The Haggis Horns – What Come To Mind


The Haggis Horns – What Come To Mind

Quasi tutti conoscono la musica degli anni '70, in tanti hanno ricordi legati a quella incredibile stagione di grandi fermenti: insomma chi non ama quel decennio? Molti degli artisti più importanti e rispettati di tutti i tempi hanno avuto il loro massimo splendore in questo magico arco di 10 anni che va dal 1969 al 1979, e molti generi intramontabili sono nati proprio in quel preciso periodo: tra questi uno di particolare interesse è il funk. Nei suoi momenti d'oro, il funk (insieme al diametralmente opposto progressive rock) fu uno dei generi musicali più popolari e diffusi anche grazie alla presenza creativa di gruppi notevolissimi come Earth, Wind and Fire, Parliament-Funkadelic, Kool and the Gang, The Ohio Players, Tower Of Power, BT Express, Chicago. Questi ed altri ancora scuotevano le classifiche ed animavano le discoteche degli anni '70, caratterizzando profondamente le tendenze musicali e influenzando anche il costume dell’epoca. E nella loro musica c’era molto di più del semplice divertimento: c’era tecnica, virtuosismo, qualità compositiva, originalità ed energia. Gli anni ’80 cambiarono lo scenario ed il funk perse molto della sua carica innovativa, andando via via con lo sfumarsi sempre di più e finendo più che altro col fondersi con altri stili e generi. Anche per queste ragioni, di questi tempi, il funk non ha la stessa popolarità di una volta e non attira l’attenzione del pubblico come accadeva 50 anni fa. Inoltre anche quando esce un album degno di nota, spesso è eccessivamente pervaso di elettronica, sinth, sequencer e campionamenti. La conseguenza è una carenza di corpo e di passione: di certo, tranne rare eccezioni, ci si scopre a rimpiangere le chitarre, i bassi e soprattutto le magnifiche sezioni fiati che fecero la fortuna delle band degli anni ‘70. Ebbene il funk perduto, il sound genuino e gagliardo degli artisti oggi definiti vintage è esattamente il territorio dove lavorano oggi gli Haggis Horns. Gli Haggis Horns sono una band scozzese di 7 elementi, specializzata nel sottogenere noto come "deep funk" che è fondamentalmente la forma di funk che tutti gli appassionati vorrebbero sempre ascoltare. Un tipo di musica ricco di sentimento, senz’altro più grintoso, in generale più aspro e diretto di molte altre forme edulcorate e tropo patinate in voga di questi tempi. Questi scozzesi innamorati del vintage sound possono a buon titolo fregiarsi del fatto di essere sintonizzati sulla giusta lunghezza d’onda sia per le qualità tecniche che per lo stile e l’energia che sprigionano. I membri della band hanno lavorato con gli artisti più famosi tra quelli che il funk lo hanno frequentato e con esso possiedono una reale familiarità come Jamiroquai, John Legend, The Roots, Amy Winehouse, Mark Ronson, o perfino i Duran Duran, solo per citarne alcuni. Se si vuole parlare del loro sound, gli Haggis Horns possono tranquillamente essere catalogati come funk con una attitudine verso il jazz, e in questo album sembrano quasi voler superare i loro limiti. Su What Come To Mind la band combina con disinvoltura ed uguale maestria sia brani strumentali molto trascinanti come "Return of the Haggis" che pezzi R&B più lenti e passionali come "Give Me Something Better" fino ad arrivare ad omaggi disco come "Digging in the Dirt". L’alchimia ed il fascino di questo gruppo sono dovuti principalmente al fulcro del loro sound che risiede nella magnifica sezioni fiati. Sono trombe, tromboni e sax a risultare la forza trainante dietro a tutti i brani di questo album ed ancor di più durante le loro esibizioni dal vivo. Sono musicisti esperti che conoscono i loro strumenti e amano fare ciò che fanno, il che si traduce in una gioiosa macchina da guerra che non solo suona sempre perfettamente a fuoco in ogni circostanza, ma riesce immancabilmente ad innescare un senso di divertimento e dinamicità nell’ascoltatore. Ciò che viene evocato dagli Haggis Horns è un grande omaggio al funk di un tempo fatto con grande credibilità ed una bella dose di originalità da dei seri  professionisti. Il  "deep funk" della band scozzese è apprezzabile per la genuina e rigorosa interpretazione che gli Haggis Horns riescono a darne: tanto diretta e ruvida quanto deliziosamente accessibile. Un jazz funk “cantabile” abbastanza leggero per essere suonato anche in una discoteca o in una serata in casa con gli amici, ma al contempo sufficientemente intenso e virtuoso per essere apprezzato anche da un pubblico più vicino al jazz. Un progetto divertente, elastico, non cervellotico eppure nemmeno banale o semplicistico. Dopo aver conosciuto gli Haggis Horns avrete la certezza che il funk non è mai realmente uscito di scena, sta semplicemente cambiando i suoi protagonisti. 

Omar Hakim & Rachel Z - The Trio Of Oz


Omar Hakim & Rachel Z - The Trio Of Oz

Scoprire casualmente il progetto The Trio of Oz di Omar Hakim e Rachel Z  è stato uno di quei piaceri inaspettati che di tanto in tanto si verificano, specialmente se si è avidi ricercatori di musica. Non avevo avuto occasione in precedenza di imbattermi in questo lavoro del 2010, ma dopo aver saggiato le qualità di questo trio sono contento che sia successo. Il batterista Omar Hakim, dopo aver pubblicato un paio di album da solista non proprio esaltanti a causa di una chiara vocazione commerciale, ha finalmente trovato una formula che mi è apparsa subito molto convincente. Per dare finalmente una svolta alla sua produzione artistica in un modo che fosse degno del suo indubbio talento, Omar ha messo insieme una mini band denominata Trio Of Oz e quello di cui vi parlo è purtroppo il loro primo e finora unico album. D’altra parte Hakim ha un curriculum che parla da solo: ha suonato con Miles Davis, Herbie Hancock ed i Weather Report, ma l’elenco delle sue collaborazioni (anche fuori dal mondo del jazz) sarebbe davvero troppo lungo da riportare. Universalmente apprezzato per la sua versatilità, l’abilità tecnica ed il magnifico groove che è in grado di sprigionare, Omar Hakim è uno dei batteristi e session man più importanti degli ultimi quarant’anni. Trio Of Oz nasce grazie al sodalizio (non solo artistico) con la pianista Rachel Nicolazzo (alias Rachel Z.), completato da un’altra donna: la contrabbassista Maeve Royce. I tre musicisti hanno creato un album emozionante e per certi versi anche inatteso. Sia Hakim che Rachel hanno in passato frequentato territori molto lontani dal jazz, in alcuni casi davvero in antitesi. Ma qui si concretizza una sorta di miracolo musicale poiché la scelta dei brani pescati dal mondo del rock farebbe presagire esiti molto diversi. Ed invece eccoci davanti ad un incontestabilmente vero disco di jazz. Un jazz moderno ma rispettoso della tradizione dove l’alternanza degli stati d’animo passa dalla tensione alla malinconica dolcezza, dalla gioia di vivere alla riflessione, spingendo magneticamente a scoprire quello che verrà dopo. Qualcuno potrebbe obiettare che l’album non contiene composizioni originali ma solo covers. Bene, questo è senza dubbio vero, ma il consiglio è quello di ascoltare con la mente aperta: i temi e le melodie sono firmate da altri, ma una volta che il trio ha finito di presentare la traccia di base dei brani (ovviamente nell’idioma jazzistico), non ci sono più regole e strutture. Si entra nel regno di Oz… e la magia ha inizio davvero. E in quel preciso momento non importa che tu sia o no un fan degli artisti responsabili di queste canzoni (tra cui "Lost" dei Coldplay, "In Your Room" dei Depeche Mode, "King of Pain" dei Police, "Sour Girl" dei Stone Temple Pilots, "Angry Chair”di Alice In Chains, e "I Will Posses Your Heart" di Death Cab For Cutie). Il Trio di Oz li prende e li fa propri. Di fatto dopo pochi secondi di ascolto non si può fare a meno di rimanere colpiti dal sound e dal groove che scaturisce dalla band. Il batterista Omar Hakim dimostra una volta per tutte che il suo talento è eccezionale ed il suo modo di suonare è uno dei più spettacolari dei nostri tempi, anche se si esprime con la lingua del jazz e non solo quella della fusion o del funk. E’ il paradigma del drumming moderno, in grado di spaziare tra stili e generi diversissimi con la stessa naturale disinvoltura: un modello di riferimento per chiunque si approcci alla batteria. Lui ha anche gestito in prima persona il mixaggio dell'album e supervisionato la registrazione in ogni suo aspetto: semplicemente Hakim ha colto perfettamente l'atmosfera del Trio. Il risultato è un disco nitido, preciso e immediato, esattamente come dovrebbe essere. Mi piace sottolineare quanto sia degno di nota il suono di contrabbasso di Maeve Royce, che ha svolto un lavoro eccezionale non tanto in termini di volume, quanto di sensibilità e tecnica. A proposito, Maeve Royce ha di certo un curriculum meno impressionante di Hakim e Rachel Z, ma il suo basso acustico si integra alla perfezione con il trio, dando una spinta significativa ad ogni brano. Basta porre l’attenzione ad esempio ai suoi adorabili passaggi con l’archetto su "Det Tar Tid" o godersi la sua introduzione perentoria ed accattivante di "I Will Possess Your Heart". O ancora quando si destreggia con un brano di pura estrazione rock blues come "Whipping Post". Il già citato "I Will Possess Your Heart" mostra anche lo speciale tipo di potenza pirotecnica che Hakim è in grado di scatenare con la sua batteria. Rullate selvagge, ma totalmente in controllo, con Rachel Z che mantiene un solido sottofondo di accordi su cui imbastire intrecci ritmici tanto arditi quanto ipnotici. E poi non si può ovviamente non parlare di Rachel Z stessa, che in carriera ha collaborato con alcuni grandi del jazz come Wayne Shorter, Larry Coryell e Al Di Meola e nel contesto del trio sembra trovarsi davvero a suo agio. Il suo stile pianistico con il Trio of OZ spazia dai lontani echi di Monk alle sequenze veloci dal sapore di bebop. Riversa nell'esecuzione, con intelligenza e ottima tecnica, deliziose cascate di note che si amalgamano sulle trame ritmiche dei suoi compagni d’avventura. Vola sulla tastiera con la grazia e l'immaginazione di Keith Jarrett senza risultare mai una vana imitatrice. Attraverso Trio Of Oz, Omar Hakim e Rachel Z cercano di conciliare due anime contrastanti come il jazz ed il rock, scegliendo una via non facile, e cioè quella che vede prevalere lo stile più colto e raffinato su quello più popolare e diretto. Le collaborazioni che i due hanno avuto con numerosi artisti pop/rock hanno evidentemente sortito un effetto benefico. Lo scambio e l’interazione tra le due culture musicali è servito da trampolino per la creazione di un nuovo modo di coniugare due mondi tanto diversi. Quello che ne esce è una sorta di ibrido mutante, un soggetto musicale che cerca di catturare il divertimento del rock senza compromettere l'integrità colta del jazz. In realtà, alla prova dell’ascolto, il Trio Of Oz fa pendere l’ago della bilancia sonora molto più dalla parte del jazz che verso quella di altre forme musicali moderne. Si rifugge dalla trappola dell’ipertecnicismo a tutti i costi, si evitano le chitarre funamboliche, i sintetizzatori, i volumi eccessivi e la ricerca del virtuosismo ad effetto. La strada è invece quella di una pacata ed intelligente rilettura del classico trio jazz nella quale Hakim e Rachel Z, insieme a Maeve Royce, sembrano piuttosto ridefinire il concetto di "jazz rock" con una formula avvincente e piena di passione che tuttavia, pur profumando di contaminazioni, resta saldamente nel solco della tradizione. Però il bello del Trio Of Oz sta proprio nel fatto che ogni volta che il jazz pare sul punto di risultare troppo conservativo o incatenato nei suoi schemi i tre musicisti fanno uno scatto in avanti,  trovando quel delicato equilibrio tra il retaggio del passato e la spinta verso il futuro. Consigliato a tutti.

Lalo Schifrin – Black Widow & Towering Toccata


Lalo Schifrin – Black Widow & Towering Toccata

Cosa hanno in comune il tema originale di Mission Impossible, la colonna sonora di Bullitt o quella della saga dell’Ispettore Callaghan, la sigla del popolarissimo Starsky & Hutch, la musica di Organizzazione U.N.C.L.E. o ancora quella di Mannix ? Sono tutte opera del talento creativo di Lalo Schifrin, un compositore e pianista argentino che dalla metà degli anni ’60 ha musicato un numero enorme di film, molte serie televisive e contemporaneamente ha pubblicato anche una trentina di album. Se alcuni temi musicali entrano nell’immaginario collettivo ed a distanza di anni non smettono di catturare l’attenzione degli ascoltatori, per Schifrin forse parlare di genio non è poi così azzardato. Nel suo caso a quanto detto si aggiunge un’attività di compositore di musica per balletti, da camera, orchestrale e perfino quella di pianista jazz. A questo punto se avete una passione per gli anni '70, per il jazz rock e per il sound delle colonne sonore poliziesche, d’azione e di spionaggio l’ascolto di questo cd è praticamente obbligatorio. Lalo Schifrin registrò Black Widow nel 1976 e fu il suo debutto per la leggendaria etichetta CTI. Subito a seguire incise anche Towering Toccata che fu pubblicato però nel 1977. Entrambi questi album riuniti qui in unico cd, presentano alcuni dei più grandi musicisti jazz di quel periodo tra cui Eric Gale, Steve Gadd, Hubert Laws, Jon Faddis, Anthony Jackson e Joe Farrell, solo per citarne alcuni. Tenendo fede al suo caratteristico stile, Schifrin innesta un'atmosfera funk jazz su alcuni classici temi cinematografici e tra questi anche a Jaws di Steven Spielberg, ma non solo. Lo Squalo, (come fu chiamato in Italia) mantiene una sua freschezza ancora oggi, e arrivò al numero 14 nella classifica dei singoli nel Regno Unito. Lo stesso album Black Widow è andato molto bene come vendite, raggiungendo il numero 22 nella hit americana jazz. Anche grazie al buon risultato commerciale e incoraggiato dalla positiva reazione del pubblico, Schifrin registrò quasi subito il seguito ideale di Black Widow, intitolato Towering Toccata. Si tratta di un'altra collezione di groove fluidi, disco funk, fusion e jazz rock oltre che di alcuni temi rielaborati per adattarsi al concetto generale dell'album. Ad esempio c’è la versione da discoteca del tema di King Kong, firmato John Barry, che a sua volta ha riscosso un certo successo. Entrambi questi album sono oggi giustamente considerati dei classici. Ma il vero tesoro non lo si trova in queste pur interessanti rielaborazioni, bensì nei brani originali, quelli che incarnano al meglio l’essenza del jazz funk. Ovviamente possono suonare datati, in fondo sono un prodotto del loro tempo e lo specchio di una certa generazione, tuttavia hanno ancora un fascino irresistibile e contengono spunti musicali che non possono lasciare indifferenti. Al contrario hanno quell’esatto mood che oggi definiamo vintage sound o chiamiamo rare grooves. Basta guardare indietro nel tempo con interesse ed immergersi in quel mare di nostalgia e ricordi che questi due intriganti album possono offrire per godere appieno del loro grande valore. Black Widow e Towering Toccata si completano perfettamente a vicenda: al punto che inseriti in questo modo su un unico supporto quasi non si avverte un vero punto di separazione da un album al successivo. Tutto scorre senza soluzione di continuità e con una affascinante sensazione di raffinatezza storica. Tra l’altro la qualità audio di questo cd è straordinariamente pulita e chiara, senza alcuna evidenza di distorsione. Le sezioni fiati sono precise, i bassi sono profondi e la dinamica generale appare ben bilanciata, perfettamente naturale, pur essendo vecchia di 40 anni. Non resta che lanciarsi nell’ascolto con la certezza di trovarsi al cospetto di una straordinaria galoppata musicale in grado di combinare la destrezza musicale del jazz con i ritmi del funk e della dance, ma quella sofisticata. L’abilità di Lalo Schifrin come arrangiatore è ovviamente di alto livello e le sue doti di tastierista non possono essere sottovalutate. Anche per questa ragione è difficile dire se sono preferibili le cover oppure i brani originali: Schifrin ha questa innata capacità di riuscire a rielaborare i temi trasformandoli in qualcosa di diverso. Gli esempi citati prima (Jaws e King Kong) ne sono una dimostrazione, ma anche "Quiet Village" e "Moonglow & Theme From Picnic" restituiscono le stesse emozioni. Personalmente però ho una predilezione per i brani originali del compositore argentino: siano essi colonne sonore o pezzi realizzati appositamente per essere inseriti in un album. E’ qui che il groove diventa incontenibile, il funk regna sovrano e l’approccio jazzistico si fa più evidente. Il potere evocativo e, per così dire cinematico dei numerosi brani da non perdere di questi due album è costante. Grazie alla suggestione della musica ogni volta sembra di assistere ad un forsennato inseguimento, oppure ci si aspetta un complotto spionistico, o ancora quasi si può seguire un indagine di polizia. Paradigmatico in proposito è proprio il brano Black Widow: un intreccio di archi costruito sapientemente attorno a un groove di basso funky che si arricchisce di bordate di fiati e tocchi di piano elettrico. La stessa architettura che viene declinata in ogni variante possibile anche su altri splendidi pezzi come Dragonfly, Turning Point, Baja, Tabù. Il passaggio all’album Towering Toccata non riserva alcuna sorpresa dato che il tenore della musica non cambia di molto. Curiosa la scelta di rielaborare la celebre Toccata e Fuga di Bach: a parte il riff che tutti conoscono, Schifrin confeziona un brano funky che risulta perfino difficile far risalire ad un brano classico. Magnifici sono poi i temi di Most Wanted (serie tv) e Roller Coaster (film) e piuttosto interessanti due brani latineggianti come Macumba e Midnight Woman. Se da un lato il palese sapore disco-funk può scoraggiare l’interesse degli integralisti del jazz, gli arrangiamenti elegantissimi ed anche fantasiosi di Lalo Schifrin rendono i due album tutt’altro che banali o noiosi. Inoltre c’è da considerare che queste sessioni di registrazione sono state animate da una band di super-stars in grado di trattare il materiale con grande energia e stile da vendere. Il risultato finale è un cd che, nel suo complesso, rappresenta forse il top della lunga discografia del tastierista e compositore argentino. A mio parere è un lavoro imperdibile per qualsiasi appassionato di buona musica, in particolare per coloro che amano il jazz funk e le commistioni disco argutamente costruite su di un feeling jazzistico che non viene mai meno. Se poi nel vostro cuore c’è un posto speciale per le colonne sonore dei lungometraggi e le sigle delle serie tv poliziesche, di spionaggio o d’azione, Lalo Schifrin è la risposta definitiva.

Eddie Henderson – Comin’ Through


Eddie Henderson – Comin’ Through

Eddie Henderson è un trombettista e flicornista statunitense. In ambito jazzistico, Eddie ha raggiunto una certa notorietà nei primi anni '70 come membro della band del pianista Herbie Hancock, continuando poi a guidare i suoi gruppi elettro fusion durante tutto il decennio successivo. Henderson si è anche laureato in medicina dopodiché ha lavorato parallelamente sia come psichiatra che come musicista, tornando al jazz (acustico) solamente con l’avvento degli anni '90. Musicista di ottima tecnica e dotato di un sound accattivante vanta quali principali influenze alcuni grandi specialisti del passato come Booker Little, Clifford Brown, Woody Shaw e (come poteva mancare) il divino Miles Davis. Come sopra accennato, ci fu un periodo, a San Francisco, tra il 1975 e il 1985, durante il quale il trombettista Eddie Henderson si destreggiava tra due discipline estremamente impegnative: praticare la medicina e suonare la tromba. Poco prima, nel 1973, Henderson aveva concluso il periodo forse più gratificante della sua carriera con la mitica band Mwandishi capitanata da Herbie Hancock. Con loro Eddie fu protagonista degli eccellenti album sperimentali intitolati Mwandishi, Crossings e Sextant. La passione per la medicina tuttavia lo spinse poi a dedicarsi con maggiore impegno allo studio. Henderson trovò un terreno fertile nella fusion del gruppo di Hancock, dimostrandosi perfettamente a suo agio proprio nell’approccio ad uno stile incentrato sul funky groove. Terminata quindi l’esperienza con il grande pianista, Eddie decise di intraprendere finalmente la sua carriera da solista, utilizzando gli stessi musicisti della band di Hancock in due album tipicamente fusion come "Realization" e "Inside Out". I due lavori consacrarono Henderson come uno degli esponenti di spicco del genere. Dopo una pausa di sei mesi con i Jazz Messengers di Art Blakey, registrò altri quattro album come leader. I primi due per la Blue Note e i successivi due per la Capitol. Il primo di questi due dischi con la Capitol è intitolato "Comin Through".  Registrato nel 1977, al fianco di Eddie Henderson suonano nomi famosi come Lee Ritenour alla chitarra e l'ex sideman di Miles Davis Mtume alle percussioni. Alle tastiere troviamo l’esperto George Cables, mentre una giovane Patrice Rushen è impegnata con le percussioni, come vocalist e solo in un pezzo alle tastiere, Howard "Locksmith" King è alla batteria e come cantanti ci sono il noto Philip Bailey  degli Earth Wind & Fire e Dianne Reeves, all'epoca quasi sconosciuta. L’album evidenzia chiaramente che la principale delle fonti d’ispirazione di Henderson fu proprio Miles Davis, anche se è altresì chiara una personalità spiccata ed una apprezzabile originalità nel fraseggio, in particolare con il flicorno. Comin’ Through inizia con il brano jazz funk più famoso di Eddie, l'eccitante "Say You Will" scritto da Mtume. L’andamento è vivace e quasi disco andando a contrastare piacevolmente la tromba di Henderson, che si muove sul tempo con una cadenza davisiana, tra accelerazioni, rallentamenti e note trattenute. Il più lento "Open Eyes" suona molto più controllato anche se sicuramente è un numero dallo spirito funkeggiante: la voce femminile è quella di Dianne Reeves e sono notevoli gli arrangiamenti dei fiati. "Morning Song" è una delle due canzoni lente di questo album e Eddie Henderson imbraccia il suo flicorno suonando esattamente nel modo che preferisco, rilassato e corposo, gli anglosassoni lo chiamano mellow mood. "Movin`On", è uno spettacolo tutto riservato a Eddie Henderson; il ritmo si mantiene nel solco del funk jazz e il trombettista sembra galleggiare nel suo elemento naturale con grande disinvoltura. Qui c’è anche da notare il notevole assolo di Mani Boyd con il sax soprano. "Source" ha una melodia semplice su un ritmo molto funk, Eddie suona la tromba con la sordina mentre alla chitarra c’è niente di meno di Lee Ritenour. "The Funk Surgeon" è il paradigma della funky music, il groove è al massimo, i fiati sono secchi e brillanti come necessario, e poi c’è il magnifico lavoro al basso di Paul Jackson. E’ un brano eccitante e pieno di energia. "Beyond Forever" è interessante soprattutto per l’alternanza continua dell’andamento ritmico e suona forse più fusion che funk, quindi si discosta leggermente dagli altri pezzi dell’album. Di sicuro è molto differente il mood proposto dalla lenta e meditativa "Connie" che peraltro offre a Eddie l'opportunità di suonare in modo dolce e rilassato praticamente in perfetta solitudine. Una sorta di oasi di tranquillità in mezzo all’esplosione di ritmo e vibrazioni funk jazz che caratterizzano Comin’ Through. Nel corso della lunga parentesi che il trombettista Eddie Henderson ha dedicato alla variante elettro fusion del jazz, è diventato uno dei musicisti più apprezzati di questo genere di crossover, sempre in bilico tra il jazz, il funk ed infine la disco. Se i primi album della sua discografia da solista erano elettrici ma decisamente complessi e cerebrali, con il passare degli anni il sound del trombettista si è fatto più leggero ed orecchiabile fino ad arrivare proprio a questo album del 1977 e ai seguenti tre lavori. Dal 1980 Eddie si è dedicato alla professione di psichiatra e quando nel 1990 è rientrato sulla scena, lo ha fatto seguendo la strada della tradizione acustica, lasciando definitivamente quella della fusion e del funk jazz. Comin’ Through è un classico esempio di vintage sounds dagli anni ’70 che vale la pena di essere riscoperto.

The Mysterious Flying Orchestra - The Mysterious Flying Orchestra


The Mysterious Flying Orchestra - The Mysterious Flying Orchestra

Il nome di questa orchestra, che immagino veramente pochi di voi conoscano, rivela già di per se la natura enigmatica che sta alla base di questo progetto. Molto più famoso, almeno per gli appassionati di jazz, è invece il nome di Bob Thiele (1922-96). Thiele è ricordato soprattutto come il produttore che ha supervisionato a numerose sessioni storiche di jazz dagli anni '50 agli anni '90, in particolare dirigendo le registrazioni della Impulse durante il suo periodo d'oro (1960-69). Bob è molto apprezzato dai cultori di jazz per aver sempre dato carta bianca a John Coltrane, concedendogli la possibilità di registrare esattamente quello che più gli piaceva. E’ invece molto meno noto il fatto che Thiele abbia registrato diversi album a suo nome, tra il 1967 ed il 1993. È insolito per un produttore, e va detto che la partecipazione di Bob Thiele a questi dischi era limitata alla "direzione musicale" e occasionalmente a suonare le percussioni. Tuttavia potè usufruire del  talento dei molti musicisti che aveva prodotto e con i quali aveva collaborato per far suonare loro della musica che era probabilmente un po' al di fuori dei loro normali interessi. Queste registrazioni quasi dimenticate sono dei piccoli tesori sepolti che possono indubbiamente rappresentare un motivo di grande interesse per gli appassionati, proprio per la presenza degli artisti leggendari che vi si possono trovare. E una di queste gemme seppellite sotto la coltre del tempo e dell’oblio è un album di Bob Thiele che non porta nemmeno il suo nome, quanto piuttosto uno psudonimo piuttosto curioso. L’album è infatti intestato abbastanza enigmaticamente ad una fantomatica “The Mysterious Flying Orchestra” (TMFO). Rilasciato all'inizio del 1977 su etichetta RCA, questo LP resterà per sempre esclusivamente su vinile e non verrà più ristampato in nessun formato. Copertina alla mano sembra quasi di trovarsi di fronte ad una sorta di scherzo, ma quando inizia l’ascolto la prima impressione lascia il posto allo stupore. Ad aggiungere mistero e curiosità, sulla quarta di copertina non ci sono i titoli delle canzoni e vengono sciaguratamente trascurati i crediti dei musicisti coinvolti. Ma il progetto TMFO è invece uno scrigno che al suo interno nasconde preziosamente più di una perla musicale: dentro c’è una fusion ante litteram che non mancherà di sorprendere positivamente. Anche senza le giuste note di copertina è possibile però risalire ai musicisti che hanno suonato in questo oscuro album vintage. Si scopre così che una schiera di formidabili solisti di jazz è presente qui e tra questi non posso non citare Larry Coryell, Steve Marcus, Eddie Daniels, Bob Mintzer, Lonnie Liston Smith e Charlie Mariano. Inoltre c’è tutta la crema dei session men di New York dell’epoca: Jon Faddis, Lew Soloff, Don Grolnick, Gene Bertoncini, Jerry Friedman, Wilbur Bascomb, Andy Newmark e Guilhermo Franco. Come si può vedere siamo di fronte ad una vera e propria orchestra (per quanto misteriosa) e il risultato è indubbiamente una musica di grande impatto: un po’ funk jazz, a tratti lounge, di sicuro sempre ricca di groove. Il primo brano, "Improvisational Rondo For Saxophone And Guitar" composto da Horace Ott (responsabile perlatro di tutti gli arrangiamenti), è immediatamente una rivelazione. Inizia etereamente, con la chitarra di Larry Coryell che lentamente conduce in pieno territorio funk jazz. Il groove può richiamare in parte il sound disco ma la sostanza, al di là del ritmo, è chiaramente un jazz che pare incastonato nell’architettura orchestrale: da applausi sia la chitarra di Coryell che il sax soprano di Steve Marcus, ma colpisce il lavoro al basso di Wilbur Bascomb. Il ritmo funky è martellante e non da tregua, in un crescendo che sembra andare di pari passo con l'adrenalina dei musicisti. Ci sono con alcuni sorprendenti e piacevoli interventi di archi con un arrangiamento che si evolve e diventa più interessante man mano che il groove aumenta. Coryell è apparso nelle prime registrazioni di Marcus, il che spiega la sinergia ideale che i due condividono anche qui in questa sorta di funk jam session. Lonnie Liston Smith contribuisce all'album con due pezzi, tra cui il meraviglioso "Shadows". Smith, i cui primi dischi furono supervisionati proprio da Thiele, aveva già registrato "Shadows" e "Summer Days" per il suo storico album del 1975, Expansions. La melodia di Smith è leggera, il che richiede alla TMFO, secondo l’arrangiamento di Ott, di creare un’atmosfera più corposa, perfettamente messa in atto dalla poderosa sezione fiati. Tra l’altro Lonnie Liston Smith si esibisce in tutto il brano al piano elettrico, con uno stile che era già uno dei più particolari e originali in quell’epoca. Il bell’assolo di sax tenore è opera di Steve Marcus. "A Dream Deferred", è l'omaggio di Bob Thiele a Oliver Nelson, un artista che fu di frequente collaboratore di Thiele, e che era morto poco prima di questa registrazione. E’ un brano bellissimo: quasi una sorta di valzer ipnotico ed attraente che ha il potere di catturare l'interesse dell’ascoltatore con la sua suadente melodia blues. Non si può fare a meno di restare estasiati dagli assoli di Don Grolnick al piano elettrico e Eddie Daniels al flauto. A seguire la “Summer Days" di Lonnie Liston Smith è un numero dal sapore lounge, molto orecchiabile, dove stranamente il tastierista non suona. L’assolo di flauto, molto interessante è opera del fratello di Lonnie, Donald mentre Charlie Mariano è responsabile dell’intervento al sax soprano. La traccia si fa via via più funky, con un finale in crescendo. La canzone meno riuscita è senza dubbio l’unica che è anche cantata: Theresa Brewer è la voce di un brano piuttosto sdolcinato intitolato "Thre’s Once Was A Man Named John" (dedicato a John Coltrane). Il momento migliore è l’accorato assolo di sax soprano del bravissimo Charlie Mariano. "Nice 'N Spicy" vede il sublime Eddie Daniels prendere la scena con il suo flauto mentre Steve Marcus e Bob Mintzer duellano a colpi di sax tenore. Si tratta di una traccia fusion, dall’andamento sempre piuttosto funkeggiante, caratterizzata principalmente dal gioco intrigante dei fiati. The Mysterous Flying Orchestra è un album strano, magari non del tutto perfetto, tuttavia nasconde molti momenti di grande musica. In particolare vanno sottolineati i magnifici assoli sciorinati dai vari grandi interpreti che facevano parte del progetto. E non nascondo un certo stupore anche per la scelta fatta riguardo al genere di musica da uno come Bob Thiele, che nella sua carriera di produttore ha principalmente "frequentato" il jazz nella sua forma estetica più pura. Se siete attratti da una particolare ed intrigante forma di proto fusion vintage, colorata di caldi colori funky e suonata da alcuni dei migliori improvvisatori del jazz degli anni ‘70, questo disco è assolutamente da non perdere. Purtroppo 36 minuti di musica rappresentano una durata un pò troppo breve per gli standard odierni: alla luce dell’impatto estremamente positivo che si può avere ascoltando questi autentici “rare grooves” se ne vorrebbe decisamente di più. Ma il piacere della scoperta di questo autentico gioiello dimenticato firmato Bob Thiele di sicuro compensa ampiamente dalla sua eccessiva brevità. Consigliato.

Tony Saunders – Sexy Somethin’


Tony Saunders – Sexy Somethin’

La vita del bassista Tony Saunders è stata fin dall’infanzia molto interessante. Figlio del grande tastierista e compositore Merl Saunders, Tony è stato protagonista di una serie di esperienze legate alla musica che ogni appassionato vorrebbe aver avuto. Due esempi ?...Da bambino gli fu insegnato pianoforte nientedimeno che da Herbie Hancock e per il suo decimo compleanno ricevette in dono da Sly Stone un organo elettrico. Cresciuto all’ombra di un artista come suo padre e spesso tenuto a contatto con i musicisti che gravitavano intorno alla Fantasy Records, Tony ha avuto relazioni dirette e continuative con molti personaggi di rilievo del mondo discografico, tra cui anche il famoso produttore Saul Zaentz. La sua passione per il basso è iniziata dopo aver assistito ad alcune sessioni di registrazione di Anthony Davis con suo padre Merl. Il giovane Tony restò talmente impressionato che si convinse ad impegnarsi nello studio della musica. Tony si diplomò infine al prestigioso conservatorio di musica di San Francisco come pianista, ma subito dopo cominciò a perfezionare le sue abilità con il basso. Le sue principali influenze erano James Jamison, Stanley Clark e Jack Cassidy. A conferma di una particolarissima parabola personale, fu Tom Fogarty dei Creedence Clearwater Revival a regalare a Tony il suo primo basso elettrico e Chuck Rainey e John Kahn a loro volta si interessarono al ragazzo, dandogli lezioni e segnando così definitivamente la sua carriera. Il viaggio musicale di Saunders, cominciato sotto una buona stella fin da bambino, è continuato fino a oggi, suggellato da collaborazioni prestigiose (Eric Clapton, David Crosby, Joe Sample, Chaka Khan, Ringo Starr, Bo Diddley) e da una piccola ma significativa produzione da solista. Tony Saunders può vantarsi di aver suonato in centinaia di album, ha scritto colonne sonore premiate (ha vinto due Emmy Awards) ed è autore anche di jingle commerciali. La sua attività continua senza sosta, anche come produttore, nel suo studio all'avanguardia nella California del Nord. L'ultimo album di Tony intitolato Sexy Somethin’ è il suo sesto lavoro come solista. Pur restando fedele al suo sobrio stile smooth jazz, Tony Saunders passando da un album all’altro, ha sempre riservato ai fan alcune piccole ma significative variazioni sul tema. Il precedente lavoro, Uptown Jazz, era stato impostato attorno ai ricordi ed alle sensazioni maturate quando gravitava nei club jazz di New York. Dopo 4 anni il suo sforzo è stato quello di cercare di creare il suo album migliore, il più piacevole, e perché no, il più sensuale: da qui il titolo del lavoro. Uno dei grandi vantaggi di avere così tanti anni di successi alle spalle consiste nella capacità di Saunders di attrarre in veste di ospiti delle autentiche superstar, cosa che lo agevola  nella realizzazione dei suoi progetti musicali. In questo lavoro il primo di questi collaboratori è il chitarrista Nils, che altro non fa se non aggiungere la sua frizzante energia al groove implacabile di Saunders su alcuni dei brani di Sexy Somethin’. Ad esempio sulla traccia di apertura, dove dona un nuovo e vivace tocco strumentale alla hit degli anni '80 "Rock Steady". Il bravo Nils risulta fondamentale in altri due momenti del disco da non perdere: ad esempio nello stimolante "Chasing The Dream", in cui fonde il lato più fluido e melodico della chitarra elettrica con il classico groove del moderno smooth jazz. Il brano è illuminato anche dal sax super soul della stella emergente Jeff Ryan ed ovviamente dal basso di Saunders. E’ particolarmente apprezzabile il modo così melodico con il quale Tony Saunders interpreti le sue onnipresenti parti da solo. Il suo è un flusso funk potente ma declinato con un fraseggio cantabile e sempre perfettamente nitido. C’è ancora spazio per la chitarra di Nils in abbinamento al maestro delle tastiere Jeff Lorber quando Tony rende omaggio al grande George Duke con il brano After George. E’ un rilassato momento pieno di pathos ma non privo di groove. Come faceva spesso lo stesso George Duke, la traccia diventa più funky mano a mano che  procede fino a quando Lorber parte con un favoloso assolo di synth e quindi con un'improvvisazione al pianoforte che è un vero inno all'epoca d’oro della fusion, così ben interpretata dal maestro Duke. Ma Nils non è l'unica star della chitarra su Sexy Somethin’. Saunders ha chiamato anche Paul Jackson, Jr. sulla setosa e forse autobiografica "Tony's Romance" dove il corpulento bassista abbina il suo stile serrato e scattante con quello del famoso chitarrista: ritmico alla maniera della vecchia scuola ma pungente e preciso in assolo. In verità un brano bellissimo, uno dei migliori dell’intero album. Il pezzo che da il titolo all’album, Sexy Somthin’ è un altro saggio della maestria di Saunders al basso elettrico: il musicista fa fluttuare le sue linee corpose e liquide sull'eleganza della scrittura jazzistica sfruttando appieno la magia del synth di un'altra importante guest star, la tastierista Gail Johnson. La Johnson contribuisce anche sulla intrigante "Brock Avenue" con sapienti tocchi di piano elettrico che vanno a creare un pezzo di grande impatto. Come sempre Saunders è solidissimo nel gettare le basi per la scintillante melodia sviluppata al piano dal co-produttore del disco Ray Chew, mentre è il turno del sempre bravo Paul Brown prendere posto alla chitarra. Se l’intento di Tony Saunders era quello di dare vita ad un album di smooth jazz basato sul fantastico sound del suo basso, il bersaglio è stato centrato anche questa volta. Complice un corposo aiuto di un folto gruppo di eccellenti guest star, Sexy Somethin’ è un disco accattivante, ricco di spunti interessanti e sempre estremamente gradevole. Si tratta di contemporary jazz di facile lettura e tuttavia non privo di una qualità compositiva intrinseca di ottimo livello nonché di un notevole buon gusto negli arrangiamenti. Ovviamente è principalmente destinato a chi predilige il basso elettrico come strumento solista, ma non mancherà di essere apprezzato da un più vaso pubblico di appassionati di quella forma leggera e poco impegnativa di jazz che da qualche anno a questa parte viene universalmente definita con l’aggettivo “smooth” (furbo in inglese).

Afroskull – To Obscurity And Beyond


Afroskull – To Obscurity And Beyond

Prima di iniziare la mia recensione, è necessario un avvertimento: "To Obscurity And Beyond" è qualcosa di abbastanza diverso da quello che potrebbe essere convenzionalmente etichettato sia come jazz contemporaneo che tantomeno come jazz classico. Piuttosto è una strana ed intrigante combinazione di influenze che partono dai Chicago e passando per i Blood Sweat and Tears e i Colosseum può arrivare ai Funkadelic e persino a Frank Zappa. Tuttavia il jazz è presente, così come sono altrettanto avvertibili alcuni echi di rock progressivo e metal; anche per questo motivo gli Afroskull sono una band eccitante, vigorosa, dinamica e possono inoltre vantare una tecnica impeccabile. Ma forse è meglio introdurre brevemente qualche cenno storico di questo strano gruppo: si tratta di un collettivo musicale di New York originario di New Orleans. Joe Scatassa (chitarra), Bill Richards (basso), Matt Barone (tastiere), Jason Isaac (batteria) erano il nucleo primario che, irrobustito da una schiera di fiati, registrarono il primo album intitolato Monster for the Masses, uscito nel 2000. Dopo la fuoriuscita di alcuni membri della band, seguì una breve pausa e quindi arrivò il trasferimento a New York. Scatassa e Isaac inserirono Matt Iselin (tastiere), Dan Asher (basso) e Seth Moutal (percussioni) per far rinascere la band, seguendo la strada tracciata dall’album di debutto. To Obscurity And Beyond ha visto la luce nel 2009 ed è un lavoro per lo più strumentale, con solo due tracce cantate delle 11 totali. E’ un album che possiede abbastanza energia e groove per spingerti ad un irrefrenabile anelito di movimento, ma vanta al contempo quella tecnica musicale sufficientemente raffinata da far prevalere la voglia di ascoltarlo con attenzione. In qualche misura è un album della vecchia scuola, molto lontano da ciò che offre il mercato discografico, ma nel quale il virtuosismo viene sfruttato per trasmettere il particolarissimo messaggio musicale nella maniera più fruibile. Come detto l'ispirazione degli Afroskull è radicata nel passato, sebbene con un sapore decisamente contemporaneo. Volendo sintetizzare si tratta di un quintetto arricchito da una corposa sezione fiati (brillantemente soprannominata "The Horns of Doom"): in pratica gli Afroskull suonano la loro musica complessa e multidimensionale come se fossero una mini-orchestra. La band impiega rigorosamente strumenti reali, cosa che si traduce in un suono autenticamente caldo ed espressivo, lontano anni luce da quel sound spesso freddo e asettico  a cui ci hanno abituato la maggior parte delle pubblicazioni discografiche attuali. Muscolare ed avvincente, forse sono questi i due aggettivi che riassumono meglio la musica degli Afroskull, una proposta artistica che tuttavia è ugualmente capace di raffinatezza. Forse anche per questo il richiamo al Frank Zappa di The Grand Wazoo e Hot Rats è più che giustificato. L'album si apre con il funky pirotecnico di "Spyplane" ed è subito uno shock musicale: l’impatto è potente e suggestivo, quasi cinematico. Se il titolo suggerisce uno schema, effettivamente il brano rimanda ai film di spionaggio, suggerendo fughe, inseguimenti e spettacolarità. La band mostra il suo lato relativamente più sobrio su "Redemption", rinunciando per un momento ai ritmi indiavolati per concedere una pausa all’ascoltatore. "The Curse" è quasi sinistra nel suo incedere marziale, con un’anima progressive metal ed una ritmica mutevole e ipnoticamente diversificata. I grintosissimi riff di chitarra così come i brillanti assoli sono opera di Joe Scatassa ed animano questo pezzo, come tutto il disco, di un’energia contagiosa. Impressiona il potente suono dei fiati ed è discreta ma sostanziale la presenza delle tastiere: tutto è alimentato dalla ritmica spettacolare di Jason Isaac e Seth Moutal con il supporto dell’implacabile basso di Dan Asher. Me And My Tv è altrettanto impressionante: il ritmo intricatissimo viene cavalcato da un bellissimo assolo di tromba prima e poi da un piano elettrico distorto, per un brano che suona jazz rock forse più degli altri. E non è da meno la fiammeggiante Dance Of The Wild Koba dove è il trombone a prendersi la scena all’inizio per poi essere abbondantemente inondata dal muro sonoro creato da ottoni e sax in un crescendo complessivo degno della migliore colonna sonora di un poliziesco degli anni ’70. Da sottolineare il favoloso lavoro al clavinet di Matt Iselin che tanto ricorda Geoge Duke o Jan Hammer. "Waste Management" e "Everything" sono le uniche due tracce vocali (affidate rispettivamente al tastierista Matt Iselin e all’ospite Michael Taylor). Mescolano efficacemente il blues con i classici ritmi funky e tocchi di rock, ma sono ravvivate dalla presenza roboante e onnipresente dei fiati. Giusto per dare un’idea, l’impatto è simile a quello dei primissimi Chicago, con forse un pizzico di ruvidezza in più. L'album termina con il botto, prima con un altro funky funambolico e trascinante come Zero Hour. E quindi con la summa musicale dell’intero album degli Afroskull, inititolata  "Escape from Rome". Si tratta di un tour-de-force di 8 minuti che passa dall'apertura quasi jazz (qui le similitudini con The Grand Wazoo di Zappa sono notevoli) alla intensa sezione centrale della traccia, nel corso della quale tutti gli strumenti si prendono il loro spazio per creare un’architettura imponente ed estremamente affascinante. To Obscurity And Beyond è una straordinaria raccolta di brani esaltanti, supportata da un'incredibile musicalità e da un grande sensazione di autentica scoperta. Questo è un album che merita sicuramente di essere etichettato come una delle pubblicazioni più interessanti di questi ultimi anni. Di sicuro è qualcosa di molto raro nel panorama della musica attuale: complice la sua complessità intrinseca, a causa della pura energia che sprigiona, e per il sound in qualche misura inedito e audace che gli Afroskull sono in grado di regalare. È ovvio che i puristi del jazz troveranno questo lavoro un po' troppo funky e magari pure troppo rock per trarne il massimo godimento: probabilmente non lo apprezzeranno affatto. Ma tutti gli ascoltatori attenti di sicuro coglieranno viceversa il connubio tra la dirompente vitalità e la disciplinata tecnica musicale di cui è infarcito "To Obscurity and Beyond”. Un esempio tanto spudoratamente perfetto quanto eloquente, di quello che si definisce crossover. Gli Afroskull fanno musica senza mezze misure: come una sorta di trasposizione sonora di una fantascientifica battaglia cinematografica tra super-eroi e super-mostri. Purtroppo "To Obscurity and Beyond” resta l’ultimo album che la band ha pubblicato fino ad oggi ed è già vecchio di ben 11 anni, sebbene gli Afroskull siano assolutamente attivi nel circuito live americano. Sarebbe molto interessante scoprire cosa potrebbero proporre nel loro prossimo disco, ma per il momento possiamo solo aspettare, peccato.

Joe Sample – Fancy Dance


Joe Sample – Fancy Dance

Joe Sample è improvvisamente scomparso nel Settembre del 2014, a soli 75 anni, lasciando un grande vuoto nel mondo del jazz. Sample è stato un pianista di grande energia, animato da una spontanea versatilità e non da ultimo dotato di un tocco molto personale e riconoscibile. In carriera ha sempre cercato nuove direzioni per esprimere le sue idee musicali, che si sono concretizzate sia attraverso la fondazione e la leadership del mitico gruppo jazz The Crusaders, sia nella successiva attività da solista. Joe non è mai stato un uomo ed un musicista amante dei riflettori e della fama, ma in compenso ha avuto il riconoscimento incondizionato sia da parte dei suoi colleghi che dal grande pubblico: indubbiamente è stato un artista di prima classe. Nato il 1 febbraio 1939 a Houston, in Texas, Joe Sample è cresciuto in un quartiere creolo ascoltando il blues ed il jazz di Louis Armstrong. Fu un bambino prodigio, poiché iniziò a suonare il piano all'età di cinque anni, assimilando nel corso del tempo una vasta gamma di culture musicali diverse: jazz, gospel, blues, soul in primis ma anche la latino-americana e la classica. Fu negli anni del liceo che cominciò la sua avventura come musicista professionista, quando insieme a due amici, il sassofonista Wilton Felder e il batterista Nesbert "Stix" Hooper, formò un gruppo chiamato Swingsters. A loro si aggiunse in seguito il trombonista Wayne Henderson e così nacquero i Jazz Crusaders, un nome che rendeva omaggio ad una delle band jazz più in voga in quel periodo: i Jazz Messenger di Art Blakey. I Jazz Crusaders si trasferirono da Houston a Los Angeles e sulla costa occidentale il gruppo ebbe la prima opportunità, registrando nel 1961 il debutto discografico intitolato "Freedom Sounds". Una caratteristica distintiva della musica dei Jazz Crusaders fu proprio lo stile ed il tocco al pianoforte acustico di Joe Sample: funky e ritmicamente accattivante, il suo fraseggio ha contribuito a guidare il suono del gruppo per tutti gli anni ’60 ed infine a condurre i Crusaders alla fusione tra jazz e soul con l’avvento degli anni ‘70. Questa registrazione del 1969, intitolata Fancy Dance è importante perché fu il primo album da solista del pianista, a questo punto ormai affermato per i trascorsi di cui ho precedentemente parlato. (N.B.: l’attività dei Crusaders comunque non si fermò mai ed anzi proseguì parallelamente fino al 2006). In questo album realizzato in trio, Joe Sample è affiancato dal bassista Red Mitchell e dal batterista J.C. Moses ed è un disco improntato ad un classico jazz mainstream, tendenzialmente di natura hard bop e quasi completamente privo di qualsiasi tipo di contaminazione soul/funk. Sono sei le composizioni originali che vedono un Joe Sample molto ispirato: per molti risulterà addirittura sorprendente. Abituati alle sonorità fusion che lo hanno reso celebre dalla metà degli anni ’70, sarà comunque un grande piacere scoprire che anche Joe può essere un pianista jazz sintonizzato sulla stessa lunghezza d’onda di altri grandi strumentisti come Oscar Peterson, Bill Evans o Herbie Hancock. L’album inizia con Fancy Dance che introduce alla perfezione quello che è il leit motif di questa registrazione: un hard bop swingante di un trio che lavora in perfetta sinergia. Il fraseggio di Sample si distingue per fluidità ma è molto interessante anche l’assolo di contrabbasso di Red Mitchell, mentre la batteria di J.C. Moses scandisce il tempo con potenza e precisione. The Children’s Song ha un andamento di stampo classico per un breve brano che è quasi una ninna nanna. Echi di bossa nova caratterizzano la successiva All The Lonely Years: forse è su questo pezzo che si può apprezzare la formidabile destrezza melodica del pianista. Va sottolineato come il lavoro della mano sinistra sull’armonia sia davvero una firma inconfondibile nel modo di suonare il piano del nostro Joe Sample. Il bop la fa da padrone anche su Another Blues, un funambolico numero di velocità e tecnica che ricorda Bud Powell o Art Tatum. Svenska Flicka è il brano più lungo dell’album, andando a superare i 9 minuti. E’ anche quello dove si avverte un minimo di contaminazione soul jazz, più nel drumming che nella vera e propria struttura della composizione che per contro mantiene la barra dritta su di un fraseggio bop. Il disco si chiude con un blues declinato ancora in puro stile hard bop, intitolato Old Town: Sample vola sul ritmo piazzando delle notevolissime sequenze di note, mentre il brano gioca con il tempo accelerando e rallentando in un alternanza molto intrigante. Fancy Dance è un album in qualche misura sorprendente, e propone un trentenne Joe Sample all’inizio della sua carriera da solista, che sarà comunque lunga e fortunata anche se inopinatamente interrotta dalla sua morte prematura. Il successivo capitolo, pubblicato sei anni dopo questo debutto, sarà nuovamente un trio jazz con Ray Brown e Shally Manne, ma questa volta basato sull’interpretazione di alcuni standard: di fatto l’ultimo album non fusion. Nel 1978 uscirà Rainbow Seeker (per la recensione del quale vi rimando ad un mio post del 2018) e Joe mescolerà ed conteminerà la sua musica con delle generose iniezioni di funk, soul e r&b, utilizzando lo stesso linguaggio smooth jazz che era ormai acquisito dai Crusaders dello stesso periodo. Dunque, se preferite ascoltare il jazz nella sua forma più classica ed in più nella purezza della formula del trio, Fancy Dance è l’album giusto per gustarvi la tecnica sopraffina di un fuoriclasse come Joe Sample. Se invece apprezzate maggiormente le sonorità più contemporanee, nella discografia del pianista texano troverete molto materiale altrettanto interessante: Spellbound, Roles o The Pekan Tree giusto per fare qualche esempio. 

Ameen Saleem – The Groove Lab


Ameen Saleem – The Groove Lab

Il compositore americano Irving Berlin disse una volta che "tutti dovrebbero avere un Lower East Side nella loro vita". Un’affermazione molto yankee, anzi molto newyorkese, dato che se non si conosce bene la metropoli e la storia dei suoi quartieri così diversi e multietnici, probabilmente non significa molto. Ma il suo riferimento era di carattere culturale e nello specifico puntava alla musica più che ad altri aspetti. In realtà è il groove il punto focale al quale alludeva il grande Irving Berlin: quell’intimo e misterioso motore d'ispirazione, quell’ineffabile elemento che connette le varie anime del jazz e della musica contemporanea con le sue molteplici declinazioni storiche. Ma mentre il paradigma differisce ogni volta e continua ad evolversi, il risultato finale è invariabilmente della stessa natura, al giorno d’oggi così come lo era ai tempi dei mostri sacri del jazz. Ameen Saleem, sicuramente uno dei bassisti più promettenti al mondo, è nativo di Washington, ma risiede, guarda caso, proprio nel Lower East Side di New York. Artisticamente è cresciuto assorbendo ogni aspetto della cultura urbana della Grande Mela, cogliendone l’essenza jazzistica più profonda. Ameen conosce le regole semplici ma spesso inafferrabili che governano quello che viene definito il groove, e questo album di debutto come leader (datato 2015) ne è una dimostrazione più che esaustiva. The Groove Lab si distingue con grande personalità in mezzo alla ricca offerta del jazz moderno. Ci sono jazzisti innovatori, altri conservatori, alcuni rivoluzionari: queste figure sono spesso collegate da quel sottile filo conduttore che non a caso Saleem cita nel titolo del proprio album. Se avete ascoltato il Roy Hargrove Quintet avrete certamente notato la qualità della sezione ritmica di quella band: ed è proprio lì che potreste aver apprezzato l'ottimo lavoro svolto da Ameen Saleem al basso. Se per forza di cose The Groove Lab si sforza (riuscendoci) di produrre un suono quanto più originale possibile, il risultato finale è senza dubbio non troppo lontano dalle atmosfere degli album dello stesso Roy Hargrove. E questo consente di inquadrare un po’ meglio di che tipo di jazz contemporaneo sto parlando. Jazz, funk e soul costituiscono certamente i tre principali punti di riferimento, ma le molte correnti che si propagano da questi generi, diventano poi difficili da scindere con precisione nel contesto di una fusione così ben equilibrata. Saleem resta molto misurato nel suo approccio e non è sua intenzione portare l'ascoltatore fuori dai sentieri del jazz, ma mentre l'atteggiamento generale può sembrare rassicurante, in realtà The Groove Lab è un album di ricerca: un laboratorio, appunto. Ameen Saleem è certamente aiutato dall’interazione con un piccolo gruppo di musicisti straordinari (il pianista Cyrus Chestnut, il batterista Jeremy “Bean” Clemons, Stacy Dillard al sax, Craig Magnano alla chitarra e il già citato Roy Hargrove alla tromba) che contribuisce sicuramente alla variegata gamma di colori musicali che trovano spazio nel lavoro. Il bassista riesce a trovare il perfetto equilibrio tra la complessità concettuale e la fruibilità della sua musica. Un sound che si sviluppa su due livelli: il primo magari più superficiale ed accessibile, è immediatamente seguito da un secondo stadio che consente di avventurarsi nei substrati nascosti e più affascinanti dell'album. Musica che è una sintesi delle molte correnti afroamericane che hanno caratterizzato l’esperienza artistica di Saleem. Il disco è lunghissimo, quasi 1 ora e venti per 13 brani: eppure riesce nel raro intento di mantenere alto l’interesse dell’ascolto e stimolare sempre la curiosità. Forse anche per questo motivo brani come "For My Baby", pur essendo fondamentalmente semplici canzoni, scorrono dal jazz al funky in modo così naturale che la struttura stessa della musica rimane meravigliosamente ambigua e divertente allo stesso tempo. Ma ovviamente il piatto forte di The Groove Lab sono gli strumentali dove il flicorno, il piano elettrico, il sassofono o la chitarra ed ovviamente il basso di Saleem stesso dipingono di volta in volta una ricca e colorata trama. "Epiphany", “I.L.V.T.”, “Neo” e la bellissima "So Glad" ad esempio brillano per varietà ed intensità. “Love Don’t” richiama gli E.W.& F, evidentemente una delle fonti d’ispirazione di Ameen. “Korinthis” è il brano che apre l’album creando un’atmosfera hard bop che è solo apparentemente abbandonata nei brani successivi. Se di questo pezzo apprezzerete  il lavoro del pianoforte e della sezione ritmica, gli assoli di sax e di tromba, bene sappiate che li ritroverete in tutto il disco, seppur declinati in altri modi. "Don't Walk Away" è cantata da Barbara Dunlap che aggiunge la sua grintosa vocalità ad un brano funky soul molto coinvolgente. Il ritmo funky è ben presente con il suo groove nella piacevole “A Theme” che tra l’altro mette in piena luce le doti di bassista di Saleem: un musicista giovane ma dalla tecnica ineccepibile. Il finale è riservato a due brani più lenti e riflessivi che congedano l’ascoltatore con un atmosfera penetrante e sensuale: “Possibilities” e “For Tamisha”. Un ottimo modo per chiudere un album complessivamente molto vario ed interessante: di sicuro un validissimo esempio di jazz contemporaneo nella sua migliore accezione. Chissà se anche Irving Berlin avrebbe apprezzato Ameen Saleem ed il suo laboratorio del groove: non lo sapremo mai, ma di certo abbiamo imparato che nel Lower East Side un nuovo grande bassista sta animando la scena del jazz.

The Young/Holt Unlimited – Soulful Strut


The Young/Holt Unlimited – Soulful Strut

Chicago ha un lunga e gloriosa tradizione legata al blues ed al soul, oltre che naturalmente al jazz. E’ una metropoli che ha prodotto molti musicisti di incredibile talento ed è stata sede di etichette storiche di grande rilevanza. Oggi vi parlerò di un duo sconosciuto al grande pubblico, in particolare di quello europeo. Si tratta di The Young-Holt Unlimited, formato da Eldee Young e Isaac "Red" Holt, il cui peraltro modesto livello di popolarità è correlato più alla loro militanza nel gruppo del pianista Ramsey Lewis che alla loro carriera solista. Sebbene non abbiano mai ottenuto grandi successi, sono tuttavia conosciuti soprattutto per un brano intitolato "Soulful Strut" che è la versione strumentale del singolo di Barbara Acklin "Am I the Same Girl" e dà il titolo all’album di fine anni ’60 che ho preso in considerazione. Forte della sua bella linea di basso funky, di un piano jazz leggero ed allegro, più un accattivante riff di fiati, "Soulful Strut" ha resistito negli anni, anche grazie alle cover proposte da artisti come Grover Washington, Jr., George Benson e complici alcuni campionamenti che in seguito il movimento dell’hip hop ha fatto suoi. Il bassista Young e il batterista Holt si incontrarono per la prima volta all'American Conservatory of Music di Chicago, per poi mettere insieme una band chiamata Cleffs. Attraverso quella esperienza incontrarono Ramsey Lewis e così nacque l'ormai famoso Trio. Nel 1965, i tre apparvero insieme al nightclub Bohemian Caverns a Washington D.C , dove venne registrato un album live: tra i brani c’era quello che sarebbe diventato il grande successo intitolato "The 'In' Crowd": nasceva così quella che oggi è considerata la firma musicale di Lewis. Dopo gli iniziali fasti del trio, Young e Holt lasciarono il gruppo di Ramsey per andare a formare il trio Young-Holt, aggiungendo a questo scopo il pianista Hysear Don Walker. Questo nuovo trio registrò il singolo "Wack Wack", un brano ballabile, molto simile a "Cool Jerk" dei Capitol. Nel 1968 il pianista Walker lasciò il gruppo, sostituito da Ken Chaney. Young e Holt a questo punto ribattezzarono la loro mini band Young-Holt Unlimited, aggiunsero i fiati e più percussioni ed così che trovarono un successo più grande (ed inatteso) con "Soulful Strut". Come ho già detto il pezzo era in realtà la versione strumentale di "Am I the Same Girl" di Barbara Acklin. Ovviamente il piano di Chaney sostituì la voce, ma la traccia raggiunse comunque il numero tre nelle classifiche pop. Incredibilmente questo fu un risultato migliore rispetto alla versione originale. Sfortunatamente il trio non replicò mai più quel successo fulminante: discograficamente divennero presto deficitari e trascorsero i successivi anni in tournée, nei circuiti R&B e jazz. Si sciolsero nel 1974, ma Young e Holt continuarono a suonare nelle band di Chicago, per poi ricongiungersi con Ramsey Lewis nel 1983. Eldee Young venne a mancare nel 2007. Il trio The Young-Holt Unlimited è stato quello che si suole definire una meteora, ma quel Soulful Strut resta un successo davvero memorabile. La formula è quella di un soul jazz leggero e cantabile, in cui il basso e la batteria sostengono un’architettura funk ed il piano domina la scena sostituendo il cantato. La stessa alchimia sulla quale venne costruita Soulful Strut fu replicata in tutti gli altri pezzi dell’album, che risulta piuttosto gradevole e allegro, senza particolare impegno ma tuttavia nemmeno troppo banale. 10 canzoni orecchiabili, tutte di lunghezza attorno ai 3 minuti dove il profumo del jazz è presente mostrando il suo lato più accessibile. E’ una musica che potete facilmente collocare nel contesto di una festa della fine degli anni ’60, un po’ blaxploitation ed un po’ lounge, tra camicie colorate, balli dell’epoca e atmosfere hippy. Sul brano pilota ho già detto molto, aggiungo che i fiati incendiano l'inconfondibile riff, il basso di Young pulsa potente, sottolineando il ritmo della batteria funky. Chaney replica in modo impressionante la voce di della Acklin con il suo pianoforte, quasi a dettare il testo con le sole note musicali. E’ una canzone che crea un'aura diversa, evoca un caldo pomeriggio estivo in cui rilassarsi e sognare ad occhi aperti. In tutto l’album la spartana strumentazione possiede una qualità grezza, un suono imperfetto non privo di un certo fascino, quasi come una sorta jazz garage band. Anche gli Swing Out Sister hanno ripreso Soulful Strut negli anni '90. Curiosa ed inusuale la ripresa della celeberrima hit francese Et Maintenant, qui ovviamente in versione soul jazz. Tutti i pezzi che compongono l’album suonano più o meno sulla stessa falsariga, il basso in evidenza, la batteria gagliardamente sul ritmo ed il pianoforte che si occupa delle melodie, corroborato da brillanti iniezioni di fiati. Soulful Strut è un ottimo esempio di come il jazz, l'R & B ed il soul possano fondersi, dando vita a un connubio innegabilmente funky. The Young-Holt Unlimited rappresenta una testimonianza di un modo di fare musica jazz che conobbe una certa popolarità verso la fine degli anni ’60, creando al contempo i prodromi delle più sofisticate e complesse sonorità elettriche che sarebbero sopraggiunte di lì a pochi anni , dal 1970 in poi.