Oliver Nelson -The Blues and the abstract truth



Oliver Nelson -The Blues and the abstract truth

Questo è uno dei dischi jazz che amo di più. Prodotto da Creed Taylor per la storica etichetta Impulse! Oliver Nelson, sassofonista classe 1932 di St. Louis guida una compagine di sette grandissimi musicisti tutti accreditati di brillanti carriere solistiche. Eric Dolphy lascerà Oliver Nelson dopo questa registrazione al termine di una serie di ottime collaborazioni. Bill Evans è alla sua prima apparizione con Nelson e resterà di fatto l'ultima. L'album rivisita le atmosfere ed i colori del blues alla luce dell'esperienza del Miles Davis di Kind of blue (capolavoro insuperato del 1959) nel quale non a caso figurano sia Evans che il bassista Paul Chambers. Alla batteria troviamo un'altro grande come Roy Haynes. Sebbene non sia propriamente jazz modale ne è in qualche misura un'ideale estensione, misurandosi con semplicità e raffinatezza con i medesimi presupposti stilistici. Gli arrangiamenti di Oliver Nelson valorizzano l'uso delle ance, dove il sassofono baritono di George Barrow non esegue assoli ma funge da ricco collante ed aggiunge profondità alle sonorità delle composizioni. Il brano certamente più famoso è il celebre Stolen moments, che diventerà in seguito uno standard molto suonato, forte di una stupenda potenza espressiva e di una melodia straordinaria. Un lavoro nel suo complesso affatto facile e tuttavia in grado di restare pienamente godibile, sempre misurato, raffinato ma mai stucchevole o fine a se stesso. Nel 1964 uscirà More blues and the abstract truth che, a dispetto del titolo, vede una formazione completamente diversa e poco o nulla ha a che fare con i contenuti di questo album. Oliver Nelson scomparve a soli 42 anni nel 1975. Dal 1967 si era dedicato principalmente alle composizioni per la tv, alla produzione e all'arrangiamento per alcune pop-stars, continuando saltuariamente ad essere leader di alcune big bands in particolare nelle performance live. Strumentista, compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra, Nelson era un uomo di cultura che pur nella brevità della sua attività artistica ha lasciato alcune pagine di assoluto valore nella storia del jazz.

Acid Jazz...


Acid Jazz...

Se c'è una cosa sulla quale esiste una discussione sempre aperta questa è la definizione dei generi musicali. Di fatto per compiere questa operazione si pongono necessariamente dei paletti e si mettono in atto delle restrizioni formali sulla base di determinati canoni. Per contro, i gruppi, i musicisti, gli esecutori difficilmente rispettano con rigore i codici stabiliti da una corrente o da uno stile, per cui le contaminazioni, gli sconfinamenti e le interconnessioni tra i vari generi sono estremamente comuni e aggiungerei inevitabili. L'Acid jazz è un esempio assolutamente calzante di un movimento musicale molto sfumato, fluido, sfaccettato. Nasce sul finire degli anni 80, non a caso in Inghilterra, da sempre la fucina di tutte le novità e le tendenze musicali, e come dicevo, si palesa con un polimorfismo di difficile catalogazione. Le commistioni tra funk e rock psichedelico degli anni sessanta e settanta, i rare grooves della musica black, il jazz elettrico ma anche il soul e l'r&b sono alla base di tutto. Una rielaborazione del concetto di fusion, con spruzzate di elettronica, qualche iniezione di hip-hop e l'integrazione di numerosi altri echi contemporanei completano il quadro. Una prima testimonianza è "Acid Jazz and other illicit grovees" che esce nel 1987. Ma la geniale ed azzeccatissima definizione "Acid Jazz" viene coniata dal dj londinese Gilles Peterson che insieme ad un altro importante dj britannico di nome Eddie Piller, sarà il vero e proprio motore del movimento. Una corrente fondata sulle concrete basi di un nutrito gruppo di artisti di indubbio talento e sostenuta dal vasto consenso di un pubblico entusiasta e competente.  Gilles Peterson completerà la sua parabola ascendente fondando nel 1989 l'etichetta Talkin' Loud, da lì in poi il punto di riferimento di tutti gli appassionati. Così per la Talkin' Loud registreranno fra gli altri gli Incognito, Galliano, Omar, gli Young Disciples. Eddie Piller creerà l'etichetta Acid Jazz Records da cui usciranno il fenomeno Jamiroquai ma anche James Taylor Quartet, i Brand New Havies o il chitarrista Ronnie Jordan. E qui torniamo all'argomento d'esordio di questo post: le contaminazioni. Queste delineano e caratterizzano l'acid jazz o invece ne sottolineano le differenze e la scarsa omogeneità ? A questo punto dobbiamo pensare di trovarci di volta in volta davanti a degli album di soul, di jazz-funk, addiruttura di hip-hop o di rap o siamo sempre nell'ambito di un unico grande movimento che ingloba e fa suoi tutti gli altri ? Difficile sciogliere questo dubbio. Una cosa è certa: l'acid jazz è una delle proposte più innovative ed importanti della parte finale del secolo scorso. Ed anche se molti, nel 21° secolo lo danno per finito, resta anche oggi, a mio modesto parere, vitale e ricco di fermenti sempre nuovi ed interessanti. In fondo è solo una definizione di qualcosa di molto più grande... Lunga vita all'acid jazz!

John Tropea - N.Y. Cats Direct



John Tropea - N.Y. Cats Direct

Succedono cose speciali e spesso meravigliose quando un gruppo di amici musicisti condivide le stesse aspirazioni e gli stessi obiettivi. Divertimento, atmosfera, magia si fondono per dare vita ad un disco davvero interessante. John Tropea è un chitarrista di New York nato nel 1946, di origine italiana e vanta collaborazioni prestigiose in ambito jazzistico, fusion e rock, tra le quali una delle più proficue è senza dubbio quella con Eumir Deodato. Ma tra le sue amicizie e alleanze musicali bisogna citare anche:  David Spinozza, Warren Bernhardt, David Sanborn, Randy Brecker, Michael Brecker, Steve Gadd, Anthony Jackson, Don Grolnick, e Richard Tee. Gente non da poco, in verità. Questo album del 1986 ha, come peculiarità, oltre che la presenza dei citati grandi ospiti ed interpreti, anche il fatto di essere stato registrato con la tecnica del direct-to-digital. Che significa una qualità audio di livello superiore e una grande limpidezza dei suoni. Cosa che favorisce al massimo la fruibilità del contenuto e permette di apprezzare nelle sfumature più sottili la tecnica sopraffina dei protagonisti. Le composizioni sono quasi tutte dello stesso Tropea che cura personalmente anche gli arrangiamenti. I brani spaziano dal blues al funky alla fusion ad atmosfere quasi new age, dimostrando la grande ecletticità di questo spesso dimenticato chitarrista. Menzione speciale meritano i brani come N.Y. Cats Direct che da il titolo all'album, meravigliosamente arrangiata e con spunti di classe da parte di tutti i musicisti. La bella The chant, del sassofonista George Young, arrangiata in questo caso dall'altro sassofonista (e flautista) Lew DelGatto. Completa il trio delle ance il popolare Lou Marini, reso famoso dalla sua militanza nei Blues Brothers. N.Y. Cats Direct è una di quelle gemme dimenticate e sperdute nella sconfinata produzione musicale mondiale, che vale la pena di riscoprire. Lo stesso John Tropea è chitarrista di valore assoluto, dotato di uno stile molto personale e particolarmente riconoscibile. Merita senz'altro attenzione anche per altri lavori registrati nei lunghi anni di carriera e che quasi mai hanno conosciuto grande fortuna, pur essendo spesso estremamente ricchi di contenuti.

Dave Grusin - The Gershwin Collection


Dave Grusin - The Gershwin Collection

Poichè molti album di Dave Grusin sono piuttosti commerciali e appesantiti da una produzione fin troppo ricca, spesso ci si dimentica di quanto questo americano del Colorado sia un valente pianista. Con il cd di cui parlo questa situazione viene in parte capovolta e, pur restando ferma una produzione ricca di grandissimi ospiti e arrangiamenti sontuosi, possiamo finalmente goderci la maestria, la tecnica ed il talento di un ottimo musicista. Soprattutto quando Dave si esibisce al piano in perfetta solitudine. Il suono del cd è tra l'altro di una purezza e di una qualità davvero straordinarie, cosa che valorizza senza dubbio una collezione di classici brani di George e Ira Gershwin già di per se stessi molto belli.Dave attinge a piene mani ad uno dei songbook più meravigliosi del secolo passato, già terreno di caccia per tutti i monumenti del jazz, mantenendo al contempo una certa originalità nella scelta, così da proporre anche canzoni meno note e sfruttate ma non per questo meno interessanti. Come d'abitudine Dave Grusin alterna l'uso del classico piano a coda con tastiere di vario tipo, ma sempre con un ottimo feeling e un'interpretazione molto accurata del repertorio. Ne esce un omaggio ai fratelli Gershwin estremamente godibile, più lontano dalle atmosfere fusion alle quali siamo abituati in favore di uno sconfinamento quanto mai gradito verso territori più genuinamente jazzistici. Ed è proprio qui, nel campo del jazz che la riscoperta del Grusin pianista ci riserva le sorprese migliori. Il line-up vede una continua rotazione di star, che include oltre al pianoforte e alle tastiere del leader, il clarinettista Eddie Daniels, il vibrafonista Gary Burton, il sax alto di Eric Marienthal, il trombettista Sal Marquez, il chitarrista Lee Ritenour, il bassista John Patitucci e il batterista Dave Weckl. Inoltre vi sono anche altri ospiti come il pianista Chick Corea (che duetta con Grusin sulle note di "'S Wonderful") e il fratello tastierista di Dave, Don Grusin. Alcune tracce sono eseguite con un lieve sapore funky, quel tanto che basta da farle suonare più "contemporanee" (in particolare: "Ho Got Plenty O' Nuthin", con un groove elettrico alla Ramsey Lewis). Nel complesso, un set di estremo buon gusto, rispettoso, stupendamento suonato. In più abbiamo una registrazione digitale di livello altissimo, in grado di farci cogliere davvero ogni dettaglio. Insomma un prodotto di gran classe. Ve ne consiglio caldamente l'ascolto.

Grover Washington, Jr. - Winelight



Grover Washington, Jr. - Winelight

Ci sono dischi che nascono perfetti, ci sono album che non invecchiano, ci sono lavori che segnano un'epoca e che cambiano per sempre il modo di rapportarsi ad un determinato stile. Siamo nel 1980, Grover Washington, Jr,. uno dei padri fondatori dello smooth jazz, ha già una lunga sequenza di album di successo alle sue spalle prodotti dal grande Creed Taylor. Poi arriva il passaggio alla Warner e la produzione di Ralph McDonald. Winelight vede dunque la luce alla fine degli anni 70, e rappresenta la firma distintiva di tutto quello che il grande Grover farà da lì in avanti. Coadiuvato da un team di musicisti straordinari, tra i quali non posso non citare un giovane Marcus Miller al basso e il gigante Steve Gadd alla batteria, Washington presenta Winelight al mondo con la veste più scintillante e perfetta possibile. Gli edonistici anni 80 sono in arrivo e anche la musica è permeata di ottimismo e buone vibrazioni. Non ci sono punti deboli qui e il disco scorre meravigliosamente sciorinando un flusso di brani memorabili, uno più bello dell'altro. Al centro il sax, alto, tenore o soprano che sia, sempre stupendamente suonato da Grover Washington Jr, con il suo inconfondibile sound, con il suo ineguagliabile e personalissimo stile. Attorno i musicisti, come detto di livello assoluto, in grado di fornire sempre un tappeto ritmico e armonico così perfettamente integrato con le composizioni da apparire quasi magico. Un'alchimia perfetta di arrangiamenti ed esecuzioni, e melodie così belle da risultare spesso cantabili. La title track Winelight, suadente come l'immagine patinata della copertina, ti resta subito in mente, Let it Flow, dedicata al suo idolo Doctor J (il grande giocatore di basket Julius Erving) nella quale il ritmo scandito ricorda il palleggio di un pallone da basket, appunto. E poi Just the two of us, con il contributo della splendida voce di Bill Whiters a segnare una pietra miliare dello smooth jazz ma anche del soul. E le altre, come Take me there, che parte lenta e poi esplode in un crescendo ritmico incontenibile sul quale Grover ci delizia con un assolo epico. In the name of love, una ballata mid-tempo sinuosa ed intrgante come poche. Così pure Make me a memory, sexy e avvolgente, dolce e fascinosa. Un album completo, magnifico, elegante, ad un punto tale che il solo difetto che gli si può imputare è quello di durare solo 39 minuti. Se ne vorrebbe ancora, e ancora, come quei dolci ai quali non si riesce a rinunciare. Ti resta dentro Winelight, lascia il segno. 32 anni dopo è vivo e fresco come il primo giorno. Ci sono dischi che nascono perfetti: questo è uno di quelli. Grover Washington, Jr. è stato uno dei più grandi. Ci ha lasciato, troppo presto, il 17 Dicembre del 1999, la sua eredità è di grande valore e tanti giovani sassofonisti gli devono molto. Lui resterà unico. Uno dei pochi che si riconoscono dopo poche note. Uno che con i suoi sax ci ha emozionato davvero.

Crossfire - Crossfire




Crossfire - Crossfire

Misconosciuta band australiana, pubblicarono questo bell'album di debutto nel 1975.
Un classico jazz-rock calato nel tipico sound mid-seventies, dal quale emergono una notevole capacità strumentale dei componenti ed anche una certa originalità. Essenziale nella forma, legata al jazz elettrico con spruzzate di rock, ma imperniato sugli assoli dei membri in particolare del piano elettrico (cultori del Fender Rhodes, li amerete...) dell'interessante Mick Kenny e del virtuoso chitarrista Jim Kelly, è sostenuto da una gagliarda e pulsante sezione ritmica. In questo contesto risultano gradevoli e mai banali anche gli assoli di Don Reid ai vari sax, flauti e ance.La prima parte risulta più veloce, uptempo, molto ricca di groove. La seconda parte è più rilassata, in stile laid back, la ritmica è leggermente in secondo piano, gli assoli sono più intensi, forse più passionali. Ne esce una miscela davvero molto bella della quale non è difficile innamorarsi e che alla luce di un sound unico e potente, ma al tempo stesso misurato, la rende molto originale e riconoscibile. Qualche anno dopo nel 1980 il grande cantautore americano Michael Franks ingaggerà i Crossfire per un memorabile tour dal quale verrà tratto uno stupendo live, che pur essendo a nome del citato Franks sarà fortemente caratterizzato dalla presenza di questi australiani che troppo poco hanno registrato in carriera e che avrebbero meritato miglior fortuna. Un consiglio, cercateli e ascoltateli attentamente, non vi deluderanno. P.S. La registrazione è nativamente "direct to disc" garanzia di una grande qualità audio, un altro motivo per un ascolto.

Marcus Miller - M2




Marcus Miller - M2

Il campione del mondo del basso elettrico. Il maestro indiscusso della tecnica slap. Un concentrato di virtuosismo, talento, groove, ritmo, potenza e abilità compositiva. Ho un'ammirazione profonda per Marcus Miller, il ragazzo prodigio venuto da  Brooklyn, New York. Colui che riuscì a stregare anche Miles Davis, che vanta una serie di collaborazioni talmente lunga e variegata che non può certamente essere ridotta alle poche righe di un post. Marcus è un genio, pochi fronzoli, questa è la realtà. Il suo modo di suonare il basso è originale e pirotecnico, la sua tecnica dello slap è probabilmente la più evoluta e raffinata al mondo ed è costantemente al servizio della melodia e del groove. Con lui (come in Jaco Pastorius) il basso ha perso il semplice connotato ritmico per assurgere al protagonismo di uno strumento solista al pari di un sax o di un pianoforte o, per maggiore vicinanza strutturale, di una chitarra. E per completare il quadro dirò anche della sua capacità di suonare anche il clarinetto basso, le tastiere, la chitarra, la batteria. Vi basta ? Possiamo certamente definirlo un musicista a 360° se citiamo anche le sue notevoli doti di produttore e quelle già citate di compositore e arrangiatore. M2 esce nel 2001, come settimo album, comprendendo anche un best e un live. Miller ha già raggiunto la notorietà ma rimane fedele ai concetti di improvvisazione ed innovazione nel contesto di una musica jazz accessibile da una ampia audience. L'impronta del disco è tuttavia chiaramente funky, il genere in cui, a mio parere, Marcus da il meglio di se stesso. A M2 viene assegnato l'anno dopo, nel 2002 il Grammy Award quale miglior album di jazz contemporaneo. Power, un titolo, un programma, apre il disco ed è subito un tripudio ritmico con al centro la potenza e la maestria di Marcus Miller. Come dire mettiamo in chiaro chi è il migliore ! Stupendi sono i tre tributi ad altrettanti maestri che il superman del basso ci regala nelle cover presenti nel disco: il feeling di Lonnie's lament di Coltrane, la meravigliosa Goodbye pork pie hat di Mingus ed il classico jazz-rock della mitica Red baron di Cobham. Avvalendosi dei suoi fidi Poogie Bell alla batteria (bravissimo) e Kenny Garrett al sax (un altro grande talento) ma anche del compianto, muscolare e passionale Hiram Bullock alla chitarra e senza dimenticare Herbie Hancock al piano e numerose altre stelle del jazz presenti nelle registrazioni, M2 ci regala una lunga ed entusiasmante carrellata di tutto il repertorio di Marcus Miller. Sempre fluttuante tra il jazz, il funk, la fusion ed il jazz-rock, ma al contempo mai troppo pesante o troppo leggero, M2 è un lavoro ricco di raffinatezza e groove, potenza e delicatezza in equilibrio su un talento cristallino. Questo è un album consigliatissimo. Non perdetevelo...
Lunga vita Mr. Marcus Miller ! You are the king !

Pat Metheny Group - Secret Story



Pat Metheny Group - Secret Story

E' un disco diverso questo, è un'opera del tutto originale, Spiazzante, totale. Magnifica.
Basta ascoltare poche note per capire che ci troviamo di fronte a qualcosa di magicamente nuovo rispetto a tutto ciò a cui il grande Pat Metheny ci aveva abituati. Secret stories è senza dubbio il più ambizioso progetto del chitarrista del Kansas, e una delle opere più variegate, trasversali e complete che mi sia capitato di ascoltare. Ad un purista del jazz potrebbe non piacere in virtù delle contaminazioni e dei forti contenuti etnici, o delle composizioni di stampo quasi classico. Parimenti, e per le stesse ragioni, anche i molti estimatori che Pat Metheny ha nell'ambito rock/pop potrebbero restare sconcertati. Forse al primissimo ascolto, anch'io, che pure adoro il chitarrista statunitense ed il suo gruppo, rimasi un pò attonito di fronte a una svolta stilistica e concettuale così profonda.
Certo le ibridazioni latino-americane o di world music, Pat Metheny le aveva già inserite in album precedenti e per questo conoscevo questa sua inclinazione. Ma con Secret story bisogna guardare oltre, bisogna scavare dentro la musica, carpirne proprio "le storie segrete" come già il titolo del disco ci sottolinea. E quando finalmente si entra pienamente nel cuore del progetto e se ne percepiscono tutte le sfumature e la straordinaria bellezza, questo album non si può non amarlo. E allora, fin da subito, dicevamo, si viene proiettati in un caleidoscopico viaggio tra cori cambogiani, ritmiche afro-brasiliane, classiche orchestre mittel-europee. E un secondo dopo Pat e la sua chitarra synth ci avvolgono in quelle cavalcate strumentali di stampo più canonicamente jazzistico che sono tanto virtuose quanto emozionanti e perfino commoventi. Emozione è la parola che forse descrive meglio quello che questa meravigliosa opera vuole essere. Ascoltate The longest summer ad esempio: dove il piano dolcissimo del fido Lyle Mays tesse la tela sulla quale Metheny cesella una serie di delicate eppure profondissime melodie fino ad esplodere nei classici assoli di guitar-synth caratterizzate da quel suono di tromba così disperato e struggente. Semplicemente stupenda. Godetevi See the world: eccitante, jazzistica e tipicamente Pat Metheny Group. Resterete a bocca aperta con la musica da camera di Tell her you saw me, o letteralmente attoniti sulle note maestose dell'impressionistica Not to be forgotten. Infine beatevi con la summa creativa e artistica di questo capolavoro: la musica totale di The truth will always be. Echi new-age si rincorrono su un tappeto sinfonico in crescendo, fino ad arrivare al finale, dove davvero Pat Metheny esprime tutto il meglio di se stesso, sciorinando un solo di quelli che ti restano dentro, che toccano l'anima, che commuovono e, se siete sensibili, vi faranno scorrere anche qualche lacrima di emozione. Parlavo prima di musica totale, di musica globale e di trasversalità. Alla fine aggiungo solo che questa è grande musica composta e suonata da un grande, genuino artista. Dotato di tutto il talento necessario per arrivare ai massimi livelli tecnici ma soprattutto un uomo immensamente ricco di pathos, sensibilità, cuore e di quella profonda spiritualità che ne fanno uno dei più grandi musicisti di sempre. I love you Pat...

Incognito - Positivity





Incognito - Positivity

Non lo nascondo: sono un fan appassionato degli Incognito. Li seguo fin dall'esordio, non mi perdo un album. Ho assistito a ben 9 concerti dal vivo, uno addirittura a Montreaux. Il mio giudizio potrebbe essere di parte, lo ammetto. Tuttavia voglio citare questo lavoro, probabilmente il capolavoro di questa band britannica. Avevo apprezzato tantissimo il precedente Tribes, Vibes, Scribes: era stata la rivelazione, il primo contatto, amore a prima vista. Positivity però rappresenta non solo un vero e proprio manifesto dell'acid jazz, ma anche tutto quello che in musica avrei desiderato creare. Le canzoni che avrei voluto comporre. I fraseggi che avrei voluto arrangiare. Jean-Paul 'Bluey' Maunick è la mente ed il motore di questo caleidoscopio internazionale di musicisti che prende il nome di Incognito. Arrivati ad oggi al 16° album (intitolato Amplified Soul), più due live ufficiali, Positivity è il loro quarto lavoro, dopo JazzFunk del 1981, Inside Life arrivato 10 anni più tardi, e l'immediatamente precendente e stupendo Tribes, Vibes + Scribes del 1993 citatto sopra. Senza dubbio ci troviamo di fronte ad un'opera riuscita, un capolavoro dell'acid jazz, del quale gli Incognito sono considerati a ragione tra i capostipiti. Gli ingredienti sono quelli classici: sezione ritmica straordinaria con Randy Hope Taylor al basso, Richard Bailey alla batteria e lo stesso Bluey alla chitarra ritmica. Da questo nucleo propulsivo nasce la base di ogni brano. Ritmi complessi, sincopati, funky o jazzistici, caraibici, dance o soul non fa differenza. Uno straordinario tastierista come Graham Harvey, aggiunge colori e tappeti sonori che sono al contempo vintage e moderni. Il sax pungente e ruvido di Patrick Clahar si unisce al coro con misura e passionalità. Ma quello che emerge ed assurge a simbolo della musica di Positivity è la sezione fiati. Eccezionale per pastosità, potenza, precisione. Certamente una delle migliori mai sentite in questo contesto. Sarà per sempre un riferimento per la band nonostante i continui cambi di organico. Ed è ovviamente il vero marchio di fabbrica di questo collettivo musicale chiamato Incognito. Un discorso a parte lo faccio per parlare dei cantanti. Lead vocalist di Positivity è Maysa Leak, americana di Baltimora, straordinaria sia per l'estensione vocale che per la capacità interpretativa. (ascoltare il brano Deep Waters...) A mio parere una delle migliori voci black sulla piazza ancora oggi. Il bravo Marc Anthony è la seconda voce, maschile in questo caso, che dona quel tocco in più a diversi pezzi del disco. Non citerò alcun brano in particolare, si tratta di un lavoro che non ha punti deboli. Tutte le canzoni sono bellissime. Ogni arrangiamento è curato. Tutto suona come dovrebbe suonare. Per chi li conosce, non ho detto nulla di nuovo, per chi non li conosce ancora, spero che queste righe abbiamo contribuito a spingervi ad esplorare la loro produzione. Non rimarrete delusi. Ne sono certo. We're one nation under the groove. Peace !

Bob James & Nathan East - The New Cool



Bob James & Nathan East - The New Cool

Bob James e Nathan East sono due mostri sacri del movimento fusion/jazz ma anche due fenomeni dei loro rispettivi strumenti: il pianoforte e il basso. Essi sono tra l'altro i motori del fortunato sodalizio noto con il nome di Fourplay (dove vengono affiancati dal batterista Harvey Mason e dal chitarrista Chuck Loeb a formare quello che si definisce comunemente un super-gruppo). E non c’è alcun dubbio sul fatto che sia James che East possano essere considerati tra i musicisti contemporanei più importanti ed influenti. Ma mentre del pianista si perde ormai il conto degli album prodotti in carriera, il bassista afroamericano ha al suo attivo un solo disco solista, uscito, tardivamente, nel 2014 dopo due decenni di attività come turnista di lusso. Un album in duo quindi, una proposta inusuale e in qualche misura originale, soprattutto nel contesto di un panorama musicale che raramente si concede alle soluzioni “diverse” dai canoni classici. Registrato in cinque diversi studi tra Nashville e la vicina Franklin, nel Tennessee, The New Cool può essere considerato un follow-up al sopra citato album omonimo di Nathan East, anche se la titolarità dell’opera è attribuita in questo caso ad entrambe gli artisti. Come Nathan East, così The New Cool è una pubblicazione dell’etichetta discografica Yamaha. La major ha fornito al duo i suoi rinomati strumenti musicali ed ha permesso loro di proporre un album prevalentemente acustico, composto da otto brani originali e tre cover. Il batterista Scott Williamson, il percussionista Rafael Padilla, e un'orchestra, con David Davidson come primo violino,  sono ugualmente coinvolti, ma sono impiegati con parsimonia e i riflettori vengono puntati in modo quasi esclusivo su East e James. E’ un disco che palesemente suona con la stessa facilità con la quale è stato registrato. Si possono di fatto percepire la gioia ed il divertimento che emergono dal profondo interplay tra i due artisti, i quali danno corpo e anima ad un materiale prevalentemente gradevole e rilassante. The New Cool è quasi interamente strumentale, con l'aggiunta di qualche morbido ed occasionale vocalizzo; Vince Gill è l’unico cantante protagonista di un’elegante cover di un brano di Willie Nelson: "Crazy". Sul finire di The New Cool,  quando sembra che il lavoro si concluderà così come era iniziato, cioè all’insegna della morbidezza e della solarità, arriva il brano di chiusura "Turbulence". Questo a sorpresa si sviluppa in quello che è il momento più dinamico e movimentato del disco. Il tastierista e compositore Bob James si scatena al piano elettrico in modo energico e potente, mentre il basso di Nathan East viaggia sicuro al meglio del suo stile teso e melodico. Qui la presenza del batterista Scott Williamson si integra perfettamente nel contesto, a completare una sezione ritmica di stampo jazzistico assolutamente di livello. The New Cool è una piacevole aggiunta, anche se forse non essenziale,  alla produzione musicale dei due protagonisti. Elegantissimo fin dalla copertina (che richiama volutamente le meravigliose cover della storica etichetta Blue Note) scorre fluido e vellutato, tecnicamente ineccepibile, ma probabilmente la “freddezza” a cui il titolo fa riferimento finisce per costituire anche il suo limite più evidente.

Steely Dan - Two Against Nature


Steely Dan - Two Against Nature


Fantastici, enigmatici, iconici Steely Dan. Aggiungerei unici per la qualità singolare di riuscire ad attirare l’interesse di una molteplicità di ascoltatori. Il segreto è probabilmente in quella sintesi così perfetta tra un pop sofisticatissimo e un jazz aristocraticamente fruibile ma pur sempre complesso ed elaborato. Aggiungiamoci la voce inconfondibile di Donald Fagen ed il suo stile tastieristico e compositivo ed avremo la quadratura del cerchio. Vent’anni dopo un album importante e bellissimo come Gaucho, a dispetto della ritrosia della premiata ditta “Fagen e Becker” di proporsi dal vivo, unita ad una tradizionale parsimonia creativa, ecco che nel 2000 esce Two Against Nature.  Dal momento che per tutti i fan degli Steely Dan questi due decenni erano trascorsi senza nemmeno la speranza di un nuovo album, la sola prospettiva di una nuova uscita era da considerarsi una vera delizia, ma al contempo era anche un evento un po' preoccupante: un ritorno fallimentare avrebbe potuto offuscare il mito della band. (Così come spesso succede in questi casi) Fortunatamente, Two Against Nature è seducente come il meglio dei lavori precedenti degli Steely Dan, pervaso di quella stessa magica e sofisticata atmosfera. Potrebbe collocarsi a metà strada tra lo stesso Gaucho e il rarefatto, elegantissimo album da solista di Fagen: Kamakiriad. Di fatto è un gran bel disco, una raccolta di brani che funzionano bene, che ci riportano immediatamente dentro a quel mondo di accordi intricati e favolosi arrangiamenti di cui gli Steely Dan sono da sempre gli indiscussi maestri. Ciò non significa che sia un disco facile fin dal primo ascolto, piuttosto è un album coinvolgente che lentamente trova la sua strada nel nostro subconscio, insinuandosi sempre di più. Si ha la sensazione di una naturale estensione dei precedenti lavori del duo, ma sorprendentemente non suona mai nostalgico o datato. Becker e Fagen si sono ritrovati alle soglie del nuovo millennio semplicemente perché a loro piaceva e piace lavorare e fare musica insieme: è evidente nella composizione dei brani, negli arrangiamenti, nella produzione oltre la perfezione e per finire nei testi ironici e graffianti. Non hanno perso il loro tocco, e da subito hanno ritrovato esattamente tutto quello che consente loro di essere tra i più importanti musicisti di questi ultimi 40 anni. In questo senso, Two Against Nature non è diverso da qualsiasi passato sforzo degli Steely Dan. Proprio per questo è arrivato come un dono gradito e irrinunciabile. E' stata la conferma di come questi due musicisti potessero riservare infinite variazioni nel loro tipico sound anche dopo molto tempo. Il vero cuore di un album così sta proprio nella musica. Ogni canzone rivela a poco a poco la propria identità attraverso piccoli tocchi, emozioni e particolari che si rivelano ad un ascolto attento.  Ne esce un’opera di carattere e fascino, intrisa di professionalità ma anche di cuore e feeling. Bella, come d’altra parte qualsiasi altra cosa prodotta nel corso della loro inarrivabile carriera.

Jaco Pastorius - Jaco Pastorius


Jaco Pastorius - Jaco Pastorius


Jaco Pastorius è stato una splendida meteora che è comparsa sulla scena nel 1970, scomparendo poi tragicamente dieci anni più tardi, nel 1980. Dotato di una tecnica brillante e rivoluzionaria, una florida e fertile immaginazione melodica, Pastorius ha fatto emergere il suo basso elettrico fretless dalle profondità della sezione ritmica fino alla ribalta del protagonismo. Un approccio fino ad allora sconosciuto nel jazz come nel rock. La sua tecnica fatta di passaggi fluidi e veloci incendiò l’interesse per uno strumento fino a quel momento mai così completamente e spettacolarmente valorizzato. Jaco ha mostrato al mondo di avere l’estro e la creatività tipici del compositore di grande talento, così come si è distinto in veste di abile arrangiatore ed  attento produttore. Lui e Stanley Clarke sono state le influenze più importanti del basso elettrico negli anni 70. E' impossibile ascoltare oggi l’album di debutto di Jaco Pastorius con lo stesso approccio di quando è stato pubblicato la prima volta nel 1976. In un modo o nell’altro il suo stile, la sua tecnica, il suo modo di essere “Jaco” ha condizionato tutto quello che è venuto dopo. Decine di artisti si sono ispirati alla sua arte,  moltissimi lo hanno imitato. Un bagaglio di suoni, di invenzioni e di spericolate improvvisazioni che anche noi, semplici appassionati, ci portiamo dietro a 40 anni di distanza, ritrovandolo inevitabilmente in gran parte della musica che ascoltiamo.  Il brano di apertura, la sua trascrizione per basso elettrico senza tasti di uno standard del bebop come "Donna Lee", è fin da subito un manifesto di virtuosismo e tecnica rivoluzionaria. Il brano successivo, un’imprevedibile escursione nel funk-soul  quale "Come On, Come Over", suona come un bel pugno in faccia ai puristi del jazz ma al contempo è una potente dichiarazione d'amore per i grandi del rhythm & blues del decennio precedente. "Continuum" è pervasa di atmosfere spaziali, uno sguardo in avanti verso quella che sarà la sua memorabile avventura con i Weather Report. L’album continua così, ogni traccia ad esplorare una direzione diversa. Ogni pezzo un piccolo capolavoro che renderebbe orgoglioso qualsiasi musicista. Ciò che ha reso Jaco così eccezionale è il fatto che lui è stato il capostipite di un’intera generazione, e questo è stato il suo incredibile album di debutto. Al di là della sua fenomenale tecnica al basso e dell’abilità compositiva così sorprendentemente matura (aveva 24 anni quando questo album è stato pubblicato), c'è l'audacia mozzafiato delle sue invenzioni musicali che meriterebbe già di per se una seria valutazione. Forse per un uomo con questo tipo di caleidoscopica creatività rimanere sano di mente era qualcosa di impossibile. La sua graduale discesa nella follia e la conseguente tragica morte sono ormai nella storia. Un musicista che esce con un album di debutto come questo allude alla promessa di una luminosa e folgorante carriera, che in effetti prenderà corpo sempre di più fino all’apoteosi con i mitici Weather Report. L’altrettanto rapida e terribile caduta non fa che acuire nei suoi numerosi fan un senso di vuoto mai più colmato, una vaga incompiutezza che,  restando in bilico tra quanto di grande è effettivamente stato e quello che ancor di più avrebbe potuto essere, lascia tutti perplessi e un po’ tristi.

New York Voices – A Day Like This



New York Voices – A Day Like This

Ammiro molto il talento ed anche la poliedricità delle scelte artistiche dei New York Voices.  Un gruppo vocale di jazz che ha però abbracciato un pò tutti generi, dal post-bop modale al jazz brasiliano passando per lo swing, per arrivare fino ad alcuni gioielli di Stevie Wonder e altri classici del pop. D’altra parte c’è da considerare che con questo genere di proposte corali, il pericolo è sempre quello che la difficile e complessa scrittura armonica e melodica tipica del jazz possa scontrarsi con un approccio fin troppo morbido e sdolcinato. Per qualche ragione, quegli stessi suoni che suonano così taglienti e frizzanti quando sono distribuiti tra gli strumenti ad ancia possono risultare stucchevoli ed eccessivamente scivolosi quando sono interpretati da voci umane. Il quartetto vocale/strumentale New York Voices non evita completamente questa trappola sull’album A Day Like This (dopo sette anni di assenza dal mondo discografico). Ma di sicuro se la cava egregiamente continuando a dimostrare una eccellente padronanza del genere, con un solido programma di canzoni vecchie e nuove e una serie di innovativi arrangiamenti. Le voci dei protagonisti sono belle, la loro tecnica è ineccepibile. Nessuna star, nessun personalismo eccessivo, bensì un amalgama di talenti al servizio del risultato finale. Kim Nazarian, Lauren Kinhan, Darmon Meader e Peter Eldridge: questi sono i quattro protagonisti, due donne e due uomini (uno schema questo reso celebre dai Manhattan Transfer), unitisi nel 1987 ai tempi del college ed ancora attivi. Parlando di questo disco la loro versione di "Darn That Dream" ad esempio è sorprendentemente fresca (e si avvale di un raffinato solo al clarinetto basso di Bob Mintzer), e le parole che i membri del gruppo aggiungono alla "Noticing The Moment" di John Coltrane funzionano molto bene, così come l’esecuzione. Non tutti saranno d'accordo sulla necessità di proporre una versione vocal jazz della "Stoned Soul Picnic" di Laura Nyro , tuttavia la versione che ce ne danno i New York Voices è  molto divertente e alla fine convince anche gli scettici. “Don’t You Worry ‘Bout A Thing” di Stevie Wonder entra in un diverso territorio, quello del soul e l’interpretazione dei N.Y.V. è, al solito,  impeccabile. Non mancano le rivisitazioni in chiave canora di alcuni classici come “Love You Madly” di Duke Ellington o  quella di “For All We Know” che Nat King Cole portò al successo negli anni 50.  A parte un paio di momenti zuccherosi sul brano "In the Wee Small Hours of the Morning", A Day Like This è un piacere dall'inizio alla fine. Consigliato.

Rare Silk - New Weave



Rare Silk - New Weave

Per un breve periodo, agli inizi degli anni 80, i Rare Silk sembrarono poter diventare un importante e significativo gruppo di jazz vocale. Composto da Gaile Gillaspie, Marylynn Gillaspie, Todd Buffa, e Marguerite Juenemann (sostituita da Barbara Reeves e poi da Jamie Broumas), i Rare Silk iniziarono con uno stile  swing-oriented nella vena dei Pied Pipers (gruppo degli anni 40) e (con l'inserimento di un membro maschile) delle Andrews Sisters o  meglio ancora dei più moderni Manhattan Transfer. Sono addirittura apparsi con Benny Goodman al Playboy Jazz Festival del 1980. Nel corso degli anni seguenti, hanno modernizzato il loro modo di proporsi includendo oltre allo swing ed al classico be-bop anche materiale più funky e pop. Hanno registrato, per le etichette Polydor (1982) e Palo Alto (1985-1986), un totale di tre album. Notevoli sono state le loro versioni di "New York Afternoon", "Red Clay" e "Spain". Tuttavia, i Rare Silk non riuscirono mai realmente a sfondare ed alla fine si sciolsero. Un peccato in verità perché le qualità ed il talento c’erano tutti e probabilmente una maggiore indulgenza verso una musica più commerciale avrebbe favorito la loro carriera. Questo New Weave è un ottimo disco, il loro migliore. Ed infatti qui troviamo tutti gli ingredienti che di fatto hanno reso celebre ad esempio i Manhattan Transfer: belle voci soliste, sofisticati intrecci vocali, arditi controcanti e cori, senso del ritmo. New York Afternoon apre il disco e subito è chiaro l’approccio: arrangiamento moderno, venato di funky e fiati per reinterpretare in modo originale un classico del sassofonista Richie Cole. L’alternanza delle eleganti voci, ognuna ad interpretare un preciso frammento del brano ci regala emozioni. Segue uno stupendo pezzo di Freddie Hubbard, Red Clay. Indubbiamente il punto più alto di tutto l’album, magnificamente eseguito dall’ensemble vocale e altrettanto interpretato dalla band a supporto: Eric Gunnison al piano ci regala uno splendido assolo, Kim Stone al basso disegna un sottofondo nello stile liquido di un Jimmy Haslip, e Michael Berry sottolinea il tutto con la sua precisa batteria. Randy Brecker ci mette il suo magico zampino alla tromba. You Know It’s Wrong ci riporta in un territorio “vocalese” alla maniera dei Manhattan Transfer, a tutti gli effetti il gruppo di riferimento per questi formidabili cantanti, e lo swing scorre fluido e orecchiabile. Quella meraviglia di Lush Life sembra fatta apposta per esaltare le sofisticate trame vocali dei Rare Silk, che infatti omaggiano l’immortale classico di Billy Strayhorn con una performance acapella da brividi. Joy è un altro tassello di questo mosaico, gioiosa e leggera. Anticipa un altro capolavoro della musica jazz quale Spain, difficile, ostica composizione del grande Chick Corea, dove il ritmo latino è affiancato da una melodia be-bop che richiama al contempo atmosfere mediterranee. Una combinazione micidiale di tecnica ed espressività che interpretare con l’impasto unicamente dei cantanti solisti è impresa ardua che tuttavia il gruppo americano riesce a rendere con grande maestria. Bellissima. Chiudono il lavoro tre ulteriori brani swinganti e carichi di atmosfere anni 40: Sugar, Happying e D.C. Farewell. Un vero peccato che questo interessante gruppo vocale non abbia avuto fortuna. Avrebbero meritato maggiore attenzione da parte di critica e pubblico. New Weave mi pare un gran bel disco, godibile dall’inizio alla fine, ben arrangiato e ben suonato. I quattro cantanti sono tutti molto validi per timbro e capacità, si esprimono con classe e misura, mai sopra le righe. Ancor più accattivanti sono i loro arditi intrecci vocali così come le armonie ed i fraseggi che riescono a restituire. Un invito all’ascolto è d’obbligo per riscoprire ancora una volta una piccola gemma sepolta dal tempo e dall’oblio ma non per questo meno preziosa.