Under The Lake - Jazz, Groove & Attitude


Under The Lake - Jazz, Groove & Attitude

Che cosa è il groove ? Una domanda legittima per un termine che racchiude in se una sensazione che non è facile definire a parole in modo chiaro. In sintesi e cercando di avvicinarsi il più possibile alla realtà,  il groove è quella capacità che hanno alcuni brani di coinvolgere l'ascoltatore tramite il ripetersi di una soluzione a livello ritmico: non a caso in inglese "to groove" significa anche divertirsi. Il jazz è spesso ricco di groove, ma è certamente il funk a detenere il primato di questa particolare “sensazione”. C’è un gruppo americano che con la sua musica delinea con chiarezza il significato groove: sono gli Under The Lake. Una non molto conosciuta band di Portland che coniuga alla perfezione jazz e funk, proprio in quella maniera gioiosa e diretta, a tratti contagiosa e trascinante che ci si aspetta quando si legge un titolo come quello del loro ultimo album. Jazz, Groove & Attitude, per l’appunto è un lavoro che conduce dentro la più classica e familiare delle case del groove e lo fa con un ben bilanciato approccio, declinato tra ritmo, melodia, musicalità e orecchiabilità. Alla base ci sono la classe e la raffinatezza del jazz tradizionale, la grinta e l’energia che tutti riconosciamo nel funk e il morbido e caldo contributo della buona vecchia soul music. Under The Lake mette sugli scudi una coloratissima combinazione tra il sax tenore di David Evans, il trombone di John Monk, e le solidissime tastiere di Jayson Tipp, cioè i tre leader del gruppo. L’approccio è facilmente riconducibile a quello dei mitici Crusaders, dei quali la band dell’Oregon raccoglie l’eredità musicale con il preciso intento di proseguire sulla stessa rotta stilistica, portando nel terzo millennio le medesime prorompenti sonorità. Il gruppo è ovviamente completato da una sezione ritmica composta dalla chitarra di Evan Mustard, dal basso di Kenny Franklin e dalla batteria di Brian Foxworth, i quali sono i responsabili in prima persona dello scoppiettante “groove” di cui ho parlato nell’introduzione. Gli Under The Lake hanno un progetto ambizioso che sembra segnare un ulteriore passo verso il ritorno in auge delle band funky-soul-jazz vintage: sono musicisti al tempo stesso nostalgici e moderni, con la missione di ripercorrere la stessa strada che 50 anni fa ha letteralmente trascinato il jazz contemporaneo verso un radicale cambiamento. Su  Jazz, Groove & Attitude ci sono tracce per soddisfare ogni esigenza che comprenda il jazz e il funk. C'è il travolgente “30 November” con la sempre affascinante presenza dell’organo Hammond, si trova il sapore penetrante del soul di "George Is His Name" (ispirato al grande George Duke), non mancano le atmosfere da colonna sonora di una serie tv poliziesca nella iniziale "Breaking Through". Su "Good Things" si cita il cool jazz ma sempre con quell’amabile tocco funky e delle favolose linee di fiati, sottolineate dal corposo basso di Kenny Franklin. Una spruzzata di r&b jazzato caratterizza il sensuale e rotondo "LJT", mentre è  votata ad un funk dal medio ritmo il brano "Full of Life" dove spicca l’assolo di Rhodes del bravissimo Jayson Tipp. La batteria robusta e potente, il basso sempre in evidenza, il piano elettrico  che condisce il tutto con ben più di pochi semplici cambi armonici e i puntuali riff di chitarra sono la perfetta piattaforma su cui il sax ed il trombone possono liberare la loro creatività contribuendo coralmente ad un sound di grande impatto. Jazz, Groove & Attitude ha fascino e carisma, una personalità intensamente funk eppure legata strettamente al jazz generando nell’ascoltatore un piacevole senso di appagamento. In un momento di proposte musicali patinate e fin troppo costruite a tavolino, la genuina e quasi artigianale energia degli Under The Lake suona davvero come una boccata d’aria fresca. Questi sono musicisti che non hanno dimenticato gli ingredienti per un perfetto mix tra jazz e funk e certo non cercano scorciatoie o facili alchimie. Gli 11 brani di "Jazz, Groove & Attitude" durano in media quasi sei minuti, ma la noia qui non è contemplata. La musica dell’album ha un'energia vivace e coinvolgente: le melodie ed il groove si sviluppano e fluiscono liberamente, con grande spontaneità: in poche parole: ho apprezzato molto la bravura di tutti i musicisti, l’attraente fascino retrò del suono ed il sapore che ci regala. E’ sufficiente immergersi completamente tra queste note e non si resterà delusi.

FKJ - French Kiwi Juice


FKJ - French Kiwi Juice

E' chiaro che in certi casi e per alcuni album parlare di jazz risulta francamente eccessivo. Tuttavia capita sempre più frequentemente di ascoltare, da quelli che sono i nuovi artisti sulla piazza, delle proposte interessanti e scoprire così che anche dove il jazz è solo una suggestione, ci sono degli spunti meritevoli di attenzione. Al giorno d’oggi poi, è piuttosto raro che un giovane musicista esordisca sul mercato discografico con un lavoro tanto promettente quanto maturo. Ancor di più se l’album in questione contiene musica che può interessare una platea di ascoltatori che valica i confini di uno specifico genere. FKJ è probabilmente riuscito nell’impresa: con il suo omonimo debutto, il francese nativo di Parigi Vincent Fenton, (alias French Kiwi Juice) ha portato alla ribalta internazionale un disco molto speciale. Un album di musica elettronica, certo, ma confezionato con equilibrio e talento, intriso di quel fascino che va oltre le etichette ed le categorie. Gli amanti del jazz più aperti e curiosi troveranno materiale interessante, basti ascoltare il sassofono in "We Ain’t Not Feeling Time"! ad esempio. A loro volta, gli ascoltatori avvezzi all'hip hop avranno la possibilità di gioire dei suoni che preferiscono. Ma c’è spazio anche per chi apprezza il neo soul,  lo smooth jazz e perfino la lounge music. Il musicista francese offre insomma un variegato ventaglio di sonorità che possono soddisfare molte orecchie. Analogamente ad altri musicisti contemporanei quali Robert Glasper o Alpha Mist, FKJ fa del minimalismo un “plus” che invece che togliere aggiunge. French Kiwi Juice non si esime dall’usare i loop ed i campionamenti, ma il risultato è così strutturato e complesso che diventa riduttivo circoscriverlo solo in quei ristretti confini. Dopo averlo ascoltato è facile capire perché l'album si sta diffondendo velocemente su tutti i social media: FKJ è l'album del momento perché dietro ad esso si percepisce qualcosa di genuinamente vitale, che è al contempo irresistibilmente intangibile e palesemente evocativo. Ciascuno dei dodici brani è in qualche misura unico ed arrangiato in modo originale. Ci sono i synth, utilizzati con giudizio ed equilibrio, i bassi giusti per creare il groove necessario e le parti vocali solo a tratti manipolate, ma sempre con cura. Senza dimenticare la chitarra elettrica spesso in primo piano. French Kiwi Juice è un punto d’incontro ideale tra l’elettronica ed il jazz. Come suggerito dal titolo stesso dell'album, c'è qualcosa di intrinsecamente succoso e maturo in questa musica che tuttavia sa essere anche allo stesso tempo aspro e dolce: il tutto condito dal quel “French Touch” che sa di eleganza formale. Ritmo e atmosfera, groove e delicatezza: un mix di contraddizioni che fonde culture e idee con un approccio molto europeo. L’album inizia con il suono morbido e seducente di "We Ain’t Not Feeling Time" che con la sua introduzione delicata attira subito l’attenzione per condurre verso il perfetto intervento del sassofono, il tutto sottolineato da  un organo dal suono onirico. "Skyline" presenta un approccio più tradizionale ma con alcuni spunti sperimentali inseriti in un contesto minimalista. E’ un'atmosfera che si ritrova anche nei successivi brani (Never Give Up e Go Back Home) che evidenziano però un uso diverso e più intenso delle armonie vocali. Ancora un cambiamento avviene con Vibing Out e Ganggu:  tracce che danno una sensazione quasi orchestrale grazie ad un groove più marcato basato all’organo, sulle voci ed sul ritorno del sax.  Due pezzi di gran musica che sono indubbiamente uno dei momenti migliori dell’intero album. "Blessed" è mossa da un ritmo vivace, sentori di funk e alcuni riff di chitarra molto intriganti. Al contrario "Die with a Smile" ritorna a delle atmosfere lente, quasi pigre, fino ad una seconda parte che è completamente diversa: inaspettatamente torna ad essere ritmata ed arricchita da un nuovo intervento del sax. Preceduta da una breve introduzione, "Lying Together" è una canzone divertente, profumata di funky, con vaghe reminiscenze degli Scritti Politti. La parte vocale non è proprio felicissima, ma si può soprassedere. Anche “Joy”  ha un suo personale tocco funky e la conclusiva “Why Are There Boundaries” concede all’album un finale blueseggiante e di grande impatto. Vincent Fenton ovvero FKJ, si è reso protagonista di un debutto davvero notevole, sia per l’originalità delle sue composizioni che per la modernità del suo sound. C’è qualcosa di affascinante in French Kiwi Juice, un feeling che solletica il piacere d’ascolto. FKJ cerca di spingere la musica oltre i confini dell’elettronica, del jazz e del funk. Non significa necessariamente che ciò che fa sia migliore, semplicemente il musicista francese sta cercando una strada diversa e complementare. Questa è musica che può intrigare una vasta schiera di ascoltatori, siano essi semplici curiosi o convinti seguaci. È sicuramente un artista che merita attenzione. Non bisogna sottovalutarlo ne snobbarlo: questo è uno degli album più stimolanti del 2017 e di FKJ sentiremo parlare ancora in futuro, questo è certo.

Jeff Lorber - Bop


Jeff Lorber - Bop

Jeff Lorber è un tastierista capace da sempre di creare un affascinante e armonioso sound che unisce elementi di funk, R & B, rock e jazz elettrico. Nel corso della sua lunga e brillante carriera artistica si è reso protagonista della nascita e dello sviluppo di quel sotto genere del jazz che venne denominato prima fusion ed in seguito smooth jazz o contemporary jazz. Nato a Philadelphia nel 1952, iniziò a suonare il piano all'età di quattro anni, ma la vera infatuazione di Lorber per il jazz iniziò di fatto durante il suo periodo di studio presso il  Berklee College of Music: una passione che si estrinsecò con la sua band Jeff Lorber Fusion, la quale tuttavia faceva della contaminazione e del crossover con altri stili il suo tratto caratteristico. In effetti la musica proposta era qualcosa di abbastanza lontano dal jazz tradizionale (pur essendo di questo un derivato). Perciò era difficile, per i suoi numerosi fan, intravedere la possibilità di ascoltare Lorber impegnato nel più classico dei repertori della musica afro americana. Ed invece ecco la sorpresa che non ti aspetti e che non può che stuzzicare la curiosità di chiunque abbia a cuore il jazz ed ogni novità ad esso inerente. Leggere il titolo dell’album e vedere quali nomi sono coinvolti nel progetto accanto alla parola "bop" è sicuramente già un fatto degno di nota, anche e soprattutto perché sono tutti esponenti di rilievo proprio della musica fusion. Ma il legame tra queste superstar ed il jazz è molto più stretto di quanto non si sia abituati a pensare. Basta scorrere le biografie di quasi tutti i moderni paladini dello smooth jazz per comprendere quanto questi talentuosi e versatili musicisti abbiano avuto a che fare  con i classici standard del jazz nel corso della loro vita artistica: è proprio su queste melodie immortali che  hanno imparato ad improvvisare come Coltrane o a padroneggiare gli arditi accordi di Monk. Si tratta di gente che ha frequentato il Berklee College o qualche altro importante conservatorio studiando alla corte dei grandi del jazz (esempi: Loeb con Stan Getz, Lorber con John Scofield). Come Lorber anche gli altri hanno lasciato il loro segno in un “altro” idioma musicale (o meglio in un altro “dialetto” dello stesso linguaggio). Tuttavia ciò non significa assolutamente che essi abbiano dimenticato la loro origine. Bop è dunque innanzitutto una specie di promemoria (magari per qualcuno potrà essere una rivelazione) che si può riassumere così: questi musicisti possono suonare seriamente il jazz. Nessun dubbio sul fatto che gente del calibro di Harvey Mason, Randy Brecker, John Patitucci, Brian Bromberg, Everette Harp, Eric Marienthal, Rick Braun, Brian Dunne e Till Bronner oltre a Lorber e Loeb abbiano nelle loro corde la tecnica e la preparazione per affrontare una simile sfida. Però ascoltarli per una volta tutti insieme fare del vero, buon jazz è un piacere assoluto ed impagabile. Il programma non prevede altro che classici del bop: i brani sono eseguiti con genuina esuberanza ed un profondo rispetto. Appare chiara fin da subito la perfetta  comprensione delle dinamiche degli standard ma soprattutto dei delicati e complessi cambiamenti armonici contenuti al loro interno. Una sessione di jazz classico  sottende ad un sound "tutto acustico"; anche qui è quasi esattamente così ma non completamente, poichè Jeff Lorber non rinuncia al suo Rhodes dimostrando che un pianoforte elettrico può funzionare altrettanto bene di uno acustico, quando è nelle mani giuste. Va detto che c’è quasi sempre stato molto jazz nel suo approccio, quindi non è poi così difficile per lui mettere il suo stile al servizio del jazz tradizionale e dell’improvvisazione. Ogni brano di questo album può essere facilmente trovato su qualsiasi libro parli di jazz, dato che la carrellata dei nove classici che compongono Bop è una sorta di breviario della musica Afro Americana del secolo scorso. Tra l’altro può essere considerato già un piccolo miracolo essere riusciti a portare contemporaneamente in studio tutte queste star, sempre estremamente impegnate. Per Bop c’era una piccola finestra di tempo disponibile e nessuna possibilità di post produzione tesa alla ricerca del miglior risultato possibile: nonostante ciò, anzi forse proprio per questa ragione, Bop è un disco schietto, diretto e bellissimo. I brani di Thelonious Monk "Straight No Chaser" e "Round Midnight" dissipano ogni dubbio sulla band e gettano la luce dei riflettori su un ispirato Rick Braun, che non solo dimostra tecnica e buon gusto ma aggiunge qualcosa di personale. Chuck Loeb si disimpegna stupendamente con i suoi gustosi assoli su "A Night IN Tunisia" di Dizzy Gillespie e in "Now's The Time" di Charlie Parker. Ci fa ricordare di Wes Montgomery su "All The Things You Are", che è l'unico brano in cui non compaiono i fiati. Everette Harp mette in evidenza la sua attitudine verso il soul e l’r&b presentandosi in gran forma  nel classico calypso di Sonny Rollins intitolato "St. Thomas". Qui anche Rick Braun si distingue per il suo assolo di trombone. Il turno di Eric Marienthal arriva con "Now's The Time" di Charlie Parker: Eric presta il suo sax contralto ad uno dei momenti più intensamente bebop dell’intero album. La band cambia quasi del tutto  per la trascinante "Giant Steps" di John Coltrane: a Lorber e Loeb si uniscono per questo numero John Patittucci (basso), Randy Brecker (tromba) e Brian Dunne (batteria). Non sorprende che sia Brecker a piazzare quel genere di assolo di tromba fluido e sicuro tipico di un veterano di lungo corso. Una menzione particolare va senza dubbio allo splendido lavoro di piano elettrico che Jeff Lorber dispensa in ogni singolo brano: chi ha una particolare passione per il suono del Rhodes davvero non dovrebbe perdersi queste nove perle. Bop è un album molto ben riuscito e splendidamente suonato. In parte è una risposta a coloro i quali si pongono degli interrogativi sui musicisti dediti alla fusion ed allo smooth jazz, ma anche se lo si considera semplicemente come una registrazione di jazz “straight ahead” non si resta minimamente delusi. La parte migliore di Bop risiede proprio nella musica, il suo punto di forza sta nella bravura di ogni singolo musicista, ma il disco brilla anche per l’affiatamento e la coesione di tutti nell’agire come una vera band. I proventi del cd sono devoluti alla ricerca sulla Sindrome Policistica Renale (PKD), una malattia genetica che ha come unica via d’uscita il trapianto del rene. Jeff Lorber era affetto da questa malattia ma è guarito proprio con un trapianto e per questo motivo ha deciso di impegnarsi nell’aiutare chi soffre. Bop è quindi doppiamente benemerito: da un lato perché spinge gli ascoltatori di fusion e smooth jazz ad un ascolto più impegnato e maturo, dall’altro per la bellissima ricaduta sulla ricerca per la cura di un grave male.

Max Roach – Percussion Bitter Sweet


Max Roach – Percussion Bitter Sweet

Moltissimi musicisti di jazz possono vantare una lunga carriera. Quella di Max Roach oltre che lunga è stata caratterizzata da una irrefrenabile spinta verso il virtuosismo, l’innovazione ed accompagnata inoltre da una encomiabile integrità. Fin dall’inizio, ovvero dagli esordi della metà degli anni ’40 arrivando alla sua scomparsa nel 2007 non c'è stato un momento nel quale il suo nome non abbia portato con sé una sensazione di talento e superiorità. Max Roach è stato di fatto la prima vera superstar della batteria: la sua incredibile indipendenza delle braccia, la proverbiale precisione, la notevolissima velocità, l’innovazione che ha portato con se ne fanno un punto di riferimento assoluto. Ma Max oltre alla tecnica aveva una visione superiore: un'idea del jazz come forma d’arte alta ed indipendente prima che di un intrattenimento o di un business. Vedeva la musica afro americana come un lungo filo ininterrotto lungo in quale i musicisti di epoche diverse e seguaci di differenti stili e correnti avevano sempre qualcosa da insegnarsi l'uno con l’altro. Il suo credo era apprendere dai maestri ed insegnare agli allievi, senza segreti, con il massimo dell’interazione e dello scambio creativo. Fu anche un pioniere delle etichette discografiche concepite per il jazz gestite dagli artisti stessi, a partire dalla Debut Records, creata con Charles Mingus nel 1952. Per fare un esempio di quanto detto precedentemente, nel 1960, assunse l’ormai anziano Coleman Hawkins, di 20 anni più vecchio, per suonare in We Insist! in un momento storico nel quale rivolgersi ai grandi del passato non accadeva certo con frequenza. Quell’album sottotitolato (non per caso) New Freedom Suite può essere considerato il prologo di questo Percussion Bitter Sweet. In breve: Max Roach è stato un gigante del jazz e fu grande fin dai suoi primi anni di attività quando creò il bebop con Dizzy Gillespie, Kenny Clarke, Charles Mingus e Charlie Parker. Il be bop fu una corrente che generò una sconvolgente ventata di innovazione, qualcosa che trascendeva anche i confini della musica. In seguito, durante la seconda parte della sua vita artistica, collaborò con drammaturghi, coreografi, compositori classici, cori gospel; gestì anche un gruppo di sole percussioni chiamato M'Boom. Si è reso protagonista anche di indimenticabili duetti con Anthony Braxton, Dizzy Gillespie e Cecil Taylor, tra gli altri. Max, come ogni altro musicista, ha vissuto un momento di particolare brillantezza e fermento creativo. Possiamo collocare questa fortunata e meravigliosa stagione a cavallo tra gli anni '50 e la metà degli anni '60, il tempo in cui prese coscienza del suo importante ruolo di compositore e band leader. In pratica, dopo aver terminato gli studi di composizione e teoria musicale alla Manhattan School of Music, nel 1954 fondò una band con il trombettista Clifford Brown che durò per un paio d'anni, fino alla morte dello stesso Brown nel 1956, da quel momento in poi fu straordinario e sfavillante quanto il suo jazz. La sua batteria prese vita e cominciò a distinguersi per personalità ed originalità. Roach si concentrò presto verso ritmi insoliti per il jazz, come il 5/4 di "Driva Man" su We Insist! e il 7/4 di "Man From South Africa" in questo Percussion Bitter Sweet. E non bisogna dimenticarsi del suo sodalizio con la cantante jazz Abbey Lincoln, che divenne sua moglie e lo spinse verso un convinto coinvolgimento politico. In questo album il messaggio è chiaro fin dall’inizio: non si torna indietro, gli anni '60 sono arrivati. Questa registrazione della Impulse Records del 1961 è esplosiva, iconoclastica ed intrinsecamente, politica pervasa com’è sia di rabbia che di una sorta di esaltazione trascendente. Chi pensasse ancora a Max come un be bopper si ritrova al cospetto di un progetto completamente diverso eproiettato verso l'avanguardia. Max è brillante come non mai, bravo ad infrangere qulle regole che lui stesso ha aiutato a scrivere. We Insist! Freedom Now Suite, riconosciuto come un classico dalla critica, percorreva una direzione simile, con un messaggio politico teso al riconoscimento dei diritti degli afro americani. Ma Percussion Bitter Sweet sopravvive alla prova del tempo come un lavoro più variegato e compiuto. È di fatto anch’esso  un classico, forse misconosciuto, che ci offre uno spaccato chiarissimo di un particolare momento di trasformazione del jazz, oltre che la fotografia musicale di una formidabile formazione. La tensione armonica e melodica emoziona subito e questa intensità è più che rafforzata dalla prorompente ritmica della batteria che non cala mai in tutto il disco: Max si esibisce in assoli ispirati che sembrano quasi quelli degli strumenti a fiato. L’album si dipana tra brani bellissimi e diversi: "Garvey's Ghost" con il suo ritmo 6/8 ed il vocalismo dark ed inquietante di Abbey Lincoln o la ballata provocatoria "Mendacity" che critica ironicamente i politici corrotti con immagini di diritti civili negati e violenti linciaggi. L'assolo di Eric Dolphy è un lacerante blues che rappresenta uno dei momenti migliori del maestro del sax alto. "Man From South Africa" ​​è essenzialmente un blues in 7/4, dove Max Roach ed il bassista Art Davis liberano il groove ed i solisti si esprimono con libera disinvoltura. Percussion Bitter Sweet regala all’ascoltatore quaranta minuti di un jazz forte e visionario: una lettura personale della musica afro americana da parte di uno dei massimi esponenti della batteria di tutti i tempi. E’ una sorta di presagio musicale quello che Max Roach propone: suggerisce che il nuovo decennio sarà parimenti tumultuoso e stimolante non solo in campo artistico.

Art Blakey & The Jazz Messengers - Caravan


Art Blakey & The Jazz Messengers - Caravan

Art Balkey è stato uno dei grandi del jazz. Fu per anni tra i migliori batteristi del mondo e rimane tra i più rappresentativi ed importanti ancora oggi. Tra le altre cose fu uno degli inventori di una ben precisa tecnica batteristica applicata allo stile bebop e in seguito a quello hard bop, di cui è a pieno titolo tra i padri fondatori. Parliamo quindi di un personaggio di grandissimo valore come musicista ma anche come compositore, uno di quelli che hanno letteralmente scritto la storia del jazz. Il suo stile alla batteria è stato ed è un punto di riferimento imprescindibile per intere generazioni di artisti che nel suo solco hanno percorso le innumerevoli e variegate strade di questa stupenda e complessa musica. Nella sua consistente discografia, Caravan occupa un posto di rilievo. Registrato nel 1962, si avvale della presenza, nella famosa formazione dei Jazz Messengers, del famoso sassofonista Wayne Shorter, del formidabile trombettista Freddie Hubbard e del magnifico trombonista Curtis Fuller. La band è completata dal pianista Cedar Walton, a suo volta musicista straordinario, e dal bassista Reggie Workman già membro del gruppo di John Coltrane. Rispetto alle precedenti registrazioni, Caravan rivela all’ascoltatore  tanto un diverso approccio della nuova etichetta (Riverside Records) all'arte della registrazione, quanto l'evoluzione musicale di questa nuova e rivista formazione dei Messengers. Rispetto ad altre incisioni di jazz acustico, gli strumenti a fiato e la batteria sembrano divorare i microfoni. Qui il kit di batteria di Blakey sembra più pieno, la sua ritmica spumeggiante e puntuale sembra quasi capace di rivaleggiare con i fiati, il suo charleston distintivo picchia come un implacabile martello. Ma anche il suono del piano è catturato in modo definitivo, rendendo giustizia ad un ispirato Cedar Walton. In breve, l'approccio della registrazione è spudoratamente proattivo, porta l'azione del gruppo direttamente al cospetto dell'ascoltatore e sottolinea in grassetto le performance di ciascun musicista. Così è un piacere cogliere in modo nitido il celebre piatto “ride” di Blakey in un flusso sonoro che coinvolge tutti i membri della band. In pratica la tecnica di incisione influisce in maniera sostanziale sull'effetto del suono ambientale costruendo un paesaggio che invita alla partecipazione dell'ascoltatore. Il momento clou di questo album è proprio l’evergreen di Duke Ellington, Caravan. Batteria, fiati e pianoforte lanciano Freddie Hubbard e la sua tromba che si esprime con tutto l'abbandono e la drammacità del suo immediato predecessore, Lee Morgan. Non è da meno Wayne Shorter, che risponde all'intensità del trombettista ispirandosi a John Coltrane. La raffinata arte batteristica di Art Blakey è pregna di energia, ma è anche contenuta, quasi latente, la sua presenza sonora è meno prominente in sottofondo agli interventi solistici e all'improvvisazione collettiva dei tre ottoni. Viene però il turno del batterista nel prendersi il suo assolo che, come sempre, è pirotecnico e punteggiato dai caratteristici versi gutturali: una furia ritmica scintillante ed eccitante al tempo stesso, tecnicamente ineccepebile. "Sweet 'n' Sour" è un valzer di Shorter, proposto in due differenti versioni, seguito da "This Is For Albert" che è un brano dal suono raffinato e dinamico. Ci sono anche due “take” alternativi della complessa "Thermo" di Hubbard, molto ben eseguiti. Lo spazio per la classica interpretazione trombettistica della ballata jazz è affidata allo standard "Skylark" di Hoagy Carmichael, che Hubbard riempie di uno splendore luminoso e cromaticamente variopinto. L'assolo di Curtis Fuller su "The Wee Small Hours" è uno dei suoi momenti più melodici sull’album , incorniciato deliziosamente dal pianismo fluido e discreto di Walton. Molti fan di Blakey insistono sul fatto che i suoi Messengers dei primi anni Sessanta fossero i più consistenti se non addirittura le migliori incarnazioni di sempre di questo straordinario collettivo di musicisti. Di fatto è un’opinione sostanzialmente condivisibile e tuttavia, oltre alle straordinarie registrazioni con la Blue Note, esiste più di un motivo per guardare avanti ed ascoltare anche ciò che è stato pubblicato negli anni successivi. Tra i grandi meriti di Art Blakey, oltre alla sua bravura di batterista, c’è anche quello di aver saputo lanciare, nel corso degli anni, innumerevoli giovani musicisti, molti dei quali hanno successivamente avuto una luminosa carriera da solisti.  Quando parliamo dei Jazz Messengers dobbiamo tener presente che si tratta di una delle band più rappresentative e seminali della storia del jazz, guidata nelle sue varie configurazioni da un maestro della batteria il cui lavoro e la cui creatività sono da considerare fondamentali per tutto il movimento afro americano. Caravan è senza dubbio uno degli album più interessanti della corrente denominata hard bop: è un disco imperdibile.

Neil Larsen - Orbit


Neil Larsen - Orbit

“Molto tempo fa in una galassia molto, molto lontana… c’erano gruppi che si chiamavano Weather Report, Crusaders, Mahavishnu Orchestra, Return To Forever, Headhunters.” Suonavano un sorta di nuova musica strumentale che spaziava dal jazz al funk al rock, pescando il meglio tra tutte queste diverse influenze. Neil Larsen è uno dei diretti discendenti di quella meravigliosa epoca musicale. Ho già parlato di Neil Larsen in occasione dell’uscita del suo ultimo cd “Forlana”. Larsen non è sicuramente un nome familiare quando si parla di jazz contemporaneo, a meno che non siate veri appassionati o abbiate conosciuto ciò che lui ha fatto negli anni ’70. Ma Neil è uno straordinario tastierista, che ha trascorso gran parte della sua carriera facendo suonare meglio altri musicisti e sfornando solo una manciata di album a suo nome. Voglio tornare a scrivere su di lui, prima di tutto per il suo grande valore e poi perché, come tutti i grandi artisti, anche per quanto lo riguarda, nella sua discografia c’è un autentico capolavoro. Risale al 2007, è il quinto disco di Larsen ed il suo titolo è “Orbit”: uno dei migliori album di jazz contemporaneo (anche se le etichette sono in questo caso riduttive) del secondo millennio. Neil Larsen ha messo insieme una super band con Robben Ford alla chitarra, Jimmy Haslip al basso, Tom Brechtlein alla batteria e inoltre Gary Meek al sax e Lee Thornburg alla tromba: una concentrazione di talenti davvero stratosferica. Inoltre è difficile trovare una registrazione audio migliore di questa. I proprietari della Straight Ahead Records, Bernie Grundman e Stewart Levine hanno utilizzato tecniche di registrazione allo stato dell'arte ed in più hanno catturato tutto "dal vivo", senza sovra incisioni od effetti, con la tecnica denominata “direct to disc”. Con Orbit Neil Larsen ha creato un’opera che si muove tra Jazz, Blues, Funk, Latino e sicuramente la miglior Fusion (negli anni ’70 si sarebbe detto jazz rock). Il repertorio è solo parzialmente originale perché il tastierista ha avuto il merito e la felice intuizione di inserire anche alcune delle sue composizioni più significative. Brani che vengono dal periodo con i Full Moon e dai più importanti tra i suoi precedenti album. Ovviamente sono pezzi di grande musica che vengono reinterpretati e rivisti profondamente dalla nuova band, ridisegnati con una sensibilità contemporanea e più moderna. Il risultato è stupefacente: Orbit è un disco a cui bastano pochi minuti di ascolto per catturare l’attenzione e far innamorare chiunque ami la buona musica. La title track ad esempio è attraversata da un’atmosfera inquietante, punteggiata dalla chitarra di Ford, che si intreccia e si dipana anche grazie alle accattivanti melodie dei fiati. Il suono purissimo e dettagliato della registrazione aumenta il pathos delle ballate come Arioso e From A Dream, e migliora il groove di Day Train e il ritmo di Sudden Samba. La tecnica di produzione del disco mette tutti d'accordo sul fatto che non si sia mai sentito così bene il suono di Neil Larsen e Robben Ford. Inoltre c’è un batterista fenomenale come Tom Brechtlein che fornisce alla ritmica della band tutto il tiro che ci si aspetta ed anche di più (ascoltare Shing per capire meglio). Le tastiere ed i fiati fanno da guida, la chitarra elettrica incanta in ogni passaggio. Una considerazione particolare va fatta su Robben Ford:  qui si può capire quanto bravo sia questo musicista. Non solo quando si mette in prima linea, ma anche se ci sofferma ad ascoltare quello che fa in sottofondo (Jungle Fever e Sudden Samba sono dei buoni esempi). E’ normale ritenere Ford uno dei migliori chitarristi oggi sulla scena. E per quanto a Robben piaccia cantare e suonare blues, lui brilla davvero quando si impegna nel jazz rock: su Orbit è davvero ispirato nel suo modo di suonare  non solo per gli assoli meravigliosi, ma anche per gli incredibili giochi sulla ritmica. La stella di questo album è lui, non c’è dubbio. Neil Larsen a sua volta è, ovviamente, uno straordinario tastierista, tra l’altro è uno dei pochi che può vantare un suono immediatamente riconoscibile. Il suo organo, il piano elettrico, le puntate al piano acustico e l’uso dei synth offrono un ventaglio completo di possibilità espressive che esalta la sua fantastica versatilità ed un inventiva fuori dal comune. Ci sono molte cose su Orbit che rendono questo un album speciale. Alludo prima di tutto alle composizioni: tutte e 12 le tracce sono memorabili per vari motivi. E poi la band, che oltre a Larsen e Ford, include, come detto Jimmy Haslip, Tom Brechtlein, Gary Meek e Lee Thornburg. È una formazione formidabile e, cosa non così scontata, funziona veramente bene per coesione, feeling e interplay. Tutti i musicisti trovano il loro spazio nell’architettura dei brani a conferma del perfetto equilibrio tra le varie personalità che compongono la band. La maggior parte dei contenuti di Orbit può essere considerata senza dubbio una forma molto jazzata di fusion. Ma c’è anche il funk jazz declinato in modo molto interessante e c’è pure l’acid  jazz con l’organo protagonista e Robben Ford sempre presente a ricamarci sopra. L’organo per Neil Larsen è stato una costante, la sua voce predominante in tutte le registrazioni da solista e, ancora una volta, lo è in Orbit. I nuovi arrangiamenti, gli strumenti aggiornati ai tempi, alternati a quelli vintage, fanno di questo album il lavoro definitivo per accostarsi a Neil Larsen. Di fatto Orbit è un must per tutti gli appassionati di fusion e di jazz contemporaneo: la musica è fenomenale e la qualità della registrazione è davvero mozzafiato: si può chiedere di più ? La  fusion, quella buona, si trova in “Orbit”.

Espirito – Peace Of Mind



Espirito – Peace Of Mind

Il tastierista degli Shakatak, Bill Sharpe ed il chitarrista del gruppo svedese Mezzoforte, Friðrik Karlsson nel 2000 formarono un duo che chiamarono Espirito. Il talento di Sharpe ed il sicuro mestiere di Karlsson diedero luogo ad un album di smooth jazz che prometteva di possedere una vibrante atmosfera smooth jazz, ricca di morbidi groove urbani e moderni suoni latini. Il lavoro, che si intitolava Peace Of Mind, rimase un episodio isolato, poiché la collaborazione tra Sharpe e Karlsson non produsse altre uscite discografiche oltre a questa. La band è completata da Andy Pascome al basso, Snake Davies al sax  più Linda Taylor e Cathi Ogden in veste di cantanti. Ad una valutazione più approfondita, si scopre che l’album racchiude dieci tracce sufficientemente frizzanti e prodotte con cura e professionalità. Si tratta, in ultima analisi, di un tranquillo esempio di smooth jazz adatto ad un ascolto rilassato e piacevole che certo non si distingue per originalità ed inventiva. Karlsson è un comunque un gran chitarrista: mette in mostra un tocco morbido e delicate finezze, ma anche un eccellente appeal ritmico. Bill Sharpe dal canto suo è, come è noto, un pianista veloce, pulito e sempre fantasioso, sia che si esibisca al piano acustico sia che utilizzi il piano elettrico o i synth. Peace Of Mind è quindi una bella vetrina per la più classica delle incarnazioni dello smooth jazz dell’inizio del millennio. L’atmosfera è solare, orecchiabile e accattivante, dominata dalla precisione e dalla pulizia degli arrangiamenti nei quali tutto le cose sono al loro posto ma manca sempre il guizzo musicale definitivo. Non sono del tutto assenti però gli spunti interessanti: "You're the One" e "So Cool" ad esempio sono due brani che, scostandosi dai clichè del contemporary jazz strumentale più standardizzato, riescono ad offrire qualcosa di stimolante e diverso. Ci sono altri punti salienti nel disco che garantiscono un approccio più stuzzicante: la title track Espirito ad esempio, prende il volo sulla base di un bel groove elettronico sul quale si distende il dolce fluire del liquido pianoforte di Sharpe che si alterna con il sax propulsivo di Snake Davies. Qualcosa di un po’ diverso è anche  racchiuso nelle note latine di "Gypsy", un arioso brano sul quale Karlsson mostra la sua bravura anche alla chitarra acustica. Il chitarrista finlandese scivola dolcemente in un'atmosfera in stile flamenco, allontanandosi dai suoni più aspri dell’elettrica, ma dispensando comunque all’album un po' di varietà. "Wonderland" è un altro bel pezzo, con un assolo di tastiera molto trascinante, che è poi la specialità di Sharpe, sempre capace di orchestrare al meglio le sue sortite in prima linea. Allo stesso modo, su "One Time",  Karlsson offre vampate di chitarra elettrica veloci e pungenti, instaurando un’elegante "conversazione" strumentale con il sassofonista Snake Davies. Su Peace Of Mind la musica è gradevole, i musicisti sono bravi, ma quello che latita è il groove genuino e magari un po’ ruspante che invece era presente sulle prime incisioni degli Shakatak e dei Mezzoforte, gli storici gruppi dei due leaders. Come dire che l’unione tra due bravi artisti non sempre da come risultato la somma dei loro singoli  talenti. Questo è, probabilmente, in gran parte dovuto alla sensazione di appiattimento e ripetitività che è da sempre uno dei punti deboli dello smooth jazz: quando si produce un album dentro ai canoni della musica pensata per l’intrattenimento e le radio il rischio di non riuscire ad elevarsi sopra la media è piuttosto alto. Gli Espirito non mancavano ne di classe ne di raffinatezza, Sharpe e Karlsson hanno messo in campo tutta la loro professionalità, e con ogni probabilità credevano in questo progetto, ma raramente riescono a far scoccare la scintilla. Peace Of Mind si fa gradevolmente ascoltare, può essere una delicata compagnia o un piacevole sottofondo ma per trovare l’emozione forse è meglio rivolgersi altrove.

Nils Landgren Funk Unit - Teamwork


Nils Landgren Funk Unit - Teamwork

Forse molti non sanno che la Svezia è il terzo produttore mondiale di musica. Principalmente musica pop  (non solo gli Abba) e rock metal (ma anche progressivo) e in misura minore anche di jazz, funk, soul e acid jazz. Tuttavia vanta una tradizione di musicisti di alto livello che nel corso degli anni hanno saputo interagire con numerosi esponenti del jazz internazionale. Nils Landgren è un trombonista e cantante svedese ed è uno di questi artisti. Ha iniziato a suonare la batteria a 6 anni, e solo verso i 13 c’è stato il suo primo approccio con il trombone. Ha studiato con grandi nomi del jazz di questo particolare strumento (quali Bengt-Arne Wallin e Eje Thelin) che lo spronarono a passare dagli studi classici allo studio dell'improvvisazione. Dopo il 1978 (anno in cui si laureò all'Accademia di musica dell'Università di Karlstad), si trasferì a Stoccolma, dove ben presto iniziò un tour con i Blue Swede (un gruppo rock svedese). Nel 1981 fu invece chiamato da Thad Jones a collaborare come trombonista leader in una sua nuova big band: i Ball of Fire. Da allora, Nils ha partecipato come ospite a oltre 500 album, collaborando dunque con svariati artisti, tra i quali: gli ABBA (poteva essere diversamente?), i The Crusaders, Herbie Hancock, Pat Metheny, gli E.S.T. e altri ancora. Esperienze musicali ed artistiche a parte, il trombonista svedese, con la sua band denominata Funk Unit, ha creato negli anni un sound che è quanto di più vicino si possa immaginare a quello jazz funk degli anni ‘70. Ma pur nel rispettoso recupero della tradizione, Landgren ha sviluppato una sua propria e ben definita identità che fa del groove un connotato centrale e basilare. Esplosivo, divertente, profumato di jazz quanto basta, il progetto musicale di Nils Landgren è piacevolmente caldo e pienamente godibile:  certo non fa trasparire in alcun modo le sue origine nord europee.  Il prolifico trombonista svedese e la sua band non mostrano un grande interesse nel cercare di reinventare una formula vincente. Perché preoccuparsi di andare a cercare l’innovazione e la sperimentazione a tutti i costi quando il risultato finale è esattamente quell’intramontabile mix di funk e soul-jazz che così tanti seguaci raccoglie da sempre in tutto il mondo? Sul suo album Teamwork, uscito nel 2013, Nils mette in campo tutto il suo talento e conferma l’approccio musicale basato sul suo genuino e gagliardo jazz funk, arricchendo il tutto con  la presenza, in veste di ospiti di artisti del calibro di Joe Sample, Wilton Felder e Till Brönner. L'assolo di piano elettrico di Joe Sample sulla bella "Green Beans", uno dei tanti brani dell'album che Landgren ha scritto personalmente è emblematico: sono suoni che piaceranno moltissimo ai fan dei Crusaders o, perché no, a quelli degli Earth Wind And Fire o di James Brown. Wilton Felder fa la sua comparsa al sax su "Mr Masumoto" e Till Bronner e la sua tromba impreziosiscono "Rhythm is Business". Su Teamwork c’è ampio spazio per Landgren e i suoi compagni del Funk Unit per improvvisare e divertirsi sul ritmo funk che è il filo conduttore del lavoro, aggiungendo al contempo dei contemporanei tocchi di hip-hop e di rock. Gran parte della musica è sostanzialmente frutto di continue e stimolanti jam session, perciò prevale su tutto un feeling di grande libertà e giocosa positività. Tuttavia, per i palati più fini, gli arrangiamenti sono attenti e sofisticati sia che la band stia prendendo spunto dalla produzione dei Crusaders che da quella più rustica del padre del soul James Brown. Teamwork è un album solare e orecchiabile che può deludere gli ascoltatori che apprezzano il lato più armonicamente avventuroso della vasta discografia di Landgren, ma questo resta pur sempre un genere di musica coinvolgente e creativo che qualsiasi appassionato di jazz funky dovrebbe ascoltare. E in fondo il jazz non è poi così sfumato come la predominanza della componente ritmica potrebbe far supporre. Nils Landgren suona un jazz fortemente orientato al groove ma lo fa in un modo armonicamente stimolante. Il suo stile mescola con sapienza influenze importanti come quelle dei Brecker Brothers, di Cannonball Adderley, di Donald Byrd, e ovviamente dei Crusaders, di James Brown e degli Earth Wind And Fire. Volete il funk ? Siete nel posto giusto: buon divertimento con il Funk con la F maiuscola ed una sfumatura jazzata. Questo “caldo” album dalla fredda Svezia vi solleverà il morale.

Groove Legacy – Groove Legacy


Groove Legacy – Groove Legacy

La passione per il sound jazz funk degli anni ’70, in particolare per le produzioni di Creed Taylor e della sua CTI, per band come i Meters, gli Stuff o i mitici Crusaders è un sentimento largamente condivisibile. Sono molti i musicisti che si sono ispirati a quelle atmosfere ma c’è un trio di navigati strumentisti che ne ha fatto una missione artistica al punto di mettere in piedi un progetto tutto incentrato proprio su quel peculiare e specifico stile. Loro sono il sassofonista Paulie Cerra, il tastierista Billy Steinway e il bassista Travis Carlton (figlio del leggendario chitarrista Larry Carlton) e Groove Legacy è la band da loro creata, che già nel nome racchiude tutta la sua filosofia musicale. Individualmente hanno suonato con molti grandi nomi, da Al Green a Stevie Wonder a Carrie Underwood, da Ray Charles ad Aretha Franklin a Rickie Lee Jones,  ma Groove Legacy è chiaramente un passo in avanti nelle loro carriere. Spiega Billy Steinway: " Mi sono letteralmente innamorato del sax tenore e del trombone sin da quando ho avuto il piacere di lavorare con i Crusaders e non riesco a pensare ad un gruppo di musicisti migliore dei Groove Legacy per catturare quel suono, aggiungendo al contempo un tocco nuovo alla bellezza senza tempo di questa musica prevalentemente strumentale". Il progetto è arricchito dai contributi dei trombonisti Andrew Lippman e Lee Thornberg, dal batterista Lemar Carter oltre ai chitarristi Kirk Fletcher e Sam Meek: come detto, Groove Legacy onora e consolida il sound di quell’epoca gloriosa per il jazz funk, ma lo fa proponendo anche un preciso disegno proiettato nel futuro. Sappiamo bene che, con la recente scomparsa di Joe Sample e Wilton Felder, i Crusaders non torneranno mai più, ma è davvero un piacere poter gioire di una nuova generazione di musicisti, proveniente dalla stessa scena californiana dei Crusaders, che non solo rendono omaggio al genio dei maestri, ma mantengono vivo il loro retaggio con dell’ottimo e soprattutto nuovo materiale originale. L’album omonimo dei Groove Legacy, che poi è il loro debutto discografico, utilizza gli stessi ingredienti di base che hanno reso così irresistibile il jazz funk degli anni ’70: basso e batteria ordiscono la trama del “groove”,  mentre è il Fender Rhodes a dare corpo e sostanza alla prima linea, come da tradizione formata dal sax e dal trombone. A completare il tutto ci sono ovviamente anche le chitarre elettriche. Bastano poche note e il salto nel tempo è assicurato: i Crusaders di Southern Comfort e Chain Reaction sembrano tornare davanti a noi.  “Sweetness” ad esempio: intro di basso e poi via dritti al succo, ovvero il classico unisono che fa da preludio agli assoli. Anche "Odd Couple" è paradigmatica della padronanza dei Groove Legacy  nel leggere il più classico Crusaders sound: un po 'funky e un po' soul, il jazz ben presente e i fiati che prima di distendersi singolarmente agiscono come una voce sola.  Il sax tenore di Ceara suona grasso e pastoso così come nitido e morbido è il trombone di Lippman. Il groove giusto è garantito dal bassista Travis Carlton e dal batterista Lemar Carter. "Cornell" presenta come ospite Larry Carlton (il padre di Travis) intento a districarsi su una melodia scritta in onore del leggendario chitarrista Cornell Dupree, uno dei padri storici degli Stuff. La sezione ritmica imbastisce il suo groove in stile Memphis, ma l’inconfondibile chitarra di Larry domina questo pezzo. Un altro ospite illustre dei Groove Legacy arriva su "The Know It All", ed è il chitarrista Robben Ford che ovviamente mette in mostra il suo stile blues-rock. Il classico Memphis sound viene delineato anche e soprattutto attraverso il ritmo e la sensazione che trasmette "Memphis 40 oz. Hang" è proprio quella di trovarsi in una sessione della Stax Records di Booker T. & the MGs con i Memphis Horns. L'anima urbana e blues di "My Someday Girl" ricorda le sontuose melodie di Joe Sample, e di sicuro il tastierista Billy Steinway si dimostra degno erede del talento del grande maestro texano. A proposito di tastiere, va sottolineato come il piano elettrico sia assoluto protagonista della musica dei Groove Legacy: presente sia in veste di collante armonico che in quella solista con la medesima efficacia. L’album è davvero bello in ogni suo brano e scorre fluido ed interessante dalla prima all’ultima nota. Groove Legacy offre tutto ciò che è mancato al jazz contemporaneo da quando si è trasformato in smooth jazz, negli anni '80. Qui ci sono brani con continui ed intelligenti cambi di accordi, assoli traboccanti di una genuina essenza jazz e una coesione tra musicisti che badano al sodo più che appoggiarsi su una elegante produzione per far scattare la magia. I Groove Legacy dimostrano che non è affatto necessario essere artisti di grande fama per realizzare un disco di ottimo livello. Paul Cerra, Travis Carlton e Bill Steinway sono i musicisti giusti per far risorgere dalle ceneri del suo glorioso passato il jazz funk, con tutta la sensibilità e la preparazione di cui c’è bisogno. Le eleganti note di copertina di Frank Malfitano descrivono i Groove Legacy  in questo pittoresco ma efficace modo: “è come se gli Stuff e i Crusaders avessero generato come figlia questa band". Probabilmente non c'è descrizione più azzeccata di questa per sintetizzare i contenuti di questo bellissimo lavoro.

Leslie Drayton – Free And Easy


Leslie Drayton – Free And Easy

Chi non conosce gli Earth, Wind & Fire ? Immagino che quasi tutti abbiano una certa familiarità con quello che può essere considerato il più famoso tra i gruppi funk. Tuttavia va ricordato che una band è formata da vari musicisti, nel caso degli E.W.F particolarmente numerosi, e molti di loro, pur avendo una carriera come solisti, non godono certo di una vasta popolarità. Leslie Drayton, ad esempio è sì uno dei membri fondatori degli Earth, Wind & Fire ma in quanti realmente lo conoscono? Leslie è però un musicista molto versatile che ha saputo coniugare il funk, il soul ed il jazz adattandoli al dolce suono della sua tromba. Ma la carriera di Drayton non è solo legata al famoso gruppo di Chicago: ha suonato con Nancy Wilson ed è stato il coordinatore musicale di Marvin Gaye e Sylvester, senza contare la militanza nelle big band di Cab Calloway, Gerald Wilson e Louis Bellson. Leslie è quindi un artista di grande esperienza, molto preparato dal punto di vista musicale e tecnico. Free And Easy è un album del 2014 nel quale si possono trovare molti solidi brani soul jazz, piacevolmente arrangiati e sostenuti da una notevole dose di buon gusto ed equilibrio. Leslie si esibisce sia alla tromba che al flicorno, un ottone che personalmente amo molto per il suoi toni baritonali, profondi e molto morbidi. Le linee di basso e le ritmiche sono sempre un punto di forza, come lecito attendersi da un ex membro degli Earth Wind & Fire ed il tutto è impreziosito dai sapienti ricami fiatistici del leader e dai suoi accattivanti arrangiamenti. Drayton mette sul piatto delle funky jam declinate nelle diverse sfumature del soul jazz, senza eccedere in personalismi inutili ma proponendo un’offerta musicale di grande piacevolezza, in grado di valorizzare il suo stile asciutto così come il suo sound preciso e pulito. Degna di nota è la traccia d’apertura dell’album "Remember When": un’inizio fantastico per un album con molte promesse, che sembrano davvero poter essere tutte soddisfatte; qui è il ritmo in particolare ad essere molto indovinato e non manca di colpire nel segno la stupenda tromba del leader. "Back in the Day" ha un andamento che ricorda Donny Hathaway  e la sua mitica "The Ghetto", tuttavia è solo una sensazione, perché il brano ha una sua personalità ed è caratterizzato dalla splendida sonorità del flicorno di Drayton.  Ancor più rilassata è la successiva "Alone In The Dark" dove ancora brilla il flicorno del leader, e si distingue la presenza di un ottimo lavoro di basso, davvero incisivo e fantasioso. Il tema della bossa nova è sviluppato in modo sensuale in "Afterthoughts" ed è noto quanto la ritmica brasiliana sappia valorizzare gli ottoni, che in questo brano accarezzano delicatamente l’ascoltatore. E’ invece più funky “Free And Easy”, che riporta l’atmosfera verso una maggiore vivacità, bellissimo l’assolo di piano elettrico in pieno stile vintage. Pigramente seducente, ma convincente e malinconica invece "Mars Landing": una ballata dove è ancora Leslie Drayton a tenere banco con un intervento passionale e molto intenso. Tutto condito da un arrangiamento semplice e sofisticato che non fa che esaltare la bella melodia. Molto carina anche "Jam Groove", con la sua ritmica anni ’80 con tanto di basso synth e batteria elettronica a far da base al solito lungo monologo di tromba e flicorno, interrotto solo dal pianoforte che si prende il suo bell’assolo. Free And Easy  è più o meno tutto così: il disco perfetto per intrattenere piacevolmente l’ascoltatore, e non necessariamente solo quello appassionato di jazz. Può deliziare come sottofondo per una cena o una serata tra amici, così come può essere l’accompagnamento ideale per un viaggio in automobile. Sempre misurato e morbido, Drayton è paragonabile ad esempio ad Herb Alpert o al paladino dello smooth jazz Rick Braun,  ma forse meglio di questi incarna un approccio accessibile al jazz, che resta sullo sfondo. Anche lui si mantiene ampiamente dentro i confini di una musica di facile ascolto, disimpegnata, molto adatta alle radio e ad una fruizione rilassata. Tuttavia nella sua semplice formula Leslie Drayton sa essere originale e soprattutto dimostra di possedere un fraseggio seducente, molto efficace, in grado di far apprezzare due strumenti ormai un po’ dimenticati come la tromba e il flicorno (in particolare quest’ultimo). Questo suo album è in ultima analisi un’ottima proposta musicale che coccolerà le vostre orecchie e vi intratterà serenamente per quasi un’ora. Per i capolavori ovviamente bisogna rivolgersi altrove, così come se si è alla ricerca della musica più pura ed incontaminata: qui sono il soul, il funk e l’easy listening a farla da padroni e il jazz è solo un sentore che accompagna il tutto. Ma in un mercato discografico come quello attuale, Free And Easy è oro colato. Fatte queste opportune premesse, difficilmente Leslie Drayton può deludere.