
Brian Clay - Groove Story
Se cercate uno stile musicale imparentato con il jazz e tuttavia senza le spigolosità e le difficoltà che quest’ultimo può presentare, finirete per imbattervi inevitabilmente nello smooth jazz. Morbidi suoni, melodie accattivanti, arrangiamenti raffinati contraddistinguono da sempre questo genere di fusion che ormai da tanti anni è diventato popolare. Sono numerosi i portabandiera di questa particolare corrente, in particolare tra i sassofonisti, i chitarristi ed i pianisti. Molti di questi sono artisti affermati e di grande successo, ma ci sono anche tanti giovani emergenti che risultano sconosciuti ai più. Pescando tra i meno noti, vorrei parlare di Brian Clay: che è un pianista compiuto e maturo, ma anche un vocalist di talento, un ricercato compositore ed un affermato musicista di studio. Brian Clay è uno strumentista di primo piano in una scena smooth jazz come quella di Atlanta, che negli ultimi anni pare sfornare con regolarità alcuni dei migliori prospetti del panorama americano. Brian ha condiviso il palco, come atto di apertura o artista di supporto, con alcune vere e proprie leggende del jazz tra cui George Duke, David Sanborn, Stanley Clark e Gato Barbieri, così come con le star del contemporary jazz Norman Brown, Gerald Albright, The Rippingtons, Rick Braun, Kirk Whalum e Euge Groove. Lo stile di Brian Clay lo mette a diretto confronto con autentici miti del pianoforte, gente del calibro di Joe Sample e Bob James, che appaiono effettivamente come le sue fonti d’ispirazione più forti. Il suo stile vocale invece ricorda Nat King Cole, Donny Hathaway e Luther Vandross, ma le parti cantate sono davvero poche nelle sue registrazioni. Inoltre la sua presenza scenica è davvero magnetica e le sue performance dal vivo sono estremamente dinamiche. Il pianista ha al suo attivo quattro album, di cui questo Groove Story è il suo ultimo. Uscito nel 2016, è la continuazione di un discorso estetico e stilistico iniziato una decina di anni fa ed evolutosi in maniera costante fino ad oggi. Brian unisce uno straordinario talento di musicista con una eccellente conoscenza del jazz contemporaneo, certificata da una lunga militanza radiofonica presso la più importante emittente smooth jazz di Atlanta e attraverso la propria piattaforma internet denominata Jazzspirations. I sette brani dell’album catturano l’attenzione per la scorrevolezza e la gradevole vena melodica sottolineata dal giusto groove, profumato di funk. Allo stesso modo il suono del suo pianoforte acustico appare sempre brillante, pulito e preciso, senza eccessi di virtuosismo e senza sbavature. Gli arrangiamenti sono raffinati ma essenziali e sono tesi a valorizzare al massimo il tocco delicato e l’eccellente diteggiatura di Brian Clay. Se gli si può imputare un difetto, forse l’album non brilla per originalità, ma va detto che in parte è lo stesso smooth jazz ad essere per lo più ingabbiato dentro a degli schemi piuttosto ristretti. Groove Story resta comunque un bel disco: ideale per un sofisticato sottofondo domestico oppure per un piacevole viaggio in automobile. A volte può bastare anche così.
Resolution 88 – Afterglow
Resolution 88 – Afterglow
L’album che non ti aspetti, la band che ti sorprende, quella che forse aspettavi da tempo. Questo è in sintesi Afterglow, il secondo lavoro del gruppo jazz funk londinese Resolution 88. Sono nati nel 2012 con il preciso intento di (ri) creare le sonorità di quella eccitante e propulsiva musica tipica degli anni ’70, registrare dal vivo in studio ed ovviamente esibirsi dal vivo in mezzo alla gente. Obiettivi che la band non ha faticato a raggiungere. Il debutto assoluto è avvenuto nel 2013 con il CD Resolution 88. Un lavoro che già appariva come una vera e propria dichiarazione programmatica. La mente di questo formidabile progetto è Tom O’Grady un giovane pianista/tastierista londinese che ha fatto del piano elettrico Rhodes la sua passione ed il suo credo. Il nome della band stessa fa riferimento al particolare modello di Rhodes denominato eighyeight. Tom è un talento naturale, dotato di quella rara abilità che consente (solo ad alcuni, ovvio) di suonare e trascrivere praticamente qualsiasi cosa egli ascolti. La sua prima fonte d’ispirazione è Herbie Hancock ed infatti il set di tastiere che O’Grady ha messo insieme riflette proprio l’arsenale strumentale che Herbie usava negli anni ’70. (Fender Rhodes mk1 88 model, Hohner Clavinet D6, Solina String Ensemble). Ma ovviamente Resolution 88 non è solo Tom O’Grady, insieme a lui ci sono anche Tiago Coimbra al basso, Ric Elsworth alla batteria, Alex Hitchcok ai sassofoni. Tutti giovani talentuosi che danno il loro contributo a questo ambizioso e non certo facile progetto musicale. Afterglow è un album di puro jazz funk strumentale: una vera prelibatezza a base di complessi groove ritmici come raramente capita di ascoltare e dove il jazz non è solo un profumo lontano ma viceversa è parte vitale di tutte le composizioni. L’interplay fra i quattro musicisti è eccellente, così come la coerenza estetica di ogni traccia. Per gli amanti del piano elettrico è certamente un’opera imperdibile, poiché Afterglow è un vero inno al Rhodes 88 mk1, strumento che Tom O’Grady padroneggia con inventiva e originalità nel rispetto delle sonorità vintage di cui solo questa particolare tastiera è capace. E allora godiamoci questo raffinatissimo jazz funk, non eccessivamente sperimentale, aperto e contagioso. Si percepisce una musica composta e suonata con gusto e capacità musicali davvero al di sopra della norma. Le influenze sono tantissime, come è ovvio: si va dai Weather Report agli Headhunters, dai Level 42 ai Brand X con i mezzo tutti i sapori del groove degli anni ’70. Il piano elettrico è dunque il fulcro intorno al quale ruota tutto il sound di questi ragazzi londinesi, e poi ci sono gli altri strumenti, scattanti ed energici. La registrazione è stata effettuata su nastro per preservare il calore dell’interpretazione, come da tradizione analogica. In Afterglow il viaggio musicale prevede tappe un po’ dappertutto tra echi brasiliani, reminiscenze dei mitici seventies, spruzzate di disco funk anni ’80 e il comune denominatore del jazz nella sua accezione più divertente e leggera. Tutto appare semplice e godibile, quasi naturale, è così che la musica riesce ancora una volta ad ispirare ottimismo e positività ed a regalarci eccellenti vibrazioni. In un panorama artistico appiattito e privo di coraggio i Resolution 88 riportano il barometro dello stile e del groove sul bello stabile. Bravi !
Four80East – The Album
Four80East – The Album
I Four80East sono un gruppo di contemporary jazz di origine canadese. In realtà si tratta di un progetto parallelo (di studio) per Rob DeBoer (pianoforte, chitarra, basso, programmazione) e Tony Grace (batteria, programmazione), che, insieme con il fratello di Grace, Paul, lavorano per la Boomtang Records. I Four80East sono attivi dal 1997 e da allora sono cresciuti artisticamente fino a trasformarsi in un vero e proprio live act, trovando spazio tra i molti impegni di produzione e remix che sia DeBoer che Grace continuano a tenere vivi per conto di altri artisti. I due hanno poi anche una band pop: i Boomtang Boys che producono una musica totalmente disimpegnata e lontanissima da qualsiasi forma di jazz. I Four80East nacquero come un esercizio di puro divertimento finalizzato a suonare una sorta di dance music ispirata al groove inglese degli anni ’80, arricchito dall’improvvisazione di chiara matrice jazzistica. L'altra metà della band sono Jack Trentman alla chitarra e alla tromba, e Jon Stewart al sax tenore. Il primo album della band, intitolato in modo non troppo fantasioso “The Album” è uscito nel 1997 e si è subito ritagliato un notevole seguito a livello radiofonico, sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. Un debutto che, a dispetto della banalità del titolo, mostra invece un palpitante ed intenso contenuto musicale, ricco di ipnotici synth, un pianoforte (elettrico ed acustico) sempre puntuale, potenti groove di bassi e piacevoli ritmi che a tratti sfiorano la dance. E’ qualcosa che trova una sua personale strada tra l’acid jazz, lo smooth jazz ed una sorta di urban trance music molto atmosferica ed intrigante. Lo schema è a dire il vero piuttosto ripetitivo: tutto costruito su di un giro di basso insistente sul quale si innestano gli accordi delle tastiere e la ritmica. Su questo telaio rarefatto ed essenziale i vari strumenti solisti giocano il loro ruolo con sufficiente gusto melodico ed una spruzzata di gradevole improvvisazione jazz. Il vero deus ex machina di tutto il progetto è proprio Rob DeBoer con il suo pianoforte, ma il giovane polistrumentista si distingue anche alla chitarra, al basso e alla programmazione degli interessanti loop che sono la caratteristica peculiare di questo gruppo canadese. Importante è anche il supporto di Tony Grace che aggiunge il suo tocco sia in veste di batterista sia nella programmazione delle ritmiche “sintetizzate”. I brani si susseguono piacevolmente fluidi, anche se, come dicevo, un certo senso di ripetitività pervade tutto il lavoro. Gli interventi di pianoforte acustico o Rhodes di DeBoer sanno essere dolci e accattivanti, caratterizzati dai riff spesso cantabili. Il pianista sa anche come mettersi a disposizione degli altri, quando regala il supporto armonico alla tromba di Jack Trentman che mette in mostra un suono sul genere di Chris Botti o Rick Braun. Non mancano gli assoli di sax di Jon Stewart che si possono tranquillamente classificare nel filone del classico smooth jazz style. Considerando che The Album è stato pubblicato quasi vent’anni fa, non si può non riconoscergli una componente di novità ed un tentativo di creare qualcosa di diverso. L’epoca era quella dell’avvento della corrente “chill out” e del “lounge”, e la fase d’oro della “new age” ormai in declino aveva lasciato comunque le sue tracce. I Four80East sono partiti da lì ed hanno cercato una strada alternativa. Pur con l’ingenuità intrinseca in un primo album e con una forse insufficiente varietà ritmico / melodica, questi canadesi trapiantati a New York sono riusciti a proporre un cd che tutto sommato regge bene al passare degli anni e regala ancora qualche positiva vibrazione.
John Coltrane - Ballads
John Coltrane - Ballads
Di John Coltrane si conosce moltissimo, quasi tutto, è inutile dunque raccontare la biografia di quello che, senza dubbio, è uno dei geni assoluti del ventesimo secolo ed uno dei musicisti jazz più famosi di sempre. Diverso il discorso se ci si addentra nella sconfinata discografia del sassofonista di Hamlet. Tra i numerosissimi album di John Coltrane ci sono molte registrazioni storiche ed importantissime ed una manciata di lavori controversi che tuttavia riescono a dividere in qualche misura anche i suoi stessi appassionati. In generale, le sue opere più discusse sono quelle della parte finale della sua lunga carriera, come Om e Ascension, che si spingono nei territori del free jazz e sono di difficile lettura per chiunque. Per contro, Ballads è un album del 1962 che spesso viene criticato ed etichettato come troppo facile. Forse qualcuno lo può interpretare come una sorta di compromesso tra lo stesso Coltrane, teso verso il linguaggio del free e l’etichetta Impulse! che forse preferiva un approccio più graduale alla modernità. In effetti può essere stato una risposta di Coltrane a quei critici che trovavano il suo jazz dell’epoca troppo complicato, pieno di note e in generale ostico e spigoloso. Ovvero potrebbe essere considerato quasi una forzatura della volontà ormai maturata nel sassofonista di esplorare mondi nuovi e spingersi oltre le convenzioni del jazz classico. Al di là di queste teorie nate attorno alla pubblicazione di Ballads ed a tutte le speculazioni più o meno legittime della critica, la realtà è che questo è un grandissimo disco di John Coltrane. Trane è qui impegnato a fare quello che ha sempre fatto con passione ed impegno e cioè esplorare nuove strade e nuove modalità, in una ricerca artistica personale inesauribile ed illuminata, sia pure in questo specifico caso nel solco della tradizione. Ballads è un’opera che guarda al lato più passionale della musica, alle sue espressioni più calde e romantiche. Un particolare percorso calato nel mainstream che Coltrane avrebbe intrapreso sia con Johnny Hartman (su John Coltrane e Johnny Hartman, 1963) che con Duke Ellington (su Duke Ellington e John Coltrane, 1963), nonostante a quel punto il genio si fosse già lanciato verso la musica modale in odore di free jazz. Il formidabile quartetto (oltre a Coltrane ci sono: McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al contrabbasso e Elvin Jones alla batteria) non aveva mai suonato prima gli otto brani, e li registrò tutti (eccetto All or Nothing at All) alla prima take senza fare alcuna prova. Le esecuzioni sono morbide, avvolgenti e introspettive. In particolare il suono di Coltrane appare malinconico e riflessivo, mentre ampio spazio viene lasciato anche al pianoforte di Tyner che non manca di mettersi in luce senza mai strafare. Elegantissimo nella sua purezza formale, Ballads scorre fluido ed incantato, quasi fosse la colonna sonora di un film in bianco e nero, evocativo e profondo eppure sempre musicalmente leggiadro. Una narrazione musicale continua, sia pure composta da otto distinti capitoli che avvolgono l’ascoltatore in una morbida coperta di note, fatta di melodie penetranti ma sempre garbate, che rilassano, evocano ricordi e danno un senso di serenità e di equilibrio. Qui non ci sono highlights o segnalazioni di un brano piuttosto che un altro, l’album è da ascoltare tutto d’un fiato, da godere in ogni attimo, in ogni fraseggio. Probabilmente i capolavori assoluti di Trane sono altri, tuttavia Ballads rimane un esempio meraviglioso di mainstream jazz ed un momento particolare nella discografia del sassofonista. Con Ballads Coltrane ci regala un gioiello melodico proprio quando è alle porte per lui una svolta talmente radicale da non consentirgli quasi più un ritorno ai linguaggi più accessibili. Forse anche per questo lo apprezzo così tanto. Red Garland, uno dei suoi pianisti storici, disse: “Dopo Parker è arrivato Trane. Poi, quando anche lui è scomparso, è rimasto il deserto. Arriverà un altro messia? All'orizzonte non appare nessuno”. Questo parla della grandezza del Coltrane musicista, ma mi è cara una frase dello stesso John che fotografa soprattutto l’uomo: “Il jazz, se si vuole chiamarlo così, è un'espressione musicale; e questa musica è per me espressione degli ideali più alti. C'è dunque bisogno di fratellanza, e credo che con la fratellanza non ci sarebbe povertà. E con la fratellanza non ci sarebbe nemmeno la guerra”. Cosa dire ? … Immenso.
Tom Browne – Another Shade Of Browne
Tom Browne – Another Shade Of Browne
Tom Browne, è un trombettista che durante il decennio 1979-1989 è stato abbastanza popolare nelle classifiche R&B, un periodo nel quale registrò molto materiale funk/pop-oriented per l’etichetta GRP e per l’Arista. Browne ha iniziato studiando pianoforte per un anno, per poi passare alla tromba all’età di 11 anni. La sua formazione musicale è avvenuta presso Scuola Superiore di Musica e Arte di New York City. Originariamente Tom era interessato alla musica classica, ma mentre frequentava il college, a metà degli anni '70, Browne scoprì il jazz. In carriera ha lavorato con Sonny Fortune, registrato con Lonnie Smith, ed infine ha firmato un contratto come solista con la GRP di Dave Grusin. Come trombettista è influenzato da Freddie Hubbard e Lee Morgan, ma può vantare un notevole bagaglio tecnico e un’ottima espressività. Tuttavia, anche se occasionalmente ha effettivamente frequentato l’hard bop, la maggior parte della produzione di Browne fino alla metà degli anni ‘90 è stata chiaramente orientata verso il mercato e la musica commerciale. Browne in realtà aveva praticamente abbandonato l’attività musicale ma è tornato nel 1994 con una registrazione per la Hip Bop intitolata Mo’ Jamaica Funk, che risente della popolarità dello stile hip hop ma anche dell’acid jazz in voga in quel momento. Nel 1996 finalmente Tom imbocca senza più remore la strada del jazz ed esce con questo “Another Shade Of Browne” dove, nelle note di copertina dell’album, da un lato rinnega le sue registrazioni precedenti, ma ribadisce al contempo che in fondo lui è sempre stato un musicista di hard bop. Questo lavoro si concentra sul jazz mainstream ricalcando gli stilemi degli storici dischi della Blue Note. Tom concede molto spazio solista al sax tenore di Javon Jackson ed al pianista Larry Goldings mentre il sostegno ritmico è magistralmente offerto dal bassista Ron Carter e dal batterista Idris Muhammad. Una band di tutto rispetto quella messa insieme da Browne con risultati davvero convincenti. La particolarità di Another Shade Of Browne è che, con la sola eccezione di "In a Sentimental Mood", tutti i brani dell’album sono stati composti o sono correlati in qualche maniera ad un trombettista storico, di quelli che hanno lasciato un’impronta importante in ambito jazzistico. Trovo sempre interessante ascoltare dei musicisti che per tutta la carriera hanno suonato “altro” (sfiorando solamente il vero jazz) nel momento in cui decidono di confrontarsi in modo serio e completo con uno stile classico così legato alla tradizione. Per riuscirci bisogna avere la tecnica, il groove e conoscere molto bene ciò che si suona. E queste cose fanno parte del bagaglio di questo sessantaduenne artista nativo di New York. “Bluesanova” di Lee Morgan apre il cd ed è un omaggio ad uno degli idoli di Tom Browne, con il suo sapore latino contaminato dal blues: propone un valido intervento di sax del bravo Javon Jackson e un’assolo del trombettista di ottima fattura. Hard Bop a tutta forza in “Philly Twist” di Kenny Dorham che Tom interpreta con vigore e trasporto, il suo fraseggio ed il suo suono brillante ne fanno uno dei momenti più intensi dell’album. “A Sleepy Lagoon” è una ballata blues che ha nel solo di Larry Goldings al piano un punto di forza e ci fa sentire un’altra sfaccettatura di Tom Browne, che nell’occasione usa magistralmente la sordina. Non potendo mancare il tributo al grande Freddie Hubbard, ecco “Povo”, uno dei brani più famosi del repertorio del maestro: il quintetto ne da una lettura lucida e tecnicamente eccitante. “Bee Tee's Minor Plea” è invece un classico blues molto swingante, composto da Booker Little. Molto bella anche la cover di “In A Sentimental Mood” di Duke Ellington. Il celeberrimo tema del Duca è reso splendidamente e come sempre resta una delle melodie più affascinanti della storia del jazz anche dopo decenni. Infine Tom Browne lascia spazio anche ad una traccia di Ron Carter con “Eighty One”, brano complesso e intrigante come il colto ed esperto bassista è solito comporre, il trombettista si esibisce in questo caso mostrando un po’ tutte le sfaccettature tecniche del suo strumento in un continuo alternarsi di acuti e suoni profondi tipicamente hard bop. In tutte le sette tracce dell’album va sottolineato l’ineccepibile contributo della sezione ritmica che è sempre puntuale e a disposizione dei solisti valorizzandone il lavoro durante gli assoli. Another Shade Of Browne è un bel disco di hard bop contemporaneo, sempre rispettoso della tradizione e con ottimi spunti individuali da parte dei solisti. Pur non essendo un album basilare è certamente una valida proposta per ascoltare un talento della tromba come Tom Browne che nel corso della sua carriera non aveva mai registrato nulla di così musicalmente serio ed impegnato.
Joe McBride – Looking For A Change
Nato e cresciuto a Fulton, Missouri, il tastierista e cantante Joe McBride ha iniziato a suonare il pianoforte all'età di quattro anni. Suo zio Bake McBride era un giocatore di baseball professionista. Le sue prime influenze furono la musica gospel, il bebop, il jazz classico, lo stile Motown, ed il funk degli anni '70. Da adolescente ha iniziato a cantare e suonare nei club di jazz. Proprio in questo periodo, McBride è stato colpito da una malattia degenerativa degli occhi che alla fine lo ha privato della vista, ma la sua passione per la musica non è diminuita certo per questo. Ha proseguito gli studi musicali presso la Missouri School for the Blind e alla Webster University, nella periferia di St. Louis, dove si è laureato in musica jazz. Al momento ha al suo attivo nove album: sulla base di quello che ha prodotto fino ad ora, non è difficile intuire il motivo per cui Joe McBride ha deciso di intitolare questa release del 2009 “Lookin For A Change”. Sulla maggior parte dei suoi album, McBride si è fatto conoscere come tastierista jazz o soul-jazz, cantando solamente di tanto in tanto (anche se sempre molto bene). Su “Lookin For A Change” si cambia rotta e non ci sono invece brani strumentali; McBride canta in tutte le tracce, esibendosi con il suo sofisticato e grintoso stile vocale che è fortemente influenzato da George Benson e Al Jarreau ma che contiene anche echi di Stevie Wonder. Se Joe voleva un cambiamento dunque, lo ha effettivamente ottenuto e la cosa interessante è che, se da un lato Looking For A Change è più acustico di quanto gli album di McBride siano in genere, è anche il suo lavoro decisamente più r&b oriented. Il suo ultimo album non è quindi jazz strumentale con elementi di soul e r&b ma è in verità r&b vocale con molte sfumature di jazz. Looking For A Change è piacevolmente solido ed accattivante ma per essere valutato nella maniera più corretta il metro di giudizio deve essere necessariamente quello del soul e non quello del jazz tout court. McBride vola sicuro accompagnandosi con il suo piano gagliardo e preciso e deliziandoci con le sue straordinarie doti vocali. Lo fa sul suo materiale originale, che appare ispirato e sempre gradevole, ma allo stesso modo è fantastico nell’interpretazione dei numerosi classici che sono inseriti negli oltre 60 minuti dell’album. E’ intrigante in "1000 Miles" di Vanessa Carlton, resa alla maniera di un Al Jarreau degli anni ’80, vocalizzi e virtuosismi compresi. Entusiasma per come stravolge e reinventa la famosa "Word Up" dei Cameo, che resta funky ma in una modalità “bluesy” piuttosto sorprendente. Lo stupendo pezzo di Seal "Kiss from a Rose" è proposto con molto pathos e nel rispetto dello spirito dell’originale. Joe McBride si prende anche la licenza di sconfinare nel Brit Pop facendo sua la celeberrima canzone dei Coldplay “The Scientist”, rendendola ancora più bella con la sua voce soul e trasformandola in una brillante ballata jazz. Apre il cd “Crazy”, successo del duo Gnarls Barkley (il brano trae origine da una traccia della colonna sonora del western italiano “Preparati la bara!”, firmato dagli italianissimi Gianpiero e Gianfranco Reverberi). Joe la canta con una vocalità alla George Benson ma con il pianoforte che ovviamente sostituisce la chitarra. Non ci sono momenti di debolezza su Lookin For A Change, che alla fine risulta essere una delle uscite più consistenti nel catalogo di Joe McBride. Lo stile pianistico del musicista è sempre cantabile ma non privo di una sua originalità. La musica scorre fluida e tutte le canzoni si susseguono senza alcun accenno di noia, essenziali negli arrangiamenti ma perfettamente in grado di colpire la sensibilità e l’interesse dell’ascoltatore. Forse sta proprio nella semplicità della formula voce – piano – basso – batteria il fascino di questo album, che è uno di quei lavori che è bello ascoltare dall’inizio alla fine e che riesce anche a riservare qualche sorpresa.
Jay Rowe – Jay Walking
Jay Rowe – Jay Walking
Oltre ad essere un musicista di smooth jazz, il pianista Jay Rowe è anche un sincero e grande fan di questo genere musicale. Tanto che, quando gli viene chiesto con chi gli piacerebbe lavorare un giorno, l'elenco offerto da questo esperto tastierista potrebbe continuare all'infinito. Nonostante siano moltissimi gli artisti di fama mondiale con i quali ha già condiviso il palco (per citarne alcuni: Peter White, Dave Koz, Russ Freeman and the Rippingtons, Mindi Abair, Chris Botti, Acoustic Alchemy, Steve Cole, Norman Brown e Richard Elliott) ce ne sono altrettanti con i quali adorerebbe collaborare. E tra questi vengono citati in primis Eric Marienthal e Chuck Loeb. Jay è tuttavia soprattutto un raffinato pianista, dotato di una notevole tecnica. Per questo motivo è costantemente impegnato in qualità di sideman di lusso. Una sua peculiarità è un uso intensivo della mano sinistra, con la quale è in grado di riprodurre con facilità le linee del basso, testimoniando così una assoluta padronanza dello strumento. La sua scarsa fama come solista non rende però giustizia ai suoi meriti e, nonostante i quattro album registrati fino ad oggi, il vero successo non è ancora arrivato. Così come altri musicisti indie meno noti, con la giusta esposizione mediatica Jay potrebbe diventare altrettanto popolare, presso il grande pubblico, delle sue controparti che registrano per le etichette più importanti. Jay Walking (uscito nel 1997) è il secondo CD da solista di Jay Rowe. Si tratta di un più maturo follow-up del suo primo CD “A Dream I Had" (uscito nel 1994) e, dato che beneficia della collaborazione di altissimo livello del produttore Chris Parks (Lala Hathaway, Najee), dispone di un migliorato supporto multi-strumentale, nonché di una vena più vivacemente funky. Inoltre i sassofonisti David Mann e Nelson Rangell forniscono un contributo di gran classe su otto dei dieci brani che compongono l’album. Il chitarrista Rohn Lawrence offre una delle le sue performance più convincenti e ricche di feeling con uno splendido assolo su "Old Friends". Le cover di Smokey Robinson ("Tracks of My Tears") e Brian Wilson (“The Warmth of the Sun") sono classiche versioni strumentali di queste gemme del pop degli anni sessanta. Rowe dimostra tutta la sua bravura nell’interpretarle al meglio. Jay Walking è un album di contemporary jazz positivo e ottimista, tecnicamente impeccabile, pervaso da una melodica e fresca vena funk ma declinato con abbastanza gusto improvvisativo per qualificarsi come vero e proprio (smooth) jazz. Il suono che ne esce è molto simile a quello di quel Bob Mamet, di cui ho già parlato precedentemente, che si avvale però del supporto di una major importante come la Atlantic Records e da questa ottiene esattamente la promozione pubblicitaria che tanto manca ad un artista come Jay Rowe. Allo stesso modo di come Mamet raggiunge i suoi picchi creativi laddove interagisce con il sax di Eric Marienthal, Rowe esprime il suo meglio quando unisce il suo vivace pianoforte al fascino del sax soprano di David Mann, in un connubio molto gradevole di voci strumentali. Si può dire che questo cd ha superato la prova del tempo ed è stato indubbiamente lo standard di riferimento per i più recenti lavori di Jay ("Laugh Out Loud ", pubblicato nel 2001 e "Red, Hot and Smooth", uscito nel 2006). Non sarà forse ne rivoluzionario, ne una pietra miliare dello smooth jazz, ma Jay Rowe e la sua musica meritano comunque un ascolto, in particolare da parte degli appassionati del pianoforte.
Cory Henry – The Revival
Cory Henry – The Revival
Cory Henry, il maestro tastierista noto per la militanza nel gruppo jazz sperimentale Snarky Puppy, ha deciso di mettere al centro del suo nuovo progetto musicale, intiolato “The Revival”, l’organo Hammond B3, il suo primo e forse più grande amore. Accanto a lui il batterista funk (ex di Prince), Taron Lockett, già al suo fianco nell’altra band di Henry, The Funk Apostoli. Il particolare duo ha usato la Union Chapel di Brooklyn, New York per intraprendere una crociera artistica di una notte attraverso una ricca selezione di alcuni tra i brani preferiti di Henry, esplorando ovviamente la musica gospel nelle sue profonde radici, ma anche pescando nel jazz, nell’R & B nel soul e nel pop. Un repertorio variegato ma legato da un filo conduttore, che Henry arricchisce di colpi di scena ad ogni canzone, in risposta ad un pubblico entusiasta e partecipe riunito per l’occasione di una magica serata live. Cresciuto a Brooklyn, Henry ha iniziato a suonare l’organo dall’età di due anni, incoraggiato dal padre e dalla madre corista in chiesa. A sei anni partecipava ai concorsi musicali per giovani di talento all’Apollo Theater di Harlem. In seguito è stato l'organista della Greater Temple of Praise. E’ stata quella la palestra nella quale Cory è diventato, giovanissimo, un vero maestro dell’Hammond. Venti e più anni dopo, nel 2016, quella stessa chiesa è stata scelta come sede proprio per questa sua sensazionale registrazione dal vivo. Probabilmente non poteva esserci luogo più adatto per questo concerto non-stop di due ore in cui lui è assoluto e quasi solitario protagonista. L’album è indubbiamente singolare ed unico nel suo genere: si tratta in sostanza di un lunghissimo assolo di organo declinato in ogni possibile stile e variante, accompagnato solo sporadicamente ed in modo molto discreto dalla batteria e dalle percussioni. Il gospel la fa da padrone, come è lecito aspettarsi da una registrazione effettuata in una chiesa, tuttavia nel corso del concerto Cory Henry non manca di avventurarsi nel jazz (Giant Steps di Coltrane ad esempio, resa in maniera originalissima e sorprendente). O nella musica pop (Yesterday dei Beatles riletta, stravolta, rivista, smembrata e ancora intellegibile nella sua bellezza). Non mancano gli omaggi ai grandi del soul come Marvin Gaye (citato con la sua immortale Inner City Blues), Bill Withers (con una Lonely Day ridotta, smontata e ricostruita su dei riff funambolici e taglienti) ed infine anche Prince (del quale Henry pesca la stupenda When Doves Cry proprio nel corso del bis). Il tributo al funk ed ai paladini del genere, i Parliament, sta tutto nell’eplosione di Give Up The Funk all’interno di “I Want To Be Ready”. Il resto è tutto nelle dita funamboliche del maestro Henry, nella sua incredibile capacità d’improvvisazione, sempre ricca di inventiva e originalità, e nella sua bravura nel prendere un tema sezionarlo, esplorarlo, snaturarlo ed infine ricostruirlo dandogli ogni volta una nuova luce ed un fascino particolare. Esattamente le doti che lo hanno reso una star anche all’interno di un collettivo di fenomeni come quello degli Snarky Puppy. C’è da dire che gli appassionati fan di questi ultimi non troveranno in questa registrazione le stesse atmosfere e lo stesso genere musicale a cui sono abituati. Questo è un album per amanti dell’organo Hammond B-3 e per coloro che apprezzano in particolare il virtuosismo applicato alla tecnica di questo specifico tipo di tastiera. Chi volesse sentire un Cory Henry più vicino agli Snarky ed impegnato in qualcosa di più vario e magari più jazzistico, dovrebbe andare a cercare il suo primo lavoro del 2014, intitolato First Steps. In ogni caso il talentuoso tastierista di Brooklyn resta uno dei più interessanti e dotati musicisti della nuova generazione, un artista estremamente preparato, che in un prossimo futuro sicuramente regalerà al jazz contemporaneo altro materiale di grande spessore e assoluta qualità.
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