Jason Miles – What’s Going On ?


Jason Miles – What’s Going On ?

Jason Miles è un tastierista e arrangiatore americano nato a Brooklyn, New York.  Sul finire degli anni ’70, al culmine del rivoluzionario movimento teso a fondere il jazz con altre forme musicali come il funk ed il rock, Miles si ritrovò completamente immerso nella scena artistica della Grande Mela. Si guadagnò gradualmente un buon credito tra musicisti ed addetti ai lavori, in particolare tra quelli più attenti ad un uso innovativo ed intelligente dell’elettronica. Jason Miles riuscì così a far valere le sue creative doti di programmazione dei sintetizzatori così come la sua tecnica nell’elaborazione dei suoni, entrando nel novero degli arrangiatori più richiesti. Il suo primo album, che risale al 1979 e s’intitolava Cosmopolitan, fu realizzato con l’aiuto del bassista Marcus Miller e del trombettista Michael Brecker: era un lavoro grezzo ma molto promettente, ricco di spunti e interessanti composizioni. Il rapporto di collaborazione con entrambi questi due rinomati musicisti è poi proseguito anche in seguito, ma purtroppo le registrazioni di Miles come leader non raggiungeranno più quei livelli. Va poi ricordato che, a partire dagli anni ’80, Miles ha lavorato per alcuni importanti artisti sia jazz che pop, come Miles Davis, Luther Vandross, lo stesso Marcus Miller, Whitney Houston, Chaka Khan, Diana Ross, Aretha Franklin, David Sanborn e Michael Jackson. Dopo il semisconosciuto debutto del ’79 (che comunque non vide la pubblicazione fino al 2005), all’inizio del nuovo millennio Miles ha pubblicato diversi altri album da solista e tra questi i più apprezzati dal pubblico (meno dalla critica) sono stati quelli che rendevano omaggio alla musica di un favoloso quartetto di mostri sacri: i rivoluzionari Weather Report, il brasiliano Ivan Lins, il favoloso Grover Washington, Jr. e in ultimo l’immortale e suo vecchio amico Miles Davis. Questa lista di tributi si ingrossa con un quinto stimolante progetto nel 2006, con la pubblicazione di un lavoro che intende riscoprire i classici di quel grande e sfortunato artista che fu Marvin Gaye. Piuttosto che limitarsi a registrare un album di anonime cover delle canzoni più popolari dell’artista di Washington, la volontà di Jason Miles sembra quella di mostrare quanto moderni e pertinenti restino anche ai giorni nostri i messaggi politici e romantici di Gaye. Quanto queste operazioni discografiche possano realmente approdare a risultati soddisfacenti e soprattutto quanto di nuovo un album così riesca a portare nel repertorio consolidato e famosissimo di Marvin Gaye (e degli altri prima di lui) è difficile a dirsi. Di sicuro si tratta di progetti ad alto rischio di banalità e probabilmente What’s Going On ? non si eleva al di sopra di una elegante e fin troppo patinata rilettura in chiave smooth jazz di undici evergreen del compianto Marvin. Ovvio che l'arrangiamento della title track “What’s Going On ?” sia comunque sexy e d'atmosfera, caldo e avvolgente come richiesto dallo stupendo pezzo, ma in ultima analisi è solo una vetrina perfetta per le belle parole della canzone, interpretata peraltro con grande intensità dall'esordiente Mike Mattison. What’s Going On ? si avvale della presenza di un bel gruppetto di leggende della musica, da Herb Alpert che ascoltiamo interpretare la seducente "Let 's Get It On", a Marcus Miller il cui basso è immediatamente riconoscibile su un altro capolavoro di Marvin come "Heavy Love Affair". C’è Jay Beckenstein che piazza uno dei suoi assoli sulla dolce "Too Busy Thinkin' Bout My Baby", e c’è anche Bobby Caldwell che canta “Distant Lover” con la sua voce pastosa.  Tutti bravissimi, tutti perfetti ma al di là della bellezza intrinseca delle composizioni si stenta ad andare. Al contempo Jason Miles appare intenzionato anche a valorizzare alcuni talenti emergenti, la cui presenza dona all’album perlomeno una nota di apprezzabile freschezza ed imprevedibilità. Fa particolarmente piacere scoprire ad esempio che la voce femminile di "I Want You" è quella della cantante romana Chiara Civello, che del famoso brano offre una lettura personale e profonda. Bravo anche James "D-Train" Williams, voce solista di "Heavy Love Affair". il flicorno di Chris Botti brilla sulla cover del jazzato "Trouble Man", ed il chitarrista Nick Colionne impreziosisce "I Heard Trough The Grapevine": nel 2006 loro erano già artisti affermati ed in seguito diventeranno star della fusion a livello internazionale. In conclusione bisogna onestamente ammettere che album come questi sono, tutto sommato, operazioni artisticamente risibili se non addirittura inutili: a fronte di una veste pur sempre elegante e raffinata, senza dubbio piacevole, non corrisponde altrettanta sostanza: diventa difficile andare oltre un gradevole ascolto di sottofondo. Personalmente preferivo la creativa ruvidità del primo lavoro di Jason Miles, Cosmopolitan, dove si respirava un’aria molto più genuina e propositiva. Evidentemente strizzare l’occhio alle esigenze commerciali non giova proprio a nessuno e Jason Miles non fa eccezione. Se ci viene voglia (e la cosa è caldamente raccomandabile) di ascoltare Marvin Gaye, meglio, molto meglio dedicarsi all’originale.

Ansgar Specht - Some Favourite Songs


Ansgar Specht - Some Favourite Songs

Un viaggio a ritroso nel tempo. Una nostalgica serata in un fumoso jazz club. Un bicchiere di bourbon servito da un barman che finge di ascoltare i suoi ospiti con partecipazione, ma in verità indulge nei suoi pensieri. E sul piccolo palco un trio, formato da una chitarra, un organo, ed una batteria: giusto l’essenziale. Alla testa di questo “small combo” un musicista tedesco, Ansgar Specht considerato uno dei migliori talenti della chitarra jazz non solo del suo paese ma anche a livello internazionale. Questo è in sintesi il quadro che scaturisce dall’ascolto delle tracce di “Some Favourite Songs”, l’ultima fatica discografica di Specht. La selezione dei brani è incentrata su alcuni delle composizioni favorite del chitarrista e della sua band, che non necessariamente devono essere quelle più gettonate dal pubblico. Ci sono canzoni dei noti compositori Cal Massey, Wes Montgomery, J.J. Johnson e Antonio Carlos Jobim, ed anche pagine più recenti della produzione jazzistica contemporanea. Lo stile di Ansgar è diretto, conciso, limpido e molto amichevole: si tratta di jazz tradizionale con una spruzzata di blues e qualche influenza latina, il tutto condito da una piacevole leggerezza. La tecnica di Specht è ottima ed attinge alla migliore tradizione dei grandi maestri del passato, ma il chitarrista non è tuttavia un artista egocentrico e lascia un giusto e paritetico spazio all’organo Hammond suonato con perizia dal bravo John Hondorp. Il batterista Marcus Strothmann costruisce la spina dorsale ritmica più adatta al contesto della musica del trio: preciso, mai invadente eppure sempre presente. E’ così che la musica scorre, pulsa e scoppietta intrattenendo con grazia e misura. Compagno ideale di una serata rilassata e piacevole, l’album suona intelligentemente divertente, melodico e colorito. Su Some Favourite Songs non troverete certo eccitazione e frenesia, cose che non si addicono allo stile adottato per questa registrazione dal chitarrista tedesco. Non mancherà invece di stupirvi la notevole cura nei dettagli degli arrangiamenti a partire dal sound sofisticato e fluido della chitarra semiacustica del leader e finendo con l’uso intelligente dell’organo, che a suo modo non fa rimpiangere la mancanza di un contrabbasso. Un esempio è la bellissima cover del classico di Bruno Martino “Estate”: sulla romantica canzone italiana viene dato un grande spazio all’Hammond di Hondrop che crea un’atmosfera rilassata e suggestiva mentre la chitarra riserva il meglio per il finale. Molto bella anche l’interpretazione di uno dei più bei pezzi di bossa nova di Antonio Carlos Jobim intitolato “Fotografia”. Lasciando la ritmica solo alla stregua di un timido sottofondo il brano si concentra principalmente sulla melodia che il trio riesce a valorizzare al meglio. Il jazz più tradizionale viene proposto su “These Are Soulful Days”, canzone di apertura dell’album. Il gioco di questo numero è tutto nell’inseguirsi continuo della chitarra e dell’organo, in un’alternanza di assoli e accompagnamento estremamente piacevole. “Who Can I Turn To?” vira su una maggiore vivacità, dando una versione veloce e nervosa di una canzone nota soprattutto come ballata. L’anima soul jazz emerge prepotente nella rilettura che Specht da della classica “Road Song”, questa suona come un vero e propio omaggio al grande maestro, innovatore della chitarra, Wes Montgomery. La stessa cosa che Ansgar fa subito dopo con la funambolica “Lean Years” di Pat Martino, mirabilmente eseguita dal trio. Questo album del 2016 rappresenta l’ultima fatica di Ansgar Specht ed è anche una decisa svolta verso un jazz più canonico, dopo anni di musica maggiormente orientata verso il jazz rock ed alla fusion piuttosto che al linguaggio tradizionale. Con Some Favourite Songs i tre musicisti confezionano un disco piacevolmente sofisticato eppure talmente spontaneo e naturale da sembrare quasi eseguito senza alcuno sforzo. L’accompagnamento ideale per concludere una giornata frenetica con della buona musica. Che poi ciò avvenga in un fumoso bar, davanti ad un barista falsamente attento o sul proprio divano di casa non importa, l’importante è ascoltare del buon jazz: Ansgar Specht riesce in questa apprezzabile operazione.

Bill Evans Trio - Explorations


Bill Evans Trio - Explorations

Non ricordo chi sia stato a pronunciarla, ma nel mondo del jazz gira questa frase: “Vai tutti i giorni a piedi al tuo negozio di dischi preferito per acquistare un album di Bill Evans. In questo modo ti manterrai in forma ed avrai presto anche una grande collezione di jazz per pianoforte”. E’ un’affermazione largamente condivisibile: nessuno può negare che Evans sia stato un genio assoluto, un musicista straordinario che ha letteralmente rivoluzionato non solo l'immagine del pianoforte, ma anche la storia stessa del jazz. Sì può inoltre scommettere sul fatto che ogni pianista che è venuto dopo di lui abbia presumibilmente consumato i solchi dei dischi di Evans per assorbire, per quanto possibile, tutti i segreti, le sfumature e le mille sfaccettature della sua incomparabile arte. Bill Evans ha il potere di incantare fin dal primo assaggio ma è con un ascolto attento che seduce completamente l’ascoltatore. Ciò che affascina e stupisce è proprio quel suo inconfondibile modo di suonare il piano, emotivamente coinvolgente, straordinariamente raffinato e colto eppure sempre così immediato. Bill ha il potere di diffondere una sensazione di calore che, come per magia, arriva alla testa alleggerendola di ogni pensiero, per poi penetrare fino al cuore avvinghiandolo in una presa che non ci lascia più. Bill Evans aveva la straordinaria capacità di scegliere sempre le note giuste per toccare le corde della parte più profonda della nostra anima musicale: una dote che è propria solamente di una ristretta cerchia di grandissimi artisti. Nella ricca discografia di questo eccezionale pianista, la parte migliore e probabilmente anche il luogo naturale dal quale partire per iniziare ad avvicinarsi a Bill Evans sono indubbiamente gli album con il famoso trio formato insieme a Scott LaFaro al basso e Paul Motian alla batteria. Explorations è stato registrato nel Febbraio del 1961, a circa un anno di distanza da un altro acclamato capolavoro come Portrait in Jazz e lo stesso Evans lo considerava una delle sue pubblicazioni preferite. I tre musicisti lavorano in una perfetta sinergia, nella quale il maestro dimostra di aver perfettamente concettualizzato la formula del trio, interpretandola esattamente come deve essere: ogni membro contribuisce per la sua parte in funzione dell’unità del risultato finale. Ed infatti tutto qui funziona a meraviglia in un contesto formalmente essenziale eppure ricercatissimo e tuttavia agile, fresco e rilassato. Il meraviglioso interplay tra il basso di LaFaro e la batteria di Motian fornisce un ambiente ritmico ideale sia per gli accordi complessi ma sempre aggraziati di Evans, che per i suoi lucidissimi ed intricati assoli. Il trio va letteralmente ad “esplorare” l’architettura melodica, ritmica e armonica dei brani, compiendo un’operazione che non era mai stata presa in considerazione dalla maggior parte dei musicisti di jazz fino a quel momento. Il risultato è una sorta di rivitalizzazione di alcune canzoni dimenticate, che vengono qui reinventate, stravolte e ricostruite: ad esempio “How Deep Is The Ocean” o “Sweet And Lovely” in cui la tavolozza melodica si arricchisce di nuovi colori grazie alla ricchezza delle capacità musicali e tecniche di Bill. Si crea quasi l'illusione che queste composizioni siano state scritte in un modo che solo lo stesso Evans può interpretare o addirittura che siano state da lui composte. Il maestro sorprende nell’eseguire un vecchio brano del 1948 come “Haunted Heart”, al quale conferisce una struttura meravigliosamente impressionista, spalleggiato dalla profondità del drumming di Motian e dal sapiente uso delle pause di LaFaro. C’è spazio anche per una cover di un pezzo dell’amico Miles Davis: “Nardis” era già stata suonata in precedenza con Cannonball Adderley, ma qui ascoltiamo un Bill Evans all’interno di un altro contesto, nel quale i suoi fraseggi sono esaltati e il contrappunto melodico non viene da un sax ma dal basso di un fantastico Scott LaFaro. “Elsa” è una delle più belle ballate jazz per piano mai scritte, deliziosamente soft e romantica, mette in luce tutta la strepitosa perizia di Evans, che cesella le note dispensando passione ed emozioni unite dal quel filo di dolce malinconia che è un po’ il suo segno distintivo. La storia del brano “Beautiful Love” è particolare: la canzone fu eseguita in due diversi “take” tra i quali fu scelta inizialmente la seconda versione. In ogni caso nella ristampa su cd possiamo godere della presenza anche della registrazione del primo tentativo e possiamo renderci conto delle differenze. Sul cd di Explorations  troviamo anche un altro pezzo scartato nel ’61 a causa dello spazio limitato dal supporto vinilico: “The Boy Next Door” chiude l’album ed è una vera fortuna poterla ascoltare perchè è una piccola gemma che merita attenzione. Un menzione particolare per “Israel”, brano dove Evans disegna con la mano destra una melodia particolarmente brillante, mentre con la sinistra si limita ad un accompagnamento assorto e discreto, tutto giocato su quattro accordi maggiori per battuta: essenziale e bellissimo il risultato finale anche per merito di un sempre tecnicamente ineccepibile Scott LaFaro al contrabbasso. Questo è un trio tanto collaudato e consolidato da fondere insieme l’essenza stessa dei musicisti, che sono in grado di produrre un flusso sonoro equilibrato e strutturalmente complesso, ma capace di un impatto sempre molto naturale. Explorations è uno straordinario esempio della grandezza di Bill Evans e del suo inimitabile trio, catturati all’apice di un fantastico percorso musicale che li pone quasi ad un virtuale crocevia tra il jazz e l’impressionismo. Capolavoro.

McCoy Tyner - Inception


McCoy Tyner - Inception

"Inception" di McCoy Tyner è il tipo di album che colpisce l’ascoltatore dalla prima all'ultima nota. Quando ho iniziato ad avvicinarmi al jazz, Tyner è stato probabilmente il primo pianista ad attirare il mio interesse:  forse, senza nemmeno rendermene conto, avevo intuito la sua importanza. Il tocco, lo swing, la sua velocità hanno fatto breccia facilmente nella mia immaginazione di appassionato. Ma anche riascoltato in età più matura e con tanta musica alle spalle, devo ammettere che il suo modo di suonare resta dinamico ed entusiasmante in ogni singola traccia. "Inception" è stato registrato nel 1962, durante il periodo nel quale Tyner militava nel John Coltrane Quartet e mostra la sua giovane ed avventurosa personalità di quel momento: di fatto è stato il suo primo album come solista. Il disco mette in evidenza il giovane McCoy  già padrone del linguaggio hard-bop e offre anche un assaggio del percorso musicale che arriverà sotto l'influenza di Coltrane. Non è un segreto che molti musicisti jazz e quasi tutti i critici considerino "Inception" e le tre successive pubblicazioni in trio di Tyner "Reaching Fourth" "Nights of Ballads & Blues" e "McCoy Tyner Plays Ellington" alcuni tra i migliori esempi di jazz suonato nella cornice più essenziale, con il pianoforte in veste di solista. La qualità artistica che risuona in tutto questo lavoro è altissima: si percepisce come il 24enne pianista, pur essendo impegnato nella sua opera prima, sia libero di tessere le sue trame armoniche e melodiche in tutte e sei le selezioni. Inception è vario e ben assemblato, ci sono gli standard come “There is No Greater Love” and “Speak Low” e ci sono le composizioni originali come ad esempio "Blues for Gwen" (dedicato alla sorella di Tyner) e "Inception". E’ palpabile lo straordinario lavoro che Tyner ha compiuto nell’arrangiamento di ogni brano, rendendo questa registrazione per certi versi memorabile. Il bassista Art Davis e il batterista Elvin Jones forniscono nel migliore dei modi la solida base ritmica sulla quale si regge il pianismo vigoroso di McCoy Tyner. Chi ha familiarità con il drumming di Elvin Jones dei tempi del quartetto di John Coltrane sarà felice di sentire il prodigioso batterista mostrare il suo talento anche in un contesto diverso. Su " There is No Greater Love " è in vetrina il magnifico lavoro di Tyner, il cui piano può spaziare liberamente su e giù per le armonie dello standard di  Isham Jones imbastendo assoli velocissimi. Ma è degno di nota anche lo swing perfetto imposto dal duo Jones – Davis. A questo punto della carriera di Tyner, è assolutamente chiara l'influenza di John Coltrane nell’interpretazione del linguaggio jazzistico del giovane pianista di Philadelphia. L’esperienza con il maestro di Hamlet arriverà ad una conclusione solo qualche anno dopo, quando Coltrane cominciò a spostare i suoi interessi verso un’area decisamente più free e atonale, lontana dall’estetica di McCoy. “Sunset” è una bellissima ballata d’atmosfera, tutta giocata sul pianismo virtuoso di Tyner che si appoggia al favoloso lavoro di spazzole di Elvin Jones e quello altrettanto interessante di Davis al contrabbasso. La bella composizione classica “Speak Low” di Kurt Weill è un altro momento di grande intensità: Il trio la esegue ad alta velocità, in un’interpretazione che risulta funambolica e coinvolgente, cosa che non sorprende vista l’abilità di McCoy nel padroneggiare i tasti con una rapidità incredibile. Da notare il bell’assolo di Art Davis, piazzato al centro del pezzo e suonato senza accompagnamento alcuno.  "Effendi" è un esempio di composizione modale del pianista, una stupenda cavalcata giocata sulle complesse armonie degli accordi dettate dalla sinistra in contrasto con le avventurose scale pentatoniche della sempre fluidissima mano destra. Negli anni a seguire, saranno proprie queste le composizioni che Tyner utilizzerà sempre più di frequente. In Inception, tuttavia, Tyner è solo all’inizio del suo percorso solistico e l’album è ancora evidentemente legato alle convenzioni dell’hard bop, specialmente durante i suoi assoli. Se ogni brano in questo disco si può, a ragione, definire stellare, la title track  incarna ancor di più la tensione creativa di questo straordinario talento del pianoforte. Si tratta di un esteso blues in minore emozionante e memorabile dall'inizio alla fine: la velocità di esecuzione e la precisione del tocco sono in grado di incantare qualsiasi appassionato. Il dinamico assolo di un ispiratissimo Tyner conduce il trio ad un risultato tra i più significativi della storia del jazz. L’album è stato registrato in modo magistrale da quel genio di Rudy Van Gelder, con quella caratteristica firma sonora in grado di catturare i musicisti in una fantastica sessione, totalmente genuina e senza alcuna post elaborazione. Anche questo è un elemento che rende Inception un lavoro estremamente attraente. Nel mondo di oggi abituato alle registrazioni asetticamente perfette, queste classiche sessioni di jazz della Impulse o della Blue Note eseguite negli anni '50 e '60 sono fortunatamente ancora qui a ricordarci il motivo per cui sono tante amate. Anche la copertina è a dir poco strepitosa, fotografata con quei chiaroscuri così profondi ed intensi che caratterizzavano le pubblicazioni jazz di quegli anni favolosi. Lo stile di McCoy Tyner al pianoforte è facilmente paragonabile a quello di Coltrane con il suo magico sassofono. Pur essendo un semplice membro del gruppo di Coltrane,  Tyner non è mai stato messo in ombra dal maestro e leader, ma anzi ha contribuito a completare e persino ad ispirare parte della musica di Coltrane stesso. E’ giustamente considerato uno dei pianisti jazz più influenti del 20° secolo: una fama che si è guadagnato sia per la sua militanza alla corte del sommo sassofonista, ma anche per quanto ha saputo fare in seguito come solista. Il suo patrimonio artistico e stilistico è ricco e variegato e nel tempo ha saputo  orientare numerosi pianisti di jazz contemporanei, in particolare Chick Corea. "Inception" rimane uno dei miei album preferiti tra quelli in trio con il pianoforte come protagonista, lo consiglio vivamente.

Lou Watson - It Doesn't Matter


Lou Watson - It Doesn't Matter

Immaginate la perfetta fusione tra una voce profonda, calda e baritonale e la grande tradizione classica del canto jazz e r&b. Immaginate delle creazioni musicali estremamente sensuali, romantiche, senza tempo eseguite con passione e tecnica perfetta: bene, ora vi siete fatti un quadro abbastanza preciso dello straordinario talento di un cantante afro americano di nome Lou Watson. Classe da vendere e uno stile vocale che si può definire inebriante. Lou è un cantautore e pianista che possiede quel particolare tipo di magia in grado di colpire fin dal primo ascolto, quell’x-factor (in questo caso reale e non fasullo) che si estrinseca in una disarmante facilità di canto e in un innato buon gusto musicale. Dovendo fare un paragone con un grande del passato il primo nome che mi viene in mente è quello di Lou Rawls. Tutte queste doti da consumato artista sono senza dubbio presenti sull’album di debutto di Lou intitolato “It Doesn't Matter”. Il disco è stato pubblicato nel Gennaio 2004 ed è la conferma tangibile di come si possano coniugare armoniosamente il jazz e l’R & B attraverso un approccio profondamente soul. Watson porta nuova linfa ad una accurata selezione di canzoni classiche, scelte con la collaborazione del famoso pianista ed arrangiatore Onaje Allan Gumbs, alle quali si aggiungono un paio di composizioni originali. Le superbe interpretazioni di Lou, la produzione di Gumbs, magistrale negli arrangiamenti, e una squadra di musicisti di altissimo livello, danno all'album una veste raffinata e luccicante. La registrazione si avvale del prezioso contributo di Kenny Davis (basso), Camille Gainer (batteria), e Dennis Davis (batteria), e offre l’opportunità di ascoltare gli eccellenti interventi strumentali di Romero Lubambo (chitarra), Gregoire Maret (armonica), Abdul Zuhri (chitarra) e Roger Byam (sassofono tenore). Lou Watson ha un talento speciale nell’infondere un’atmosfera speciale a famose e popolari canzoni, proponendosi con uno stile fresco, originale ed assolutamente unico. Prediamo ad esempio la sua versione della celeberrima "You Can’t Hurry Love": il classico di Holland-Dozier-Holland viene interpretato lentamente, stravolgendone l’andamento originale e facendone una ballata molto intensa. “Like A Lover” ricorda i meravigliosi arrangiamenti del periodo d'oro degli anni '70 dove il Rhodes di Gumbs accompagna Lou in una fantastica cavalcata melodica di stampo jazzistico. Intimista e dolce come pochi, Lou incanta con la sua voce baritonale, perfettamente modulata, accompagnato dalla magica chitarra acustica di Romero Lubambo sulla bella "So Many Stars" di Sergio Mendes. Meravigliosa l’armonica di Gregoire Maret che da un tocco particolare e malinconico al brano. È interessante anche la cover di “Against All Odds” proposta con un taglio soul jazz che anche in questo caso è permeato di sensibilità. Non mancano di sorprendere piacevolmente i due originali dello stesso Watson: “Chance Of A Lifetime” è un medio tempo sullo stile del miglior Stevie Wonder, con tanto di piano elettrico in pieno “seventies mood”. Più originale “It Doesn’t Matter”: canzone dalla ritmica particolare e dall’andamento profondamente r&b che tuttavia mantiene una apprezzabile orecchiabilità. Se a questo punto vi mancasse un po’ più di atmosfera jazzistica, verrete soddisfatti dal lento bop di “That’s All”, oppure dalla calda “Diary Of A Full”, magari da “Every Little Thing About Her” profumata di bossa nova o dalla stupenda ballad “Emily” di Johnny Mandel. Con una lunga gavetta  fatta di esibizioni nei locali notturni di New York, il bravo Lou Watson si è costruito una carriera che lo ha condotto fino alla pubblicazione di questo fantastico primo album. Il suo stile vocale e la sua musica sono influenzati da diversi generi, e tra le sue fonti d’ispirazione si possono senza dubbio annoverare artisti come Johnny Hartman, Nat King Cole, Kurt Elling e ovviamente Lou Rawls. Tuttavia Watson, dopo aver fatto suo un patrimonio musicale fatto di una sintesi tra jazz, funk, pop e soul ha sviluppato il suo personale modo di interpretare i classici e proporre al contempo anche le sue canzoni. It Doesn't Matter è solo l’inizio del percorso musicale di Lou Watson: uno straordinario artista che nel 2004 fece il primo passo alla ricerca di nuove vie di espressione per il jazz ed il soul nel rispetto della tradizione e con un occhio al futuro. La voce di Lou ha il potere di riscaldare il corpo e calmare l'anima, proprio come una salutare medicina.

Inner Shade – 4 Corners


Inner Shade – 4 Corners

Gli Incognito sono un classe a se stante tra i gruppi contemporanei. Il collettivo di musicisti legati da questo inconfondibile marchio è come una galassia: il leader Jean-Paul 'Bluey' Maunick è il sole attorno al quale ruotano come pianeti molti interessanti artisti, tutti bravissimi. Molti di questi hanno a loro volta dei progetti personali e Bluey stesso si esalta nel crearne sempre di nuovi. Uno di questi progetti paralleli degli Incognito sono ad esempio i Citrus Sun, usciti nel 2001 con il bell’album Another Time Another Space (recensito nel maggio 2016 su questo stesso blog: Citrus Sun). Un ulteriore, ma precedente sviluppo del vulcanico Maunick risale al 1998 e si chiama Inner Shade, il cui esordio discografico s'intitolava 4 Corners. Inner Shade è la realizzazione di una particolare ambizione di Bluey, ed ecco le sue parole: "In questi ultimi due anni ho fondato la mia etichetta discografica, la Rice Records, per mantenere vivo il sogno Incognito, ma anche per creare qualcosa di più esteso di una semplice band. Altre situazioni, proprio come Inner Shade, ci permettono di scrivere più canzoni, sperimentare idee diverse, ed alimentare la creatività nel suo complesso, con una musica raffinata, sempre alla ricerca di una sofisticata strada dentro e fuori dall’acid jazz". Inner Shade è qualcosa in più di una propaggine artistica degli Incognito, è una sorta di avventurosa escursione musicale, tendenzialmente ancor meno commerciale e più complessa del gruppo pilota". Negli Incognito il lavoro di chitarra non è mai in particolare evidenza, gli Inner Shade al contrario sovvertono questa formula mettendo lo straordinario Mark Whitfield in prima linea. Inoltre il progetto consente di aprire nuove opportunità per i giovani musicisti. Dice ancora Bluey: “mi vedo un po’ come poteva essere l’Art Blakey dell’epoca dei Messengers: mi piace dare una chance a dei musicisti emergenti, ma anche trarre nuova linfa creativa per me stesso, assorbendo i nuovi stimoli con il massimo dell’apertura mentale". Con Inner Shade le idee di Bluey sono diventate realtà: se da un lato il sound è senza dubbio figlio delle stesse dinamiche degli Incognito, va anche sottolineato che l'album 4 Corners è qualcosa di diverso rispetto alle altre registrazioni "ufficiali" della popolare super band soul di Positivity e tanti altri dischi di successo. “Operator” inizia con un pianoforte da solo, prima che esploda il caratteristico suono degli Incognito: subito è la incomparabile voce nera di Maysa a cantare la prima strofa, i riff di fiati sono come d’abitudine perfetti, accompagnati dal suggestivo sottofondo di archi. L’assolo di chitarra di Mark Whitfield è breve ma continua il suo ricamo anche quando irrompono nuovamente tutti gli altri musicisti. Chris Ballins è invece il fantastico cantante che si prende carico di “Tell Me Something”, un bel brano dalla ritmica piacevole e con una melodia accattivante ancora una volta sottolineata dal felice arrangiamento: notevole il sax soprano suonato Chris DeMargary. La title track  è introdotta da un sontuoso arrangiamento d'archi ma presto un pianoforte da il via ad una ritmica sincopata trascinata dalla forza esplosiva di Richard Bailey, Randy Hope Taylor e Graham Harvey. Il groove è funky mentre sono fluidissime le linee di chitarra di Whitfield; Maysa e Ballins si dividono le parti cantate con le loro profonde voci soul. Varie influenze dai primi anni ’70 si possono rilevare nella orecchiabile “Are You With Me?”, nella quale il protagonista è di nuovo un impressionante Chris Ballins, la cui voce è una delle novità più interessanti dell’album. Ritmicamente c’è un sentore di samba e la sezione fiati svolge il proprio lavoro con la consueta gagliardia. “Loose Cannon” è uno strumentale dall’andamento curioso, quasi nello stile delle colonne sonore di Lalo Schifrin: uno dei momenti di maggior impegno per la chitarra semiacustica di Mark Whitfield, in grado di dare un tono molto jazzato al brano. “Mood to Mood” apre una finestra sulla più classica Bossa Nova arricchita dal cantato di Maysa: questo fino al termine della prima sezione perché dalla metà in avanti il pezzo si fa esotico e sperimentale, con una ritmica drum'n'bass tanto vivace quanto originale. Qui si ascolta il pulsante basso flanger di Randy Hope Taylor e la cristallina chitarra di Whitfiled. “What’s In The Box” è uno spazio strumentale creato per la chitarra solista di Mark Whitfield ma dove trovano spazio un po’ tutti i musicisti di Inner Shade. Sulla allegra e quasi disco “Heaven” Bluey introduce il giovane batterista Eshan Khadaroo e suo figlio Daniel Maunik. Il groove ballabile mette in mostra la vocalità ben conosciuta di Maysa che vola in alto sulle scale musicali e l'eccezionale talento del jazzista Mark Whitfield : il risultato finale è un brano in pieno stile Incognito. “Little Sunflower” ritorna alla ritmica complessa e sincopata del drum'n'bass ma questa volta il brano è tutto strumentale ed il bravissimo Ed Jones piazza qui un assolo di sax molto intenso. Graham Harvey per una volta al piano acustico dimostra che categoria di tastierista sia lui, proprio in quello che è il più jazzato tra tutti i numeri di 4 Corners. Gli Inner Shade nascono da un’idea di Bluey Maunick, come una costola degli Incognito, tuttavia il cuore di questo progetto va attribuito al trio di musicisti formato da Chris DeMargary, Randy Hope Taylor e Ed Jones: lo stesso Bluey li definisce l’incarnazione dello spirito di questa band. Ciò che ci propongono è di grande livello come è lecito attendersi e tuttavia suona molto familiare, non discostandosi poi così tanto da quello che siamo abituati ad ascoltare con la più famosa band soul londinese. Verrebbe da dire scherzando un po’…: questo è un album bellissimo, uno dei migliori tra quelli prodotti dagli “Incognito”, non sarebbe corretto, certo, ma non ci si discosterebbe troppo dalla verità. Il futuro ci darà che questo gruppo è rimasto uno spot singolo che non ha avuto un seguito discografico, probabilmente Maunick e i suoi collaboratori hanno preferito focalizzarsi maggiormente sul progetto principale che era e rimane Incognito: un peccato, perché i valori di 4 Corners avrebbero meritato più di questa sola sporadica registrazione.

Marcus Miller – The Sun Don’t Lie


Marcus Miller – The Sun Don’t Lie

Se penso al basso elettrico, io penso a Marcus Miller, se devo parlare di tecnica slap mi viene in mente Marcus Miller, se immagino una graduatoria di bassisti indovinate chi metto al primo posto? Sempre lui, sempre il formidabile, unico, straordinario Marcus Miller. Questo monumentale e virtuoso musicista, eclettico poli-strumentista nonchè valente compositore è apprezzato fin dagli anni ’80 per le molteplici collaborazioni con i grandi nomi del mondo del jazz: tour, registrazioni, ospitate che hanno contribuito ad accrescere la sua notorietà in modo esponenziale. Ma la più importante tra tutte le relazioni artistiche fu sicuramente quella con il maestro Miles Davis; per il divino Miles il giovane leone Marcus compose ed arrangiò gli due ultimi album. Un viatico che ben pochi al mondo potevano permettersi e che la dice lunga sul talento del re dei bassisti. Prima di registrare The Sun Don’t Lie,  cioè quello che a tutti gli effetti è il suo primo vero album di fusion strumentale non posso dimenticare i due precedenti lavori, quasi interamente cantati e suonati in prima persona dallo stesso Miller: produzioni vicine all’r&b ed al pop nelle quali non manca comunque il buon gusto ed una giusta dose di virtuosismo. Ma The Sun Don’t Lie è tutta un’altra storia e rappresenta una svolta decisiva nella discografia di Marcus: pur essendo di fatto una sorta di opera prima l’album è la summa di tutta la musica del formidabile bassista. Anche a distanza di molti anni resta uno dei suoi dischi più belli e una delle opere fusion più interessanti della storia di questo genere. Se ascoltato con un minimo di attenzione non si faticherà certo a ritrovare tutti gli ingredienti salienti dell’estetica di Marcus Miller: il funk prima di tutto, il jazz ovviamente, un pizzico di blues ed una sensazione di generale raffinatezza che corre lungo tutti i brani. Una delle abilità di Miller è proprio quella di saper infondere ai suoi lavori (in seguito la formula verrà puntualmente riproposta) una tanto sofisticata quanto fruibile atmosfera pop, che tuttavia è come se restasse sempre sullo sfondo, non prendendo mai il sopravvento sulla vera sostanza che è invece profondamente jazz. Ma il vero filo conduttore è il suo basso elettrico, protagonista assoluto di ogni pezzo: suonato divinamente, ora come solista, ora come strumento ritmico prende letteralmente vita nelle mani di Miller che ne dispone a piacimento, in totale ed assoluto controllo. Dopo Jaco Pastorius e Stanley Clarke che sono venuti prima, mai il basso aveva avuto un interprete in grado di far volare così alto uno strumento normalmente relegato ad un ruolo di comprimario. L’apertura dell’album è riservata a "Panther" e Miller ci mette subito il suo Fender per “cantare” la melodia principale del pezzo, mentre solo in seguito entrano una batteria elettronica insieme a quella acustica di Poogie Bell, le tastiere e la potente chitarra di Dean Brown. Quest’ultima qui come in altri momenti del disco è particolarmente aggressiva e rockeggiante, una necessità probabilmente dettata dalla spaventosa dinamica del basso di Marcus, che da par suo, sul finale piazza un magico assoli con la tecnica dello slap, nella quale è il numero uno. Panther diventerà in seguito uno dei cavalli di battaglia più gettonati dei concerti di Miller. “Steveland” cambia territorio, portandoci verso ritmiche più tranquille e palesando una maggiore raffinatezza e una vena quasi romantica. Il sax, molto intenso, è suonato dall’amico David Sanborn ed anche l’intervento della chitarra, qui suonata da Johnatan Butler, è degno di nota; ma ancora una volta bisogna soffermarsi sulla bellezza dell’assolo di basso di Miller che dispensa classe e tecnica a piene mani. Il nostro si esibisce anche al clarinetto basso, strumento nel quale Marcus se la cava più che bene. Sale l’intensità con “Rampage” in cui il funk prende il sopravvento, affiancato da un’energetica dose di rock. Magica l’apparizione della tromba di Miles proprio al centro del brano. La delicata e passionale “The Sun Don’t Lie” vira per un momento su toni più rilassati, mostrando al contempo il lato più jazzistico della personalità di Miller: il bellissimo piano è quello di Joe Sample, ma tutta la melodia è guidata dal basso che in qualità di solista è usato come una vera e propria chitarra, mentre per la parte ritmica insiste sul vibrante slap. "Scoop" è un divertimento funky tutto basato su di un ritmo martellante sopra il quale il sax di Kenny Garrett trova modo di innestare idee interessanti, mentre Marcus picchia duro sul suo Fender dal primo all’ultimo minuto. "Mr Pastorius" è invece un brano per solo basso: un breve ma intenso omaggio ad uno degli idoli di Miller. "Funny", mette insieme la ricercatezza del jazz col funky più genuino, in un mix interessantissimo in cui  la tromba di Michael Stewart, con il classico suono modulato dalla sordina, è protagonista di una sorta di evocazione esoterica di Miles Davis. Il sax soprano è magistralmente suonato da un ispirato Everette Harp. Straordinaria per la sua musicalità e orecchiabilità la successiva "Moons", un brano in cui la fusion è colorata da molto jazz e dove Miller sembra davvero divertirsi a sfoggiare tutta l’abilità di cui è capace, prima al basso e poi anche al clarinetto basso. Un altro tributo a Jaco viene dalla cover di "Teen Town" un complicatissimo pezzo di bravura che Pastorius compose ai tempi dei Weather Report: Miller sceglie di eseguirlo tutto in tecnica slap. "Juiu" è la sintesi perfetta tra il funk e la fusion ed è caratterizzato da un tripudio ritmico dove per una volta sono i sassofonisti Everette Harp e Kirk Whalum, con il loro sound soul, a tenere banco. A conclusione dell’album arriva la dedica calorosa al grande maestro Miles Davis intitolata “The King Is Gone". Come è facile immaginare si tratta un pezzo malinconico e lento dove gli ospiti sono ancora una volta prestigiosi; Tony Williams alla batteria e Wayne Shorter al sax, mentre tutti gli altri strumenti li suona in prima persona Marcus Miller. Introdotta dal clarinetto basso che propone il crepuscolare tema accompagnato solo dalle tastiere il brano assume una connotazione jazzistica che è il fertile terreno per un magnifico assolo di Shorter. La conclusione è emozionante e bellissima con il clarinetto basso che con il suo tono profondo e triste mette un epitaffio musicale dolce e amaro sul ricordo indelebile del divino Miles. The Sun Don’t Lie anche oggi, a 24 anni dalla sua pubblicazione, suona fresco e moderno esattamente come allora, sia pure con qualche eccesso (perdonato) nell’uso delle drum machine. Marcus Miller non è solo uno straordinario virtuoso del suo strumento ma è anche un validissimo compositore ed il suo talento splende cristallino oltre il tempo che trascorre e va al di là delle mode e dei gusti musicali. Questo è un album consigliato a tutti, ed è la dimostrazione che si può fare musica di qualità senza annoiare l’ascoltatore, intrattenendo con gusto senza scadere nel commerciale. State certi che quando vi capiterà di riascoltare questo eccezionale musicista, vi ritroverete ad esclamare: hey, ma questo è Marcus Miller!

Quintetto X – Novo Esquema Da Bossa


Quintetto X – Novo Esquema Da Bossa

La bossa nova può essere una grande passione, di sicuro lo è per i brasiliani, che questo genere lo hanno inventato. Naturalmente è soprattutto un particolare modo di fare musica e intendere la cultura che ha valicato i confini del Sudamerica per approdare anche negli USA, dove, in passato, molti importanti jazzisti hanno cavalcato questa tendenza in una breve ma fortunata stagione. In Italia ha avuto un seguito alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70, trovando spazio principalmente attraverso le colonne sonore di alcuni film composte da Piero Umiliani, Piero Piccioni e Riz Ortolani. Terminato quel momento c’è stato un vuoto fino agli anni ’90, quando finalmente, in quel di Bari, il fermento creativo del laboratorio musicale chiamato Fez, insieme al jazz e all’acid jazz, ha recuperato anche le contaminazioni con la bossa nova. Il fenomeno ha poi trovato una notorietà a livello mondiale grazie al successo del fondatore del movimento: il musicista, produttore e DJ barese Nicola Conte. E’ in questo contesto che bisogna inserire il Quintetto X, una band nata proprio in quel fortunato e prolifico periodo e prodotta, come molte altre, dal geniale Nicola Conte. Il Quintetto X è composto da Francesco de Giosa alla chitarra, Piero Vincenti al piano e Fender Rhodes, AntonGiulio Galeandro al flauto e all’organo hammond, Marcello Piarulli al basso e Fabio Accardi alla batteria. il gruppo trae la propria linfa creativa dalla viscerale passione di Francesco De Giosa e Maurizio Piarulli per i suoni brasiliani degli anni sessanta, dal gusto jazzistico per le armonie sofisticate di Antongiulio Galeandro e Piersante Vincenti e dalla forte personalità ritmica di Fabio Accardi. La band di Bari è caratterizzata da un sound che ripropone le atmosfere della Rio  degli anni ’60, con una forte connotazione jazzistica: in un Italia che nella migliore delle ipotesi conosce a malapena i grandi nomi della bossa come Jobim, Gilberto e Vinicius e magari marginalmente anche Veloso e Djavan, un’operazione del genere potrebbe sembrare controcorrente e avventurosa. E di fatto lo è, tuttavia Novo Esquema da Bossa riesce a riscuotere un discreto successo grazie alla bravura dei musicisti coinvolti e al più che apprezzabile risultato finale in termini di composizioni e arrangiamenti. La miscela di jazz, bossa ed acid jazz del Quintetto è senza dubbio esplosiva: la cover di Diplomacia con il suo inconfondibile riff di fiati e la familiare melodia è il biglietto da visita ideale. Il classico Balanca Pema di Jorge Ben viene rivisitato in una chiave acid jazz, energica e trascinante. Marcos Valle viene coinvolto attraverso la rilettura dei suoi fanatstici Mentira e Freio Aerodinamico, due brani molto belli che il Quintetto propone in modo brillante e permeato di funk. Originale e di grande impatto è anche Senza Paura, una inusuale e divertente canzone di Toquinho e Ornella Vanoni, il cui ruolo di cantante solista è qui occupato da una brava e graffiante Rosalia de Souza. Rosalia è una vocalist con la quale il Quintetto X ha collaborato spesso, soprattutto nei tour. Un’altra canzone molto piacevole su base bossa è anche Eumir, che oltre ad un valido contributo strumentale è impreziosita anche dalla parte cantata dalla brava e sfortunata Mariella Carbonara. (Scomparsa prematuramente nel 2006). C’è tanto Brasile in Novo Esquema Da Bossa e non è certo una sorpresa: ma a fianco dell’anima carioca è pur sempre presente un cuore jazz, genere nel quale i musicisti di Bari danno prova di padronanza e tecnica di ottimo livello. Basta ascoltare brani come Ocean Of Life o Ceu Azul, che sono declinati in un acid jazz moderno e accattivante dove tutto scorre liscio e fluido, tra indovinati assoli ed un irresistibile retrogusto vintage che rimanda agli anni ’70. Molto bella anche la cover di The Jody Grind di Horace Silver, rivista leggermente più veloce, ma davvero ben eseguita. Per il Quintetto X il jazz e la bossa nova sono invenzioni naturali, sono figli di una straordinaria attitudine al ritmo, al movimento. Il progetto Novo Esquema Da Bossa è l’evoluzione di un’idea di musica materializzatasi in un magnifico set di brani che riflettono suggestioni del passato sapientemente miscelate con i suoni di oggi. Quintetto X propone musica di alto livello sottolineata da una ritmica di grande coinvolgimento: il successo ottenuto non solo in Italia ma anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti è la conferma del raggiungimento di una dimensione internazionale più che meritata.

Nicola Conte – Other Directions


Nicola Conte – Other Directions

È cosa nota ed evidente che il livello della musica italiana in generale non sia certo alto. Tuttavia questo dato di fatto viene in qualche misura controvertito se si analizza il ristretto contesto del movimento jazzistico del nostro paese. Nel jazz siamo bravi, molti dei nostri musicisti sono apprezzati anche all’estero e tra questi uno dei più interessanti è Nicola Conte. Noto come DJ e produttore, Conte è però prima di tutto un musicista di formazione classica, un multi-strumentista ed un fine arrangiatore. Tra le sue grandi passioni e principali fonti d’ispirazione ci sono la bossa nova, il jazz, l’acid jazz, le colonne sonore dei film italiani degli anni ’60 e ’70 e la lounge music. E proprio dalla spinta della sua inesauribile passione che Nicola Conte ha tratto la forza per creare un vero e proprio movimento culturale che fa capo alla città di Bari ed in particolare ad uno storico locale, il “Fez”.  Negli anni ’90 attorno al mitico Fez Club si forma così un collettivo di giovani ed interessanti artisti. Paolo Achenza Trio, il Fez Combo, Balanco, Quintetto X, e Intensive Jazz Sextet sono i principali esponenti di questo incredibile ritrovo di personalità creative. Un melting pot di diversi musicisti, che prima di tutto sono amici, cresciuti insieme, e sono accomunati  da affinità intellettuali, musicali e politiche. Sono sognatori, amanti del jazz vintage, estimatori della "Nouvelle Vague", collezionisti di vinili, esperti di design e grafica, appassionati di poesia beat e della letteratura rivoluzionaria di Jean Paul Sartre e Boris Vian. Ma Conte è andato oltre: ha creato l'etichetta Schema, che ha dato a molti di questi artisti una casa dove produrre i loro lavori sviluppando un vero marchio di fabbrica che si è distinto nel tempo come la punta di diamante dell’approccio italiano  all’acid jazz, alla bossa ed al jazz. Infine è da sottolineare la produzione personale del musicista barese: fatta di album sofisticati e carichi di contenuti, opere che hanno ottenuto riconoscimenti in Italia e nel resto del mondo, facendo scoprire una via nostrana alla musica intelligente e di qualità. Other Directions è il disco della svolta, perché non solo è un salto in avanti rispetto al precedente Jet Sounds ma è in assoluto un album di pregevolissima fattura, completo e variegato, stimolante e modernissimo. Un risultato ottenuto attraverso un alacre lavoro di collaborazione con alcuni musicisti jazz italiani di alto livello che hanno pescato nel loro background fatto di avanguardia e tradizione ma sempre ricco di swing e genuino senso del groove. Nicola Conte ha fatto un lavoro magnifico, sfruttando al meglio le singole personalità artistiche per creare un dipinto sonoro in grado di riflettere la perfetta fusione di jazz e bossa, sulla scia dello storico movimento dei primi anni ’60, ma muovendosi in avanti verso qualcosa di più moderno. Arrangiamenti sofisticati, ricchi di soul, di soluzioni originali e tuttavia sempre accessibili, spingono Other Directions in una dimensione nuova che pone questa musica oltre i limiti dei due generi, andando così a creare un linguaggio in qualche misura inedito e dinamico. Su "Sea and Sand," primo brano del disco, l’ospite d’eccezione Till Bronner suona la tromba e canta nel suo stile ispirato a Chet Baker nel contesto di una affascinante atmosfera latina. "Wanin' Moon", ha come ospite la brava vocalist Bembe Segue, ma sono il sassofonista Daniele Scannapieco ed il flicornista Fabrizio Bosso, con i loro stupendi assoli, che catturano il centro della scena. Le ritmiche afro-brasiliane su "Nefertiti" (nessuna relazione con l’omonimo di Miles Davis) guidano un’unisono di fiati potente e suggestivo con alle spalle una eterea parte vocale: la tromba di Bosso è protagonista del primo assolo, seguita dal sax e da un lucido intervento di pianoforte. “Impulso” parte con il vibrafono di Pierpaolo Bisogno in un bellissimo crescendo be bop dove tutti i solisti trovano lo spazio per far correre fluidissimo lo spirito del jazz. "A Time For Spring" è caratterizzata fin dal suo inizio dal velato richiamo al classico walzer jazz di "Take Five", ma resta originale nella sua estetica suo pop-jazz che unisce bossa e hard bop. I brani si susseguono tutti uno dopo l’altro con invidiabile fluidità, senza punti deboli. La bossa nova è la ruota attorno a cui tutto gira, e Nicola Conte, sapientemente, arricchisce di colori e finezza cromatica le complesse trame musicali di Other Directions. L'atmosfera è rilassata, il jazz è arioso e fresco, ma anche complesso ed articolato.  Ascoltate ad esempio "Dharma Bums" la cui esecuzione è precisa e ricca di soul e groove sull’ennesimo ritmo che rimanda a Jobim, Stan Getz, Gilberto Gil e  a tutti gli eroi dell’epopea brasiliana della bossa nova. I tredici pezzi sono uno più bello dell’altro e, senza soluzione di continuità, contribuiscono tutti a formare un affresco jazzistico di luccicante bellezza estetica e formale. I richiami culturali e le citazioni sono parte integrante di questo stupendo album, che rappresenta a tutti gli effetti la sintesi dell’estetica globale di Conte. Si tratta di un vero disco di jazz adatto a coloro a cui magari non piace il jazz, ma di sicuro anche gli esperti appassionati di questo genere saranno deliziati dalla sua poliforme imprevedibilità, nella  quale il ritmo è un elemento centrale di ogni composizione e tuttavia il lirismo e l’intensità dei temi musicali non viene mai meno. L’album è stato premiato da un grande successo di pubblico, largamente inaspettato ed anche per questo particolarmente gradito, ma assolutamente meritato. Other Directions è la registrazione perfetta per chiunque ami il jazz e soprattutto la bossa nova: prima di tutto è suonato benissimo, poi è alla moda, è elegante, è sofisticato e soprattutto è intelligente, come raramente capita di ascoltare. Grande Nicola Conte!

Larry Carlton – Last Nite


Larry Carlton – Last Nite

Larry Carlton: ovvero quello che gli americani definiscono un “musicista dei musicisti”, vale a dire uno di quei seri e talentuosi professionisti che gli altri artisti (non solo del mondo del jazz) amano coinvolgere nei loro progetti per dare alla produzione un tocco in più. Ma Larry è molto più di questo, prima di tutto è uno straordinario chitarrista, uno di quelli che puoi riconoscere dopo poche battute. E poi c’è il suo lavoro di jazz fusion strumentale che è sempre stato originale e meravigliosamente melodico. Larry Carlton ha fatto parte di gruppi importanti e di grande classe come i Crusaders o i Fourplay ed ha partecipato come session man alle registrazioni degli Steely Dan e Joni Mitchell, giusto per fare due nomi tra i tanti. Nel corso degli anni ha esplorato con successo il blues e il rock filtrando tutto attraverso la lente di un jazz contemporaneo illuminato e moderno con risultati in genere piuttosto coinvolgenti. Last Nite è un affare un leggermente diverso, è un album dal vivo su cui Larry non propone solo le sue stesse composizioni sulla scia del tipico repertorio fusion. Qui si confronta non con  uno, ma addirittura con due brani dell’opera jazz più osannata della storia di questo genere: quel Kind Of Blue di Miles Davis che continua ad essere un punto di riferimento imprescindibile per ogni appassionato. Lo fa adattando la musica del divino Miles ai suoi dettami stilistici, ovvero quelli di una fusion sofisticata e al tempo stesso sempre perfettamente fruibile, anche da chi il jazz non lo mastica affatto. Per molti puristi il solo fatto che un chitarrista fusion come Carlton “interpreti” a modo suo le partiture sacre di Kind Of Blue può suonare come un sacrilegio. E a dire la verità, anch’io preferisco le versioni originali di "So What" e "All Blues" ma devo aggiungere che il loro livello trascendente appare forse irraggiungibile per qualsiasi altro artista che non sia Davis stesso. Tuttavia, nell’approcciarsi a cotanta perfezione formale, Carlton se la gioca davvero molto bene, così come fa con tutto il resto del materiale contenuto in questa registrazione effettuata al Baked Potato di North Hollywood, in California nel 1986. I due brani, molto diversi tra loro, risultano comunque brillanti e magistralmente interpretati. Tutto sembra suonare in modo decisamente più tradizionale di quanto siano normalmente gli arrangiamenti tipici di Carlton, con il piano elettrico e l’organo che forniscono i contrappunti principali per la sua scattante chitarra. Il modo di suonare di Larry è sempre espressione di gioia pura ed entusiasmo la qual cosa rende l’ascolto della sua musica un vero piacere. E’ "So What" che apre il concerto con il batterista John Robinson che rende omaggio al drumming originale quasi sussurrato, leggero, perfetto per gli assoli funambolici di Carlton. Il maestro lascia comunque molto spazio da solista al tastierista Terry Trotter, un compagno fedele da oltre due decenni. Larry e la band utilizzano sostanzialmente il classico riff dell'inizio e della fine del brano come cornice per le loro lunghe improvvisazioni. Tornando ad un territorio più familiare per il nostro Carlton, "Do not Give It Up" è illuminata dai suoi dinamici assoli di chitarra elettrica, mentre la sezione ritmica inonda tutto di un energico combustibile a base di jazz rock. "The B.P. Blues" è ovviamente un blues lento e maestoso in cui la chitarra è particolarmente lirica: gustosa è la definizione che viene in mente. E’ il turno dell’altro pezzo di Davis, "All Blues" che inizia con un assolo in punta di dita di Carlton giusto per riecheggiare la traccia dell’originale, per poi virare in una direzione decisamente più vicina al jazz contemporaneo. Straordinario il bassista Abraham Laboriel che si inventa un fantastico gioco  di variazioni intorno al giro di basso. La title track, tratta dal formidabile album Sleepwalk del 1981, si apre con un assolo di basso slap seguito dall’intervento quanto mai setoso e sensuale del leader: uno dei momenti più riconoscibilmente “Carltoniani” del concerto. Si apprezza la sensibilità ed il sapiente tocco di Carlton che accarezza le corde con grande delicatezza, esaltandosi nella felice intuizione di utilizzare gli spazi tra le note nel modo più efficace possibile. Semplicemente sublime. Il set si chiude su una nota più tranquilla, con la ballata "Emotions Wound Us So", un brano che Carlton ha scritto per la moglie, la cantante Michele Pillar. Si tratta di una dolce e discreta serenata strumentale il cui fascino principale sta ancora una volta tutto nel fraseggio raffinato e delicatissimo delle dita del maestro sulla sua 6 corde. È quanto basta per farne un pezzo magico, perfetto per chiudere in bellezza un album davvero interessante. Last Nite è un punto culminante in una carriera ricca di registrazioni, spesso di valore. Un album live che riesce a catturare le molteplici sfaccettature della diversificata personalità musicale di un personaggio molto amato dai fan del jazz contemporaneo come Larry Carlton. Un concerto che immortala il chitarrista in tutte le sue sfumature emotive e mette in luce anche la  strepitosa tecnica individuale di tutti i membri del suo gruppo. Last Nite è un lavoro che dice tutto quello che è necessario in solamente sei memorabili tracce e poco più di 44 minuti di registrazione.

Lee Ritenour – Alive In L.A.


Lee Ritenour – Alive In L.A.

Lee Ritenour è uno dei “campioni del mondo” della cosiddetta fusion, come la si definiva una volta o smooth jazz nell’accezione attualmente in voga. Paladino da sempre di quella corrente musicale, prevalentemente strumentale, che è una via di mezzo tra il jazz ed il pop, il funk ed il soul con un occhio di riguardo verso il facile ascolto, senza tuttavia trascurare raffinatezza e complessità armonica. Lee è però anche un chitarrista che ha costantemente migliorato il suo bagaglio artistico nel corso degli anni, spostandosi sempre più da queste atmosfere patinate e leggere verso una forma più matura e tradizionale di jazz. Che Ritenour abbia un talento ed una capacità tecnica superiori è un fatto noto a tutti gli appassionati, dunque la sua naturale evoluzione non rappresenta certo una sorpresa: il parallelo con il suo idolo Wes Montgomery diventa quindi, di album in album, sempre più calzante. Lee Ritenour, sul finire degli anni ’90 giunse al termine del suo contratto con l’etichetta GRP, e pubblicò finalmente anche un disco registrato dal vivo. Un passaggio, quello del live, che oltre che chiudere due decenni di collaborazione con la storica casa discografica di Grusin e Rosen, una vera icona nel mondo della fusion, rappresentò anche e soprattutto un punto di svolta per la carriera stessa del formidabile chitarrista. Il jazz è probabilmente la più spontanea tra tutte le forme musicali e senza dubbio quella con il più alto tasso di libertà nell’improvvisazione. In linea di massima si può apprezzarlo meglio durante un concerto dal vivo, ovvero in un momento in cui l’essenza stessa di questo straordinario linguaggio artistico può andare oltre qualsiasi speculazione di carattere commerciale e la massima libertà di espressione musicale può fluire senza limiti apparenti. Alive in Los Angeles, questo è il titolo dell’album, è una brillante registrazione, realizzata senza sovra incisioni, in totale e genuina presa diretta. E’ un lavoro che sintetizza tutte le personali passioni musicali di Ritenour, tanto efficacemente esplorate in oltre 40 anni di carriera:  dalla musica brasiliana al blues, dal funk al  jazz mainstream. Coloro che lo conoscono solo per la sua produzione più commerciale potrebbero rimanere stupiti dal materiale contenuto in Alive In L.A., dato che troveranno in questi brani un artista jazz completo e maturo, capace di leggere con passione ed entusiasmo la musica composta e suonata in passato ma teso ad andare anche orgogliosamente oltre. Registrato nel 1997, nell'arco di tre serate all’Ash Grove di Santa Monica in California, Ritenour è qui coadiuvato da una band di musicisti in qualche misura ancora più esplosivi di quanto non siano i suoi compassati (ma sicuramente eccezionali) amici e colleghi Fourplay. Il sassofonista Bill Evans, i tastieristi Alan Pasqua e Barnaby Finch, il bassista Melvin Davis e lo straordinario batterista Sonny Emory. Il giudizio è presto dato: questo è stato un grande concerto che ha generato un’eccellente registrazione. L’interplay del gruppo è assolutamente fantastico: i musicisti appaiono empatici e magnificamente ispirati, gli assoli sono veramente ben eseguiti, trasudano passione e tecnica sopraffina. Molti dei brani sono tratti dagli album Wes Bound e Stolen Moments, cioè quelli che più e meglio di altri tirano verso un repertorio di estrazione jazzistica, ma non vengono dimenticati due classici della fusion come gli splendidi Night Rhythms e Rio Funk. E naturalmente il grande Lee ha inserito un’indimenticabile gemma brasiliana come San Juan Sunset di Eumir Deodato che è uno dei pezzi storici dell’album epocale del 1979 intitolato Rio. Come si conviene ad un live, i brani sono lunghi e dilatati per permettere alla chitarra solista del leader di offrire una serie di pregevoli assoli, lasciando anche al sax di Bill Evans e alle tastiere di Barnaby Finch e Alan Pasqua la possibilità di sciorinare i loro interventi in piena libertà. Non è insomma un monologo di chitarra accompagnato da un contorno passivo ma anzi evidenzia una vera e propria band con un impatto d’insieme molto convincente. Se da un lato è sempre un piacere riassaporare dei brani stupendi come Rio Funk, Night Rhythms e San Juan Sunset, scoprendone nuove sfumature grazie all’esecuzione dal vivo, sono proprio i numeri jazz proposti nei due precedenti album di studio a rendere davvero interessante Alive In L.A. Si va così dal moderno e latineggiante A Little Bumpin’, scelto come apertura, al sinuoso blues di Boss City griffato Wes Montgomery, al quale Lee Ritenour rende un ammirato omaggio, pieno di sensibilità. Si prosegue con la veloce Uptown che è l’essenza dell’hard bop al suo meglio: swingante e lucidissimo nella sua visione contemporanea del jazz. L’assolo di chitarra di Lee è semplicemente favoloso, mentre il piano di Barnaby Finch non è da meno, il tutto sospinto dal motore di una sezione ritmica straordinaria. Il lento jazz walzer di Waltz For Carmen è un piccolo gioiello scritto da Ritenour che vede un ispirato Bill Evans al sax soprano dettare la melodia subito prima dell’arrivo della inconfondibile 6 corde del leader. Wes Bound è già nel titolo una dichiarazione d’intenti: con il maestro Montgomery nella mente e nel cuore, Ritenour propone un brano profumato di funk ma con un’anima profondamente jazz. L’uso del piano elettrico da parte di Alan Pasqua restituisce quel tono vintage da inizio anni ’70 ad un contesto indiscutibilmente contemporaneo. Ma se c’è un pezzo che più degli altri sintetizza e sottolinea la bellezza di questo concerto è la celeberrima 4 On 6 di Wes Montgomery. Lee la interpreta magistralmente e vorrei far notare che la batteria di Sonny Emory è come sempre (ma forse ancor più di altre volte) da applausi a scena aperta. C’è anche un brano inedito, probabilmente composto per l’occasione, che si intitola Pacific Nights, un solo di chitarra acustica che rappresenta non solo un esercizio di perizia tecnica ma è anche un bel momento di musica. Lee Ritenour è un musicista prolifico e creativo, un chitarrista la cui velocità, il cui fraseggio e la cui tecnica sempre impeccabile non sono mai fini a se stesse ma al contrario sono al servizio della musica. Alive In L.A. è la perfetta essenza della sua personalità artistica, il puro concentrato di un grande musicista catturato durante tre magiche serate californiane: grazie a questo cd, abbiamo la fortuna di poterne godere anche noi, che ai quei concerti non c'eravamo.