Volker Kriegel - Spectrum


Volker Kriegel - Spectrum

Il fermento creativo che alla fine degli anni ’60 portò alla nascita del jazz rock in tutte le sue diverse declinazioni non fu una questione solo americana ma coinvolse anche l’Europa, contando esponenti sia in Gran Bretagna che in altri paesi. Ad esempio la Germania, nazione dalla quale proviene il musicista che è oggetto di questa recensione:  il chitarrista tedesco Volker Kriegel è, a buon diritto, considerato uno dei padri del jazz rock europeo e, nonostante non abbia conosciuto una vasta fama internazionale, merita senza dubbio di essere riscoperto, in particolare per i suoi album degli anni’70. Chitarrista autodidatta ma di ottime capacità tecniche e compositive sposò con vigore ed entusiasmo la filosofia della commistione tra il jazz tradizionale ed il funk. Lo fece, come dettato dalla tendenza imperante, attraverso la modernizzazione delle strumentazioni: dunque via libera al Rhodes, ai synth, al basso ed alla chitarra elettrica e ad una scansione ritmica che andava a pescare dal rock e dal funk. Il suo album più significativo come solista è “Spectrum” del 1971, pubblicato per la mitica etichetta tedesca MPS. Il sound di questa registrazione è semplicemente eccellente, come da tradizione per l’MPS che fece della qualità audio un vero marchio di fabbrica. Volker Kriegel era in quel periodo un membro del Dave Pike Set, la band del vibrafonista statunitense Dave Pike, vissuta in Germania verso la fine degli anni Sessanta. "Spectrum" fu concepito come una "vetrina per la chitarra", un vero e proprio "album solista" che doveva soddisfare gli appassionati dello strumento presentando una nuova stella che andasse ad arricchire il firmamento di quegli anni dominato da John McLaughlin, Terje Rypdal e Larry Coryell cioè i maestri di riferimento del jazz rock. "Spectrum" si rivelò qualcosa di più di una mera risposta commerciale, grazie anche alla presenza a fianco di  Volker Kriegel di una vera band formata da elementi di grande esperienza musicale quali John Taylor alle tastiere, Peter Trunk al basso, Cees Sede alle percussioni e Peter Baumeister alla batteria. Ne esce uno spaccato del jazz rock tedesco dei Settanta con tutte le caratteristiche tipiche delle produzioni internazionali di quel preciso momento. E tutto si rivela essere qualcosa di molto speciale: un livello generale di abilità musicale elevato, quel piacevole tocco "esotico" e dei contenuti artistici che possono vantare anche una propria originalità. "Zoom" parte subito con il sitar e le percussioni tribali che fanno da apripista ad una feroce esplosione di chitarra elettrica, mentre il brano assume i contorni delle migliori uscite di Deodato. Il seguente "So Long, For Now", riporta il timone verso una ballata in stile jazz con un eccellente solo di piano elettrico e le linee di chitarra di Kriegel maggiormente orientate alla melodia. "More About D" è il jazz elettrico nella sua essenza: cangiante ed imprevedibile, trasmette energia e dinamicità per tutti i suoi dieci minuti di durata e permette a Kriegel di sviluppare un assolo davvero interessante e pirotecnico. A seguire "Suspicious Child, Growing Up ", un blues condotto a lungo dal basso di Trunk in cui il leader fa la sua apparizione solo nel finale. "Instant Judgement" propone affascinanti cascate di suoni, estremamente atmosferici e particolari, qualcosa che potremmo, vista l’origine del chitarrista, definire “cosmico”. Poi si da spazio alle grandi fughe solistiche di tutti i membri della band in un quadro complessivo molto vicino agli Eleventh House di Larry Coryell. Un brano molto originale e diverso è "Ach Kina" che comincia come una lenta ballata notturna per poi animarsi in un ritmo latineggiante e più vivace che però si mantiene crepuscolare nella melodia. Spectrum si chiude con "Strings Revisited" inusuale soprattutto per l’uso che viene fatto del violoncello come fosse una chitarra solista: una doppia linea melodica violoncello / chitarra che produce un effetto simile a quelli che oggi si ottengono digitalmente. Volker Kriegel è stato un chitarrista jazz rock di gran talento, quasi completamente sconosciuto alla maggior parte degli ascoltatori, che tuttavia ha saputo produrre un’eccellente sequenza di album a cavallo tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80. Il suo stile, al pari di altri iconici musicisti dello stesso periodo, più famosi ed acclamati di lui, sapeva essere delicatamente jazzistico ma anche raffinatamente rockeggiante. Spectrum e il successivo e più moderno Octember Variations sono due dei migliori esempi europei di crossover tra jazz, funk e rock: oggi mostrano chiaramente i segni dell’età ma riservano anche un ascolto ricco di spunti e suggestioni che non mancheranno di affascinare e di stupire chiunque abbia la curiosità di dedicarsi con interesse a questa variopinta musica di oltre 40 anni fa.

G’S Way - Patchwork


G’S Way - Patchwork

Gérald Bonnegrace, questo è il vero nome del musicista francese che si nasconde dietro al progetto G’S Way. Compositore e multistrumentista in grado di suonare con disinvoltura le tastiere, la tromba, il trombone, il flauto e le percussioni, Gerald ha messo insieme un collettivo musicale completato da Thierry Jean-Pierre al basso, Stefane Goldman alla chitarra, il sassofonista Sylvain Fetis e il batterista Sonny Troupé. G’s Way propone un energetico mix di jazz, funk e groove latini, in grado di soddisfare moltissimi appassionati ma, in particolare, coloro che hanno amato  Ray Baretto, Eumir Deodato o gli Earth Wind & Fire. Quasi 3 anni dopo l'uscita del suo primo album "Seventy Seven", G's Way è tornato nel 2014 con il suo nuovo album intitolato "Patchwork". Gli ingredienti sono gli stessi del primo lavoro ma qui c’è anche qualche interessante tocco innovativo: G's Way torna ad animare la scena con una potente ritmica, condita da una bella sezione fiati ed il suo seguito di solisti di talento di provenienza internazionale. Gérald Bonnegrace è sempre influenzato dai suoi idoli come i Fania All Star, Deodato, Fela Kuti e Grover Washington Jr. "Patchwork" ci offre un viaggio colorato che spazia dal funk alla musica latina, attraversa il jazz e tocca l'afro-beat. Questa volta "G's Way" ha invitato anche tre rappers a completare il suo personale quadro musicale, evolvendosi ulteriormente rispetto al precedente Seventy Seven. Il tocco di hip-hop fa di "Patchwork" un titolo perfettamente in linea con i contenuti dell’album, che risultano effettivamente un coacervo di stili e tendenze. Una nota di merito va data anche alla esotica copertina, in grado di colpire l’attenzione ed incuriosire dal primo sguardo. L'eccellente immagine di questa cover è di Clément Laurentin. La musica proposta è un vero inno al meglio del vintage sound degli anni ’70 ed è una piacevolissima sorpresa per chiunque abbia un debole per le sonorità che hanno caratterizzato quel fantastico momento creativo. Once Upon A Time ad esempio non è l’incipit classico delle fiabe, ma si addentra piuttosto nello stile muscolare e funk di Curtis Mayfield o Fela Ransome Kuti. Tocca il  jazz, profuma di funk e cita la musica africana. Take It Easy ha quel particolare groove che travalica i confini tra i vari sottogeneri del jazz: Lorenz Rainer brilla particolarmente alla tromba con un bell’assolo. La seguente Manikou vede il gruppo addentrarsi ulteriormente sul sentiero dell’afro beat con un classico ritmo alla maniera di Fela Kuti ribadendo un’eccellente presenza strumentale. Aleksander Terris all’organo è in questo caso il solista in primo piano. Jam Session è il ritratto di una grande vitalità centrata sul jazz funk dove si distinguono i potenti fiati e le esplosive percussioni, queste ultime un vero paradiso per gli appassionati di ritmica. Ottime le performance di Sylvain "Sly" Fetis al sax baritono, Thomas Koenig al flauto e Lorenz Rainer alla tromba. War Games riprende il tema mostrando forse ancora di più la muscolarità dei fiati. La prima incursione nell’hip hop  la troviamo in One Nation grazie alla presenza di Kohndo, uno dei migliori esponenti del rap francese. Un sapore di bossa nova è invece il leit-motiv di Sainte-Marie che è costruita attorno alle percussioni con l’aggiunta di piacevoli armonie fiatistiche di corno e impreziosita dall’uso di uno xilofono in stile jazzy. Kim Helped Me ricorda i brani di Curtis Mayfield, poiché la sezione fiati e la chitarra wah wah creano la solida base sulla quale è Trevor Mires ad esplodere il suo trombone trasformando il brano in una cascata sonora funky jazz. La seconda comparsa del rap avviene su Took So Long, ma questa volta è la voce femminile di Melina Jones  ad essere protagonista con annesso ritornello cantato dentro la solita puntuale architettura di ottoni e sax. E’ il momento di un po’ di feeling da disco anni ’70 nel bel pezzo intitolato Gotcha, ma tutto è racchiuso all’interno di un involucro funky dove non mancano synth vintage piano elettrico fino all'eccezionale assolo di sax di Fetis. Un’ultima presenza del rap viene da The Perfect Getaway grazie al cantante Bruce Sherfield. Space Invaders chiude l’album nel migliore dei modi: lo strumentale è costruito da G’s Way nello stile degli inarrivabili Incognito, ma la band tiene il passo offrendo una performance entusiasmante. Un’occasione perfetta per il tastierista Gaël Cadoux per diffondere la sua magia sul mitico Fender Rhodes?  Patchwork è un gran bell’album che delinea in modo significativo i consistenti contenuti musicali del progetto G's Way. Una miscela di stili che mantiene il suo fulcro sul jazz funk non disdegnando di toccare sapientemente anche i colori dell’Africa e l’energia urbana dell’hip hop. G’s Way mette in campo una proposta musicale a tutto tondo che è in grado di soddisfare gli appassionati dei suoni vintage ma al contempo anche coloro che sono sempre alla ricerca del nuovo. Decisamente un album che consiglio.

Soft Machine - Third


Soft Machine - Third

Tornando a parlare della scuola di Canterbury è impossibile non focalizzarsi sulla band dalla quale tutto ha avuto inizio. I Soft Machine non sono mai stati una band commerciale, semmai sono l’incarnazione dell’esatto opposto. Sia pure con un’ovvia evoluzione il loro spirito pionieristico e la ricerca della sperimentazione sono probabilmente il loro tratto distintivo più evidente. Rimangono un gruppo oscuro e misconosciuto anche a molti ascoltatori che pure hanno raggiunto la maggiore età tra la fine degli anni '60 e l'inizio degli anni '70, quando il gruppo era al suo apice. A modo loro, tuttavia, furono una delle band più influenti della loro era e sicuramente una delle punte di diamante del movimento underground britannico. Inizialmente nati come uno dei complessi iniziatori della psichedelia inglese, furono anche determinanti nella genesi del progressive rock e soprattutto in quella del jazz-rock. Essi furono anche la radice dell'albero genealogico della "Canterbury Scene" con tutti gli artisti ed i gruppi che ne derivarono nel corso degli anni: Caravan, Gong, Matching Mole, Hatfield &The North,  National Health, Gilgamesh e Henry Cow per citare quelli più importanti. E poi non si può dimenticare la carriera nel rock di due membri fondatori dei Soft Machine quali Robert Wyatt e Kevin Ayers o ancora le esplorazioni jazz e jazz-rock del sassofonista Elton Dean e del bassista Hugh Hopper. Dopo gli esordi tra sperimentazione, rock e psichedelia, i Soft Machine si buttarono più profondamente nella musica elettronica jazz e nell’avanguardia con l’uscita del loro monumentale doppio album intitolato “Three”. Questa importante registrazione del 1970 può e deve essere considerata una pietra miliare del jazz rock, al pari di altre famose opere venute dagli USA, come In A Silent Way di Miles Davis o quelle di Chick Corea e Herbie Hancock. Si tratta di un doppio vinile (che su cd diventa chiaramente singolo) stracolmo di musica straordinaria, distribuita su solo quattro lunghissimi brani, due dei quali composti dal leader e tastierista Mike Ratledge e uno ciascuno da Hugh Hopper (il bassista) e Robert Wyatt (il batterista e cantante). Le composizioni rispecchiano le personalità musicali dei componenti del gruppo, dando vita ad un insieme stilisticamente variegato. La band è coadiuvata dall’apporto fondamentale di alcuni formidabili musicisti della scuola di Canterbury come Elton Dean ai sax e Jimmy Hastings al flauto ed al clarinetto. Le composizioni di Ratledge sono quelle che si collocano in un contesto più elettro jazz e appaiono misteriose e difficili ma anche estremamente affascinanti. Si tratta di una fusion con effetti particolari e sequenze di tastiera ipnotiche e ripetitive. “Slightly All the Time” e “Out-Bloody-Rageous” si snodano entrambe sfiorando i 20 minuti senza soluzione di continuità, in una spirale sonora dai contorni jazzistici piuttosto cupi sebbene in perenne movimento, in particolare la prima. “Out-Bloody-Rageous” appare più simile alle sonorità che saranno di lì a poco quelle tipiche degli altri gruppi di Canterbury e tuttavia mantiene un feeling jazzistico decisamente marcato. La genialità di Mike Ratledge non risiede solo nelle sue complesse composizioni ma anche nel suo uso del piano elettrico e dell’organo Hammond filtrato attraverso un gran numero di effetti. "Facelift" di Hugh Hopper ricorda a tratti  la "21st Century Schizoid Man" dei King Crimson, ma ha una struttura molto più complessa, in cui le diverse sezioni suonano piuttosto eterogenee. I ritmi pulsanti, i suoni a volte caotici di "Facelift" anticipano quello che Hopper fece più tardi come artista solista, ma a distanza di 48 anni questo brano resta un gioiello a cavallo tra jazz e progressive. Robert Wyatt si distingue, stilisticamente parlando, sia da Ratledge che da Hopper: la sua composizione originale "Moon in June" è infatti prima di tutto cantata (dallo stesso Wyatt) ed attinge ad alcune idee musicali pescate nei primi demo del 1967. E’ ovvio quindi che, dal punto di vista musicale, sia alternativa ai contenuti di questo album, avvicinandosi più al rock progressivo ed alla psichedelia di quanto non facciano le altre composizioni.  L‘organo di Ratledge, la voce stralunata di Wyatt, il testo satirico ne fanno una piccola suite dall’atmosfera lunare ma assolutamente originale che a suo modo interrompe la rigorosa linea jazz rock dell’album, trasportandoci in un territorio suggestivo ed onirico. Robert Wyatt costruirà la sua carriera da solista proprio sullo stile di questo piccolo capolavoro. Da queste quattro lunghissime composizioni viene fuori uno dei dischi più importanti di tutti i tempi, un'opera che, a quasi 50 anni dalla sua pubblicazione, affascina ancora per l’originalità e la profondità dei suoi contenuti. Non è per nulla facile la musica di questo mitico gruppo: richiede concentrazione e rispetto ma in cambio rilascia vibrazioni di altissimo profilo. C’era la magia nei Soft Machine, ma c’era anche la sperimentazione, la creatività, il coraggio, il pionierismo, una diffusa sensazione di intelligenza, quasi matematica. Qui è dove tutto è cominciato: Canterbury, il jazz rock, la fusion, l’avanguardia, il progressive rock. Qui è dove bisogna andare se si vuole ripercorrere in modo corretto ed esaustivo la storia della musica.

Gilgamesh – Gilgamesh


Gilgamesh – Gilgamesh

Agli inizi degli anni ’70, nel progressive rock, ci fu un momento di grande fermento creativo in grado di creare una scuola, una corrente di pensiero, uno stile che ha lasciato un’impronta importante del suo operato. Questa bellissima parentesi prese il nome di scuola di Canterbury e se ne parlo in questo blog è perché la caratteristica principale e distintiva delle band e degli artisti che facevano parte di quel gruppo era proprio l’affinità elettiva con il jazz e con la sperimentazione. Ovviamente qualcuno di questi musicisti era più orientato verso il rock, ma la maggior parte di essi suonavano, componevano e creavano con un spirito davvero molto vicino al jazz. I Gilgamesh furono uno dei migliori esempi della corrente canterburiana: era il 1975 quando la band ci consegnava l'esordio omonimo, fotografia di un gran bel gruppo, emerso quando la scena britannica della piccola città del Kent stava volgendo al termine. L'album del quartetto del tastierista Alan Gowen,  che comprendeva in quel momento anche il chitarrista Phil Lee, il bassista Jeff Clyne e il batterista Mike Travis, fu pubblicato dalla Virgin Records. Verso la metà degli anni '70, il sostegno dell’etichetta Virgin alle band di questo tipo stava per finire, anche perchè ormai il punk e poi la new wave erano prossimi a sconvolgere il mercato discografico. Arrivati dunque in ritardo rispetto al momento clou della scuola di Canterbury, Gowen e compagni avevano connotati  simili al super gruppo Hatfield & The North, e in effetti proprio Dave Stewart, il tastierista degli Hatfields, ha co-prodotto questo album. I Gilgamesh avevano perfettamente assorbito la filosofia musicale degli Hatfields e delle loro lunghe suite così come la complessità dell’approccio di Canterbury più in generale. Al contempo la band non era una mera e palese emulazione ma anzi, oltre a proporre una sua personale via, era anche portatrice di un benemerito recupero di quanto fatto ad esempio dai troppo spesso dimenticati Soft Machine. Sicuramente fin dalle prime note di apertura della complessa suite in tre parti "One End More / Phil's Little Dance / Worlds of Zin", i Gilgamesh si dimostrano capaci di agili linee musicali e intricate armonie, pur astenendosi in modo ammirevole da un eccesso di tecnicismo. Inevitabilmente si sentono echi di progressive alla King Crimson con tanto di pianoforte a coda (cit. Keith Tippett su Lizard) e di mellotron. Ma ci sono anche contaminazioni jazz funk suggerite dall’uso del clavinet ed un sentore generale di jazz, poiché non mancano lunghi assoli e una dose d’improvvisazione. Tuttavia una produzione uniforme ed attenta attenua queste eccentriche contrapposizioni, mettendo in risalto la chiarissima appartenenza alla mitica corrente canterburiana. "Lady and Friend" mostra un’atmosfera diversa e molto più rarefatta dove inizialmente il basso di Clyne, simile a una ninna nanna, viene accompagnato da un leggero piano elettrico e dalla chitarra, per poi diventare una sorta di lenta ballata corale. "Arriving Twice" di Gowen è un meraviglioso intermezzo di meno di due minuti: chitarra acustica, pianoforte elettrico e synth delineano una melodia che si ispira al jazz, al folk e al classico ma che alla fine trascende tutte queste etichette. Dove il jazz elettrico si fa più evidente è la prima parte di un’altra lunga suite in tre sezioni intitolata "Island Of Rhodes / Paper Boat / As If Your Eyes Were Open". Il piano elettrico fluttua liquido in un universo notturno che ricorda In A Silent Way così come fa la chitarra elettrica. Il brano si anima progressivamente in una spirale sonora molto intrigante e va infine a compiersi su ritmi più sostenuti dando libero sfogo all’improvvisazione di un ispirato Phil Lee. Un susseguirsi di colpi di scena musicali imprevedibili, che creano un grande pathos. L'album ogni tanto indulge sui suoni cari agli Hatfields di Rotter’s Club, ad esempio in "Jamo and Other Boating Disasters" che presenta la voce da soprano di Amanda Parsons in puro stile Northettes. Resta comunque diffusa una forte sensazione di jazz rock, di raffinatezza e di ottima perizia tecnica.  In realtà è lo stesso Alan Gowen che evita la trappola di una eccessiva replica del Canterbury Sound, non abusando dell’organo Hammond carico di effetti in favore dell’uso più massiccio di sintetizzatori dai suoni sinuosi e avvolgenti e del piano elettrico. Insomma si preferisce accarezzare l’ascoltatore invece di colpirlo con le sonorità più acide. Il progetto Gilgamesh durò per un breve periodo di circa 3 anni e produsse due soli album, il secondo dei quali, altrettanto interessante, uscì nel 1978. Presto il gruppo si sciolse, in parte anche a causa dei profondi cambiamenti nelle tendenze musicali e del contemporaneo declino anche dell’epopea della scena di Canterbury. Il movimento canterburiano fu per una decina d’anni un fenomeno unico ed irripetibile all’interno del più vasto mondo del progressive rock. Un collettivo formato da un relativamente ristretto gruppo di musicisti che, collaborando tra loro, sperimentarono, innovarono, crearono qualcosa di nuovo ed originalissimo. Nomi come Soft Machine, Hatfield & The North, Henry Cow, National Health, Matching Mole, Isotope e ovviamente Gilgamesh hanno scritto una pagina indimenticabile nella storia della musica moderna, esplorando una via assolutamente unica per miscelare il rock con il jazz.

Steve Hobbs – Tribute To Bobby


Steve Hobbs – Tribute To Bobby

Il vibrafono e la marimba sono due strumenti particolari che non possono certo essere annoverati come popolari e diffusi. L’eccezione è costituita dal jazz, il genere musicale che nel corso degli anni ha visto l’utilizzo sia dell’uno che dell’altra, sia pure sempre in misura minore degli altri strumenti classici.  Per questa ragione è sempre un piacere constatare l’uscita sul mercato discografico di nuovi lavori che mettono al centro queste affascinanti percussioni. Steve Hobbs è uno dei migliori vibrafonisti emersi in ambito jazzistico a partire dagli anni ‘90: recentemente ha pubblicato il suo ultimo album, il terzo con lo stesso quartetto che lo ha affiancato anche nei precedenti due dischi. Tribute To Bobby è un omaggio al grandissimo Bobby Hutcherson (ovviamente un vibrafonista) che è uno dei punti di riferimento stilistici più importanti per Hobbs e non solo per lui. E’ un lavoro pieno di composizioni vivaci ed interessanti, quasi tutte scritte dallo stesso Steve, il quale è peraltro uno specialista della marimba, cosa evidenziata dall’uso massiccio di questo strumento nelle sue performance. L'apertura del cd è riservata a "The Craving Phenomenon" un esempio della leggerezza del tocco del leader, in un brano arioso e piacevole dove Hobbs è impegnato proprio alla marimba. "Into The Storm" è un pezzo intricato, giocato in velocità su un ritmo 5/4 in cui Steve passa al vibrafono. Lo standard "Besame Mucho" rallenta un pò il passo pur mantenendo vivacità e brio su un pezzo molto noto al pubblico che qui assume contorni inaspettati. Bello l’assolo di piano di Bill O'Connell. Un sentore di Coltrane si manifesta in "New Creation" dove ovviamente è il sax tenore muscolare di Adam Kolker a fornire credito a questo bel groove in pieno stile hard bop. "Tres Vias" è caratterizzato da tre sezioni distinte ma fuse in un unico fascinoso brano, con la spettacolare marimba di Hobbs in primo piano all’inizio, seguita da Kolker al sax soprano ed infine da O'Connell al piano. Non manca un pezzo con una ritmica più contemporanea, influenzata dal funk e dal rock: Thelonius Funk ha qualche somiglianza con certe composizioni di Frank Zappa nel periodo in cui sperimentò metriche musicali complesse impiegando, con grande efficacia, Ruth Underwood alla marimba. "The Road To Happy Destiny" è una melodia allegra dal sound ispirato direttamente dal gospel classico con tre cantanti ospiti e arricchita da un bel  passaggio scat di Marvin Thorne, a cui fa seguito un vivace assolo di Hobbs al vibrafono. Ad una canzone popolarissima come "Blowing In The Wind" di Bob Dylan è offerto un trattamento delicato e rispettoso, con lo stesso Steve Hobbs in evidenza sul suo vibrafono in una cover dal sapore jazzistico che valorizza al meglio il classico della musica pop americana. "El Sueno De Horace Silver" ("Il sogno di Horace Silver") è un bellissimo omaggio al grande pianista, tinto di latino, sobriamente ricordato anche nello stile stesso della composizione. "In From The Storm", è il secondo e ultimo brano che vede ospiti i vocalist, ed è una lussureggiante bossa nova con Hobbs nuovamente impegnato al vibrafono: molto intrigante. Il tema della classica ballata viene affrontato dal vibrafono di Steve nel suo originale intitolato "Millie",che regala momenti di delicatezza e relax grazie anche ad uno splendido assolo di piano di Bill O’Connell. Non poteva mancare un numero costruito sul calypso, "Let's Go To Abaco!" anche in questo caso interpretato con leggerezza e una piacevole orecchiabilità. Il set si conclude con lo standard di Rodgers&Hart "Where Or When" uno dei classici americani più eseguiti nel jazz: Hobbs la rivede con un ritmo piuttosto veloce, dandone una lettura molto frizzante. Adam Kolker ai sax, Bill O’Connell al piano  Peter Washington al contrabbasso e John Riley alla batteria compongono il quartetto che accompagna ormai da molto tempo il vibrafono e la marimba di Steve Hobbs. E’ un insieme di musicisti che lavorano in perfetta sinergia che costruiscono le basi perfette per il solismo sobrio ed elegante del leader, in quale si distingue per una tecnica ineccepibile ed una felice scelta anche a livello di repertorio e di composizioni originali. Come detto e come inequivocabilmente suggerisce il titolo, questo CD è un tributo ad uno dei più grandi tra i virtuosi del vibrafono: Bobby Hutcherson. I suoi settantacinque minuti sono una miniera di pezzi interessanti, eseguiti con perizia e trasporto nel rispetto della migliore tradizione jazz e solo qualche timida e non invasiva concessione alla contaminazione con altri generi. Il fatto che Hobbs collochi la marimba al centro di questo progetto, in particolare in un contesto da solista, rende l’album particolarmente interessante. Al di là di quanto il singolo possa o meno essere appassionato di vibrafono, Tribute To Bobby è un lavoro piacevole e molto vivace in grado di soddisfare pienamente l’ascoltatore.

Alfa Mist - Antiphon


Alfa Mist - Antiphon

Le nuove frontiere della musica contemporanea aprono scenari interessanti nell’evoluzione del movimento jazzistico soprattutto grazie all’opera di alcuni giovani artisti che stanno cercando una non facile strada tra il classicismo e i suoni più futuribili. Robert Glasper negli Stati Uniti è un esempio di queste nuove tendenze e Alfa Mist è il suo corrispettivo europeo. Non è facile tratteggiare la musica di questo musicista proveniente dal profondo East End londinese. La sua visione del jazz è strettamente legata alla metropoli londinese ed alle sue stimolanti e creative atmosfere notturne così come allo stile urban e all’hip-hop. Alpha Mist è cresciuto ed è maturato all’ombra della cultura underground di Londra, imparando l’arte del campionamento e andando alla scoperta di quei dischi in vinile dimenticati ma ricchi di spunti d’ispirazione. Per un artista attento e curioso come lui non è stato certo difficile prendere familiarità con tutti gli stili che formano l’universo variegato della black music, jazz compreso. Non sorprende quindi che il dj e tastierista londinese sia finalmente approdato alla pubblicazione di un album, intitolato Antiphon, uscito nel marzo del 2017. L’enigmatico Alfa non avrebbe potuto esordire in un modo migliore di questo. Il lavoro miscela le atmosfere del jazz con i suoni urban e lo fa con uno stile impeccabile, sfociando in un risultato che suona affascinante e misterioso. Il primo brano "Keep On" ha una inusuale durata di 11 minuti e definisce, quasi anticipandolo, il sound e il groove principale di tutto l’album: ne cattura lo spirito e ci mostra la sua essenza. Ci sono morbide trame di piano elettrico, un intricato quanto efficace lavoro ritmico e non mancano gli assoli di sassofono per sedurre l’ascoltatore fin dalle prime battute. Il pezzo lascia spazio all'improvvisazione ma evita con successo di diventare inutilmente tortuoso, è come se ogni tassello del mosaico fosse inserito nel quadro esattamente come dovrebbe. Antiphon è probabilmente questo: fluido ma concentrato, una catarsi sottile ma intensa. Prendiamo ad esempio il successivo "Potential": le melodie arpeggiate dalla chitarra e le parti vocali quasi oniriche si aggiungono ad un'atmosfera meravigliosamente inquietante. Ruota e si avvita su se stesso, il suo ritmo frenetico diventa quasi paranoico e privo di controllo, prima di ridiscendere verso uno stato di serenità. La struttura di base di tutti i brani di questo disco è fornita dall’organo e dal piano elettrico di Alfa coadiuvato da una ritmica eccezionale. Non è certo quella che conosciamo essere la tipica formula del jazz ma il sound di Alpha è pieno di gusto ed intelligenza nel quale gli appassionati percepiranno un senso di appartenenza. "Errors" e "Nucleus" sono altri due buoni esempi di come il jazz possa essere reinventato in chiave contemporanea senza snaturarne i valori principali: gli assoli, le armonie, i guizzi di piano, della chitarra elettrica o del sax suonano familiari dentro ad un contesto lunare e rarefatto di estrema bellezza. In altri momenti dell’album si torna al rap, come in "7th October", anche in questo caso con ottimi risultati, mentre la stupenda "Kyoki" ci riporta ad atmosfere da jazz-rock anni ’70, quasi Canterbury Style (per chi li conosce intendo National Health, Hatfield And The North, Gilgamesh, ecc.) Per la verità Alfa Mist aveva precedentemente pubblicato due EP intitolati Nocturne e Epoch, nei quali era già possibile apprezzare sia le sue qualità di pianista e tastierista che la sua particolare predilezione per inserire dei cantanti in veste di ospiti. Il pianista sembra inoltre avere una curiosa attitudine nel legare le sue opere a situazioni e narrazioni di tipo concettuale. Alfa Mist riesce comunque nell’intento di unire le atmosfere oscure ed estremamente originali del suo jazz non jazz con la passione per la sperimentazione. Si tratta di quel genere di ardite e modernissime contaminazioni che sono il fondamento della scena jazz britannica contemporanea: va riconosciuto che, come è già successo in passato per altri generi, ancora una volta dalla Gran Bretagna arrivano le più nuove e stimolanti tra le tendenze della musica. Alfa dice di aver “scoperto” il jazz proprio mentre cercava nuove sonorità da campionare per creare delle basi Hip Hop. E’ in quel momento che è nata in lui l’idea di fondere i due stili, ripetendo per la verità un’operazione non nuova, ma realizzandola in un modo assolutamente inedito e vincente. La bellezza ed il fascino del progetto Antiphon scaturiscono anche grazie al fatto che Alfa è un musicista che conosce benissimo sia il jazz che l’urban hip hop: di fatto nonostante le enormi differenze che sono alla base dei due generi egli è in grado di fonderli magnificamente. Alfa Mist pone più spesso l’accento sulla diversità che sulle poche analogie, arrivando a produrre un contrasto che, analogamente a quanto fatto da Robert Glasper, suona come il jazz del futuro. Antiphon contiene, come tutti gli album, dei momenti salienti, degli highlights, ma forse la sua magia si esprime al meglio quando viene ascoltato nella sua interezza. E’ un lavoro ambizioso che cattura un momento decisivo per Alfa Mist sia a livello musicale che sul piano personale: rappresenta un enorme salto per questo giovane e promettente artista. La speranza è che sia solo il primo passo verso una carriera in continua ascesa. Probabilmente questa è la strada che condurrà il jazz verso nuovi e come sempre insondabili orizzonti.

Level 42 – The Early Tapes (Strategy)


Level 42 – The Early Tapes (Strategy)

Prima di diventare autentiche superstar del pop britannico, i Level 42 erano un gruppo jazz funk composto da quattro ragazzi inglesi fortemente influenzati da artisti come Stanley Clarke, Herbie Hancock o la Mahavishnu Orchestra. Negli anni ’80 la band ha poi avuto un successo fenomenale in Inghilterra, pubblicando una serie di album entrati nella Top Ten e alcuni singoli di grandissimo riscontro commerciale, che portarono i Level 42 ad una certa popolarità anche negli negli Stati Uniti e nel resto del mondo (Italia compresa). "Lessons in Love", “Running In the Family” e "Something About You" sono tre esempi che penso siano noti praticamente a tutti. Una bella favola: dallo scantinato del negozio di tappeti dove mossero i primi passi alla ribalta internazionale. Ma il successo dei Level 42 non è frutto di un colpo di fortuna repentino, arrivato da un giorno all'altro. Dietro c’è molta gavetta, ci sono moltissimi spettacoli dal vivo e tanto studio: cose che hanno fruttato inizialmente il plauso della critica, e poi finalmente, nel 1980, un ingaggio per l'etichetta indipendente Elite di Andy Sojka. Con la Elite i Level hanno pubblicato i primi due singoli "Love Meeting Love" e "Wings of Love", entrambi diventati hit nei club britannici prima di entrare nelle pop chart del Regno Unito, con un riscontro tutto sommato modesto. Nell’album di debutto della band sono ovviamente presenti entrambe i brani: era il 1980 ed il titolo designato fu “Strategy” ma il disco è noto al pubblico con il titolo di The Early Tapes. (Che è quello attribuito all’opera dopo il passaggio dei Level 42 all’etichetta Polidor). Ovviamente oltre alle due canzoni di successo questo lavoro fu  arricchito da altri sei pezzi di matrice jazz-funk in minima parte influenzati da echi di disco music. Registrato a Londra, Strategy è una perfetta vetrina per le straordinarie capacità strumentali dei membri della band. La tecnica del basso slap di Mark King è la spina dorsale del suono dei Level 42, ma anche gli altri membri della band hanno l'opportunità di brillare. Il batterista Phil Gould ad esempio occupa un posto di primo piano nell’architettura musicale del gruppo e Mike Lindup contribuisce con un mirabile lavoro di tastiere a sostenere l’impalcatura sonora, avventurandosi spesso anche in notevoli assoli. The Early Tapes vede anche la presenza del sassofonista Dave Chambers e del percussionista Leroy Williams, così come quella del tastierista Wally Badarou, che diventerà di fatto il "quinto membro" non ufficiale della band: suonerà in ogni album dei Level 42 pubblicato. C’è da sottolineare che i Level 42 nascono come una band strumentale, e solo in seguito si sono convinti (forzati anche dai produttori) dell'importanza di aggiungere il cantato al fine di poter raggiungere un minimo successo commerciale. Le voci che si possono ascoltare su questo album sono poco più che provvisorie ed infatti tre sole tracce  sono cantate. Mark King all’epoca non si sentiva ancora sicuro come cantante, ma anche lo stile canoro in falsetto di cui era capace Mike Lindup era molto approssimativo nelle prime fasi della carriera della band. Ciò nonostante il loro contributo è accettabilissimo e di certo rende "Love Meeting Love", "Wings of Love" e "Autumn" maggiormente fruibili di quanto non siano gli altri brani, tutti spigolosamente strumentali. “Sandstorm”, “Mr. Pink” o “88” sono tutti esempi di quel funky jazz che rappresentava perfettamente la firma musicale dei Level 42 degli esordi: ritmo serrato, il basso slap di Mark King in evidenza e le tastiere di Mike Lindup a comandare il gioco. Da un certo punto di vista The Early Tapes  ha un impatto sonoro non particolarmente vario,  poiché tutti i brani sono orientati proprio verso un funk funambolico che alla lunga può anche risultare ripetitivo. Tuttavia il quadro complessivo è pur sempre impressionante e delinea chiaramente quello che sarà per gli anni a venire il sound dei Level 42. Questo debutto è ancora acerbo ed il meglio della loro produzione arriverà in seguito ma è un ascolto comunque interessante e ricco di spunti, in quanto mostra la band nelle primissime fasi della sua esistenza, impegnata con un sound eccitante, vibrante e molto genuino. Per un breve, brillante momento all'inizio degli anni '80, i Level 42 furono underground ma all'avanguardia. Erano davvero degli outsiders: a differenza degli altri gruppi del periodo storico mostravano una totale indifferenza alle mode ed al fashion, suonavano groove piuttosto duri e avevano in Mark King e Mike Lindup, una combinata di cantanti non convenzionale. Esibivano in compenso una perizia tecnica ed una virtuosità totalmente sconosciuta alle band che dominavano la scena e solo verso la fine del 1983, con l’uscita di Standing In The Light, cominciarono ad ammorbidirsi un po’, orientando la loro musica sulla rotta di un pop più commerciale. Le fonti d’ispirazione dei Level 42 erano chiare e manifeste ed i membri della band si prodigarono con entusiasmo e gioia per trasmettere il retaggio del jazz-rock e del funk ai giovani degli anni ‘80. Arrivò anche per loro un grande e duraturo successo, ma i Level 42 non tornarono mai più ad essere così pionieristici come è possibile ascoltare in queste primissime registrazioni ufficiali. Strategy (aka The Early Tapes), pur con le sue debolezze di gioventù, è ancora fresco e vitale dopo 38 anni. Dopo tutto già così è un gran risultato.

Rebirth – This Journey In


Rebirth – This Journey In

Ho una passione mai nascosta per quello che viene definito Acid Jazz: un marchio coniato da un dj londinese (Gilles Peterson) che definisce in due parole alcuni stili e varianti sul tema del jazz. E’ il classico termine che vuol dire tutto e in realtà significa poco, ma che sintetizza bene un movimento che a metà degli anni ’80 venne alla ribalta con un’inedita miscela di  funk, rock psichedelico, rare grooves della musica black e jazz elettrico, ma anche e forse soprattutto, soul e r&b. The Rebirth, sono un gruppo che, pur essendo nato molto tempo dopo, rientra a pieno titolo nell’orbita concettuale dell’acid jazz. I Rebirth fanno base a Los Angeles, e sono composti dal tastierista Carlos "Loslito" Guaico, dalla cantante Noelle Scaggs, dal batterista Chris Taylor, dal chitarrista Patrick Bailey, dal bassista Gregory Malone, dal percussionista Raul Gonzalez e dal tastierista Mark Cross. Il gruppo si è guadagnato un’ottima fama nel circuito underground con le esibizioni dal vivo e prestando alcune singole registrazioni a varie compilation tematiche. Finalmente, nel 2005, la band californiana ha pubblicato il primo e ad oggi insuperato album intitolato “This Journey In” attirando così immediatamente una maggiore attenzione da parte del grande pubblico ed anche della critica. Il suono dei Rebirth cavalca gagliardamente il confine tra soul e acid jazz e si va a collocare in quella cerchia che comprende gruppi storici come gli Incognito, i Brand New Havies o i Soul II Soul. “This Journey In” fu un debutto internazionale di grande spessore ma anche di inusuale maturità e compiutezza. Mostrò al mondo una nuova band ricchissima di talento ed in prospettiva con un grande futuro. La scelta della strumentazione così come gli arrangiamenti sono perfetti, e i Rebirth possono avvalersi inoltre della attraente voce di Noelle Scaggs.  This Journey In ci regala un lavoro che suona tanto funky quanto è brillantemente piacevole, senza punti deboli o scadimenti di tono. La qualità del materiale originale è impressionante, specialmente nella prima parte del disco, che è davvero ricca di brani accattivanti e musicalmente sofisticati come ad esempio “This Journey In”, "Stray Away" e il martellante "Shake It". Da citare anche "Common Ends", una traccia che parla delle esperienze della vita che uniscono le persone e il funky-disco di ispirazione brasiliana "Talking Me Down". Una nota particolare merita anche la loro acclamata cover di “Evil Vibrations” dei The Mighty Ryeders. I testi sono intelligenti, gli arrangiamenti come detto sono creativi e tutto l’album è letteralmente pervaso da un groove irresistibile, al cospetto del quale gli amanti dell’acid jazz non possono di sicuro restare indifferenti, ma che potrebbe senza dubbio piacere ad una ben più vasta platea di ascoltatori. La perfetta alchimia di suoni vintage, compreso l’immancabile piano elettrico Rhodes, i synth e i moog, le linee di basso pulsanti e vivacissime e la batteria potente e precisa creano una combinazione che rende questo lavoro uno dei migliori album soul degli ultimi anni. I Rebirth mettono insieme la loro grande vitalità musicale con la lucida poesia dei loro testi ed un solido songwriting, creando un suono ricco e pieno, vario e trascinante, costruito su una miscela organica di soul nuovo e tradizionale, hip-hop, jazz, e funk. Negli anni seguenti purtroppo I Rebirth non sono stati in grado di ripetersi su questi livelli e oggi possiamo dire che “This Journey In” è rimasto uno stupendo esordio rimasto praticamente senza seguito. Tuttavia questo è un album caldamente raccomandato.

Don Grolnick - Hearts And Numbers


Don Grolnick - Hearts And Numbers

Don Grolnick è uno di quei musicisti che godono della stima incondizionata da parte dei colleghi, soprattutto di quelli più famosi e rinomati. Tuttavia non ha mai avuto un grande seguito tra il pubblico, sia pure in quello circoscritto e sempre attento del jazz. Questo è un vero peccato perché Grolnick è stato un ottimo pianista e un geniale compositore, ma anche un innovatore ed in qualche misura un pioniere delle tendenze più moderne del jazz. Un male incurabile lo ha sottratto al mondo a soli 48 anni, con appena 4 album all’attivo.  Per queste ragioni meriterebbe una più vasta fama e maggiore riconoscimento a livello globale. La storia di Don Grolnick nasce a Brooklyn, ma in realtà lui è cresciuto a Levittown, in California, e fin da ragazzo ha vissuto immerso nel jazz. Ha frequentato la Tufts University e nel 1971 è entrato a far parte dei Dreams, una band jazz-rock che includeva musicisti emergenti che poi diventeranno star come il sassofonista Michael Brecker, il trombettista Randy Brecker e il batterista Billy Cobham. (e vorrei sottolineare i nomi appena citati). Per tutti gli anni '70 e all'inizio degli anni '80, è stato un musicista di punta a New York, dove oltre a suonare jazz nei locali top della metropoli ha avuto modo di collaborare ad album di artisti pop come "Streetlights" di Bonnie Raitt, "What's New" di Linda Ronstadt e a due capolavori senza tempo come "Royal Scam" e "Aja" degli Steely Dan. Tra i suoi progetti non vanno dimenticati i gruppi fusion, come gli Steps Ahead e i Brecker Brothers che si sono largamente avvalsi delle sue sofisticate composizioni oltre che della sua bravura come tastierista. Don Grolnick debuttò a livello discografico nel 1985 con "Hearts and Numbers" e dalla fine degli anni '80 iniziò a concentrarsi maggiormente sul jazz. Questo album ha avuto notevole influenza su tutta la musica fusion degli anni ottanta e novanta e rappresenta molto bene la creatività di Don e la sua capacità di comporre brani complicati e spiazzanti, costruiti in modo ardito e basati su progressioni armoniche e ritmiche del tutto originali. Pur essendo catalogabile sotto il genere fusion, è ben chiara una forte componente jazzistica in tutta l’architettura sonora degli otto brani che compongono l'album: sono stati tutti scritti da Don Grolnick, che non a caso  era molto stimato anche e soprattutto come compositore. Sono composizioni che sanno mettere a profitto i sofisticati progressi che l'armonia stava compiendo in quegli anni, con utilizzo di alchimie musicali intricate che assimilavano suggestioni anche da generi estranei al tradizionale percorso jazzistico. A questo si aggiunga un utilizzo molto raffinato delle ritmiche, con un uso massivo dei tempi dispari e molte variazioni sul tema. Pointing At The Moon in apertura di album è immediatamente la testimonianza di una straordinaria inventiva: l’atmosfera è rarefatta, molto particolare e si distinguono sia Michael Brecker ed il suo sax che la bella chitarra elettrica di Jeff Mironov. More Pointing riprende là dove era finito il precedente brano, ma qui tutto è giocato in un sottile dialogo tra sax e tastiere a creare qualcosa di indefinibile e liquido dove spicca la grande capacità esecutiva di Michael Brecker. Pools è segnata da un ritmo strano e frammentato, in perenne movimento tra la ballata e il medio tempo: questo è probabilmente uno dei brani più belli in assoluto di Don che ci regala da par suo un assolo di pianoforte meraviglioso. Da sottolineare anche il lavoro di Will Lee al basso e il drumming vivace di un grande Peter Erskine. Regrets è una vera e propria ballata jazz dai toni molto crepuscolari e malinconici con la presenza alla chitarra di Bob Mann e un languido assolo di sax di Brecker, senza dubbio il mattatore di questo album. Delicatissimo e raffinato il piano di Grolnick, mette in risalto la qualità della partitura. The Four Sleepers vanta la presenza di Marcus Miller al basso e nuovamente Jeff Mironov alla chitarra elettrica. La melodia è bellissima ed avvolgente con i synth di Don Grolnick che abbracciano letteralmente l’ascoltatore conducendolo in un percorso lunare e decisamente onirico. A riportare il tenore del disco in acque musicalmente più agitate ci pensa Human Bites, una sorta di be bop fusion furiosamente scandito da ben due batteristi: un Peter Erskine in gran forma ed un formidabile Steve Jordan. A tenere alta la tensione emotiva del brano ci pensa la chitarra elettrica del sempre originale Hiram Bullock. Act Natural si distingue dagli altri pezzi per l’uso dei synth molto più massiccio, ma non certo per la qualità della composizione che si mantiene sempre su livelli elevati con un risultato finale estremamente godibile nel contesto di una fusion molto raffinata. Chiude i giochi Hearts And Numbers suonata da Grolnick in perfetta solitudine pennellando armonia e melodia con il pianoforte acustico ed i synth. Sono tre minuti di puro godimento e beatitudine musicale. Tutti i musicisti qui impegnati, ognuno dei quali è una stella del firmamento jazzistico contemporaneo, sono straordinari sia nelle parti scritte sia nelle ottime improvvisazioni, e riescono a rendere il tutto fluido e scorrevole, anche se indubbiamente Hearts And Numbers non può certo essere considerato un’opera di facile lettura. Si tratta di una fusion geniale ed elaborata, perfino sorprendente se paragonata con quello che ci si aspetta da questo genere. E’ qualcosa di indefinibile che sta tra i Weather Report e gli Steps Ahead, tra la new age ed il be bop senza mai scadere nel kitsch o nel banale. E il frutto maturo del talento di un grandissimo musicista che solo una gravissima malattia ha sottratto ad una carriera che, ne sono sicuro, avrebbe potuto regalare molte altre gemme di questo livello, sia nel jazz che nella fusion. Respect.

Kennedy Administration - Kennedy Administration


Kennedy Administration - Kennedy Administration

Capita ogni tanto di imbattersi in modo del tutto casuale in qualche nuova proposta musicale e restarne immediatamente conquistati. E’ il caso di questi Kennedy Administration, che fin dal primo ascolto (avvenuto come spesso succede su Youtube) hanno catturato la mia attenzione, spingendomi ad una analisi più approfondita del loro primo album, fresco di pubblicazione. Energici, gioiosi, brillanti, ma eleganti e raffinati quanto basta i "Kennedy Administration" propongono una miscela di funk e soul alla quale è molto difficile resistere. Per ben tre anni la band ha affinato il suo sound esibendosi quasi quotidianamente nel loro locale di riferimento a New York: il Groove di Brooklyn. Una parte determinante della loro riuscitissima formula musicale è la presenza scenica della formidabile cantante che porta il nome della band, Ms Kennedy, che con la sua affascinante voce caratterizza e marchia in modo molto personale l’impatto sugli ascoltatori. Dunque, dopo aver forgiato un proprio suono e un'identità ben precisa, Kennedy Administration è oggi una realtà in grado di proporre dei contenuti musicali moderni in un contesto profondamente soul, giudiziosamente miscelato con elementi di jazz, R & B, hip-hop e pop con qualche palese richiamo ai suoni vintage della disco. Il batterista Nat Townsley, il bassista Chelton Gray, il tastierista Ondre J e il chitarrista Vin Landolfi creano le fondamenta solide sulle quali far esprimere al meglio la contagiosa passione e la carica positiva di una bella voce contemporanea come quella di Ms Kennedy, un’ulteriore degna rappresentante della tradizione vocale soul afro-americana. Già dal brano d’apertura il quadro si delinea chiaramente: groove soul e funk sono il cuore di "It’s Over Now", la canzone che è uscita in anteprima anticipando la pubblicazione di questo album omonimo dei Kennedy Administration. La melodia cattura subito, quasi come un classico degli anni ’80: c’è un sottile filo conduttore che rimanda al passato con i piedi ben piantati nel presente. Il disco è realmente suonato, senza campionamenti o altre diavolerie elettroniche: suona fresco e genuino, alla stregua di un concerto dal vivo. Ci sono brillanti canzoni scritte dagli stessi Kennedy Administration ma anche un paio di classici rivisti e reinterpretati come "Let’s Stay Together" di Al Green e "Will It Go Round in Circles" di Billy Preston che sono tanto sorprendenti quanto inaspettati. I Kennedy ne danno una lettura davvero molto convincente. La voce di Ms Kennedy è straordinariamente chiara, priva di inutili tecnicismi ma piena di espressività e ricca di precisione. Una voce che scorre su un potente, dinamico sound dalle sfumature funk  e in qualche misura vicino anche al jazz, reinterpretato in chiave contemporanea. Gli originali della band sono ugualmente una piacevole sorpresa per varietà e originalità anche negli arrangiamenti, davvero mai banali: questo è un album che ispira simpatia e spinge al sorriso ed al relax pur mantenendo una vibrante tendenza al groove ed al movimento.  Molto bello 'Do not Forget To Smile' con ospite Gregoire Maret all’armonica. Trascinante anche 'Let's Party' che ha un piglio da vecchia scuola disco d'inizio anni '80. Notevole poi la particolare "Let Go"  che è inframmezzata da una parte rap ed è un pò nello stile degli Elements Of Life. Il parallelo con dei mostri sacri come Rufus & Chaka Khan appare a questo punto non troppo azzardato. Il carattere stesso della band risulta essere particolarmente vicino a quello del popolare gruppo della straordinaria Chaka. I Kennedy Administration possiedono quel vibrante suono Soul / Jazz-Funk che solo una vera band può restituire pienamente. Guidati dalla bella voce di una grande cantante come Ms Kennedy, ma supportati anche dal valore di musicisti di livello come sono i membri stessi della band, il gruppo si avvale della collaborazione di molti altri strumentisti e di una bella sezione fiati e in alcuni brani anche degli archi. Non a caso gli arrangiamenti sono uno dei punti di forza di questa produzione. Al debutto assoluto sul mercato discografico la band ha composto e suonato otto bellissime composizioni originali ed inserito due cover  davvero eccezionali, portando una nuova dimensione ed una inedita energia a questi classici. Nel complesso un ottimo album che ci consente di apprezzare la nascita di un nuovo talentuoso gruppo funky-soul.

Point Blank – Soul Stream


Point Blank – Soul Stream

Immaginate il Jazz, l’R&B ed il Funk intrecciati in una miscela ricca di groove e passione: queste sono le basi sulle quali è stato costruito il nuovo album dei Point Blank, intitolato Soul Stream. La band stessa si è così espressa per sintetizzare il significato del nuovo lavoro: "Soul Stream è un viaggio nello spirito dell'ascoltatore che parte dall'introspezione per arrivare a qualcosa che si colloca anche oltre, in un viaggio nell’anima dell’ascoltatore”. Questa raccolta di brani cattura l'immaginazione con delle idee musicali che accarezzano i sentimenti per librarsi poi anche più in alto. Quasi come se questi musicisti di Philadelphia avessero trovato il modo di amplificare le sensazioni e le emozioni del pubblico con un flusso sonoro in grado di avvolgere completamente l’ascoltatore. Point Blank è un collettivo di musicisti che mette insieme i suoni strumentali della tradizione jazzistica con le accattivanti atmosfere degli altri sotto generi della black music. Dorden Bivings è il leader, cantante e tastierista, Juan "Cuco" Castellanos è alle percussioni, Gerald Chavis alla tromba e Jerry Blake al sax. Steve Pratt alla chitarra, Winnie Ferguson al basso, Zack Stevens alle tastiere e Kerry Little alla batteria. Sono tutti musicisti provenienti dall’area di Philadelphia e tutti specializzati nello stile più contemporaneo del jazz. Ognuno di loro ha  girato il mondo al seguito di artisti del calibro di Harold Melvin e Blue Notes, The Manhattans, The Temptations, The Ray Charles Orchestra, BB King e la US Army Jazz Band. Quando non si esibiscono dal vivo o non registrano per Point Blank, i membri della band lavorano come musicisti di studio e come insegnanti privati. Su Soul Stream, i Point Blank includono anche un brano composto da Michael Jackson intitolato Heartbreak Hotel, una delle canzoni più sottovalutate della star del pop. Overflow, è stato scritto da Dorden Bivings che si esibisce anche alle tastiere ed è arricchito da un gran lavoro di sax  di Jerry Blake e di Gerald Chavis alla tromba. L’album è molto eterogeneo e al suo interno ci sono anche canzoni melodiche come Melancholy, accattivante e piacevole. Soul Stream è una piccola gemma con oltre sessanta minuti di buona musica  che colpisce al cuore e resta scolpita nei ricordi. C’è anche una commovente dedica all’ex membro della band Paul Lee, intitolata "Passionate Love (Paul's Tune). E’ un brano di fatto composto dal compianto Paul ma mai completato, che il gruppo ha lasciato nella sua forma originale come testimonianza diretta dell’amico e collega scomparso. Il disco ricorda il jazz-funk della vecchia scuola degli anni ’70, con una combinazione vincente di buon jazz e soul, r&b funk. Si tratta di brani diretti e privi di inutili orpelli o appesantiti da un’inutile ridondanza di arrangiamenti. I Point Blank badano al sodo, puntano tutto sulla musica nella sua essenza: buoni temi, tante idee, molti assoli e molto groove. E’ senza dubbio una delle cose migliori uscite da Philadelphia negli ultimi anni e rappresenta anche una proposta davvero interessante in assoluto. I Point Blank ci regalano un bellissimo viaggio nel talento musicale, proposto da un gruppo di musicisti esperti ma ancora pieni di entusiasmo. Se amate l’acid jazz e se siete nostalgici dei suoni vintage dei mitici seventies, non potete farvi scappare un album come Soul Stream.

Vance Taylor – Long Overdue


Vance Taylor – Long Overdue

Il tastierista Vance Taylor ha avuto fin da giovane l’idea fissa di intraprendere la carriera musicale. Decise che il pianoforte sarebbe diventato il suo strumento elettivo e decise in seguito di frequentare le lezioni di musica presso le università Emory e Mercer. I suoi genitori, riconoscendo il suo talento, hanno sempre incoraggiato le scelte di Vance, inserendolo anche nella comunità religiosa di Atlanta: la chiesa divenne così il suo primo palcoscenico. E’ proprio da queste esperienze giovanili che sono venute la carica spirituale e la determinazione che gli hanno permesso una precoce crescita artistica. All'età di tredici anni, Vance ha ricevuto in regalo il suo primo pianoforte sul quale ha avuto modo di esercitarsi molto intensamente, perfezionando così le sue già notevoli abilità naturali. In aggiunta alla sua passione, un suo parente gli fece conoscere musicisti (pianisti) come Oscar Peterson, Art Tatum e Erroll Garner. Ben presto Vance trovò la sua strada anche come risultato dell'ascolto intensivo di questi grandi del jazz. Nel 2008, dopo anni di gavetta, collaborazioni (Earth Wind & Fire su tutte), e tour in giro per il mondo, ha portato a compimento la realizzazione del suo primo progetto da solista intitolato "Long Overdue". Il CD include dieci brani molto ben arrangiati che fondono elementi di soul, jazz e funk. L’album di debutto di Vance Taylor è stato uno dei più interessanti usciti in quel periodo. Il lavoro, estremamente ben realizzato, è caldo, sensuale e positivo: caratterizzato da una forte predominanza della componente funk. Al primo ascolto, gli appassionati di musica si chiederaano "Ma dove è stato nascosto questo tizio fino ad oggi?"  Ma Taylor non è certo un nuovo arrivato, poiché ha suonato nell'ombra per artisti come Cece Winans, Candi Staton, George Howard e Toni Braxton, giusto per nominarne alcuni. Inoltre, Vance Taylor è un membro fisso dei Maze da quasi 10 anni. E poi c'è la militanza negli Earth Wind & Fire che non ha bisogno di ulteriori commenti: non si suona con i mostri sacri se non si è più che bravi. Una carriera da solista era quello che mancava per arrivare definitivamente alla ribalta e Vance, senza dubbio, è riuscito nell'intento di arrivare dritto alla meta con questo suo Long Overdue. Qui ci sono composizioni fresche e sufficientemente innovative, ricche di colori e cariche di un groove perfettamente in grado di invitare indifferentemente all’ascolto o al ballo. Ultimamente ho avuto modo di ascoltare parecchio smooth jazz di qualità, e posso dire che Vance Taylor appartiene di diritto alla categoria dei musicisti d'elite. Il suo stile eclettico e la sua sintesi di funk e jazz assomigliano a quello dell'ex membro dei Tower of Power, Roger Smith. Vance Taylor propone la sua semplice formula avvalendosi di ottimo materiale musicale, senza bisogno di grandi orpelli. Long Overdue è fatto di belle canzoni, ascoltando le quali risulta difficile trovare un punto debole. Tutto scorre con fluidità e precisione, senza storture o impuntamenti. L'album si apre con una versione molto raffinata del classico brano degli Stylistics, "People Make the World Go 'Round", e offre inoltre un altro brano non scritto direttamente da Taylor  intitolato "Dirty Old Man". Gli originali di Vance sono brillanti e non a caso hanno avuto un certo successo nelle radio specializzate. La presenza pianistica di Taylor è forte ed è il perfetto complemento di questi pezzi. Da notare poi il basso funky  magistralmente suonato da Jeff Smith e un significativo contributo di percussioni e batteria da parte dei bravi Marcus Williams, George "Spike" Nealy e Stacey "Quick" Ellis. Gli arrangiamenti di fiati, molto intensi, sono opera dello stesso Taylor con l’aiuto dei suoi synth, ma c’è da rilevare la presenza di un lavoro di gran classe operato da Larry Jackson e dai suoi sax. Brani come "See You in the Morning" o "Off Da Hook"  sono il miglior esempio di quanto interessante e stimolante possa essere un disco di smooth jazz se composto con intelligenza e creatività. Se il risultato è quello che tutti possiamo ascoltare su Long Overdue, il debutto da solista di Vance Taylor meritava una tanto lunga attesa. Adesso che lo abbiamo tra le mani, vale la pena di prendersi qualche minuto per assaporarsi con calma un ottimo esempio di smooth jazz nella sua migliore rappresentazione.