Unit 3 Deep – Groove Theory


Unit 3 Deep – Groove Theory

Gli Unit 3 Deep sono una nuova band di contemporary jazz formata  dal pianista e tastierista Patrick Cooper, dal bassista David Dyson e dal batterista Duane Thomas. La formazione ha visto la luce nel 2015 ma i membri hanno precedentemente lavorato come turnisti suonando per numerosi musicisti tra i quali Walter Beasley, i Pieces of a Dream, gli Spur of the Moment, i New Kids on the Block, Rahsaan Patterson, Marion Meadows e molti altri. L’attività di supporto ad altri artisti continua anche adesso, nonostante il nuovo impegno in prima persona come solisti. Personalmente sono sempre molto interessato ai nuovi gruppi che salgono alla ribalta e gli Unit 3 Deep hanno attirato subito la mia attenzione. Groove Theory è il loro album di debutto, freschissimo di pubblicazione, dato che è disponibile dal 1 ° marzo 2018. Il gruppo ha pensato di arricchire il suo sound con la presenza di alcuni ospiti speciali: la vocalist Lori Williams, il chitarrista Alvin White, i sassofonisti Walter Beasley, Phillip "Doc" Martin e Craig Alston, il trombettista Dreandre "Re Dre" Schaifer e il percussionista Alfredo Mojica. La maggior parte del materiale è originale ed è stato composto sono dalla band, con l'eccezione di due soli brani. La musica del gruppo è focalizzata su una forma sofisticata e superiore di smooth jazz, rispetto a quest’ultimo sicuramente meno patinata e più stimolante dal punto di vista creativo. Già dopo i primi accordi del primo pezzo intitolato Friday, ci si rende conto che questa formazione possiede una precisa determinazione a spingersi in un territorio ambizioso. Si nota immediatamente il lavoro preminente del basso elettrico di David Dyson che non è affatto subordinato all’architettura complessiva dei brani ma assume un ruolo quasi dominante, mentre tutti gli arrangiamenti suonano molto più contemporanei ed articolati del classico smooth jazz. E’ particolarmente interessante il gioco di contrasti che la band riesce a creare mantenendo il  basso e la batteria su di un piano dinamico e nervoso, mentre la chitarra e le tastiere lavorano egregiamente sulla struttura armonica, spesso declinata su ritmi più rilassati. La tensione e l’emozione nascono proprio dai tempi contrastanti. Sulla notevolissima Friday c’è da notare un esuberante assolo di tromba di Schaifer che sottolinea come la natura di questo disco sia meno commerciale e più jazz oriented della media. Sus City invita l'ascoltatore ad assaporare un’affascinante incursione nei climi latini brazilian oriented: la cantante Lori Williams vocalizza in stile samba/bossa in questo che è un omaggio alla musica sudamericana in piena regola. Moving Forward è un orecchiabile brano dal tempo medio che scorre come un tranquillo ruscello di montagna in cui la melodia sembra quasi seguire il corso naturale delle acque. Il basso resta un fattore primario, ma le tastiere qui si prendono una giusta porzione d’importanza. Ain’t Nobody è la cover della famosa canzone di Rufus e Chaka Khan, pubblicata nel lontano 1983, ma ancora attuale. La canzone nella versione originale ovviamente vive della potenza selvaggia della eccezionale cantante afroamericana. Gli Unit 3 Deep filtrano il pezzo attraverso un’ottica meno sgargiante ma più riflessiva e indubbiamente più jazzata: l’alchimia sta nella capacità di scomporre quanto basta la composizione per poi rimettere insieme i tasselli con una intelligente e coraggiosa dose di innovazione. Molto bello il lavoro della chitarra di Alvin White, che peraltro si fa valere in tutto l’album. La band è in piena ricerca di una nuova strada per il cool jazz del terso millennio e quindi non c’è titolo più adatto di “In Progress”. Ritmicamente è del tutto appropriato e questo numero colpisce l’ascoltatore con il basso elettrico ed il sax che sono gli strumenti che per larghi tratti dominano la scena. In particolare sono proprio la linea del basso e l’assolo di quest’ultimo a lasciare il segno, mentre il piano acustico di  Patrick Cooper ribadisce che la barriera con la musica commerciale è stata abbondantemente superata dagli Unit 3 Deep in favore di qualcosa di più artisticamente evoluto e complesso. Groove Theory è il manifesto programmatico della band: con il basso funky slap che incarna perfettamente l'essenza del groove attorno alla batteria sincopata e sempre molto viva. Un esempio davvero perfetto di moderna fusion jazz della miglior qualità, con un cambio di atmosfera finale davvero sorprendente nel quale entra prepotentemente la chitarra elettrica. E’ un po’ come ascoltare i Return To Forever e la Mahavishnu Orchestra traslate nel 2018. I Do Not Know Why è una canzone del ’99 scritta da Jesse Harris che divenne popolare come singolo della cantante Norah Jones. Questa cover è interpretata da Lori Williams con lodevole perfezione formale. L’appartenenza del gruppo alla cerchia del miglior contemporary jazz è ribadita da un brano come So Good che ha nella tromba “davisiana” con sordina di Dreandre "Dre King" Schaifer il suo punto di forza. Il bassista David Dyson offre ancora una volta una base pulsante e vivace sulla successiva Funk Gumbo, su cui gli altri musicisti espandono il groove come meglio non si potrebbe. Il brano finale è il più lungo dell'album: It Is Not Over Yet è una lenta ballata jazzistica, carica di pathos ed atmosfere notturne e romantiche, sottolineate dagli assoli del pianoforte, del sax e da quello meraviglioso del basso fretless. Il formidabile trio Unit 3 Deep, con la collaborazione di un manipolo di validissimi musicisti, ha confezionato un album di debutto che tiene pienamente fede al titolo: la teoria del groove non sarà un assunto scientifico, ma se la bellezza della musica ha comunque un suo valore specifico, allora questo progetto riesce nell’intento di indovinarne la formula. Gli Unit 3 Deep sono una band da tenere d’occhio, il prossimo album ci dirà di più su dove possono arrivare i loro già notevoli talenti.

Ronnie Foster – Two Headed Freap



Ronnie Foster – Two Headed Freap

La Blue Note è una delle etichette più famose della storia del jazz. I critici musicali, dopo averla a lungo osannata, negli anni ’70 cambiarono completamente registro, osteggiando in modo particolare la svolta funk e soul jazz che la popolare casa discografica aveva intrapreso. Ad onor del vero in quel preciso momento storico la Blue Note stava lottando per la sua stessa sopravvivenza, alla ricerca di una nuova nicchia in grado di catturare qualche successo commerciale. Sì certo, l’epopea dell’hard bop era stata tutt’altra cosa, tuttavia, se si apprezzano anche il soul jazz ed il funk jazz e le relative contaminazioni elettriche, la produzione della Blue Note tra il 1970 ed il 1980 resta una vera miniera d’oro. Il tastierista Ronnie Foster, che era sotto contratto con la Blue Note in quel periodo, fu uno dei più validi interpreti proprio di quel jazz funk elettrico che in seguito diventerà la fondamentale fonte d’ispirazione per il movimento denominato Acid Jazz. Ronnie è di gran lunga più famoso per la sua militanza nel gruppo storico di George Benson che per la sua carriera da solista: una carriera che in effetti ha prodotto solamente otto album in quasi cinquant'anni di attività. La registrazione che segna il debutto di Ronnie Foster, datata 1972, è intitolata Two Headed Freap ed è un insieme di soul jazz funky contemporaneo, qualcosa di stilisticamente molto vicino alle colonne sonore blaxploitation tipo Shaft, Superfly, Black Dynamite o Coffy ed in ogni caso profondamente calata nella realtà musicale del periodo. Ronnie Foster peraltro è un tastierista che ha certamente tratto ispirazione da Jimmy Smith, affinandosi in un modo di suonare che è tuttavia più impegnativo e spigoloso del maestro del soul jazz. Foster mette le sue tastiere al servizio del groove e le fonde con un bel mix di chitarre wah-wah, di ritmi funk, di pulsanti bassi elettrici e tante percussioni. Tutto su Two Headed Freap profuma di groove, ogni suono è al contempo cinematografico, vivace e funky. Non essendo bop è anche vero che qui c'è poca improvvisazione reale e che forse le canzoni hanno tutte un andamento simile, ma l’alchimia funziona davvero bene, così che la musica risulta in definitiva molto attraente per gli appassionati di questo genere. Foster è un virtuoso dell’organo Hammond e Two Headed Freap è quasi un incrocio tra Sly & the Family Stone ed Emerson, Lake & Palmer. In effetti, la title track a tratti suona quasi come un estratto da Tarkus. Ma l’album è pieno di prelibatezze soul-funk, dunque oltre alla citata Two Headed Freap, troviamo "Kentucky Fried Chicken", che è basata su un accattivante riff funk, ma è anche un’autentica orgia organistica che farà la felicità degli appassionati. Molto bello anche "Chunky", brano latineggiante in grado di mettere in luce la virtuosità di Ronnie Foster all’Hammond su una struttura ritmica che potrebbe essere il manifesto del jazz funk degli anni ‘70. Il disco non disdegna qualche puntata più decisa sul soul jazz come ad esempio "Summer Song" che suona come una versione strumentale di una vecchia melodia degli O'Jays, o ancora con la cover di "Let's Stay Together" di Al Green. Ma i brani più interessanti e succosi sono quelli che cavalcano gagliardamente il funk: “Don’t Knock My Love” e “Drawing By The Sea” sono due brillanti esempi di blaxploitation music. Ascoltando canzoni di questo genere è impossibile non pensare alle acconciature afro, alle macchine vistose ed ai pantaloni a zampa d’elefante. L’affascinante e più intima “Mystic Brew” è meno palesemente groovy degli altri brani, tuttavia avrà un gran seguito dagli anni ’90 in poi, al punto da risultare uno dei campionamenti più popolari: A Tribe Called Quest, Madlib, J. Cole tra gli altri hanno attinto da questo pezzo. I puristi del jazz, in particolare coloro che amano l’hard bop dell’epoca d’oro della Blue Note, troveranno forse questa musica un po' monotona e magari fin troppo commerciale, ma i fan del funk vintage degli anni '70 da Sly Stone a Herbie Hancock troveranno Ronnie Foster e il suo Two Headed Freap molto interessante. Foster si destreggia molto bene con l’organo, dimostrando un gran talento: la musica è semplice e diretta, ma sa essere coinvolgente e anche divertente. Eravamo nel 1972 e come detto, la Blue Note stava allontanandosi dalle sue radici: un fatto  che, a mio parere, non può essere descritto come totalmente negativo. A testimonianza della bontà di quei groove, venti anni dopo queste stesse sonorità sono state ereditate dalla stragrande maggioranza dei migliori gruppi dell’Acid Jazz. In ultima analisi Ronnie Foster ci offre un saggio reale della peculiare realtà musicale in voga agli inizi degli anni '70 con dei brani ruvidi e genuini, tecnicamente ben eseguiti e pieni di energia creativa.

Shaun Martin – 7 Summers



Shaun Martin – 7 Summers

Ci sono artisti che lavorano nell’ombra per anni, producendo e supportando altri musicisti e cantanti ma senza sentire l’esigenza di esprimersi in prima persona. Uno di questi è Shaun Martin: un pianista e arrangiatore che durante la sua carriera si è impegnato nella collaborazione con personaggi come Chaka Khan, Erykah Badu, Kirk Franklin e gli Snarky Puppy, garantendo loro delle produzioni vincenti e una innegabile qualità nel prodotto finale. Tuttavia Martin ha sempre covato un desiderio recondito di arrivare un giorno ad essere il protagonista del suo stesso ingegno. Curiosamente si era dato un orizzonte di circa sette anni per arrivare al risultato di produrre finalmente un suo album da solista. E’ evidente che in sette anni possono succedere un sacco di cose, è un periodo di tempo abbastanza lungo perché si verifichi un’inevitabile e significativa crescita personale sia a livello musicale che umano. Ma alla fine, dopo aver lungamente e molto attentamente preparato il suo debutto, Shaun Martin è arrivato alla meta con un lavoro intitolato 7 Summers. Un album che ci offre una prospettiva nuova e più chiara sia sul talento dell'uomo come strumentista, sia sul suo personale viaggio attraverso questi ultimi sette anni di vita e di esperienze. 7 Summers regala una tavolozza particolare, che riflette il lavoro di Shaun Martin nel jazz, nell'hip-hop, nel gospel e financo qualche excursus nel pop e nella classica. L'album è stilisticamente vario, caratterizzato dal modo di suonare originale del pianista di Dallas sempre validamente supportato dalla sua band texana. Si tratta di un approccio "collettivo", dove numerosi collaboratori abituali prendono parte al progetto: tra questi Nikki Ross, Claudia Melton, Adrian Hulet, Mark Letierri e Geno Young. Ognuno di questi ospiti porta un sapore peculiare e distintivo al mix complessivo, dando all'album un ulteriore senso di collegialità. Anche le canzoni sono come raggruppate in sezioni stilistiche che sembrano seguire il percorso musicale e personale di Martin. Dopo "Introduction", in cui il pianista fa una sorta di riassunto recitato del disco innestandolo su un inebriante groove che stuzzica le aspettative dell’ascoltatore, ecco che arrivano le tracce strumentali che mostrano la sua impressionante musicalità. Ad esempio il festoso "One Big Party", nel quale Martin dimostra di non prendersi troppo sul serio e sa intendere la musica come un affare giocoso e scanzonato. Oppure “Madiba” che innesta il funk su una architettura soul, con robuste percussioni, fiati roboanti e grandi assoli. "The Yellow Jacket", è un pezzo che reca alcuni tratti dello stile degli Snarky Puppy, mentre Martin mostra di aver assorbito la lezione di Keith Jarrett personalizzata dal suo tocco leggero e dalla sua sensibilità pop. "Lotus" è invece una bossa nova ritmicamente canonica che precede come tale fino a quando Martin mette mano al suo Rhodes, incantando con un assolo favoloso presto commutato in un altrettanto notevole intervento al piano acustico. Il brano cambia anche il registro ritmico diventando una sorta di ibrido tra fusion e latina dove anche i fiati si fanno sentire sul finale all’interno di un arrangiamento complessivo davvero splendido. Il secondo gruppo di brani segna un cambiamento di stile e l'aggiunta del cantato. "Have Your Chance at Love" fa davvero pensare ad un tema cinematografico e di certo è una transizione piuttosto stridente rispetto alla precedente "Lotus", ma una volta che ci si abitua alla nuova atmosfera, con la parte vocale di Nikki Ross a farla da padrona, la bellezza della canzone traspare, anche se forse con un eccesso di romanticismo. "Love, Do not Let Me Down" ha un'atmosfera più dark ma non meno romantica. Le intense armonie vocali di Claudia Melton riempiono gli altoparlanti con grazia, in un brano che si può definire neo soul. “Lone Gone” è un intermezzo non particolarmente riuscito e, pur essendo una bella canzone d’amore, è sin troppo pop per il contesto dell’album. 7 Summers si chiude con gli ultimi tre brani: uno di puro jazz intitolato “The Torrent”, dove Shaun Martin mette in mostra tutto il suo talento di compositore e di pianista. Un altro a cavallo tra soul, hip hop e smooth jazz minimalista dal titolo "All In A Day's Work". Qui Shaun ritorna a volare sui tasti del piano elettrico riempiendo l’atmosfera di vibrazioni positive e accordi accattivanti. In ultimo un pezzo quasi classico come "Closing Credits (Requiem For Carolyn)" Martin ci da un saggio finale della sua grande versatilità: lui è uno di quegli artisti capaci di spaziare tra i generi più diversi con grande leggerezza ma sempre con estrema competenza. Molti musicisti sognano di pubblicare un album da solista, ma spesso non è così facile come sembra e tante volte i risultati non sono nemmeno quelli sperati. Ma i talenti come Shaun Martin si dedicano con tutta la passione possibile al loro lavoro, perseverano e fanno il possibile per realizzare opere che siano la migliore espressione della loro arte. 7 Summers è esattamente questo: fornisce uno spaccato meraviglioso del talento musicale di Shaun Martin e anche una sua visione del mondo come essere umano. Vario e colorato, intenso e profondo ma anche leggero, è un lavoro molto interessante che spinge a desiderare che non ci vogliano altri sette anni per poter ascoltare un nuovo capitolo della storia.

The Headhunters – Survival Of The Fittest


The Headhunters – Survival Of The Fittest

Herbie Hancock è uno dei più rappresentativi musicisti del jazz contemporaneo. Uno dei momenti più significativi della sua carriera fu la svolta jazz funk, alla quale il grande pianista diede forma e corpo anche attraverso la collaborazione con i musicisti del suo gruppo, gli Headhunters. Ma gli stessi Headhunters, dopo aver garantito un grande successo al mitico Hancock, nel 1975 continuarono la loro carriera pubblicando il loro primo album da solisti. Un album, prodotto dallo stesso Hancock ma senza la sua partecipazione diretta in veste di tastierista, nel quale la line-up della band presenta la stessa formidabile formazione presente sull’album Thrust: Mike Clark alla batteria, Paul Jackson al basso, Bill Summers alle percussioni e Bennie Maupin su ogni tipo di ancia, oltre all’aggiunta del nuovo arrivato, il chitarrista DeWayne "Blackbird" McKnight. McKnight era già stato in tour con Herbie Hancock in precedenza ed era presente negli album Man-Child e Flood. Ci sono inoltre alcuni ospiti: altri tre percussionisti (Zak Diouf, Baba Duru Oshun e Harvey Mason Sr., quest'ultimo era stato il primo batterista degli Headhunters) e il flautista/sassofonista Joyce Jackson. L’assenza di Hancock, nel suo insostituibile ruolo di leader, potrebbe indurre qualche ascoltatore ad una errata valutazione in merito alla qualità del risultato finale ottenuto dagli Headhunters. In realtà anche senza di lui il gruppo ha lavorato molto bene ed infatti Survival of the Fittest è un ottimo album: è uno degli ultimi esempi di quel jazz funk cosmico che tanto era in voga attorno alla metà degli anni ‘70. All’ascolto risulta evidente una fantastica intesa tra tutti i musicisti, specialmente per quanto concerne la sezione ritmica formata da Jackson, Clark e Summers: un formidabile trio di artisti che può affrontare qualsiasi difficoltà muovendosi agile e preciso dentro le architetture complesse orchestrate dalla band. La prima traccia, "God Make Me Funky", segna il debutto di Jackson come cantante solista, un ruolo che purtroppo non riprenderà spesso in seguito. Il suo modo di cantare non è particolarmente sofisticato  ma rende omaggio alla tradizione blues con grande autencità, non a caso, alla fine della canzone, la sua voce ricorda abbastanza quella di Ray Charles. Si tratta di un pezzo funky (l'inizio rimanda molto da vicino al loro precedente "Palm Grease"), nel quale le voci di sottofondo sono quelle delle Pointer Sisters. Da segnalare l’intenso, quasi frenetico assolo di Bennie Maupin che a tratti sconfina nell'atonale. "Mugic" suona inizialmente come la versione funk di "Watermelon Man", e si rivela essere una vetrina per i vari strumenti a percussione di Bill Summers. "Here and Now" è un brano enigmatico che si sviluppa in un groove cosmico, dove Bennie Maupin offre un altro eccellente assolo, accompagnato dai suoni eterei della chitarra. "Daffy's Dance" si mantiene su un tenore simile e pur differenziandosi ritmicamente può vantare una melodia piuttosto divertente. "Rima" è un altro pezzo che dimostra la versatilità dell’offerta musicale degli Headhunters: la chitarra di McKnight funge da sostituto per le tastiere e produce una miriade di suoni bizzarri. Il sax contralto di Joyce Jackson caricato di effetti echo è una valida controparte per il clarinetto basso di Maupin. Summers aggiunge il suo tocco di eteree percussioni in questo pezzo dal tono sommesso. L'ultima traccia, "If You've Got It, You'll Get It", ritorna sugli usuali territori funk, caratterizzati da un bel riff di basso doppiato dal clarinetto basso di Maupin e con un coro in sottofondo: questa volta la chitarra di McKnight entra in gioco in veste di solista. Survival of the Fittest è un album che mantiene costantemente alto il livello di attenzione ed offre l’opportunità di ascoltare le esibizioni di un gruppo di eccellenti solisti. È interessante notare la scelta che fu operata dalla band, decidendo di non sostituire Herbie Hancock con un altro tastierista, optando invece per il giovane chitarrista Blackbyrd McKnight. Blackbyrd è un chitarrista molto originale, un solista pirotecnico che combina il flash rock, la complessità del jazz e i ritmi funky a qualsiasi progetto a cui partecipi. McKnight è una sorta di sintesi tra Steve Vai, Jimi Hendrix e Wah Wah Watson e dopo l’esperienza con gli Headhunters, ha collaborato con molti gruppi tra cui i Parliament di George Clinton e più recentemente i The Red Hot Chili Peppers. Nel complesso Survival Of The Fittest è un intricato e solido progetto di jazz funk che a tratti si spinge verso la fusion. Gli Headhunters possono essere accostati ai The Meters e The JB’s Horns se li si analizza per la loro vena jazz funk, ma per contro sono portatori di una maggiore e meglio definita affinità con il jazz. Si avvalevano di uno straordinario batterista come Mike Clark, in grado di trascinare il funk in territorio jazzistico con uno stile in cui il ritmo cambia continuamente e si sposta in direzioni imprevedibili. Bisogna poi sottolineare che quando, come in questo album, si entra in una sorta  di spirale elettro-jazz-funk, solo il grande Bennie Maupin può eguagliare le bellissime orchestrazioni di Herbie Hancock. In definitiva se siete stati dei fan del lavoro degli Headhunters con il grande Herbie, probabilmente apprezzerete molto anche il loro primo tentativo (riuscito) di andare avanti senza di lui.

Nicola Conte - Natural


Nicola Conte - Natural

Nicola Conte è un personaggio fondamentale nel panorama musicale italiano degli ultimi 20 anni. Ho già parlato di lui quando ho scritto del suo capolavoro Other Directions, e voglio tornare sulla sua musica con un altro album molto interessante del 2016 intitolato Natural. Conte è un musicista di formazione classica, un poli-strumentista ed un arrangiatore di grandissima classe. Nel contesto internazionale è noto soprattutto come DJ e produttore, ma il suo valore trascende questi ruoli e lo colloca tra le figure di rilievo della scena nazionale ed internazionale. E’ risaputo ed è evidente che le sue grandi passioni e le principali fonti d’ispirazione che animano il suo lavoro sono la bossa nova, il jazz, l’acid jazz, le colonne sonore dei film italiani degli anni ’60 e ’70 fino ad arrivare anche alla lounge music. Anche Natural è mosso dalle medesime sonorità, sapientemente miscelate; in questo caso arricchite dalla collaborazione con la cantante Stefania Dipierro. Nicola Conte ha lavorato per la prima volta con la cantautrice Stefania Dipierro nell’ambito del mitico collettivo musicale, attivo negli anni '90, chiamato Fez di cui Conte fu il fondatore e deus ex machina per molto tempo. Quando il gruppo del Fez si sciolse, la Dipierro mise la sua ricca e colorata voce al servizio di altri progetti, mentre Conte pubblicò una serie di lavori di acid-jazz che divennero presto dei veri e propri cult in tutta Europa. Natural riunisce quindi, dopo 15 anni il Nicola Conte chitarrista, compositore e produttore affermato, con la Dipierro in veste di cantautrice e vocalist meno popolare ma talentuosa, in una raccolta di originali, classici del jazz e brani prelevati dal repertorio della bossa brasiliana. L’album si avvale della presenza di alcuni dei migliori musicisti jazz italiani, in particolare il trombettista Fabrizio Bosso e Gaetano Partipilo al sax alto e flauto. Le sonorità di Natural dispensano il caldo e passionale groove della miglior musica brasiliana filtrato attraverso la sensibilità del jazz contemporaneo, con quel gusto unico e modernissimo che il maestro Conte è così bravo ad arrangiare. La voce di Stefania Dipierro è elegante, misurata: intrigante e sensuale eppure potente e limpidissima: lei è un personaggio di nicchia ma meriterebbe certamente una maggior fama. La vocalità della cantautrice barese suggerisce diversi punti di riferimento familiari agli ascoltatori più attenti: ad esempio evoca la classica bossa nova di Astrud Gilberto in "Sofltly As In A Morning Sunrise" o ancora in "Caminhos Cruzados" di Antonio Carlos Jobim. "Ainda Mais Amor" ci rammenta Bebel Gilberto (figlia di Joao Gilberto) su un tappeto strumentale dalle sonorità affini a quelle dei pionieri della fusion brasiliana, gli Azymuth. Stefania fa venire in mente anche le atmosfere di Sade, sia quando accarezza e rimodella la melodia di "Open The Door", sia nel modo in cui si esprime nell’originale di Conte "I Feel the Sun On Me". Per non parlare di “Natural” il brano che da il titolo all’intero album: la canzone parte da un progetto ritmico simile a quello di "Keep Looking" della famosa cantante afro-londinese, pur mantenendo una sua originalità dettata anche dal forte sapore carioca. La tromba di Bosso qui entra in campo con la sua sonorità delicata, sfumata e vivace. L’arrangiamento di Conte di "Meaning Of Love" composta da Steve Kuhn, ci regala una bossa sensuale sulla quale Fabrizio Bosso da un altro saggio di bravura ricamando contrappunti meravigliosi con la sua tromba. E la voce calda della Dipierro fa sognare le assolate spiagge di Rio e i panorami più amati del Brasile. Morbida come un’alba sull’oceano, "Que Maravilha" è la dimostrazione di una perfetta interpretazione dello spirito della bossa nova: la bossa di Bari che non ha nulla da invidiare a quella originale. Inutile sottolineare che la tromba di Bosso è ancora una volta spettacolare. Il sipario si chiude con "Joia", che altro non è se non una riproposizione di un brano della tradizione brasiliana di Airto Moreira e Flora Purim: la Dipierro e le percussioni senza ulteriori strumenti sono i protagonisti di questo inusuale pezzo di musica etnica. Ogni momento di questo album è una piccola gemma e qualsiasi descrizione, così come tutte le spiegazioni possibili, non rendono davvero giustizia alla poesia musicale di Natural. C’è della musica che ti interessa e poi c’è altra musica che ti cattura e non ti lascia più andare. Nicola Conte e la brava Stefania Dipierro semplicemente ti ammalieranno e sarà difficile staccarsene. La sensibilità del maestro Conte è straordinaria: che si tratti di suoi pezzi originali o di arrangiamenti di canzoni di altri compositori il risultato non cambia e la qualità dei suoi progetti musicali resta sempre altissima. Stefania Dipierro sarà per tutti una bellissima scoperta, la sua voce è speciale. La miglior produzione italiana alberga da queste parti, non c'è dubbio. E poi in fondo, come diceva il grande Antonio Carlos Jobim, bisogna tenere a mente: “Que isto é bossa nova, que isto é muito natural”

Justice System – Rooftop Soundcheck


Justice System – Rooftop Soundcheck

Non amo particolarmente ne il rap ne l’hip hop. E di conseguenza non mi piace parlarne, anche per via della mia quasi totale ignoranza in materia. Tuttavia ci sono stati dei gruppi che hanno stuzzicato il mio interesse: erano quei collettivi musicali che provenivano dal circuito hip hop e che sono riusciti a produrre del buon materiale, inventando uno stile che qualcuno ha definito anche jazz rap. I Roots, Guru, ed i Justice System sono i nomi di alcuni di questi. Vorrei parlare in particolare dei Justice System, che furono probabilmente una delle band hip hop più innovative emerse sulla scena musicale dei primi anni '90. Venivano dal Bronx (New York) cioè il luogo che è stato un po’ la culla di questo controverso ed originale genere. Il tentativo da loro messo in atto era quello di cercare di mescolare le proverbiali cascate di parole in rima con dei groove di matrice jazz funk e delle melodie vicine al jazz. I Justice System sono stati spesso paragonati ai Roots: un accostamento che ha avuto su di loro un impatto che può essere considerato al tempo stesso positivo e negativo. Il parallelismo con i Roots infatti ci può stare, ma solo parzialmente: nei Justice System, a mio parere, la qualità degli arrangiamenti e l’abbinamento del rap con le orchestrazioni fatte di veri strumenti sono nettamente superiori all'approccio più essenziale dei loro contemporanei di Philadelphia. Va sottolineato che i Justice System avevano un loro sound peculiare e possono essere considerati a pieno titolo dei veri innovatori dell’hip hop. Il loro debutto del 1994, intitolato "Rooftop Soundcheck" ci consegna un collettivo giovane e se vogliamo anche visionario, in grado di produrre un sound molto originale, corroborato da una produzione molto curata e da una notevole quantità di materiale. Ciò che propongono  i Justice System su "Rooftop Soundcheck" è in egual misura un pò jazzy e un po’ funky: ci sono i groove ritmici che tendono verso il lato del funk e poi ci sono le parti strumentali che hanno un tenore più vicino al jazz. La strumentazione ha un suono molto più corposo e coreografico della maggior parte dell’hip hop che ho avuto modo di ascoltare. Il motore di questo progetto è alimentato dalle solide linee di basso e  dalla energica batteria di Coz Boogie e Eric G mentre la musica è fluida e vivace, caratterizzata da un nitido lavoro di rifinitura effettuato in studio di registrazione. So che alcuni hanno criticato questo album proprio per un presunto eccesso nell’intervento della produzione. Io trovo che il sound del gruppo, così ben bilanciato e raffinato, sia invece un punto di forza: ciascuno degli strumenti e ogni elemento sonoro è chiaramente distinguibile, a tutto vantaggio della godibilità. Ciò che quasi sempre manca nella maggioranza delle produzioni rap e hip hop. Di sicuro un altro degli artefici principali dell’ottimo impatto sonoro dei Justice System è il chitarrista C-Roc che funge da collante per ogni brano con le sue ricche frasi funky, e poi non va dimenticato l'inestimabile lavoro di Mo 'Betta Al che si mette in evidenza sia al sax tenore che al piano elettrico Rhodes. Se anche individualmente ì Justice System sono composti da alcuni musicisti di grandissimo talento, è giusto sottolineare come sia il collettivo a determinare la straordinarietà del loro lavoro. Rooftop  Soundcheck denota un’invidiabile omogeneità qualitativa ed una rimarchevole fluidità di contenuti, una cosa che raramente si trova in una band di hip hop. Da questo punto di vista sono proprio i lunghi intervalli strumentali, così come il groove che corre lungo tutto l’album a  fornire gli spunti salienti nonché il maggior motivo d’interesse. Rooftop Soundcheck è esaltato dal suo stesso suono e dai suoi arrangiamenti, mentre il gruppo dimostra una grande versatilità, esplorando una vasta gamma atmosfere e di stati d'animo. Sono numerosi i brani degni di nota: da "Just Because" a "Soulstyle" da “Due Our Time” a “Summer In The City” la musica è tutta un fermento creativo urbano e contemporaneo in cui gli echi dei quartieri storici di New York si alternano a quelli dei fumosi jazz club. E’ una passeggiata sonora tra il fiume Hudson ed il Bronx, tra il Queens ed Harlem con il sottofondo dei vecchi grandi del jazz come Coltrane, Gillespie e Thelonius Monk, sul quale si innestano le parole in libertà del rap. Folex e Jahbaz celebrano la pura potenza della musica sottolineandola con la loro valanga poetica, animati da uno spirito artistico che li pone in un parallelismo ideale con i cantanti scat dei decenni passati. "Rooftop Soundcheck" è stato ripubblicato in digitale come "Sounds of the Rooftop", che è forse un titolo ancora più azzeccato: le calde ed energiche vibrazioni che scaturiscono dal suo ascolto sono un perfetto viatico per apprezzare anche un genere come l’hip hop, che altrimenti può risultare fin troppo piatto e ripetitivo. Sono i suoni di New York, una città  culturalmente ricchissima ed in continuo fermento. Agli inizi degli anni ’90 i Justice System introdussero un modo nuovo ed intelligente per rivitalizzare il jazz continuando ad esplorare le possibilità del rap in piena libertà. Anche a quasi vent’anni dalla sua pubblicazione questo album è perfettamente godibile e dimostra di essere invecchiato molto bene.

Stanley Jordan – Magic Touch


Stanley Jordan – Magic Touch

L’avvento del chitarrista Stanley Jordan sulla ribalta musicale dei primi anni '80 ha immediatamente allertato la critica ed il pubblico creando grande interesse intorno al giovane talento fin dall’uscita del primo album Touch Sensitive nel 1982. Il virtuoso chitarrista di Chicago si guadagnò in breve tempo una meritata fama nel mondo del jazz ed un buon seguito tra gli appassionati. Dato che Stanley inventò un modo nuovo e rivoluzionario di suonare le sei corde è abbastanza normale che il fatto non passasse inosservato. La tecnica alla base del mirabolante modo di interpretare lo strumento da parte di Jordan è quella del tapping. Il tapping consiste nell'utilizzare la mano ritmica (destra per i destrimani, sinistra per i mancini) per suonare delle note (note legate) direttamente sulla tastiera, generalmente usata per suonare intervalli molto larghi, altrimenti molto difficili da eseguire. La versione più virtuosistica è il tapping a otto dita, che consiste appunto nell'usare tutte e quattro le dita della mano destra, combinandole ovviamente con le quattro della mano sinistra. Ed è esattamente questa quella sulla quale il formidabile Stanley Jordan si è specializzato. Sebbene non sia stato il primo a usare questo metodo, il chitarrista è stato però un pioniere nel suonare due linee melodiche completamente indipendenti sul suo strumento (come se fosse una tastiera) o, addirittura, due chitarre alla volta. Inizialmente studiò il pianoforte, ma passò alla chitarra all’età di 11 anni. Dopo essersi laureato a Princeton nel 1981, Jordan si esibì per un breve periodo in giro per le strade di New York. Ben presto attirò l’attenzione degli addetti ai lavori ed ebbe così l'opportunità di suonare con Benny Carter e Dizzy Gillespie. Dopo aver registrato un primo album come solista per l’etichetta Tangent, firmò un contratto con la Blue Note. Magic Touch, questo è il titolo del secondo disco di Stanley Jordan: il lavoro discografico che vedrà la consacrazione del chitarrista e della sua peculiare tecnica di tapping. Grazie anche ad un repertorio molto variegato ed eterogeneo, l’album ci fa capire quanto sia rivoluzionario l'approccio di Jordan allo strumento: un talento così grande da consentirgli di accedere a possibilità musicali che sono semplicemente fuori dalla portata di altri chitarristi. Nelle sue mani la chitarra raggiunge un livello di auto-accompagnamento precedentemente conosciuto solo da chi suona il pianoforte. Fortunatamente Jordan mette a frutto il suo incredibile talento facendo buona musica. E c’è un'area in particolare in cui Jordan eccelle davvero in modo unico: è la reinterpretazione del materiale pop moderno. La sua versione di "Eleanor Rigby" dei Beatles, ad esempio, accompagnata solo dalle sottili percussioni di Sammy Figueroa, è leggera e vaporosa ma esalta al contempo il lato più giocoso della melodia. Altrettanto impressionante è la cover di "The Lady in My Life" di Michael Jackson, della quale il chitarrista dà una lettura morbida e sensuale. Ma il bravo Stanley non si concentra solo sui classici del pop. Jordan dimostra di non trascurare affatto il mondo del jazz, proponendo delle deliziose versioni di "Freddie Freeloader", "Round Midnight" e "A Child Is Born". Magic Touch non è un disco per sola chitarra ed infatti Jordan è accompagnato in alcuni brani da alcuni musicisti esperti come  i batteristi Omar Hakim e Peter Erskine: gente che ovviamente suona benissimo. Però nell’estetica musicale di Stanley non importa quanto siano validi i collaboratori e quanto siano interessanti le esibizioni di gruppo. Tutto è concentrato sulla scioccante polifonia del formidabile chitarrista. È in quella sottile alchimia, fatta di abili dita che volano sul manico della chitarra creando intrecci impossibili ed arditi che si gioca la magia di questo disco e in ultima analisi la musica di Stanley Jordan. Da quelle sottili e delicate trame, tutte appese ad un talento cristallino, che fa della chitarra un’estensione fisica del corpo e della mente, prende davvero vita un album come Magic Touch. Qui non troverete assoli roboanti e nemmeno chitarre arricchite da effetti speciali, ma soltanto la più pura e pulita espressione di uno strumento a corde che Stanley Jordan plasma e comanda con le sue mani tra eteree architetture sonore e garbate improvvisazioni. Gli album che seguiranno non hanno forse mantenuto completamente le premesse mostrate nelle prime due registrazioni ed in particolare in questo Magic Touch.  Ma il chitarrista ha certamente in sè qualcosa di veramente speciale e non a caso è un musicista che si esprime al suo meglio nei concerti dal vivo, dove è più facile apprezzare fino in fondo tutto il suo talento. Resta il fatto che questo disco di Stanley Jordan è diventato un classico ed è in qualche misura un punto di svolta fondamentale nella storia della chitarra jazz moderna. Se siete appassionati del suono della chitarra elettrica e non avete mai ascoltato questo artista, per certi versi unico, vi consiglio di partire da Magic Touch e farvi sedurre dalle sue suggestioni.

Jimmy Ponder – Illusions


Jimmy Ponder – Illusions

Jimmy Ponder: un nome che ai più risulterà praticamente sconosciuto. In realtà lui è uno dei tanti chitarristi che hanno animato la scena del jazz e del jazz funk fin dai primi anni '70, focalizzandosi in particolare su quello stile musicale di crossover che fu la caratteristica peculiare di quel periodo storico. Al pari di altri musicisti molto più famosi di lui, come Wes Montgomery, George Benson, Grant Green o Boogaloo Joe James, Ponder ha certamente tratto dalle sue registrazioni una fonte di reddito importante ma anche e soprattutto un mezzo fondamentale per mettersi in mostra. Tuttavia, forte di un talento non comune e di una visione artistica genuina, ha dovuto lottare con i produttori discografici per ottenere un minimo di licenza creativa da applicare alle sue opere. E’ noto che esiste un profondo conflitto di interessi nelle dinamiche della produzione discografica che è in grado, a volte, di modellare il prodotto finale. Se l'obiettivo diventa la pubblicazione di un album di successo difficilmente il risultato sarà di valore. Quando invece si punta verso un processo creativo scevro da interessi commerciali sarà più facile arrivare a qualcosa di musicalmente interessante. Nel caso di Ponder, pur esistendo numerosi precedenti che rappresentavano dei modelli di successo, il chitarrista non arrivò mai ad una vera notorietà, anche se Jimmy registrò con etichette di prim’ordine come la ABC Impulse e la Milestone. I due album di Ponder per la Impulse, Illusions (1976) e White Room (1977) sono fortemente influenzati dal funk, e presentano sia brani originali che cover di canzoni popolari. Per quanto mi piaccia molto il soul  jazz ed il jazz funk della fine degli anni '70, posso dire che in questo ambito non sono certo mancate le delusioni. Persino alcuni degli artisti più talentuosi e di buon gusto hanno offerto prove tutt’altro che felici nel tentativo maldestro di piegare la loro inclinazione naturale verso la ricerca di un successo commerciale. L’album “Illusions” sembra inizialmente orientarsi verso questa tendenza. Invece, con un ascolto ripetuto ed attento, mi ha fatto ricredere ed infine la magia della chitarra di questo oscuro musicista mi ha convinto e definitivamente conquistato. Ron Carter, il veterano bassista jazz, già membro del quintetto di Miles Davis della metà degli anni '60, è un importante presenza su Illusions, in grado  di donare una sensibilità jazz più tradizionale ai brani che sono fondamentalmente influenzati dal funk e dal jazz latino. Un bellissimo esempio di questa collaborazione viene dalla ballata "Jennifer" dove Carter e Ponder utilizzano il puro e semplice suono acustico, senza effetti elettronici. Il pezzo ha una durata di nove minuti, e presenta un lungo assolo di Ponder, che riesce a giocare con la melodia improvvisando anche con le ottave. L’album inizia con Funky Butt, un numero soul jazz in cui Ponder indugia sull’uso del wah wah e si avvale di un arrangiamento ricco di archi che rammentano le produzioni della CTI e del Philly Sound. I giochi si fanno più interessanti con la successiva "Energy III" che è costruita su di un ritmo complesso ed eccitante, in pieno stile fusion, il quale si rivela un ottimo veicolo per gli assoli della chitarra e delle tastiere. Probabilmente il pezzo che colpisce di più è la cover di un successo dei Miracles: Do It Baby è resa con un sound jazz funk molto accattivante che ricorda George Benson e mette in evidenza tutta la bravura e l’ecletticità di Jimmy Ponder. Interessante anche Illusions che è una bossa brasilianeggiante tutta incentrata sulla perizia tecnica di Ponder, il quale illumina la scena con una performance equilibrata e di gran classe. L'ultima canzone, "Sabado Sombrero", è un brano che si stacca un po’ dal resto dell’album. Per cominciare è acustica ed è tutta giocata sui tenui colori latineggianti dettati dalle percussioni e dal basso di Ron Carter. Si tratta di un originale dello stesso Carter, che qui si esibisce sostanzialmente in un duo con il chitarrista. La canzone è lenta, con elementi di musica spagnola e brasiliana che si mescolano al blues americano. Spogliato delle tastiere, della batteria e dei fiati, Ponder mostra tutta la sua forza tesa quasi ad impersonare un sorta di mini orchestra condensata nella sua chitarra, spostandosi con disinvoltura tra accordi, ottave e linee melodiche, ma mantenendo un solido controllo dell’atmosfera del pezzo. D’altra parte la capacità di Ponder di rivestire simultaneamente i ruoli di vari strumenti anche quando suonava da solo, è di fatto la chiave del suo talento di chitarrista. Le tastiere presenti nell’album sono firmate da uno dei miei pianisti preferiti, ovvero Ronnie Foster, che non a caso più avanti diventerà un collaboratore irrinunciabile di George Benson. All’apparenza Illusions sembra suonare come un classico album degli anni ’70, legato al jazz funk ed al soul, con i suoi speciali effetti di chitarra ed i ritmi colorati di latino. Ascoltandolo con attenzione però si può trovare di più: un diversificato composito di stili che include il jazz tradizionale, il rock e il pop , mixati in modo impeccabile e sempre piacevole. Jimmy Ponder merita sicuramente maggiori riconoscimenti ed è a mio parere, una valida alternativa ai “soliti noti” della chitarra jazz funk.