Ameen Saleem – The Groove Lab


Ameen Saleem – The Groove Lab

Il compositore americano Irving Berlin disse una volta che "tutti dovrebbero avere un Lower East Side nella loro vita". Un’affermazione molto yankee, anzi molto newyorkese, dato che se non si conosce bene la metropoli e la storia dei suoi quartieri così diversi e multietnici, probabilmente non significa molto. Ma il suo riferimento era di carattere culturale e nello specifico puntava alla musica più che ad altri aspetti. In realtà è il groove il punto focale al quale alludeva il grande Irving Berlin: quell’intimo e misterioso motore d'ispirazione, quell’ineffabile elemento che connette le varie anime del jazz e della musica contemporanea con le sue molteplici declinazioni storiche. Ma mentre il paradigma differisce ogni volta e continua ad evolversi, il risultato finale è invariabilmente della stessa natura, al giorno d’oggi così come lo era ai tempi dei mostri sacri del jazz. Ameen Saleem, sicuramente uno dei bassisti più promettenti al mondo, è nativo di Washington, ma risiede, guarda caso, proprio nel Lower East Side di New York. Artisticamente è cresciuto assorbendo ogni aspetto della cultura urbana della Grande Mela, cogliendone l’essenza jazzistica più profonda. Ameen conosce le regole semplici ma spesso inafferrabili che governano quello che viene definito il groove, e questo album di debutto come leader (datato 2015) ne è una dimostrazione più che esaustiva. The Groove Lab si distingue con grande personalità in mezzo alla ricca offerta del jazz moderno. Ci sono jazzisti innovatori, altri conservatori, alcuni rivoluzionari: queste figure sono spesso collegate da quel sottile filo conduttore che non a caso Saleem cita nel titolo del proprio album. Se avete ascoltato il Roy Hargrove Quintet avrete certamente notato la qualità della sezione ritmica di quella band: ed è proprio lì che potreste aver apprezzato l'ottimo lavoro svolto da Ameen Saleem al basso. Se per forza di cose The Groove Lab si sforza (riuscendoci) di produrre un suono quanto più originale possibile, il risultato finale è senza dubbio non troppo lontano dalle atmosfere degli album dello stesso Roy Hargrove. E questo consente di inquadrare un po’ meglio di che tipo di jazz contemporaneo sto parlando. Jazz, funk e soul costituiscono certamente i tre principali punti di riferimento, ma le molte correnti che si propagano da questi generi, diventano poi difficili da scindere con precisione nel contesto di una fusione così ben equilibrata. Saleem resta molto misurato nel suo approccio e non è sua intenzione portare l'ascoltatore fuori dai sentieri del jazz, ma mentre l'atteggiamento generale può sembrare rassicurante, in realtà The Groove Lab è un album di ricerca: un laboratorio, appunto. Ameen Saleem è certamente aiutato dall’interazione con un piccolo gruppo di musicisti straordinari (il pianista Cyrus Chestnut, il batterista Jeremy “Bean” Clemons, Stacy Dillard al sax, Craig Magnano alla chitarra e il già citato Roy Hargrove alla tromba) che contribuisce sicuramente alla variegata gamma di colori musicali che trovano spazio nel lavoro. Il bassista riesce a trovare il perfetto equilibrio tra la complessità concettuale e la fruibilità della sua musica. Un sound che si sviluppa su due livelli: il primo magari più superficiale ed accessibile, è immediatamente seguito da un secondo stadio che consente di avventurarsi nei substrati nascosti e più affascinanti dell'album. Musica che è una sintesi delle molte correnti afroamericane che hanno caratterizzato l’esperienza artistica di Saleem. Il disco è lunghissimo, quasi 1 ora e venti per 13 brani: eppure riesce nel raro intento di mantenere alto l’interesse dell’ascolto e stimolare sempre la curiosità. Forse anche per questo motivo brani come "For My Baby", pur essendo fondamentalmente semplici canzoni, scorrono dal jazz al funky in modo così naturale che la struttura stessa della musica rimane meravigliosamente ambigua e divertente allo stesso tempo. Ma ovviamente il piatto forte di The Groove Lab sono gli strumentali dove il flicorno, il piano elettrico, il sassofono o la chitarra ed ovviamente il basso di Saleem stesso dipingono di volta in volta una ricca e colorata trama. "Epiphany", “I.L.V.T.”, “Neo” e la bellissima "So Glad" ad esempio brillano per varietà ed intensità. “Love Don’t” richiama gli E.W.& F, evidentemente una delle fonti d’ispirazione di Ameen. “Korinthis” è il brano che apre l’album creando un’atmosfera hard bop che è solo apparentemente abbandonata nei brani successivi. Se di questo pezzo apprezzerete  il lavoro del pianoforte e della sezione ritmica, gli assoli di sax e di tromba, bene sappiate che li ritroverete in tutto il disco, seppur declinati in altri modi. "Don't Walk Away" è cantata da Barbara Dunlap che aggiunge la sua grintosa vocalità ad un brano funky soul molto coinvolgente. Il ritmo funky è ben presente con il suo groove nella piacevole “A Theme” che tra l’altro mette in piena luce le doti di bassista di Saleem: un musicista giovane ma dalla tecnica ineccepibile. Il finale è riservato a due brani più lenti e riflessivi che congedano l’ascoltatore con un atmosfera penetrante e sensuale: “Possibilities” e “For Tamisha”. Un ottimo modo per chiudere un album complessivamente molto vario ed interessante: di sicuro un validissimo esempio di jazz contemporaneo nella sua migliore accezione. Chissà se anche Irving Berlin avrebbe apprezzato Ameen Saleem ed il suo laboratorio del groove: non lo sapremo mai, ma di certo abbiamo imparato che nel Lower East Side un nuovo grande bassista sta animando la scena del jazz.