Jeff Bradshaw - Bone Deep


 Jeff Bradshaw - Bone Deep

Una delle domande che più spesso si sono posti i jazzisti contemporanei è quanto realmente potessero spingersi in direzione di una più o meno radicale contaminazione artistica piuttosto che restare all’interno di una canonicamente rigorosa tradizione. Gli esempi di musicisti che hanno intrapreso la strada del rinnovamento nel jazz sono  numerosi, a cominciare da Miles Davis e continuando poi con Herbie Hancock, Chick Corea, Roy Ayers e molti altri. Il riscontro del pubblico ed anche quello commerciale per quelli che percorsero una strada alternativa fu subito evidente a tutti dall'inizio degli anni '70 e dura ancora ai nostri giorni. Questo anche a discapito della reputazione di quegli stessi musicisti tra i puristi del jazz. In effetti, è proprio dalla propensione alla sperimentazione di quei pionieri (e precedentemente di quelli del Be-Bop e del Free-Jazz) che è nato quel sotto genere comunemente noto come jazz-fusion. La lunga premessa serviva per introdurre il personaggio di questa recensione. Senza la dirompente genialità dei grandi del passato, ma con una certa originale personalità, anche il trombonista Jeff Bradshaw può infatti rientrare tra i  musicisti orientati alla sperimentazione “anticonformista”. In una certa misura il suo album di debutto del 2003, Bone Deep è un moderno tentativo di innovazione. Come specialista e virtuoso del suo strumento, Bradshaw vanta un sound che è possibile posizionare da qualche parte tra la jazz-fusion ed il neo-soul. La sua formula incorpora e miscela il jazz, il soul, l’r&b e,  occasionalmente, anche qualche eco africana: Bradshaw mette insieme qualcosa degli Earth, Wind & Fire, un po’ di Herbie Hancock, alcuni sprazzi di George Duke e per l’appunto una bella dose di neo-soul, ottenendo un effetto singolare. Qualcosa che ricorda le sonorità di oggi di Robert Glasper, Jr. con il quale non a caso in seguito collaborerà. In quest’ottica di revisione e sperimentazione della fusion, Bradshaw riesce a trovare un suo groove che è allo stesso tempo musicalmente sofisticato e tuttavia accessibile ed orecchiabile. L'uscita di Bone Deep arrivò anni dopo l'avvento di artisti come Erykah Badu, D'Angelo e Maxwell, che partendo dal soul indicarono una strada alternativa, poi diventata popolare. L'album di Bradshaw fece qualcosa di simile per la fusion, infilandosi nelle atmosfere urbane, destrutturando e semplificando uno stile spesso molto opulento. Prodotto dallo stesso Bradshaw, Bone Deep vanta cammei di Jill Scott, Floetry e Bilal, tra gli altri. Il suono di trombone di Bradshaw è ruvido e particolare e la sua abilità con lo strumento è sbalorditiva, poiché usa il “grande ottone” più come una seconda voce che nella maniera canonica. Ecco allora che molte delle tracce cantate vedono Jeff su un piano paritario nel confronto con l’interprete vocale. "Beyond the Stars", per esempio, con Glenn Lewis, mostra un'eccellente interazione tra la voce di quest’ultimo e il trombone di Bradshaw. Lo stesso vale per "Beautiful Day", che vede Bradshaw e Floetry che si alternano tra la melodia principale e l’accompagnamento. In "Can You Come Over", Carol Riddick si limita a cantare un ritornello mentre Bradshaw sfoggia  una performance strumentale eccellente. Altre tracce, come "Slide", con Jill Scott, trovano Bradshaw e il suo trombone in una situazione di contorno, che tuttavia mantiene una sostanziale presenza. In "Make It Funky", la performance di Jeff è in gran parte persa in una sorta di nebbia musicale creata dalla voce di Bilal e dagli altri strumenti. Questo approccio per così dire da “seconda linea” è in realtà piuttosto intrigante sulla cover di "Miss Celie's Blues (Sister)" che consente di ascoltare la voce  della talentuosa e forse sottovalutata N'Dambi. Bradshaw canta personalmente in "Guess You Never Know" e "Lookin '", proponendosi momentaneamente come vocalist. I brani "Soul of the Bahia", "Smooth Soul" e "On My Way" sono invece fondamentalmente strumentali. "Soul of Bahia" emana un'atmosfera da lounge music e incorpora echi di percussioni africane, mentre "Smooth Soul" estende il concetto di smooth jazz toccando forse il momento migliore dell’intero album. L'album si chiude in modo curioso con "The Bone is Back (Reprise)” che però nasconde al suo interno ben due bonus tracks che sono intitolate Swing Low e Yesterday: la prima strumentale, la seconda cantata. Tutto sommato, Bone Deep è un album piuttosto interessante ed anche a distanza di 17 anni dalla sua uscita mantiene una sua fresca attualità. Si snoda variamente tra vari stili, districandosi con intelligenza e misura in ogni contesto musicale. Jeff Bradshaw fa un uso molto originale del suo trombone e possiamo riconoscere questo artista come uno dei principali interpreti della fusion e del neo-soul dei nostri giorni. Merita quanto meno un ascolto.

The L.A. Chillharmonic - L.A. Chillharmonic


 The L.A. Chillharmonic - L.A. Chillharmonic

Il professor Richard Smith è l'anima di questo super gruppo. Lui ha un’intensa vita professionale come musicista e tra i mille impegni di chitarrista ci sono anche la scuola e l'istruzione che giocano un ruolo centrale. Chitarrista di talento, compositore, arrangiatore, produttore ed insegnante, Smith si è stabilito a Los Angeles anni fa ed immediatamente entrato a far parte della scena smooth jazz della California, suonando tra gli altri con musicisti come Dan Siegel, Kenny G, Richard Elliot, Rick Braun, per citarne alcuni. Come chitarrista ha registrato 10 album, partendo dal primo Inglewood fino all’ultimo Tangos. Il suo progetto più ambizioso però prende il nome di L.A. Chillharmonic: ovvero un collettivo di musicisti nato per riunire alcune delle più grandi star del jazz contemporaneo in un unico progetto. Ecco allora che in questo gruppo troviamo gente come Brian Bromberg (basso), Vinnie Colaiuta (batteria), Alex Acuña (percussioni), Jeff Lorber (tastiere), Patrice Rushen e Greg Karukas (pianoforti), Greg Adams (tromba), Gary Meek, Michael Paulo ed Eric Marienthal (sax). In sostanza un contenitore che rappresenta il meglio dello smooth jazz californiano e non solo. Pensadoci bene, in effetti, la maggior parte delle grandi città possiede un'orchestra filarmonica classica ed alcune altre hanno gruppi jazz municipali, ma nessuna metropoli può vantare qualcosa che metta in scena in modo esaustivo un genere musicale importante come lo smooth jazz. Questo progetto si prefigge lo scopo di delineare un ritratto completo ed approfondito di un gruppo di musicisti, compositori e arrangiatori tutti in qualche misura legati a Los Angeles. Il primo ed unico album di questo gruppo di all-star è stato pubblicato nell’ormai lontano 2008 e, come ha confermato lo stesso Richard, non sarà l'ultimo, ma per ora invece non vi è stato un seguito. Il sospetto più che giustificato è che i numerosi impegni di un numero così alto di stars sia motivo di grandi difficoltà nel trovare il modo di registrare nuovo materiale. Ad ogni modo possiamo comunque goderci gli eccellenti contenuti di L.A. Chillarmonic, in attesa di qualcosa di nuovo. L.A. Chillharmonic inizia con una sorta di manifesto smooth jazz della costa occidentale. La chitarra di Richard Smith è quella che conduce la melodia, gli altri musicisti offrono contributi sempre brillanti, commisurati alla loro fama ed al loro talento. Checkin' You Out è stato composto dal giovane chitarrista Travis Vega, che è una stella nascente nella scena chitarristica: si tratta di un groove perfetto per specialisti di prima classe come Smith. Un altro brano di Travis è Gift, vetrina per il magnifico tocco del bassista Brian Bromberg, dello stesso Richard Smith e con in più l’intervento canoro di Patrice Rushen e Toni Scruggs. La Rushen offre anche un eccellente supporto al piano. I brani di Smith sono indubbiamente attraenti: un esempio è Ultimate X. Certo la sua profonda conoscenza della musica lo aiuta, ma è indubbio anche il suo talento nell’eseguirla. E poi c’è di più e cioè la presenza di musicisti di prim'ordine, la costruzione di arrangiamenti perfetti e una sezione fiati di livello superiore, curata dalla leggenda dei Tower of Power, Greg Adams. La band offre una deliziosa interpretazione di Boogie On Reggae Woman di Stevie Wonder. Tratto dall'album Fulfillingness First Finale (1974) di Stevie ci regala un magico duo di sax in stato di grazia come Eric Marienthal e Michael Paulo. Molto interessante anche la struttura blues di Back In The Day: diventa il punto focale per una grande jam. Eccellente l'iniezione di basso di Brian Bromberg e magnifici gli ottoni di Greg Adams. L'elegante What We Do Here di Brian Mc Knight trova un'interpretazione solida e fluida sull’onda della scintillante chitarra di Richard. Il lento Being With You offre il sound giusto per un po' di relax: Richard lascia che a  parlare sia la sua chitarra. Patrice Rushen esegue un eccellente assolo di pianoforte. Agrigento è una città con un patrimonio archeologico straordinariamente ricco alla quale Richard dedica un brano, catturando magistralmente lo spirito di questa località sospesa tra storia ed età moderna. L'esplosione finale di questo ottimo album è Alvinator di Dan Siegel. Richard Smith si è aggregato alla band di Dan all'età di 19 anni e ha registrato tre album con questo famoso tastierista. Questo è un brano in cui tutti i membri della band possono brillare per dare vita ad una sorta di grande jam session. L.A. Chillarmonic in ultima analisi si può definire una fantastica concentrazione di energia musicale sprigionata in libertà dai migliori musicisti di jazz contemporaneo di Los Angeles. Non resta che aspettare per ascoltare quanto prima un nuovo capitolo del progetto.

Sonny Criss – Jazz U.S.A.


 Sonny Criss – Jazz U.S.A.

Le ormai remote sessioni di Sonny Criss della metà degli anni '50, registrate per l'etichetta Imperial, mettono in luce un sassofonista di grandissimo spessore e grande autorità. Meritano almeno la stessa attenzione dei suoi più noti album per la Prestige degli anni Sessanta. In particolare è impressionante il suo debutto discografico come solista, intitolato Jazz U.S.A, sul quale oltre al resto del materiale brillano più degli altri gli standard veloci. Ma chi è Sonny Criss ? Per chi non lo conoscesse,questo sassofonista misconosciuto e forse sottovalutato è nato a Memphis, Tennessee, nel 1927 e si è trasferito a Los Angeles all'età di quindici anni. Non è affatto improbabile che la scelta di questo virtuoso del bebop di soggiornare sulla costa occidentale invece che nella mecca del jazz, ovvero New York, abbia in parte ostacolato l'evoluzione della sua carriera. Criss, come altri suoi colleghi dell’epoca, non mancò di suonare con grande successo a Parigi ed in Europa ma fu molto attivo anche in patria. Nonostante ciò resta uno di quei sassofonisti che non raggiunsero mai veramente una grande notorietà. Intraprese la strada del bebop già a partire dal 1947, suonando con Howard McGhee, Wardell Gray e Charlie Parker, lo stile del quale influenzò moltissimo il giovane Sonny. Tuttavia la sonorità di Criss assunse presto dei connotati originali e pur mantenendo in sé l’eredità di Bird non tardò a diventare a sua volta distintiva, caratterizzata da un sound morbido e vellutato, certamente meno spigoloso di quello del be bop. Il tour intrapreso con Norman Granz sotto l’insegna “Jazz At The Philharmonic” garantì comunque a Criss un discreto riconoscimento, quanto meno nell'area californiana. Nel 1955, Sonny si unì infine al gruppo del batterista Buddy Rich. I tre album che Criss registrò per la Imperial nel 1956, Jazz U.S.A., Go Man! e Plays Cole Porter (dove negli ultimi due c’era anche Sonny Clark) sono album da considerare di prim’ordine. Tuttavia la collaborazione con la Imperial Records non fu un’esperienza fortunata dato che questa era un'etichetta principalmente r&b e country. Ovviamente, la promozione del jazz non era in cima alla loro lista di priorità. A livello discografico andò meglio con gli album registrati in seguito per Prestige alla fine degli anni Sessanta, che ci restituiscono un Sonny Criss alle prese con un robusto hard bop declinato attraverso gli immancabili standard, un po’ di blues e qualche cover dei successi pop del momento. Criss ha poi anche registrato un paio di interessanti album per la Muse e la Impulse a metà degli anni Settanta. Tragicamente, nel 1977, Sonny Criss si suicidò all'età di 50 anni, una decisione presa dopo aver saputo di essere gravemente ammalato di tumore. Come dicevo precedentemente, questo sfortunato sassofonista ha avuto  la bravura ed il talento di modellare il suo stile su quello di Charlie Parker, ma ha indiscutibilmente sviluppato una sua interpretazione personale del be bop. La voce strumentale di Criss possedeva un affascinante vibrato, in contrasto con il suono più secco ed essenziale di Bird. Come Parker, Criss è un virtuoso che non lascia che la sua abilità tecnica prevalga sui reali contenuti del suo jazz. In più, nel suo modo di suonare si riscontra una piacevole vena romantica che non scade mai nel melenso. Il suo fraseggio era preciso e potente, con una profonda vena di blues e uno smagliante senso del ritmo. Questo fa di lui un musicista molto interessante da scoprire e si rivela un ascolto molto spesso piacevolissimo. Un’altra caratteristica di Sonny Criss è quella di vivisezionare gli standard per poi ricostruirli a suo piacimento, con un’ingannevole facilità. Le sue linee melodiche sono incisive ed accattivanti e sono sviluppate attraverso un’articolazione molto sapiente delle partiture. Lo si evince dalla sua rielaborazione di un classico come Sweet Georgia Brown o  in Blue Friday di Kenny Dorham. Quella che si ascolta è una grande sensazione di swing, colorata dal suo agile fraseggio. Criss padroneggia le note con la finezza di un peso piuma e la leggerezza di una farfalla. Nel suo caso non è il vigore assoluto che affascina, bensì sono più le sue abbaglianti sequenze a lasciare  stupiti ed ammirati. Il gruppo che accompagna Sonny Criss in questo album  è assolutamente all'altezza. Troviamo dunque un pianista come Kenny Drew, sempre elegantemente composto, la raffinata chitarra di Barney Kessel e Bill Woodson al contrabbasso più Chuck Thompson alla batteria. La combinazione tra il sax di Criss e la chitarra di Barney Kessel è quella che ci conduce ai momenti salienti dell'album, come in Sunday, il già menzionato Sweet Georgia Brown e l’originale dello stesso sassofonista intitolato Criss-Cross. Sonny e Barney offrono un'impeccabile interpretazione di Alabamy Bound, eseguito tra l'altro, ad una velocità vertiginosa. L'assolo di Kessel è qui particolarmente preciso e vigoroso: un bebop-swing da manuale. West Coast Blues è una composizione di Sonny Criss (da non confondere con quella di Wes Montgomery) dai tratti originali pur partendo da un canovaccio blues. Il celebre standard These Foolish Things è un altro esempio della maestria di Sonny Criss nel cogliere il senso profondo del grande American Song Book. Il sax lo abbellisce sapientemente con le sue frasi tortuose, incantando con una miscela di abilità ed energia che non ha minimamente perso smalto dopo tutti questi anni. Jazz USA è un ottimo album che permette di apprezzare un maestro del sax che probabilmente avrebbe dovuto raccogliere maggior fortuna ed un successo più vasto di quello che, complice anche il destino, la vita gli ha riservato. Da ascoltare.

Roy Ayers – West Coast Vibes


 Roy Ayers – West Coast Vibes

Siamo abituati a conoscere Roy Ayers per la sua produzione musicale degli anni ’70 e ’80 che fu strettamente legata al jazz funk e che in seguito arrivò perfino alla disco, senza dubbio accarezzando nei fatti uno stile decisamente più commerciale. Tuttavia la formazione artistica del grande vibrafonista è indubbiamente di stampo jazzistico ed all’inizio della sua carriera (parliamo dei primi anni ’60) lo stile che caratterizzava Ayers era quello dell’hard bop. Lontano anni luce dai successi discografici che verranno negli anni ’80, il grande Roy, allora ventitreenne, si affacciava in quel periodo al mondo del jazz in modo già significativo, sulla scia dei grandi vibrafonisti storici che lo avevano preceduto. L’album di cui voglio parlarvi è la sua opera prima, si intitola West Coast Vibes e fu pubblicato nel 1963. Siamo quindi nei primissimi anni ’60 e Roy Ayers, mentre lavorava a Los Angeles come accompagnatore del pianista Jack Wilson, fece amicizia con il critico jazz nonchè produttore Leonard Feather. Da questo rapporto alla fine nacque il primo contratto discografico da solista del vibrafonista. Questa rara sessione di registrazioni di Ayers rimane, insieme al successivo Virgo Vibes, la più pura espressione musicale jazz della sua lunga carriera, senza traccia alcuna delle aperture commerciali presenti nei suoi lavori pubblicati più avanti per l’etichetta Polydor. Per gli ascoltatori più avvezzi alle sonorità jazz-funk di tempi più recenti come Coffy, He's Coming o Everybody Loves the Sunshine, i toni caldi e classici del vibrafono e del repertorio di Ayers suoneranno come una vera sorpresa. Per i più integralisti tra gli amanti del jazz invece, un album come West Coast Vibes risulterà una gradita rivelazione. Inutile aggiungere che per tutti coloro che apprezzano in modo specifico lo strumento vibrafono questo lavoro diventerà imprescindibile. Va sottolineato che, allora come oggi, l’approccio di Roy alle percussioni è assolutamente unico ed è molto interessante ascoltarlo mentre opera in contesti jazzistici convenzionali, non elettrificati e molto lontani da ogni genere di contaminazione. La band che accompagna Roy Ayers in questo album include il pianista Jack Wilson e Curtis Amy ai sassofoni tenore e soprano più alcuni altri validi musicisti dell’area californiana, su tutti il bassista Victor Gaskin e poi i batteristi Tony Bazley e Kenny Dennis. Erano musicisti non particolarmente famosi all’epoca ed il trascorrere del tempo non ha di fatto cambiato molto la loro fama o il loro successo personale, ad eccezione ovviamente del vibrafonista. Qui Ayers esplora il repertorio classico fatto di standard che era praticamente all'ordine del giorno di ogni jazzista nei primi anni '60 ma il programma prevede anche  alcuni brani originali. Ad esempio se mettiamo a confronto l’interpretazione di "Reggie Of Chester" di Benny Golson che troviamo su West Coast Vibes e quella di Lee Morgan di pochi anni prima non troveremo grandi differenze di approccio: le linee suonate da Roy Ayers, che per un vibrafono potrebbero non essere le più semplici da eseguire, si rivelano invece brillanti, al livello di quelle del grande trombettista. L'originale di Ayers "Ricardo's Dilemma" è curiosamente simile, più nello spirito che nella sostanza, al tema del film "La strana coppia" di Neil Hefti che è però del 1968.  Qui va sottolineata la performance al sax soprano di Curtis Amy, davvero notevole e apprezzabile anche per la sua morbida sonorità, che ricorda quella di un grande come Sonny Criss. La presenza di alcuni musicisti piuttosto sconosciuti  ma anche, purtroppo, sottovalutati è un po’ il tratto distintivo di questo album, confermata dalla partecipazione del sassofonista e cantante Vi Redd così come da quella del trombettista Carmell Jones. Ma tornando a Roy Ayers troviamo qui un vibrafonista dalle grandi doti tecniche, forse non ancora affrancato dall’eredità del passato, ma certamente già in evidenza per originalità e groove. Il seguito a questo album, intitolato Virgo Vibes, arriverà a distanza di 4 anni, nel 1967, e vedrà un Roy Ayers nuovamente impegnato con un puro repertorio jazzistico e contenuti probabilmente anche più maturi e consapevoli. L’excursus nel jazz classico da parte di questo vibrafonista sarà concluso solo un anno dopo, dall’album Stoned Soul Picnic che resta di fatto una transizione verso il soul jazz: una strada poi intrapresa con decisione e perseveranza e che sfocerà per Roy Ayers nell’abbraccio definitivo di un genere ancora più elettrico quale il jazz funk. Ciò che Ayers proporrà negli anni ’70 è cosa nota e gli garantirà una grande popolarità, ferma restando la sua proverbiale abilità tecnica ed il suo innato talento sia come vibrafonista che come compositore. West Coast Vibes è quindi una delle poche testimonianze disponibili di un musicista impegnato nel jazz, particolarmente apprezzabile proprio perché è ancora lontano dalla sua svolta elettrica e funk. E’ inoltre un'ulteriore prova del fatto che nel jazz della West Coast del suo periodo di massimo splendore c'era molta più sostanza e qualità di quanto gli stereotipi vogliano attribuirgli, specie quando viene accostato allo stile della Costa Est.

The Brit Funk Association – Lifted


 The Brit Funk Association – Lifted

Se il nome di una band può, a volte, indicare quale potrebbe essere lo stile che ci si deve aspettare, nel caso di questo gruppo, o sarebbe meglio dire collettivo di musicisti, la dichiarazione d’intenti risulta chiarissima fin da subito. Il funk, ma anche il soul con una spiccata connotazione jazz sono i tratti caratteristici e distintivi dei Brit Funk Association. Ma chi sono quindi costoro ? Un nuovo gruppo ? beh, diciamo di sì anche se tra i membri della formazione figurano numerosi veterani del funk soul inglese con alle spalle una trentennale carriera. Spulciando tra i nomi dei musicisti troviamo che questi funksters sono stati membri di band importanti negli anni ’80 come i Beggar and Co, gli Hi Tension, i Central Line e i Light of the World. Ovvero i gruppi che hanno tenuto alto il nome del funk britannico anche durante l’esplosione della new wave e del brit-pop. Di fatto non sono nemmeno al primo disco, dato che era il 2018 quando la Brit Funk Association pubblicò il bell’album di debutto intitolato "Full Circle". La storia è più o meno questa: i musicisti erano stati riuniti dall'imprenditore soul Fitzroy Facey per suonare ad un concerto allo scopo di promuovere la sua rivista Soul Survivors. E’ da lì che le cose sono semplicemente decollate. La prima conseguenza fu una serie di esibizioni nei locali top di Londra e del Regno Unito, la seconda e più importante fu l’uscita dell'album "Full Circle". Il disco fu accolto molto bene dalla critica e dal pubblico ma a causa dei numerosi impegni di tutti i componenti della band, ci sono voluti due anni prima che BFA riuscisse a produrre un seguito. Bene, nonostante il lockdown, l'attesa è finita e credetemi se vi dico che ne è valsa la pena. All’ascolto la nuova collezione di brani del collettivo,  intitolata "Lifted", suona subito migliore del pur valido debutto e, cosa molto importante in questi tempi oscuri e imprevedibili, offre una carica di ottimismo, di allegria e di speranza in dosi generose. L'attuale formazione della band si basa su un nucleo fisso formato da Kenny Wellington (tromba), Breeze McKrieth (chitarra), Paul McLean (chitarra), Patrick McLean (sax), Peter Hinds (tastiere), Paul Phillips (chitarra / voce) e Jeff Guishard (percussioni / voce). Gente che ha collaborato con Beggar & Co, Incognito, Light of the World e Hi Tension. In più a supporto ci sono musicisti come David Baptiste, Rolando Domingo, Harry Brown, Billy Osborne, Ernie McKone, Jerome Harper. Aggiungete ancora Patrick Clahar, Kevin Robinson e Frank Felix e avrete una ricchezza di influenze e sonorità che sono perfette per creare un suono esaltante e coinvolgente. Il tenore ottimistico dell’album è evidente fin dall'inizio con la bella 'Summer', uno strumentale jazz-funk che ricorda (non per caso) il primo album degli Incognito.  La ricetta comprende delle formidabili rasoiate di chitarra alla Bluey, accattivanti riff di fiati, basso pulsante e synth vintage. Un canovaccio seguito anche per molti altri brani. La title track "Lifted Up" ne è un ulteriore ed ottimo esempio: come da titolo è davvero una musica che solleva lo spirito. Tutto il disco è accattivante e spesso molto orecchiabile. La splendida "Smilin" vi farà sorridere, alla maniera dei Blackbyrds, e se volete potrete anche ballarci sopra. I 13 brani offrono un’alternanza di momenti leggeri e disinvoltamente cantabili ma pur sempre sofisticati ad altri elementi più ruvidi e funky come "Step On Board", "This Is What We Do" o "Raw Funk". La traccia che, forse, riassume al meglio il disegno musicale di questo collettivo è "BFA" (ovviamente), il cui sottotitolo è "Brighter Day".  In ultima analisi qui si possono ritrovare sintetizzati in 4 minuti tutti i contenuti di un bellissimo album. "Lifted” dà l’opportunità di ascoltare una varietà di sapori persi nella memoria dei tempi d’oro del funk, ormai lontani: i suoni degli EWF, dei Blackbyrds, dei primi Kool and the Gang, o ancora  di Donald Byrd, dei Mizell Brothers e molti altri. E naturalmente non vanno dimenticate tutte quelle grandi band del Brit Funk dalle cui formazioni originali si è di fatto costituita questa moderna band. BFA ha concepito un album interessante, solido, piacevole e ricco di sfaccettature, capace di correre sul filo dei ricordi e del vintage sound rilanciandolo verso le sonorità dei nostri giorni. The Brit Funk Association ed il loro Lifted sono dunque una delle più belle sorprese del 2020, dominato da eventi nefasti: un motivo valido per ascoltare ancora della buona musica e riuscire ad avere una sana dose di ottimismo nel futuro, nonostante tutto.

Michael “Amandus” Quast – Sing A Song


 Michael “Amandus” Quast – Sing A Song

Oggi parlerò di un musicista che credo risulterà sconosciuto alla maggior parte dei lettori ma che merita indubbiamente un ascolto. Ma le nuove scoperte sono sempre gradite, soprattutto quando riserbano dei contenuti di ottimo livello. E allora conosciamo meglio questo pianista e compositore tedesco che si chiama Michael Amandus Quast ed ha iniziato la sua carriera come musicista professionista intorno al 2000. Quindi può vantare 20 anni di attività. Come session man è stato in tournée con Paul Young per diversi anni. Ha sempre avuto un’intensa attività nella sua madre patria ma ha anche suonato le tastiere per artisti quali Nik Kershaw, Johnny Logan e Midge Ure. Finalmente nel 2018 ha iniziato a dare corpo al suo progetto di un album da solista orientato ad un moderno smooth jazz. E’ curioso il fatto che abbia scelto il suo secondo nome come pseudomino, Amandus ovvero colui che vuole essere amato in latino. La scelta dei musicisti deputati all’accompagnamento del suo album d’esordio sono stati selezionati con cura e alcuni di loro sono nomi molto noti in Germania. La band è così composta: David Anlauff (batteria), Philipp Rehm (basso), Uli Brodersen (chitarra), Ray Mahumane (chitarra), Søren Jordan (chitarra), Arno Haas (sax alto e soprano), Angela Frontera (percussioni), Helena Paul e Jimi Carrow (voce). Lui, il bravo Amandus, suona il pianoforte le tastiere, il piano elettrico e si occupa della programmazione. C’è anche una bella sezione fiati che è composta da Christian Ehringer, Igor Rudytskyy (tromba), Thomas Sauter (trombone) e Michael Steiner (sax tenore e baritono). Da notare che tutti i brani sono scritti dallo stesso Michael Quast, che dimostra così di non avere solo un gran talento come strumentista ma di essere anche piuttosto creativo. Il titolo dell'album “Sing A Song suona vagamente ironico dato che con un'unica eccezione questo è un lavoro totalmente strumentale, come si conviene nella maggior parte delle produzioni di smooth jazz contemporaneo. L’impatto con la musica di Amandus è subito positivo: The Mice Song è una piacevole sorpresa fin dalle prime battute. Il primo assolo di pianoforte è perfetto per fluidità e sintesi, ed i riff di chitarra funky che incontrano il basso groovy  di un ritmo accattivante è completato da un sofisticato arrangiamento di fiati. Enjoy è quasi un invito al divertimento: il risultato inevitabile di questa cavalcata sonora è qualcosa di estremamente piacevole che ricorda in qualche misura la musica del mitico gruppo inglese Shakatak. Si va avanti con un altro numero ad effetto, Sunday School, ed anche questo è orecchiabile e brillante, con il suo bel ritmo incalzante caratterizzato dal trascinante basso synth. Il tutto è completato da un irresistibile organo vintage, dal pianoforte venato di jazz ed un meraviglioso sassofono suonato da Arno Haas. More Like This ci porta dentro atmosfere più rilassate e Quast le interpreta con disinvoltura, ma senza banalità ed il lavoro al pianoforte è senza dubbio dei migliori. L’unico brano cantato è ovviamente proprio Sing A Song, che presenta la vocalist britannica Helena Paul. Anche in questo caso la combinazione di voce e pianoforte suggerisce ancora una volta dei parallelismi con lo stile degli Shakatak. Una connotazione che per il mio gusto è tutt’altro che negativa: evidentemente anche Michael Quast nutre una grande ammirazione per Bill Sharpe. Driving Decompression ha un giro di basso intrigante, un po’ sullo stile della canzone Mama Used To Say, ma qui c’è un formidabile pianoforte che Amandus suona in modo davvero entusiasmante. Parlando di fonti d’ispirazione, Hey Man è sicuramente influenzata dalla musica e dallo stile tastieristico di un grande come Jeff Lorber: Amandus è comunque straordinario nel suo assolo, così come la band che lo accompagna. Quasi un manifesto del moderno smooth jazz è la seguente One Day for a Lifetime che mette in evidenza ancor di più lo stile pianistico di Michael, sempre lucido e così pieno di feeling e groove da rimandare ad un gigante come Bob James. Il brano è poi arricchito da un magnifico assolo di Arno Haas. Per gli amanti del piano elettrico arriva quindi Rhodesbeef: una stupenda cavalcata musicale in stile funk jazz con Philipp Rehm al basso e Amandus al Rhodes ed al Clavinet sugli scudi ad animare un “trip” di pura libidine groove. Il brano finale è intitolato Shacky, un’altra sorta di iconico paradigma dello smooth jazz che chiude l’album mettendo in evidenza una volta di più la perfetta armonia musicale tra Michael Quast e i suoi validissimi collaboratori. Sing A Song di Amandus è una produzione di jazz contemporaneo complessivamente molto solida e piacevole che dà allo spiccato talento del pianista tedesco l'opportunità di brillare fin dall’esordio di luce propria. Con i suoi 10 corposi brani Michael Quast mette in mostra immediatamente che i tasselli del suo mosaico musicale sono esattamente dove devono stare. E’ la giusta direzione per un futuro che, viste le premesse si annuncia radioso. Amandus è un musicista da seguire con attenzione. It's only smooth jazz, but i like it.

The Jazz Defenders - Scheming


 The Jazz Defenders - Scheming

La Haggis Records, etichetta creata dal gruppo funk The Haggis Horns, non si limita più solo a produrre e pubblicare i lavori della band scozzese, ma è in continua espansione e nel suo processo di crescita ha accolto recentemente in scuderia un giovane quintetto di Bristol denominato The Jazz Defenders. Il nome stesso della band in questione è già una dichiarazione d’intenti molto precisa ed ovviamente allude al genere di musica che rappresenta la loro linea guida. I Jazz Defenders sono stati creati nel 2015 dal pianista e compositore George Cooper  che, sebbene sia ancora relativamente giovane, è ben noto come session man di valore ed in carriera ha già lavorato con molti artisti di fama. È anche noto che il suo interesse primario è orientato verso le registrazioni jazz della Blue Note degli anni '50 e '60. Questo album del suo neonato gruppo testimonia proprio il suo rispetto e la sua passione per quello specifico stile musicale. Le belle tracce di questo album non sono solo la pedissequa riproposizione del sound dei grandi del passato come Horace Silver e Art Blakey, ma riflettono anche il talento e la creatività moderna ed attuale di Cooper e dei suoi colleghi collaboratori coinvolti nel progetto. Per questa stimolante avventura nel jazz il bravo pianista ha chiamato Nick Dover (sassofono tenore), Nick Malcolm (tromba), Ian Matthews (batteria) e Will Harris (basso): un combo di grande qualità e dotato di un’innata dinamicità. E’ subito chiaro come i Jazz Defenders prendano spunto dal classico sound hard bop e soul-jazz dell’epoca d’oro delle grandi etichette del passato come la Prestige e la Blue Note. Tuttavia partendo da questa stella polare come riferimento, questi musicisti compiono un loro personale percorso nel jazz contemporaneo, affrancandosi con coraggio e determinazione dalle loro fonti d’ispirazione per cercare una strada che sia attuale e non scontata. Dopo essersi fatti le ossa suonando dal vivo in tutti i locali fondamentali per il jazz a Londra, come i mitici Ronnie Scott’s, The Jazz Cafe e The 606 Club, i Jazz Defenders hanno dunque deciso di registrare finalmente il loro album di debutto, intitolato Scheming e composto da 10 brani originali, uscito sul finire del 2019. Gli strumentali dell’album si caratterizzano anche per il tono disincantato che la band imprime ad ogni traccia, senza al contempo perdere di vista la qualità e l'impegno. Con un gagliardo supporto ritmico alle spalle, tromba, sax e pianoforte (o a volte perfino il piano Wurlitzer o l’organo Hammond) esplorano liberamente direzioni interessanti, lasciando un ampio spazio agli assoli pur mantenendo sempre una mirabile coesione di fondo. Sin dall’apertura dell’album, con il brano Top Down Tourism si assiste ad un vivace scambio di battute tra fiati e piano, delineando così una cifra stilistica che se da un lato strizza l’occhio all’ascoltatore, dall’altro è sorretta da un’esecuzione impeccabile e da una evidente sintonia tra i membri della band. Il divertimento e la bravura di questi musicisti inglesi è chiaramente palpabile sia nei momenti più squisitamente swing come in Everybody’s Got Something sia nelle divagazioni di stampo latin jazz come She’ll Come Round e Costa Del Lol (che già dal titolo dà un indizio importante sul fatto che il gruppo non si prende troppo sul serio). Tra gli altri brani, tutti indistintamente accattivanti, spiccano anche la titletrack Scheming che è un boogaloo soul anni ‘60 con l’organo Hammond assoluto protagonista e la più intima e delicata Rosie Karima. Da non dimenticare anche il notevole groove jazz-funk di Late, che ci riporta ad atmosfere anni ’70 alla Herbie Hancock. Ma va detto che questo è uno di quegli album che si può ascoltare tutto d’un fiato, dall’inizio alla fine. Tutti i musicisti dimostrano un alto grado di competenza e suonano il loro pregevole materiale  originale con  il giusto spirito ed una grande sensibilità, dando luogo ad una riuscita reinterpretazione del soul-jazz degli anni ‘60. Consigliato.