Rahsaan Roland Kirk – Kirk’s Work



Rahsaan Roland Kirk – Kirk’s Work

Rahsaan Roland Kirk è probabilmente il più particolare sassofono solista della storia del jazz, lui è stato un artista post-moderno ancora prima che quel termine venisse coniato. Kirk è entrato nel continuum della tradizione del jazz come portatore di un messaggio a se stante nell’approccio al suo strumento. Un musicista naif che non si è mai fatto alcuno scrupolo nel miscelare, combinare e sperimentare i vari elementi della tradizione afro-americana creando un risultato che suona del tutto naturale. Quando si parla di Roland Kirk, si rivolge sempre una grande attenzione nei confronti della sua innegabile eccentricità: una cosa piuttosto inevitabile vista la sua peculiare capacità, quasi clownesca, di suonare due o anche tre ance contemporaneamente. Tuttavia, il buon Roland era un artista serio ed estremamente creativo e da sassofonista padroneggiava una tecnica strumentale di livello superiore. E’ stato in grado di spaziare in tutti i vari filoni del jazz, dal Dixieland al Free con una spontanea ed innovativa creatività. In particolare va sottolineata la sua abilità nella costruzione degli assoli:  Kirk aveva un’innata capacità di galleggiare sulle armonie, stravolgerne la forma, ed elevare le sue improvvisazioni ad un livello straordinario. Nel corso delle sue ruggenti performance, quando sembrava che non potesse spostare la sua asticella ancora più in alto, era invece in grado di salire sempre più su. La vita di Kirk non è stata facile, nato con la vista, è diventato cieco all'età di due anni. Ma la sua passione per la musica è stata un motore potentissimo che lo ha spinto a suonare prima la tromba poi il clarinetto ed infine il sax. Ancora adolescente, ha scoperto il "Manzello" e lo "Stritch": il primo è una versione modificata del saxello, il secondo una variante anch’essa modificata del sax soprano. Sulla base di questi strani strumenti, Roland ha quindi operato i propri miglioramenti. Egli ha rimodellato tutti e tre i suoi sassofoni in modo che potessero essere suonati simultaneamente: questa metodologia di suono multiplo è ascoltabile fin dalla sua prima registrazione, un disco di R & B del 1956 intitolato Triple Threat. Nel 1963 ha infine introdotto la tecnica della respirazione circolare, una pratica che gli permetteva di suonare i suoi sax senza alcuna pausa per riprendere fiato. Kirk's Work, del 1961, è il terzo album di Rahsaan Roland Kirk, nel quale figura in veste di co-protagoista l'organista Jack McDuff. E' probabilmente il più espressivo e profondo tra i lavori post-bop del multistrumentista cieco. Caratterizzato  come è ovvio dal suo stile non ortodosso ci permette di apprezzare le ardite polifonie del sax tenore, del flauto, del manzello, e dello stritch. Sulla base di questi pressuposti,  Kirk's Work propone delle tessiture sonore uniche e delle sovrapposizioni tonali assolutamente straordinarie: Kirk crea la sua unica alchimia musicale suonando in contemporanea due e spesso addirittura tre ance contemporaneamente. Un perfetto veicolo per l’esuberanza di Kirk viene anche dal puntuale lavoro dell’organo Hammond di McDuff, che si presta magnificamente all’atmosfera soul profumata di r&b che si respira in tutto l'album. Completano il quartetto Joe Benjamin (basso) e Art Taylor (batteria), entrambi jazzisti veterani di grandissima esperienza e grande tecnica individuale. Non a caso nasce dalla loro competenza, dal loro senso del ritmo la felice rilettura del classico di Sammy Kahn "Makin' Whoopee", così come la swingante interpretazione dell’inquietante title track. Delle quattro composizioni originali di Kirk, "Doin’ the Sixty-Eight" è senza dubbio la più interessante. Il ritmo percussivo latino tesse un groove ipnotico su cui Kirk e McDuff inanellano una serie di assoli complessi e cerebrali. L'interpretazione stellare di "Skater's Waltz" combina un tema tradizionale con un aggressivo interplay di tutto il quartetto. La melodia è messa alla prova dal furente sax tenore e dall’organo Hammond in un affascinante botta e risposta di virtuosismi. Su questo Kirk’s Work lo stile del sassofonista si fa più aggressivo e mostra i segni dell’evoluzione del lavoro di Kirk sia sulle composizioni che in materia di tecnica strumentale: un segno distintivo che Roland in seguito non avrebbe più abbandonato. Anche se probabilmente non è in assoluto il miglior album del suo vasto catalogo, si tratta comunque di un lavoro che rappresenta un punto di svolta nella carriera del polistrumentista afro-americano. Kirk’s Work cattura il jazz permeato di soul dell’originale ed eccentrico Rahsaan Roland Kirk proprio all’inizio della sua parabola ascendente.

Penelope Sai – Sings 007


Penelope Sai –Sings 007

Penelope Sai è una cantante di jazz australiana, una delle più quotate e talentuose artiste del suo paese, mentre dalle nostre parti è ancora pressoché sconosciuta. Accreditata di molti premi musicali, in carriera si è resa protagonista di quattro album e numerosi progetti che l’hanno vista coinvolta sia come autrice di brani originali che all’interno di compilation di canzoni pescate dal classico repertorio jazzistico. Mossa da una personale passione per le colonne sonore dei film di James Bond, in questo album Penelope ha deciso di dare spazio alla registrazione di alcune delle sue canzoni preferite, tratte proprio dalla serie di pellicole dedicata al più popolare agente segreto della storia del cinema. La collezione di gemme musicali che hanno caratterizzato l’uscita dei vari James Bond nel corso di oltre mezzo secolo di film è ricchissima: alcune canzoni sono molto famose, altre meno note, ma tutte sono composizioni di grande impatto. La lettura in chiave jazzistica di questi celeberrimi brani non fa altro che esaltare questo meraviglioso e vario “songbook”, così come fa la brava Penelope Sai con la sua splendida voce che sa anche essere originale.  Ed è in qualche modo sorprendente scoprire che le melodie tanto amate di questi film suonino così diverse e inusuali, grazie anche ad un sofisticato e seducente arrangiamento jazzistico. Pur se riviste ed in parte stravolte restano pur sempre pezzi di musica in grado di colpire l’immaginario collettivo, esattamente come hanno fatto per generazioni in passato. La Sai si accompagna con il suo trio di fiducia, formato da Sean Mackenzie al pianoforte, Brett Hirst al contrabbasso e Nic Cecire alla batteria, con l’aggiunta della magnifica tromba di Scotty Barnhart e dell’inaspettato violino del formidabile Didier Lockwood. Sono quattordici i successi subito riconoscibili ed i bellissimi temi musicali all’interno di questo album: molti non sono mai stati riproposti, mentre alcuni hanno ricevuto in passato le cover, più o meno riuscite, di altri artisti. Spesso pensiamo ai brani classici dei Bond degli anni ‘60 come le più belle tra le melodie legate ai film di spionaggio, ma prendiamo ad esempio la recente Skyfall e avremo un altro ottimo esempio di ciò che rende grande una canzone di 007. Penelope Sai la interpreta andando a stravolgere la versione originale di Adele e dandone la sua personale lettura jazzistica, creando in questo modo uno dei pezzi più intensi e divertenti dell’intero disco. Un omaggio ad una cantante pop  contemporanea che l'australiana ammira tantissimo. Se già amate questa bella canzone la versione presente su “Sings 007” vi mostrerà quali incredibili capacità vocali ha Penelope Sai. Ovviamente il tema più noto tra quelli proposti è “Goldfinger” che Penelope canta in modo sexy e seducente, coadiuvata dai due ospiti Barnhart alla tromba e Lockwood al violino: i due aggiungono profondità e classe ad una cover davvero riuscita. Stesso discorso per “Diamonds Are Forever” già in passato interpretata dalla Sai e che qui viene inserita con il solo Barnhart in veste di solista. “Moonraker” viene suonata con un ritmo lento, per una resa ricca di pathos ed impreziosita dal perfetto lavoro di pianoforte di Sean Mackenzie. Didier Lockwood introduce con il suo violino la celebre “From Russia With Love” che poi prosegue con un ritmo latino molto soft. La tromba di Scotty Barnhart prende la scena con un lungo assolo sulla misconosciuta “Thunderball” alla fine della quale la cantante si esibisce anche in qualche fraseggio scat. “You Only Live Twice” riceve un trattamento da ballata perfetto per il morbido approccio di tromba ed un altro intermezzo pianistico di gran livello. Con “Sings 007” Penelope Sai confeziona dunque un bellissimo tributo all’immortale agente segreto James Bond, realizzando un progetto discografico arricchito da un grande equilibrio negli arrangiamenti e dalla classe dei musicisti coinvolti. Lei è una cantante tutta da scoprire, dotata di una bella e profonda voce che non mancherà di stupire tutti quelli che non la conoscono. L’album, a scanso di equivoci, è al 100% un lavoro di jazz ma è anche piacevolissimo e scorrevole: vi ritroverete a cercare di riconoscere i vari temi musicali, abbinandoli ai film ai quali facevano da canzoni principali. Un esercizio divertente e appagante: esperimento riuscito Miss Penelope.

Dave Bradshaw, Jr. – Set Me Free


Dave Bradshaw, Jr. – Set Me Free

C'è una certa raffinatezza nelle composizioni smooth jazz di Dave Bradshaw Jr.. Il suo nuovo album Set Me Free, uscito alla fine dell'anno scorso, con l'inconfondibile Darren Rahn al sassofono in veste di stretto collaboratore, è la conferma che il pianista ha talento da vendere. Bradshaw, l’uomo abituato al "dietro alle quinte" di grande successo, esce finalmente allo scoperto con la sua raccolta di brani originali che trasudano deliziose melodie ed una classe non comune. Il nuovo album del pianista californiano segna la consacrazione di Dave Bradshaw, Jr. sulla scena internazionale, come anticipato qualche mese fa da quel vero e proprio inno all’estate ed alla gioia di vivere intitolato “Jumpstep”, un perfetto e piacevolmente orecchiabile funky jazz, molto radio friendly. La storia dietro la crescita di Bradshaw come musicista di jazz urbano contemporaneo, dopo anni di gavetta, è particolare. Il tastierista è stato ispirato da alcuni grandi nomi dello smooth jazz come Kenny G e Brian Culbertson: sentiva di avere il potenziale per seguire le loro orme e diventare a sua volta un artista e performer di successo. Tuttavia, ad un certo punto, pur continuando a suonare professionalmente ed a migliorare dal punto di vista tecnico, Dave ha iniziato ad avere la sensazione di aver perso la sua passione per la musica. La scomparsa di suo padre nel 2010 ha cambiato tutto, facendogli capire che doveva cogliere l’attimo e che quello era il momento giusto per perseguire il suo sogno. Così comporre musica è diventata una catarsi quasi necessaria per Bradshaw, che da lì in avanti ha cominciato a mettere sul pentagramma tutte le sue intense emozioni. Aiutato da questa spinta interiore e rinfrancato dalla qualità di quello che scriveva, ha iniziato a fare tutto in casa, sfruttando le tecnologie digitali e auto producendosi il materiale di base per un intero album. È qui che entra in gioco Darren Rahn che, ascoltate le demo e suggeriti i miglioramenti necessari, ha deciso infine di produrre il lavoro di Dave Bradshaw. Questa frase rilasciata durante un’intervista chiarisce ulteriormente il concetto: "Dopo aver lavorato come sideman per così tanto tempo, eseguendo la musica di altri grandi artisti, è eccitante avere l'opportunità di sviluppare il mio stile come tastierista e condividere la mia musica con la gente", dice Bradshaw. Essere in grado di emergere e di lavorare con un musicista del calibro di Darren Rahn è come un sogno che si avvera." Fino a qui ho raccontato la storia di come un pianista di talento abbia finalmente trovato la sua strada artistica, ma com’è realmente questo Set Me Free? Si tratta di un album di classico smooth jazz, ovviamente tutto focalizzato sul pianoforte di Dave. Il tono generale è positivo e gioiosamente orecchiabile, raffinato ma sempre molto cantabile e pienamente godibile da un ampio ventaglio di ascoltatori. Si comincia con “West Coast Jammin”, un brano fluidissimo perfettamente tagliato per l’ascolto attraverso le radio o meglio ancora per un viaggio in auto. Di “Jumpstep” ho parlato precedentemente: aggiungo che il pianismo di Bradshaw sembra fatto apposta per dare qualcosa in più a qualsiasi pezzo. Dalla canzone più vivace al brano più rilassato non si può non apprezzare il tocco vellutato ed il gusto estetico che il pianista californiano riesce a mettere nella sua musica. E così si susseguono uno dopo l’altro “Guys’ Night Out” ancora una volta energica e quasi dance, la lenta ballata d’atmosfera che da il titolo all’album in cui il virtuosismo di Bradshaw è posto in primissimo piano, o ancora la bella e latineggiante “Saboroso”. In tutto il cd è davvero notevole il lavoro al sax di Darren Rahn così come il curatissimo apporto che viene dagli arrangiamenti, in cui nulla è lasciato al caso. “Back To The Top” ritorna alle ritmiche più sostenute mantenendo la melodia sui binari della cantabilità: certo sorprende il fraseggio di Dave che sostiene il peso dei brani con naturalezza in modo analogo a quello di un altro giovane ed interessante pianista come l’inglese Oli Silk. Anche “Eastern Beauty” regala un pianoforte liquidissimo su un tessuto ritmico moderatamente disco. Non manca un brano diverso, in qualche misura più complesso e jazzato come “Angels Pass”, dove si può apprezzare non solo il consueto, perfetto uso della mano destra di Bradshaw ma anche l’interessante fraseggio della sinistra a dettare intriganti e sofisticate armonie. Come lascia supporre il titolo, “Nothing But Groove” si cala nel tipico ambiente dello smooth jazz per mettere ancora più in evidenza lo splendido sound del pianoforte del giovane californiano. E’ davvero un piacere lasciar scorrere questi brani che sanno intrattenere senza noia. Così come avviene negli ultimi due pezzi di questo felice esordio discografico:  “Moon & Stars” si muove nuovamente in tono brillante e ottimista e “Here I Go Again” done un tocco di originalità con una inattesa e gradita spruzzata di blues. La classica chicca di chiusura che fa venire voglia di riascoltare tutto da capo. Mi piacerebbe sentire Dave Bradshaw, Jr. alle prese con un repertorio di jazz mainstream, magari in trio. Sarebbe una sfida interessante e credo che il pianista del sud della California abbia i numeri giusti per fare anche questo ulteriore salto di qualità nella sua carriera. Nel frattempo però possiamo goderci questo notevole esempio di ottimo smooth jazz. Non sarà certo un capolavoro assoluto, ma di sicuro è una piacevole scoperta ed un aggiunta di valore alla propria discoteca. Che sia un viaggio in automobile, una serata tra amici o il sottofondo di una cena, sono certo che non vi deluderà.

Bob Berg – Remebering Bob Berg


Bob Berg – Remebering Bob Berg

Nel dicembre 2002, quando aveva appena 51 anni, il sassofonista Bob Berg è rimasto vittima di un tragico incidente stradale che gli è costato la vita. Era al picco della sua carriera e della creatività artistica sia come solista che come session man. A conferma di questo aveva appena partecipato alla registrazione di due album che ci testimoniano quanto Bob fosse un valente ed appassionato musicista contemporaneo, con un'ampia ed illuminata visione sul jazz moderno. Da un lato troviamo So What, del trombettista Eddie Henderson, tutto giocato sulle atmosfere aperte e suggestive del quintetto di Miles Davis della metà degli anni ‘60 nel quale militava Wayne Shorter: una fondamentale fonte d’ispirazione per Bob Berg. Su un altro fronte c’è 4 Walls of Freedom, nel quale invece lo si ascolta in un quartetto modellato sullo stile hard bop propulsivo ed energico del vibrafonista Joe Locke: qui in luogo della reinterpretazione dei classici di Monk, Shorter, Davis e altri, tutto ruota attorno a delle composizioni originali. E inutile negare che Bob Berg abbia vissuto parte della sua esperienza musicale un po’ all'ombra di quel precoce gigante che fu Michael Brecker, e questo ha probabilmente offuscato i suoi reali meriti ed il suo valore. Berg, d'altra parte, ha condotto un apprendistato molto più lungo di Brecker, lavorando prima con Horace Silver e Cedar Walton (negli anni ’70)  per poi passare sotto l’ala di Miles Davis negli anni ‘80. In quegli stessi anni ha registrato un paio di album a suo nome, ma la sua consacrazione è avvenuta solo dopo il 1987 con l’uscita di  Short Stories, con il quale si guadagnò davvero l’attenzione che meritava. In quest’ottica fu fondamentale anche il duo con il chitarrista Mike Stern, un sodalizio che lasciò indubbiamente un segno importante nel jazz contemporaneo. Remembering Bob Berg è un album raccolta, pubblicato postumo, che contiene nove brani scelti dal suo periodo d’oro con la Denon Records usciti tra il 1987 ed il 1992, più altri due estratti dai lavori per la Stretch di Chick Corea, registrati nel periodo compreso tra il 1993 ed il 1997. Questi ultimi sono anche i suoi due ultimi dischi da leader. La splendida compilation di 70 minuti che ne esce definisce in maniera impeccabile quanto Berg fosse un sassofonista potente ed espressivo, uno che nella sua breve vita artistica ha sempre dato tutto, mettendo la sua timbrica e la sua passione al servizio di ogni situazione musicale: nella fusion come nel jazz mainstream. "Friday Night At The Cadillac Club” apre l’album con un’energia incredibile: uno shuffle elettrico e vivacissimo dove si può immediatamente apprezzare il fraseggio di Bob, fluido e pieno del giusto groove. Berg impugna inizialmente il suo sax soprano sulla frenetica "Snakes” per poi passare al tenore in un saggio di versatilità e lirismo senza pari. Bellissime anche le divagazioni modali di "Silverado” un brano dove Berg mette in piazza la sua formidabile sensibilità fusion coadiuvato dalla meravigliosa chitarra di Mike Stern, che è strepitoso nel suo assolo. Lo stile compositivo di Bob Berg rivela un gusto estetico ed una ricercatezza spesso sconosciuta agli attuali musicisti della fusion. "In the Shadows” è un bel funk, scandito dalla batteria potente del batterista Dennis Chambers, sul quale il sassofonista non manca di cesellare le sue trame preziose. L’interpretazione molto jazzistica che Bob Berg dà della fusion è chiarissima in brani sofisticati e complessi come "Kalimba” e "Amazon” nei quali spunta anche un’eco di world music. "Back Roads” ha invece un andamento molto West Coast e l’accostamento con Bruce Hornsby è più che appropriato. Atmosfera latineggiante per la bella "Travellin' Man” che oggi potremmo definire un brano in pieno stile smooth jazz. Un discorso a parte va ovviamente fatto per i due brani mainstream che completano stupendamente questa raccolta antologica: “Sometimes Ago” e All The Way” sono due ballads incredibilmente intense nelle quali si può apprezzare pienamente il fraseggio jazz di Berg al suo meglio. Il tenore di Bob è lirico e profondissimo anche sui brani lenti e la lettura dello stile classico è perfetta. Con un gruppo di musicisti straordinari come compagni d’avventura la parabola di Bob Berg trova in questa raccolta trova il suo apice creativo e il suo sax risplende di luce propria in ogni circostanza. Gli assoli dello sfortunato musicista di New York combinano un lucido virtuosismo con una felice costruzione tematica, convincendo sia che si approcci al jazz puro, sia che s’immerga nella fusion più contemporanea. La musica di Bob Berg è accessibile senza sacrificare nulla della sua integrità, “Remembering Bob Berg” serve anche per rammentarci di una grave perdita per il mondo della musica, con un pizzico di malinconia: un vuoto che probabilmente è più grande di quanto la critica abbia mai voluto realmente ammettere.

Randy Waldman - Timing Is Everything


Randy Waldman - Timing Is Everything

A volte, ad alcuni musicisti viene attribuita l’etichetta di “talenti naturali”, una definizione sintetica con la quale ci si riferisce ad artisti che hanno un legame fortissimo con la musica, che possiedono un dono innato e che questo dono hanno saputo e voluto coltivare con caparbietà ed abnegazione. Il pianista Randy Waldman può essere considerato uno di questi fortunati musicisti; Randy ha iniziato a suonare il pianoforte all'età di cinque anni, da giovane, ha trascorso ogni minuto disponibile di fronte alla tastiera. È così che ha perfezionato la sua arte in anticipo rispetto alla media. A conferma di ciò la sua prima esperienza professionale è arrivata all’età di dodici anni, in veste di dimostratore di pianoforti in un negozio di musica nella sua città natale, Chicago. A 21 anni, Randy fu assunto come pianista per i tour del mitico Frank Sinatra. Il successo in veste di strumentista, ovviamente, non tardò ad arrivare portandolo a lavorare in pianta stabile sulla West Coast americana. Trasferitosi a Los Angeles, Randy riprese in seguito il suo ruolo di tastierista con Sinatra, iniziando al contempo una intensa attività di turnista con altri importanti stelle internazionali come Minnie Riperton, Lou Rawls, Paul Anka e George Benson. Il lavoro di Randy con Benson sfociò in una collaborazione a tempo pieno e del popolare chitarrista divenne anche direttore musicale. Una carriera che non si fermò più e consentì a Waldman di prendere parte alle registrazioni di Michael Jackson, Whitney Houston, Barbra Streisand, Madonna, Bette Midler e Celine Dion. E non bisogna dimenticare che il suo piano lo si può ascoltare nelle colonne sonore di film importanti come Forrest Gump, Roger Rabbit, La guardia del corpo e Ritorno al futuro. Randy è anche un fine arrangiatore ed un produttore molto ricercato. Il suo primo album, "Wigged Out", del 1998, è arrivato come risposta alla domanda incalzante che i suoi colleghi musicisti continuavano a fargli: "Perché non registri qualcosa di tuo?" Ne uscì un lavoro interessante ma anomalo, dato che si trattava di una serie di arrangiamenti jazz di composizioni classiche. Sulla falsa riga ma partendo dalle colonne sonore di film e serie tv pubblicò tre anni dopo “Unreel”. Ed eccoci infine a questa registrazione del 2009 intitolata "Timing Is Everything": un album interamente costruito su dieci "standard" del jazz che mettono in evidenza quanto in verità ci sia poco di standardizzato nel modo di interpretare i classici da parte di Randy Waldman. Il pianista denota una stupefacente tecnica pianistica ed un’inventiva a livello armonico che lo pongono indubbiamente su un gradino più elevato rispetto ad altri. Il trio è completato da due vere superstar dei loro strumenti come Vinnie Colaiuta alla batteria e Brian Bromberg al basso, i quali diventano a loro volta una cornice perfetta per il fraseggio audace e la stravagante creatività di Waldman. Il quadro complessivo è poi delineato in maniera originale dagli arrangiamenti imprevedibili che il leader ha predisposto per questo set. Si parte subito con un breve pezzo di virtuosismo pianistico, “The Trolley Song”, dove alla velocità d’esecuzione Waldman affianca una pregevole precisione nella diteggiatura. “Swanee” è meno divertissement dell’esordio, ma non manca di affascinare sia per la progressione armonica che per il perfetto lavoro di Colaiuta alla batteria e Bromberg al basso. “The Tender Trap” suona quasi come un omaggio a Oscar Peterson e stupisce la naturalezza con la quale Randy Waldman domini la melodia, dilatandola e stravolgendola nel corso del suo assolo, ma mantenendo una piacevole orecchiabilità. Bello l’assolo di basso del fenomenale Brian Bromberg. La complessa “Footprints” di Wayne Shorter è entusiasmante sotto molti punti di vista: è favolosa nella resa della partitura originaria di sax operata dal pianoforte e altrettanto notevole il lavoro alle spazzole di Colaiuta e quello liquidissimo di Bromberg al basso. A Waldman piace molto la musica classica, infatti non manca di inserire la sua visione jazz di un brano di Chopin con “Three Minutes Waltz”. Una cosa è certa, ascoltando la musica che scaturisce da questo spartito classico: non sembra affatto un pezzo composto alla fine dell’ottocento. “Body & Soul” è uno standard talmente popolare e suonato nelle più svariate maniere che non è difficile cadere nella banalità. Ma non è il caso di questo pianista che entra dentro alla celebre melodia e ne fa qualcosa di nuovo e di diverso aiutato, dopo l’inizio in solitudine, dal solito perfetto supporto del binomio Colaiuta – Bromberg. Anche in uno standard divertente e orecchiabile come “Nice Work If You Can Get It” Randy riesce nell’intento di appagare l’orecchio allenato degli esperti di pianoforte e suonare al contempo in modo piacevole ed accessibile a tutti. “Whistle Why You Work” altro non è che il famoso tema cantato dai sette nani nel cartone animato Disney: l’inizio non lascia dubbi, ma, conclusa l’intro, sfido chiunque ad intuire che si tratta di quella celeberrima filastrocca. Da lasciare a bocca aperta. Per non farsi mancare nulla Waldman pesca anche nel repertorio più tradizionale della bossa con “The Girl From Ipanema” e come sempre ne da una lettura personalizzata ma virtuosamente complessa e originale. L’album si chiude alla grande con un ultimo standard immortale quale la bellissima “I Thought It Was You” di James Van Heusen e Johnny Mercer: coerente con il lavoro fatto in tutta la registrazione Waldman centra nuovamente l’obiettivo di proporre melodie immortali dandone un’interpretazione nuova e moderna pur nel rispetto della tradizione pianistica jazz. Questo Timing Is Everything immortala, con un ottima resa audio, la frizzante verve ed il tocco magico del bravo Randy Waldman e del suo pianoforte ma ci regala forti emozioni anche per la presenza di due autentici fenomeni come Brian Bromberg e Vinnie Colaiuta. Ogni colpo di spazzola, ogni rullata, qualsiasi stacco sono valorizzati ed esaltati dal talento di Vinnie, che si conferma al top del drumming mondiale. Brian Bromberg è parimenti un musicista eccezionale per raffinatezza, fantasia e per la sua sonorità unica e riconoscibile. Nel suo complesso, il trio di Randy Waldman è senza dubbio uno dei migliori set piano-basso-batteria degli ultimi anni: ascoltare album di questo livello è una gioia per qualsiasi appassionato di buona musica.

Claus Ogerman & Michael Brecker - Cityscapes


Claus Ogerman & Michael Brecker - Cityscapes

Il compositore e arrangiatore di origine tedesca Claus Ogerman, nato nel 1930, ma emigrato negli anni ’50 negli Stati Uniti, è un musicista sconosciuto alle grandi masse e tuttavia va senza dubbio considerato come uno delle menti più versatili del dopoguerra. D’altra parte, se Ogerman ha messo il suo zampino artistico negli arrangiamenti di un grande della musica brasiliana come Antonio Carlos Jobim o della diva Barbra Streisand, o ancora del famoso chitarrista jazz George Benson, e di molti altri un motivo ci sarà. Nonostante l’età è ancora piuttosto attivo anche ai giorni nostri con vari tipi di progetti musicali. La chiave del suo successo è stata ed è la sua capacità di rimanere sullo sfondo del musicista con cui lavora, creando sempre allo stesso tempo qualcosa di personale e significativo. Cityscapes del 1982 è un classico esempio di come Ogerman si approcci alla musica ed alla collaborazione con gli altri artisti, siano essi grandi solisti del jazz, cantanti o compositori. L’album è frutto di un intenso rapporto musicale con il compianto sassofonista jazz Michael Brecker ed anche una delle sue opere di maggior successo. Un disco nel quale la superba sovrapposizione tra le armonie del jazz e il cromatismo tardo romantico tedesco, di cui Ogerman è grande maestro, mettono nelle condizioni ideali il talento di Brecker per esprimersi con disinvoltura anche e non solo nel contesto della sua musica di riferimento. Le improvvisazioni e tutti gli interventi del sax tenore sembrano materializzarsi in modo quasi magico ma sempre molto spontaneo, mentre le inevitabili interconnessioni che si vengono a creare tra la band e gli archi orchestrali appaiono più naturali su questo Cityscapes che in molti altri esperimenti di ibridazione tra il jazz e la musica classica. Il tenore generale dell’album è notturno e riflessivo, ma anche estremamente suggestivo e profondo. Michael Brecker, a questo punto della sua carriera, non aveva ancora pubblicato alcun album come bandleader: era conosciuto soprattutto per le sue numerose ed apprezzate partecipazioni alle registrazioni di altri musicisti sia in ambito jazzistico che pop, soul e r&b, ma il suo talento, il suo fraseggio e la sua timbrica erano già più che una splendida realtà. Sebbene Cityscapes sia stato originariamente attribuito a Claus Ogerman con la partecipazione di Michael Brecker, va fatto notare come il maestro preferisca mettere sotto i riflettori il giovane e bravissimo sassofonista, restando intelligentemente sullo sfondo del progetto. Il clou dell'album è una complessa ed articolata suite in tre parti intitolata In The Presence And Absence Of Each Other: nel movimento centrale, la traccia numero 5, il sassofono tace fino a circa un minuto prima della fine, eppure tutto nel brano conduce dritto a questa magica esplosione di lirismo da parte di Brecker. La title track suona per molti versi come il tema finale di un film noir, è romantica e crepuscolare e mette in evidenza quale livello di tecnica fosse già in possesso di Michael Brecker. La successiva Habanera prosegue sulla stessa lunghezza d’onda, con un’orchestra suadente e magnificamente arrangiata a far da sostegno all’onirico sax tenore, anche se questa volta su una ritmica particolare che accenna al tango. Nightwings ci trasporta in volo verso una nuvola sonora, verso orizzonti lontani e atmosfere da sogno, tra Gustav Mahler, George Gershwin o Irving Berlin ma sempre con la stessa intensa, intatta magia. Le note di copertina descrivono questo album come un "concerto virtuale per sassofono e orchestra con sezione ritmica jazz".  Si può dire che Cityscapes sia davvero così come viene presentato: il jazz è ben presente, non è solo una voce lontana annegata nel pur splendido arrangiamento orchestrale. Claus Ogerman riesce molto bene a creare diversi strati musicali, ed è proprio nella gestione di queste sovrapposizioni tra il jazz e gli spunti classici che risiede il segreto dell’autentica magia che scaturisce da questi solchi. Un contributo decisivo in termini di musicalità e versatilità viene fornito dal giovane Michael Brecker, il cui futuro artistico ci riserverà grandissime cose, ma certamente va sottolineata la classe e la raffinatezza con la quale il maestro Ogerman confeziona un progetto che si rivela vincente proprio su quel difficile terreno dove molti altri hanno fallito. Cityscapes è un'esperienza molto intensa ed interessante per gli ascoltatori, siano essi appassionati di jazz o seguaci della musica classica.

Nucleus - We'll Talk About It Later


Nucleus - We'll Talk About It Later

I Nucleus hanno iniziato il loro lungo viaggio nel jazz-rock quasi cinquant’anni fa, nel 1969, quando il trombettista Ian Carr decise di mettere insieme questa storica band composta in origine anche dal sassofonista Karl Jenkins, dal batterista John Marshall, dal bassista Jeff Clyne e dal chitarrista Chris Spedding. Si tratta di un gruppo di grande rilevanza dal punto di vista musicale e rappresenta una delle punte di diamante del movimento jazzistico britannico. We'll Talk About It Later è il secondo album dei Nucleus, datato 1970, arrivato a pochi mesi di distanza dal primo lavoro  intitolato Elastic Rock. Il jazz, in quel periodo di grande fermento creativo, complice la lezione di Miles Davis, andava a cercare nuove strade e allo stesso modo anche il progressive rock esplorava con interesse la contaminazione con forme musicali più mature ed evolute. È da questa ricerca, da questo incrocio di stili che nasce la ricetta dei Nucleus: il gruppo che tra tutti gli esponenti del cosiddetto jazz-rock, più degli altri restò vicino al linguaggio del jazz, esaltandone la complessità formale e tuttavia riuscendo anche nell’intento di avvicinare ad esso nuovi adepti, provenienti proprio dal progressive. La mente creativa ed il leader di questa band fu dunque per quindici anni il trombettista Ian Carr: un musicista di grande talento e dotato di una visionaria creatività, ma soprattutto di una tecnica superlativa e di un timbro sonoro tra i più significativi della storia recente del jazz. C’è un fascino particolare nella complicata musica dei Nucleus, un furore ricco di passione ma cerebrale e matematico al tempo stesso. Più e meglio dei Soft Machine e di altri gruppi che operarono sulla stessa lunghezza d’onda, seppero camminare su quella pericolosa ma intrigante linea di confine tra due mondi tanto diversi quali erano (e sono) il jazz ed il rock, sintetizzando una formula unica ed originale che suona attuale ancora oggi. A conferma di una inevitabile evoluzione, in questo secondo album dei Nuclues i brani si allungano diventando allo stesso tempo più complessi e dinamici, colorandosi di nuove ed inattese connotazioni rispetto alla sobria “tranquillità” di "Elastic Rock". I musicisti dimostrano di essere diventati una vera band che, guidata dalla poliedrica tromba di Carr, pone il suo fulcro attorno al duo formato dal tastierista Karl Jenkins e dal chitarrista Chris Spedding, ma dove ogni singola personalità si ritaglia il suo spazio espressivo. L’album inizia con un brano paradigmatico come "Song For The Bearded Lady" che fin dalle prime battute attira l’attenzione dell’ascoltatore. Si tratta di un numero molto vivace e trascinante, ma anche riflessivo e geometrico. D’altra parte la peculiarità di " We'll Talk About It Later " risiede proprio in questa sua mutevole e vibrante vitalità, nella sua complessità che non compromette l’equilibrio generale. C’è spazio, come è giusto che sia, per gli assoli dei singoli, che però non sono mai fini a sé stessi ma anzi sono motivati e funzionali alla struttura musicale delle composizioni. Costringere i Nucleus all’interno di rigide definizioni di stile è una cosa difficile: basta ascoltare ad esempio la delicata "Lullaby For a Lonely Child" in cui sono i fiati di Carr e Brian Smith a comandare i giochi, ma un tocco di esotismo inaspettato è dato dal sorprendente bouzouki (una specie di banjo) suonato da Spedding. La title track è un’insinuante crescendo di energia dove. tra la tromba wah wah di Carr e la ritmica quasi blues. troviamo in prima linea la chitarra di Chris Spedding, il quale non avrà forse l'esuberanza tecnica di Allan Holdsworth ma ha dalla sua un ricercato gusto per la finezza e le cesellature melodiche e armoniche. "Oasis" sono quasi dieci minuti di sperimentalismi carichi di un atmosfera surreale, di ipnosi e meditazione in cui l’orecchio è stimolato dal suono rotondo della tromba che si incrocia con quello più acido e stridente dell'oboe. Il punto di contatto più evidente tra il jazz ed il progressive rock è la fresca ed un po’ scanzonata "Ballad Of Joe Pimp", uno dei pochissimi brani cantati della band e di fatto un sorprendente omaggio al grande genio di Frank Zappa. Il finale è lasciato ad un brano corale, poderoso e coloratissimo: "Easter 1916”, pezzo ispirato ai moti irlandesi di quell'anno, è una sorta di maratona musicale, una magnifica progressione di suoni. Spazio dunque all’improvvisazione jazzistica, inizialmente più controllata ma poi finalmente libera e scioltissima. Il pezzo si dipana lungo la sua mutevole e movimentata strada, prima condivisa da tutti i membri della band con i loro strumenti che poi, lentamente, si defilano uno alla volta. Inizialmente abbandona la voce narrante, poi le tastiere, la chitarra, il basso, fino a quando i solisti rimangono in due, sax e batteria, a rincorrersi in un gioco di abilità nel quale a restare infine da solo è Marshall con la sua rutilante batteria, per quaranta secondi di lucida improvvisazione, conclusi da un’ultima rullata: spiazzante. La lezione dei Nucleus è stata un fulgido esempio di creatività: di lì a poco la strada tracciata da Ian Carr e compagni verrà percorsa, sia pure con diversi connotati stilistici, dai valorosi paladini del Canterbury sound e da molti altri musicisti in Europa e naturalmente dall’altra parte dell’oceano. Resta il fatto che la musica di questi coraggiosi pionieri britannici del jazz-rock è un patrimonio inestimabile che non va dimenticato ed anzi andrebbe riscoperto e valorizzato quanto più possibile.

Maynard Ferguson – MF Horns Vol.3


Maynard Ferguson – MF Horns Vol.3

Chi non ricorda la squillante tromba che accompagna Sylvester Stallone mentre sale di corsa la scalinata del Museo dell’Arte di Philadelphia? Una scena epica ed un tema musicale che sono entrati nell’immaginario collettivo. La tromba era quella di un musicista di talento e personalità: Maynard Ferguson. Ma la colonna sonora di Rocky non è certo l’unico momento importante di questo artista: quando debuttò con l'orchestra di Stan Kenton (e parliamo del 1950), dimostrò di poter suonare le note acute con un tono più alto di qualsiasi altro trombettista nella storia del jazz, ed in più di poterlo fare in modo molto accurato. Ferguson ha mantenuto questa prerogativa stilistica nel corso di tutta la sua lunga carriera, diventando poi dalla metà degli anni ’70 uno dei più famosi jazzisti del mondo. Di fatto Maynard Ferguson non si è certo distinto negli anni per un particolare gusto estetico o per la raffinatezza delle sue scelte artistiche (alcuni dei suoi sforzi più commerciali sono quasi inascoltabili). Tuttavia questo canadese entusiasta e pieno di energia ha guidato alcune importanti orchestre e sicuramente ha avuto un forte impatto sullo strumento con il suo unico modo di suonare la tromba. Alcuni puristi dell’idioma jazz si sono (forse giustamente) accaniti verso le registrazioni che Ferguson ha effettuato nel corso degli anni ’70: se in molti casi questo atteggiamento fortemente critico è giustificato dalla obiettiva scarsità di queste pubblicazioni, dall’altro non mi pare giusto fare di tutta l’erba un fascio.  Come in molti altri colleghi jazzisti, in quel particolare periodo storico, la contaminazione con il funk, il rock, il pop ebbe una forte influenza su Maynard Ferguson ed è assolutamente naturale che anche il trombettista muovesse i suoi passi in quella nuova direzione. Questo non significa che, soprattutto all’inizio, i suoi dischi non fossero di valore. Basta ricordare quali territori esplorarono dalla fine degli anni ’60 Donald Byrd, Jack McDuff, Miles Davis, Herbie Hancock, Chick Corea, Yusef Lateef, Freddie Hubbard, Rahsaan Roland Kirk o decine di altri importanti musicisti moderni. MF Horn Vol. 3 fu registrato nel 1973, a Londra e New York, come terza parte di una serie di album tutti accomunati dalla stessa matrice pop-funk. Ferguson stava concludendo il suo periodo di residenza in Inghilterra ed era prossimo al rientro negli Stati Uniti. La musica di questo album è un'emozionante testimonianza del fermento e della creatività della scena musicale di quel momento. Maynard Ferguson e il suo tastierista, Pete Jackson, combinarono il jazz con elementi di pop, rock e funk, e lo fecero in modo assolutamente ammirevole. Più avanti, negli anni a venire, Ferguson, per sua stessa ammissione, tentò di assicurarsi una solida stabilità finanziaria pubblicando dischi in grado di catturare un pubblico ancora più ampio, ed è probabilmente qui che il livello artistico della sua musica cominciò ad abbassarsi in modo preoccupante. Per quanto riguarda i contenuti di questo album, invece,  bisogna dire che sono decisamente interessanti, molto meglio di quanto la critica abbia mai ammesso. Con una band numericamente piuttosto numerosa, formata da musicisti di spessore, il buon Maynard mette insieme un programma solido ed energetico e per l’epoca molto moderno. Mescolando con sapienza il jazz con il funk e qualche elemento pop il trombettista confeziona un album che riesce a convincere e risulta alla fine orecchiabile ma niente affatto scontato, ne troppo commerciale. "Nice 'n Juicy", "Pocahontas", "Mother Fingers", "SMOF," e "Awright, Awright" sono numeri superbamente funky eseguiti da una gran bella big-band. Il lavoro del tastierista Pete Jackson, in particolare al piano elettrico, è notevolissimo, ma funzionano a meraviglia anche il bassista Dave Markee, il batterista Randy Jones, ed il sax baritono di Bruce Johnstone, senza dimenticarsi la coesa e potente sezione fiati che Maynard Ferguson comanda e dirige in grande scioltezza. Il sound della tromba e del flicorno del leader sono vibranti e sempre limpidi e squillanti: una firma acustica davvero originale e per certi versi inconfondibile. Così, tra elettro-jazz vintage e temi di colonne sonore, ci si ritrova al cospetto di un album che pare perfetto per una guida rilassata in autostrada e ci catapulta magicamente nel mondo delle serie tv poliziesche degli anni ’70 o dei misconosciuti film della “blaxploitation”. C'è spazio perfino per una rilettura affascinante della splendida Round Midnight, arrangiata ed eseguita in stile da vera big band. Il groove è potente, il suono è quello giusto, forse non sarà il massimo della raffinatezza ma, credetemi, MF Horns Vol.3 è “tanta roba” e merita un ascolto e Maynard Ferguson è un musicista da rivalutare.

Dave Grusin – Kaleidoscope


Dave Grusin – Kaleidoscope

Dave Grusin è un compositore e pianista statunitense. Di lui ho parlato in un precedente post riguardante uno dei suoi dischi più belli, lo splendido omaggio a George Gershwin uscito qualche anno fa. Dave è noto soprattutto per essere un autore di colonne sonore cinematografiche, oltre che un pianista jazz ed un grande arrangiatore. Portano la sua firma di più di cento colonne sonore e ha vinto l'Oscar per quella del film Milagro. Tra i suoi lavori più conosciuti si possono annoverare I tre giorni del condor, Sul lago dorato, I favolosi Baker, Il campione (per il quale ha ricevuto una nomination all'Oscar), Havana, Il paradiso può attendere, Tootsie (per il quale ha ricevuto una nomination per la miglior canzone originale, It Might Be You), Ocean's Twelve. Assieme a Larry Rosen, ha fondato nel 1982 la GRP Record, un’etichetta di musica jazz fusion che ha fortemente caratterizzato gli anni ’80 e ’90 con una serie di produzioni discografiche di grande rilevanza che si distinguevano per la perfetta qualità audio. All’inizio della sua carriera Grusin è stato prima di tutto un pianista jazz, influenzato da Thelonius Monk e da Cedar Walton e tuttavia dotato di una sua peculiare personalità musicale. Kaleidoscope del 1964 è il suo terzo album e dal punto di vista jazzistico è senza dubbio quello più importante della prima fase della sua vita artistica. Il linguaggio è un hard bop dalla connotazione classica e non a caso la band messa insieme per questo progetto è un sestetto composto da Stanley Turrentine (sax tenore); Bob Cranshaw (basso); Larry Rosen (batteria); Thad Jones (tromba), Frank Foster (sax tenore) oltre naturalmente allo stesso Grusin al pianoforte. Se già dalla formazione si può intuire il livello delle esecuzioni di questo lavoro, guardando ai titoli dei brani, altrettanto si può dire a proposito dei suoi contenuti. Ben sei sono standard del jazz, e sorprendentemente, solo due sono originali dello stesso Dave: otto tracce che svariano tra atmosfere diverse ma sono tutte legate dal filo conduttore di una genuina e sincera passione per i grandi maestri del passato ed un forte legame con l'idioma canonico dal jazz. Si comincia con Kaleidoscope, un veloce e vibrante brano in purissimo stile hard bop dove si mette subito in luce un ispirato Stanley Turrentine al sax sulla base della sezione ritmica puntualmente e gagliardamente sul tempo. Bellissimo l’assolo di piano di Grusin e ottimo il lavoro all’unisono degli ottoni del sestetto. Love Letters viene eseguita in trio dal solo leader accompagnato da Rosen e Cranshaw: un bel modo per mostrare tutte le doti di improvvisatore di Dave. La celeberrima Straight, No Chaser di Thelonius Monk viene introdotta dal caratteristico riff dei fiati a cui fa seguito il liquido pianoforte di Grusin che conduce mirabilmente l’ascoltatore incontro al solo di sax di Turrentine e di seguito a quello di tromba di Thad Jones ed infine ad un interessante intervento di contrabbasso del bravo Bob Cranshaw. I toni blues di What’s up sono di nuovo introdotti dal trio di ottoni, mentre l’assolo di Stanley Turrentine che segue è la dimostrazione di quanto questo musicista fosse a suo agio con questo particolare linguaggio stilistico. Molto bella anche Inez, una sorta di walzer jazz in cui l’ottimo contrappunto dei sax e della tromba sottolineano i percorsi melodici dell’improvvisazione di piano di Grusin. Lo standard Stella By Starlight è eseguito in maniera brillante e vivace anche se ancora una volta in trio. L’altro originale di Dave Grusin è il movimentato Gozwell, che altro non è se non un’ennesima lettura del classico stile hard bop. Tutti i solisti hanno lo spazio per far udire la loro voce, a turno il sound di Frank Foster e Stanley Turrentine, poi quello di Thad Jones ed infine del leader esprimono la loro personalità in modo brillante e creativo. Per chiudere l’album torna l’essenzialità profonda e mai banale del genio di Monk, qui con il suo Blue Monk, che Grusin interpreta al meglio, leggendo in maniera perfetta le famose pause e i tipici stacchi ritmici del genio di Rocky Mount. Gli “strani” accordi, che poi in realtà sono perfettamente logici e funzionali, sono la base armonica sulla quale si innestano gli assoli di tutti i componenti del sestetto. Kaleidoscope è un lavoro compiuto e intelligente: esteticamente perfetto nella sua filologica lettura del jazz mainstream. Il bop è quello giusto, gli interpreti sono talentuosi e ispirati, per il giovane (all’epoca) Dave Grusin si è trattato certamente di una prova di maturità che lasciava presagire quella grande carriera che poi in effetti il pianista del Colorado si è guadagnato sul campo. Certo il jazz “vero” è tornato solo di recente tra le sue dita, ma non si può certo non tenere conto dei numerosi e validi album di fusion che sono usciti dalla sua mente creativa a partire dalla metà degli anni ’70 e di sicuro non si possono dimenticare le sue splendide ed acclamate colonne sonore.

Don Grusin – The Hang


Don Grusin – The Hang

Don Grusin è un tastierista e produttore americano, in passato vincitore di un Grammy Award, con un innato interesse verso vari stili di musica, dal jazz al pop, dalla brasiliana a quella latina. Fratello minore del pianista Dave Grusin, Don è cresciuto in Colorado ed a 6 anni ha iniziato a studiare il pianoforte mentre all’interno della sua famiglia veniva inondato da un eclettico mix di musica classica, jazz e country & western. Dopo una serie di produzioni discografiche piuttosto interessanti, Don Grusin ha pensato di riunire una ventina di eccellenti musicisti per registrare questo album del 2004 intitolato The Hang. I nomi presenti in questa sessione sono al top del panorama internazionale della jazz fusion, e tra questi spiccano Lee Ritenour (chitarra), Patti Austin (voce), il fratello più famoso di Don,  Dave Grusin (tastiere), Ernie Watts e Sadao Watanabe (sax), Nathan East (basso), Harvey Mason (batteria) ed il percussionista Alex Acuna, più tutta una schiera di altri validissimi artisti della World Music. Questa parata di stelle contribuisce alla stesura di un repertorio che spazia liberamente in una effervescente miscela di jazz contemporaneo dai toni accessibili e variegati. Alle volte tende ad essere più vicino al linguaggio tradizionale, altre propende verso lo smooth jazz, senza disdegnare come detto la world e la latin music. The Hang è dunque un lavoro che viene immediatamente percepito come un vorticoso viaggio attraverso il villaggio globale, a tratti colorato da vivaci toni afro come ad esempio in "Makossa Beat," oppure scaldato dalla salsa caraibica come in "El Floridita", ma per lo più focalizzato sulla personale visione che Don ha della fusion. Un album che è una jam session come poche altre, gioiosa e trascinante, eseguita da un gruppo di alto livello formato da musicisti di razza, provenienti da tutto il mondo. Don Grusin denota un’incrollabile fede nel potere della collaborazione tra artisti di diversa estrazione e lascia libero sfogo alla creatività ed alla spontaneità che scaturiscono dall’interazione tra culture e stili differenti, ottenendo un risultato di pregevole livello. Ci sono anche una manciata di indovinate tracce cantate che contribuiscono a mantenere fresco e movimentato il programma. La lenta "Fresh Air", ad esempio, offre una piacevole divagazione dai frizzanti jazz strumentali che costituiscono il grosso dell’album. Nonostante le sue varie sfumature, The Hang è un  disco di jazz contemporaneo in tutto e per tutto. Jazz declinato in versione fusion funky in "Let's Not Talk About It" o più tradizionalmente interpretato come in "The Chaser". Don Grusin e compagni esprimono un melange di stili ed approcci musicali che di sicuro non lesina sulla qualità compositiva e consente a tutti di trovare il giusto spazio. A differenza della maggior parte del jazz commerciale che si può ascoltare al giorno d’oggi, The Hang suona piacevolmente vario ed eterogeneo, invitando l’ascoltatore ad un attenta e curiosa analisi dei brani, che peraltro vengono eseguiti in modo brillante da questo eccellente team di musicisti. In questa produzione di alta qualità traspare la magia dell'improvvisazione che ci fa apprezzare ancor di più il coraggioso progetto musicale di Don Grusin: per questa ragione The Hang è un'esperienza sonora innovativa ed interessante, come raramente capita di ascoltare.

Yusef Lateef - The Gentle Giant


Yusef Lateef - The Gentle Giant

Come quella di molti altri musicisti jazz dello stesso periodo, la musica di Yusef Lateef dei primi anni '70 suscita allo stesso tempo ed in ugual misura sentimenti contrastanti di grande interesse e di scetticismo generalizzato. In quel preciso momento storico nel quale funk e fusion entravano prepotentemente nel linguaggio  del jazz e gli umori musicali erano estremamente volatili ed in qualche misura caratterizzati da una sorta di continuo divenire, il tipico soul sound di Detroit di Yusef Lateef si guadagnò l’attenzione di molti nuovi fan e perse il seguito di parte di coloro che invece preferivano i suoi precedenti ed innovativi lavori nel contesto dell’hard bop. The Gentle Giant appare così un titolo appropriato, visto come il flauto quasi cosmico di Lateef vola alto sopra il rhythm and blues, diventandone il motore pulsante e la voce distintiva. Anche il piano elettrico Fender Rhodes di Kenny Barron è un segno dei tempi, adottando questo eccezionale strumento e ribadendone la piena legittimità sulla scena jazz contemporanea, il pianista rende già di per se questo disco qualcosa di storicamente rilevante. Siamo nel periodo del post Bitches Brew ma appena prima della consacrazione elettrica dei Weather Report e degli Headhunters; Anche Lateef per molti aspetti appartiene alla prima linea di questo rivoluzionario movimento di crossover tra il sound acustico e quello elettrico. The Gentle Giant è a tratti incoerente e talvolta non proprio gradevole, tuttavia è anche affascinante e, laddove prevale il groove, offre una buona musicalità ed una originalità degna di nota. Lateef ha messo insieme per l’occasione una piccola band di musicisti dotati di singolari personalità e grandi capacità artistiche. L’album inizia subito con un tono funky e fresco, con la "Nubian Lady" di Kenny Barron che dà il chiaro segnale di quali saranno i contenuti: una melodia leggera e piacevole dettata dal piano elettrico e dal suono di flauto di Lateef, che qui ricorda molto Herbie Mann. Stessa formula sul più ballabile "Jungle Plum" che tuttavia appare meno strutturata e complessa. "African Song" è un numero più lento, quasi una anomala e delicata ballata  che nella sostanza è molto meno afro di quanto il titolo lascerebbe supporre. E’ invece più afrocentrica la stralunata "Below Yellow Bell", un brano davvero strano caratterizzato dall’intervento vocalizzato (senza parole) da Yusef che avvicina l’atmosfera della composizione ai suoni della savana, su un ritmo molto particolare e indecifrabile. "Hey Jude" (cover del brano dei Beatles) curiosamente è quasi inudibile a causa del basso livello di registrazione, cosa che irrita non poco e non viene certo mitigata dall'avvertimento dato nelle note di copertina: "non regolare il livello di riproduzione sul vostro impianto audio, riaggiustare la mente". Oltre nove minuti di spazio sul disco letteralmente buttati. "The Poor Fisherman" denota l'interesse del leader per i suoni asiatici ed è una traccia dove il flauto lavora in quasi perfetta solitudine. "Lowland Lullabye" svolta verso una sorta di musica da camera sperimentale, dove i flauti di Yusef Lateef e Al Heath si intersecano con un inusuale violoncello suonato da Kermit Moore. Affascinante e quasi progressive è invece "Queen Of The Night " con la chitarra modulata di Eric Gale e una strana mescolanza di tempi 4/4 e 3/4 che la fanno suonare forse un po’ tetra. The Gentle Giant è stato pubblicato da Lateef  nel bel mezzo della sua fase di passaggio verso una proposta musicale più commerciale che è culminata con l’approdo alla CTI Records e l’uscita dell’album Autophysiopsychic. Queste tracce sono la testimonianza di un epoca molto particolare del jazz, diviso tra la sperimentazione, la fusione con il rock  ed il retaggio mai sopito della grande tradizione del passato. The Gentle Giant resta una prova evidente di quanto sia stato grande un musicista come Yusef Lateef, anche se, in questo specifico caso, non nel contesto della miglior musica che il polistrumentista abbia prodotto in carriera. Si tratta di un lavoro interessante ma non essenziale.