Earth, Wind & Fire - That's The Way of The World


Earth, Wind & Fire - That's The Way of The World

Gli Earth, Wind & Fire: i granitici, eterni, poliedrici E.W.&F. Sono stati (e sono) uno dei gruppi musicali più acclamati da parte dei critici e più amati dal pubblico sia negli anni '70 che nei decenni a seguire, fino ai giorni nostri. Questo favoloso collettivo musicale fu concepito dal batterista, band leader, compositore, e occasionalmente anche vocalist Maurice White. La visione musicale di EWF ha nel funk la sua base, ma incorpora anche jazz, soul, gospel, pop, rock, psichedelia, blues, folk , musica africana, e, in ultimo anche la disco. Insomma un caleidoscopio musicale in grado di attraversare gli stili e le tendenze nel quale gli EWF sono riusciti a sintetizzare un linguaggio unico e originale, mai eguagliato da nessun altro. Il cantante Philip Bailey ha dato al gruppo una dimensione in più con il suo talento nelle ballate oltre che per la sua bravura anche nei brani funk. Questa è una band in grado di suonare qualsiasi cosa: dal soul in stile Motown, al groove bollente e ruvido alla James Brown e perfino improvvisare in ambito jazz-fusion. I loro spettacoli sono sempre stati elaborati e dinamici, diventando nel tempo via via più sofisticati. Espressione di una versatilità e di un eclettismo senza pari, gli EWF erano portatori di un concetto più ampio della sola musica, un’idea pervasa da un alone di spiritualità cosmica e da una sorta di positività mistica in grado di emozionare profondamente l’ascoltatore. In una sconfinata discografia, che inizia nel 1971 ed è ancora in evoluzione, non è davvero cosa facile selezionare un album di cui parlare, tuttavia se si deve fare una scelta, credo che sia giusto occuparsi di quello che potrebbe essere il capolavoro assoluto degli Earth Wind And Fire: "That's The Way of The World". Pubblicato nel 1975 fu il sesto album del gruppo. Bellissimo, energetico, professionale, sincero, elegante. Questi sono alcuni aggettivi che possono descrivere That's The Way of The World. Non è certo un azzardo definire questo lavoro come uno dei punti più alti della produzione funk / soul / R & B degli anni '70 ed è di fatto un compendio di tutto ciò per cui la band è conosciuta. Qualità ed equilibrio senza compromessi. La chiave per apprezzare l'album sta nel vedere questo  lavoro come un riassunto sintetico della carriera degli EWF. La produzione è nella tradizione del loro materiale degli anni ’70:  come al solito è ricca e variopinta, ma di certo questo è un album dove nel gruppo è palpabile  l’esperienza che consente agli Earth Wind And Fire di proporre del materiale lucido, sebbene si sia ancora lontani dalle tendenze soul disco che verranno al termine del decennio. La band è concentrata sulle composizioni, che rappresentano la vera forza motrice del gruppo sin dalla sua nascita, e in effetti la qualità delle canzoni è elevatissima. Dal sapiente uso della sezioni fiati alle gagliarde soluzioni ritmiche per finire con le splendide armonie vocali, ogni aspetto del song writing è curato alla perfezione. Un cantante come Philip Bailey si dimostra all’altezza del compito in ogni situazione, dando così una marcia in più al gruppo che peraltro si distingue anche nelle parti strumentali. L’apertura dell’album è affidata a “Shining Star” il cui riff iniziale di chitarra è di per se già un classico che è in grado di colpire da subito l’ascoltatore. “That’s The Way Of The World” e “Reasons”  offrono delle magnifiche armonie guidate dal piano elettrico a far da sostegno alle melodie orecchiabili e immortali di questi che sono due dei brani più famosi degli EWF. Ballate in grado di emozionare senza risultare mai melense o eccessivamente edulcorate. E come sempre anche la sezione fiati è un vero piacere da ascoltare: melodica e discreta sui pezzi più tranquilli, ma assolutamente vigorosa e potente sulle canzoni più veloci ed aggressive. Ad esempio “Yearnin 'Learnin'” vede i fiati innestarsi alla perfezione in un crescendo entusiasmante che regala un quid in più ad una canzone già vivace. “Happy Feelin’” propone il basso di Verdine White in evidenza, un bel cantato carico di soul impreziosito dagli intrecci vocali e da una chitarra che si fa sentire più del solito. Gli Earth Wind And Fire si resero conto proprio con questo album epocale che non dovevano più separare la sperimentazione dalla canzone nella sua forma tradizionale. Ma ad ogni modo uno stupendo strumentale come “Africano” è la dimostrazione che la band può esprimersi ugualmente bene sia che si tratti di una canzone, sia che il brano sia un complesso pezzo di funk jazz. Da questa sintesi tra l’anima jazzistica e quella più melodica nasce un brano vincente come quello che chiude l’album: “See The Light” dispone di una sezione ritmica che si muove su sentieri non ortodossi, spettacolari interventi di Moog, di sassofono e di kalimba, tutto legato da una parte vocale armonicamente incantata, in cui cori e solisti si intrecciano per creare la vera magia. In conclusione si può ritenere, senza sbagliare di molto, che That’s The Way Of The World  sia la quintessenza degli Earth, Wind & Fire. Un disco pieno di idee musicali, che riunisce tutte le peculiarità del gruppo in un pugno di canzoni straordinarie. Questo in fondo è sempre stato il punto di forza di questo mitico gruppo: scrivere bellissima musica. Non tutto quello che hanno prodotto negli anni ha funzionato, ma quando si sono espressi al loro meglio, gli Earth Wind And Fire hanno saputo confezionare davvero dei grandissimi album da consegnare al futuro, proprio come That’s The Way Of The World.

Kool & the Gang - Spirit of the Boogie


Kool & the Gang - Spirit of the Boogie

I Kool And The Gang sono uno dei gruppi più famosi e popolari tra quelli che ho trattato fino ad ora. Hanno al loro attivo moltissime hit internazionali e altrettanti album. Molto meno nota al grande pubblico è invece la storia dei loro primi anni di attività. Formatasi come una band di jazz a metà degli anni '60, i Kool & the Gang si sono via via trasformati diventando negli anni ’70  una delle più intriganti ed influenti realtà del funk. Abbandonata quasi completamente anche la fase funky-soul, ecco che negli anni ’80 sono approdati ad una disco-R&B a forte tinte pop che li ha resi una delle band più gettonate, in particolare dopo il loro successo intitolato "Celebration". Allo stesso modo di altri artisti funky come James Brown o i Parliament, i Kool & the Gang hanno a lungo basato la loro musica sulla loro cultura di estrazione jazzistica e sulla consolidata amicizia tra i membri per dare vita ad un collettivo dove l’improvvisazione e l’interazione tra i musicisti fosse al centro del progetto, con in più l’iniezione dettata dall’energia e dalla leggerezza del soul, dell’R & B e, naturalmente, del funk. Parlando dei Kool & the Gang dei primi anni '70, James Brown ebbe a dire: "Sono i secondi più cattivi (il primo era lui, ovvio…) là fuori ... Fanno dei dischi così forti che dovrete fare attenzione quando suonate un loro pezzo... il loro groove è così intenso che potrebbe rovinarvi". Una frase bizzarra detta alla maniera del padrino del soul che però in realtà dice molto rispetto al valore di questo storico gruppo. I Kool & the Gang erano i re del funk nel 1975, e “Spirit of the Boogie” è stato il miglior album che loro abbiano mai registrato. Il culmine del loro processo di sviluppo e maturazione e l’apice della loro evoluzione musicale. Questo è il disco che ha permesso al gruppo di raggiungere per la prima volta la top-five nelle classifiche, ma Spirit of the Boogie è stato prima di tutto un capolavoro di funky music, e forse nascondeva dentro di se anche qualcosa in più. Ed infatti a partire dalla bellissima copertina che riprende mirabilmente l’arte pittorica africana, per finire con la purezza spirituale e musicale di molte delle sue canzoni, questo album non solo appare legato strettamente alla loro tradizione ma dimostra anche una forte consapevolezza del proprio ruolo nella storia della musica. Spirit Of The Boogie avvicina in qualche misura il suono dei Kool And The Gang a quello che li portò in seguito alla grande ribalta internazionale e può essere classificato in ultima analisi come un’opera di disco-funk, dove tuttavia non mancano le complesse trame “quasi jazz” a cui in precedenza ci avevano abituato. L’apertura commerciale è palpabile in questo peraltro sofisticato crossover e probabilmente la formula che ne esce è l’ultima espressione davvero degna di attenzione nella discografia dei Kool. Gli otto brani sono un vero inno al funk più genuino: ritmica martellante, linee di basso incalzanti, fiati potenti (e onnipresenti) ed infine cori e voci declinati nelle più classiche delle interpretazioni. Per gli amanti del genere e per i cultori della musica vintage è una vera chicca imperdibile. D’altra parte non è difficile entusiasmarsi di fronte a pezzi come “Ancestral Ceremony” che richiama i primissimi momenti della band o alla bellissima “Jungle Jazz” animata da un fuoco funky irresistibile condito dallo spirito delle jam session così caro al lato più jazzato dei musicisti dei Kool and The Gang. La title track è la quintessenza di questo collettivo: un groove dal sapore intensamente black che ha tutte le dinamiche adatte a farne quell’hit che scalò le classifiche del 1975. Insieme alla successiva “Ride The Rhythm” questi sono brani che invitano al movimento ed al ballo, con positività e intelligenza, senza rinunciare alla qualità. Eccezionale anche la trascinante “Mother Earth” nella quale i punti di contatto con gli Earth Wind And Fire diventano evidenti e dove, ad una parte cantata gradevolmente orecchiabile, fa da contraltare un sofisticato arrangiamento con il jazz sullo sfondo ed il groove sugli scudi. “Caribbean Festival” si dipana su oltre sette minuti di un’autentica festa latina, riletta in chiave funk  e carica di percussioni, di fiati e di un giro di basso ossessivo sui quali si innestano i jazzati assoli di tromba, sax e trombone. Il funk cosmico tipico dell’epoca è ben rappresentato dalla stupenda “Winter Sadness”: una rilettura del classico “Summer Madness” che i Kool avevano inserito in un precedente album e che anche in questa versione suona intrigante e misteriosa grazie alla presenza del piano elettrico e del synth, qui per una volta in primissimo piano. Spirit Of The Boogie è complessivamente un album superlativo. E con un groove così forte è facile perdonare anche un momento di debolezza come "Sunshine And Love"  nella quale prevale il lato romantico e svenevole dei Kool & the Gang, che poi sarà il loro marchio di fabbrica nel futuro. Ma bisogna soffermarsi a valutare il contesto storico e sottolineare quanto loro fossero un eccezionale gruppo funk in quel periodo, giusto prima di convertirsi, forse inevitabilmente al sound commerciale delle discoteche. Questo è un disco di grande valore che non può mancare nelle collezioni di tutti gli appassionati.

The Pharaohs - Awakening


The Pharaohs - Awakening

The Pharaohs sono uno dei tesori perduti della musica black degli anni '70, un gruppo di musicisti appartenenti alla comunità artistica di quel periodo che furono fortemente influenzati dal jazz d'avanguardia di Chicago ma anche e soprattutto dal funk e dalla musica africana. The Pharaohs vissero il loro breve momento quasi parallelamente ai mitici Earth, Wind and Fire, andandone in seguito a costituire l’ossatura principale e dettandone i prodromi fondamentali con il loro linguaggio musicale che può essere considerato molto vicino a quello della famosa band dei tanti successi internazionali. Non a caso nella formazione originale di questo collettivo c’era il batterista Maurice White, fondatore degli EWF, il quale subito dopo la registrazione del primo (e unico) album Awakening, ingaggiò i membri più importanti dei Pharaohs che divennero così i Phenix Horns, la giustamente celebrata sezione fiati degli Earth Wind & Fire. La storia dice che The Pharaohs nacquero per iniziativa del trombonista Louis Satterfield, del trombettista Charles Handy, e del sassofonista Don Myrick. Il materiale musicale contenuto in questo album è di un livello paragonabile a quello proposto in seguito dagli stessi E.W.&F. In effetti questa eccellente fusione di funk e jazz è uno dei migliori esempi del genere, ma non deve essere confuso con lo stile degli HeadHunters di Hancock o con il Miles Davis elettrico di On The Corner. The Pharaohs sono infatti probabilmente più vicini ad un genere funk rock con una forte connotazione fiatistica rispetto ad altre correnti più direttamente coinvolte nel jazz. Suonano come una versione etnico africana dei Chicago o magari alla stregua del materiale degli inizi dei Kool & The Gang. Il richiamo ad una misconosciuta band chiamata “Mombasa” è altrettanto pertinente, dato che il sound non appare molto lontano da questa. Con a disposizione una formazione che annoverava fino a otto fiati e cinque percussionisti si può facilmente intuire quanto la loro musica potesse essere colorata e potente, ritmicamente complessa e particolarmente trascinante. Da quest’orgia di pulsanti percussioni, da un basso molto funky e dai fiati di stampo jazzistico molto coinvolgenti scaturiva una musica energetica ed evocativa con un fortissimo impatto ritmico e con una struttura melodica estremamente intricata. Awakening inizia con un breve brano funky intitolato “Black Enuff” che già riassume i contenuti del resto dell’album: sax, trombe e tromboni dettano l’atmosfera su un ritmo fin da subito fortemente influenzato dall’Africa. Il secondo pezzo è il punto forte di questo disco con i suoi otto minuti di afro-jazz chiamato “Damballa”. Un’eccezionale mix di assoli distribuiti tra sax, tromba e trombone intervallati da alcuni brevi interventi di canto tribale su un tappeto ritmico percussivo dal grande impatto emotivo, in contrasto con i temi portati dai fiati che suonano viceversa intrisi di jazz. “Freedom Road” resta in territorio funky soul facendo intravvedere tutta l’estetica propria degli Earth Wind And Fire dei primissimi album. Non meno impressionante è “Lbo”, un numero quasi esclusivamente riservato alle percussioni dal quale traspare una evidente predilezione per le atmosfere africane. “Somebody’s Been Sleeping” va a pescare nella tradizione del blues innestandovi molte delle influenze rock psichedeliche tipiche dell’epoca e che furono uno dei punti di forza anche dei primi Chicago. C’è spazio anche per il rhythm and blues di “Tracks Of My Tears” che è una ballata più romantica del resto del repertorio dei Pharaohs che in qualche misura li avvicina al Motown style ed ai futuri Commodores. La canzone è un pò fuori dal contesto dell'album, ma comunque è intensamente soul e ben eseguita. Straordinaria infine “Great House” che con i suoi tredici minuti e passa è l’altra vera gemma di Awakening: si tratta di un solidissimo groove funky prevalentemente strumentale che mette in mostra una superba interazione tra tutti i musicisti, con un sound che raccoglie ed amplifica i canoni tipici dell’acid jazz. Psichedelico, jazzato, funky e afro quanto basta è il classico pezzo che strabilierà gli appassionati della musica nera degli inizi degli anni ’70. Da un punto di vista estetico e di linguaggio musicale il debutto dei The Pharaohs non si discosta molto da quelli degli stessi  EW&F o dei Kool & The Gang, collocandosi in una terra di mezzo che sfiora anche le atmosfere dei primi Funkadelic, ma con un tocco di cultura africana in più. (cosa normale se si pensa che ci sono almeno cinque musicisti africani nel gruppo). Certamente suonerà di primo acchito fin troppo ruvido e diretto, privo di orpelli e con arrangiamenti piuttosto asciutti, ma in realtà, Awakening non ha nulla da invidiare ai più famosi e blasonati dischi dell’epoca. The Pharaohs rappresentano a tutti gli effetti  una testimonianza molto interessante, anche se purtroppo dimenticata, del fermento creativo che percorreva la musica black a cavallo tra la fine degli anni ’60 e gli inizi degli anni ’70. Interessante.

Jeff Berlin – Lumpy Jazz


Jeff Berlin – Lumpy Jazz

Jeff Berlin è un’altra delle grandi leggende del basso elettrico. In altre parole, è esattamente uno di quei musicisti che godono fama di essere tra i più bravi al mondo. Non sorprende il fatto che Berlin sia un pioniere della tecnica del basso slap sin da quando, nel 1979, ha introdotto questo stile percussivo e fortemente ritmico per il secondo album di Bill Bruford "One of a Kind". Come se non bastasse l’introduzione di un metodo rivoluzionario nella tecnica del basso elettrico, Jeff ha fatto da battistrada anche per un’altra metodologia singolare e originalissima sullo strumento: quella del tapping a due mani. Un esempio di questo stile è il brano Motherlode sul suo album d’esordio come solista intitolato "Champion”, pubblicato nel 1985. La singolarità di questo musicista è anche da ricercare nel fatto che quando altri bassisti hanno cominciato ad utilizzare le stesse tecniche, Berlin le ha abbandonate. Va detto inoltre che Jeff Berlin è un musicista flessibile ed estremamente versatile, certamente uno dei talenti più cristallini che siano emersi dopo la metà degli anni ’70 nell’ambito del movimento fusion. Le sue collaborazioni artistiche lo videro al fianco di molte personalità di spicco di quella corrente che tendeva a fondere mirabilmente il jazz con altri moderni linguaggi come il funk od il rock:  Pat Martino, Gil Evans, Toots Thielemans, Al DiMeola, George Benson, Earl Klugh, Larry Coryell, Bob James, Dave Liebman, Herbie Mann, Ray Barretto, The Brecker Brothers, Allan Holdsworth e Bill Bruford sono tra questi. Jaco Pastorius considerava Berlin un solista migliore di lui mentre Marcus Miller ha affermato che avrebbe voluto essere un Jeff Berlin nero: questo la dice lunga sulla bravura di questo newyorkese classe 1953. Lumpy Jazz è un album del 2006, il sesto in veste di solista da parte del formidabile bassista. Inutile sottolineare che bisogna amare veramente il basso per godere pienamente della musica contenuta in questo lavoro di Jeff Berlin. Gli assoli abbondano in ogni singolo brano e il suo basso elettrico è onnipresente nel mix musicale di Lumpy Jazz, a cominciare dal primo pezzo “Brooklyn Uncompromised” eseguito praticamente in perfetta solitudine, con il solo accompagnamento delle spazzole della batteria. Una sorta di dichiarazione programmatica di tutto il lavoro. Però è sufficiente attendere il secondo brano per vedere il mondo di Berlin con un’ottica completamente diversa. “My Happy Kids” è un veloce e bellissimo pezzo di jazz in grado di soddisfare ogni appassionato. Oltre ad offrire una distribuzione più equa delle parti dei singoli strumenti, dimostra quanto Jeff sia in grado di adattarsi ad ogni situazione e possa interagire magicamente con qualsiasi controparte. “Lien On Me” è un vero piacere per le orecchie perché è una splendida ed orecchiabile composizione che mette in evidenza delle linee di basso di una fluidità straordinaria e una lucidità nella diteggiatura sulle quattro corde che ha letteralmente dell’incredibile. Chi non conosce Jeff Berlin resterà a bocca aperta sentendo ciò di cui è capace.  La sua presenza è evidente anche quando è il bravissimo tastierista Richard Drexler a prendersi i riflettori, e resta solo apparentemente in sottofondo anche in "Toot’s Suite", un malinconico brano che è arricchito dalla presenza di un ospite d’onore come l’immortale armonicista Toots Thielmans. L’hard bop più funambolico e tecnico è la caratteristica di “Everyone Gets Old (If They Have The Time)”, un numero che non fa altro che confermare il talento straordinario di Jeff Berlin, ben supportato dalla sua band. Tra i bassisti della stessa generazione di Pastorius, Jeff è quello meno influenzato dalla musica soul o dal funk mentre ha una evidente predisposizione sia per il jazz che per alcune contaminazioni progressive. Lumpy Jazz è il classico album in grado di dimostrare che il basso elettrico può di fatto essere lo strumento solista dominante e non solamente il contorno di registrazioni incentrate sugli strumenti più convenzionali. Nelle mani di Jeff il basso si sgancia felicemente del suo legame imprescindibile con l’estremità inferiore dello spettro acustico per assurgere ad un ruolo solistico dai toni assolutamente naturali ed organici. Lumpy Jazz è un disco dal quale trapela la pura gioia di suonare, basato sulla scrittura intelligente, complessa e lirica di Berlin che, pur rifacendosi a sonorità contemporanee e ponendo il basso al centro della scena, appare sempre in perfetto equilibrio. Molti tra coloro che hanno potuto ascoltare Jeff Berlin dal vivo affermano di non aver mai sentito nessuno esprimersi con un tale livello di fluidità melodica. In effetti questo fantastico musicista continua ad influenzare generazioni di giovani bassisti e i suoi metodi d’insegnamento costituiscono una fonte d’ispirazione e di avanzamento nel linguaggio dell’arte. Jeff Berlin è un grande maestro dei nostri tempi.

Wayman Tisdale - Decisions


Wayman Tisdale - Decisions

Quella di Wayman Tisdale è una storia affascinante e particolare. Quando Wayman aveva dieci anni di età, mise le mani per la prima volta su due oggetti (molto diversi tra loro) che avrebbero determinato il duplice cammino della sua vita: erano un pallone da basket ed una chitarra a sei corde. Gli appassionati di sport sanno dove lo ha portato la prima passione: ad una carriera di successo nella NBA nel corso della quale Tisdale ha totalizzato 5.000 rimbalzi e che lo ha visto giocare con gli Indiana Pacers, i Sacramento Kings e i Phoenix Suns. Inoltre è stato medaglia d'oro alle olimpiadi con il team USA di basket e All-American alla University of Oklahoma. Il secondo grande amore di questo straordinario uomo è stato la musica ed in questo caso sono gli appassionati di contemporary jazz a conoscere le sue doti ed il suo talento in veste di bassista. La combinazione dei successi sportivi con quelli artistici ne fanno un personaggio a suo modo unico. La maggior parte degli atleti che, dopo la carriera sportiva, si sono dedicati alla musica hanno trovato nel rap il loro territorio elettivo, Wayman Tisdale invece no, a differenza di altri si è orientato sul jazz contemporaneo: una scelta non facile e certamente dettata oltre che dai gusti personali anche dal supporto di una abilità tecnica non comune. Nel 2007, a Tisdale fu stato diagnosticato un cancro alle ossa, ma con la sua enorme forza fisica si riprese quanto bastava per pubblicare nel 2008, il suo ottavo album, Rebound. Dopo una lotta contro il terribile male, Wayman Tisdale ha perso la sua ultima partita ed è tragicamente scomparso il 15 maggio del 2009, all'età di 44 anni. Decisions è il suo terzo album, pubblicato nel 1998. Se i primi due dischi potevano dare l’impressione di essere il passatempo creativo di un atleta affermato,  non è così per questo lavoro sotto l’etichetta Atlantic. Registrato dopo aver lasciato il basket professionistico, dimostra una maggiore maturità ed un impegno diverso anche nell’approccio stesso con lo strumento "basso elettrico". Insomma, a questo punto, la musica non è più un hobby ma è diventata di fatto il nuovo centro della vita di Tisdale. E non a caso un’indicazione chiara della serietà del progetto ci viene immediatamente data dalla lista degli ospiti presenti su Decisions. Il ragazzone del basket si è infatti conquistato il rispetto e l’amicizia di alcuni tra i migliori musicisti del panorama dello smooth jazz. il tastierista Brian Culbertson, in primis, che sembra rivelarsi l'anima gemella musicale di Wayman, e poi Gerald Albright, Norman Brown, Everette Harp, Marcus Miller, Marc Antoine Downcourt e Lalah Hataway. La prima sensazione che si ha ascoltando questo album è quella di equilibrio e buon gusto: si tratta di un arioso e positivo smooth jazz suonato con classe e basato su dei brani originali per la maggior parte composti dallo stesso Tisdale. “Breakfast With Tiffany” mette le note alte del piano di Brian Culbertson in un piacevole contrasto con la profondità delle linee di basso, in un pezzo che le radio di smooth jazz hanno subito apprezzato. Su "Ain't No Lovin'" Tisdale prende il comando della melodia sia con il basso che il cantato, appoggiandosi agli intrecci delle tastiere di Culbertson (a simulare il Rhodes) e Jerome Harmon (Hammond B-3). Wayman Tisdale si diverte a fare una sorta di uno contro uno musicale (giusto per restare in tema cestistico) con ciascuno dei suoi illustri ospiti e colleghi. "The Wiz" fa un po’ il gioco della chiamata e risposta con il sax di Albright così come "Bass Man" dove si aggiungono le nitide, pennellate in stile Wes Montgomery di Norman Brown con la sua chitarra elettrica. "Fell in Love" è un brano nel quale la morbida melodia del soprano di Everette Harp si fonde perfettamente con il basso di Tisdale e la chitarra acustica Antoine Downcourt. Il sapore latino prende il sopravvento sulla variopinta "Mexicoco" che vede lo stesso Downcourt sfidare Wayman a duellare con la chitarra acustica, mentre il bassista non rinuncia comunque a far sentire il suo basso. Molto bella anche la dolce ballata “Louis” impreziosita dalla voce di Lalah Hataway, ma scandita dal profondo basso del leader che non manca di dispensare un fantastico assolo. L’album continua con il suo tono rilassato con “Ready Or Not” ed il basso resta il protagonista assoluto: limpido e cristallino, Tisdale lo adopera ritmicamente in modo efficace e melodicamente con un ottima predisposizione per l'orecchibilità, quasi fosse una chitarra. Lalah Hataway fa valere le sue doti di vocalist anche su “My Only” che è la classica canzone r&b, sofisticata e sensuale. Il divertimento di un brano inusuale sta tutto nelle note veloci e spiritose di “Take The Lord Along With You” interpretato in solitudine dal bassista con il cajun di New Orleans e il country USA come filo conduttore. L’album si chiude in bellezza con il funk-jazz della dedica a Miles Davis intitolata “Miles Away” che ci ricorda quanto Wayman Tisdale sia un bassista tecnicamente valido e quale livello di qualità compositiva sia stato in grado di raggiungere. Con Decisions l’ex cestista professionista passato alla musica ha compiuto quello che possiamo considerare il definitivo salto verso il gotha dello smooth jazz internazionale. Questo è un album maturo e divertente nel quale Wayman, coadiuvato da un gruppo di brillanti musicisti ha dato libero sfogo al suo talento musicale di bassista e compositore. Solo lo sfortunato insorgere di un male incurabile ha posto fine alla bellissima parabola di un grande uomo che ha saputo lasciare il segno del suo passaggio sia come sportivo che come artista. Un privilegio che solo pochi possono dire di aver avuto.

Abraham Laboriel - Guidum


Abraham Laboriel - Guidum

Abraham Laboriel Sr. si è diplomato in composizione al Berklee College of Music nel 1972. Laboriel, che è nativo di Città del Messico ma è naturalizzato statunitense, è uno dei più leggendari bassisti della nostra epoca, basti pensare al fatto che è accreditato di oltre 4.000 collaborazioni su vari album di artisti del calibro di Stevie Wonder, Michael Jackson, Al Jarreau, Madonna e tantissimi altri. Abraham ha iniziato il suo percorso musicale all'età di 6 anni con la chitarra classica, sotto la guida del padre, a sua volta un musicista di talento. Proprio come chitarrista entrò alla Berklee, ma passò al basso dopo aver scoperto una grande attitudine per questo strumento. Dopo il diploma, incoraggiato dal compositore Henry Mancini, Abraham Laboriel si trasferì a Los Angeles per intraprendere la sua carriera professionale che lo ha portato ad essere uno dei bassisti più ricercati ed acclamati sia in ambito jazz che pop. La rivista Guitar Player non è andata molto lontana dalla realtà quando lo ha definito "il session man (bassista) più utilizzato del nostro tempo". La sua tecnica è assolutamente perfetta, cosa che gli permette di padroneggiare con la stessa naturalezza praticamente ogni genere musicale. Il suo stile pulito e dinamico è tra i più caratteristici del panorama internazionale sia dal punto di vista ritmico che da quello melodico.  Questo gigante, che può essere considerato a tutti gli effetti come uno dei più grandi bassisti del mondo, dopo aver registrato un album d’esordio nel 1994, ha pubblicato un anno dopo il suo secondo disco, intitolato Guidum, che è probabilmente il suo capolavoro. Si tratta di un progetto nato in studio ma con l’intento di utilizzare un minima quantità di sovraincisioni e rendere così, attraverso un’atmosfera live, quel senso di fluidità e immediatezza che le produzioni troppo ricche non possono offrire. Semplice e diretto dunque, eppure brillante nella sua splendida varietà. La band è formata da un ristretto gruppo di amici musicisti e collaboratori di Laboriel quali Justo Almario ai sassofoni, Gregg Mathieson alle tastiere ed il figlio Abraham Laboriel, Jr. alla batteria. L’affiatamento e la coesione del quartetto sono perfette, e le composizioni di Laboriel risultano varie e tutte piuttosto interessanti: anche questo contribuisce a fare di Guidum un album di valore, in grado di catturare l’attenzione dell’ascoltatore. Le sue atmosfere di traccia in traccia sanno spaziare tra il funk, il jazz, la musica latina, quella etnica e la miglior fusion. Se si vuole un saggio immediato della bravura di Abraham è sufficiente selezionare l’ultimo pezzo del cd, la famosa “Beakfast At Tiffany” di Henry Mancini suonata in perfetta solitudine dal bassista e cesellata nota su nota tra arpeggi vertiginosi ed una virtuosissima diteggiatura. La title track è una composizione del padre di Abraham, introdotta da un ritmo afro e recitata e poi cantata dal bassista in prima persona fino all’ingresso del sax di Almario e della band: si tratta di un pezzo atipico e inquietante che si discosta da tutti gli altri. "Slippin' And Sliding" è uno dei momenti migliori grazie alla performance di Justo Almario, lucido e vibrante con il suo sax. Molto bello l’assolo di Greg Mathieson al synth mentre la ritmica detta il tempo in maniera irresistibilmente trascinante. Il maestro del basso da un saggio della sua inventiva quando piazza il suo assolo sulla reggaeggiante “Exchange”.  Un altro punto di forza è la complessa “Bebop Drive”, una rilettura moderna e aggressiva del classico linguaggio jazz che è la vetrina perfetta per entrambe i Laboriel: Abe al basso ed il bell’assolo di batteria di suo figlio. “You Can’t Hide” è invece una bella ballata smooth jazz sulla quale Justo Almario da sfoggio delle sue capacità liriche esaltando l’orecchiabilità della melodia. Il funk domina in molti dei brani, mantenendosi però saldamente in territorio jazzistico: “Let My People” “Out From Darkness” e “Vamos A Gozar” ne sono un esempio. Guidum è un album raffinato e ricco di musicalità pur non essendo nel complesso per nulla facile o scontato. Si tratta di una formula molto originale di jazz moderno, piena di contaminazioni e suggestioni da altri mondi musicali, che Abraham Laboriel riesce a coniugare con intelligenza e grande creatività. Al centro di tutto c’è il suo basso elettrico senza che ciò risulti in alcun modo ridondante o eccessivo, grazie anche allo spazio che viene lasciato soprattutto al sassofonista/flautista Justo Almario. Tra i migliori esempi di fusion degli anni ’90 Guidum è un ascolto consigliato sia per la soddisfazione dei fan del basso elettrico suonato al top delle possibilità tecniche, sia per l’aspetto squisitamente musicale, che non mancherà di riservare molte gradite sorprese.

Billy Higgins & Charlie Haden - Silence


Billy Higgins & Charlie Haden - Silence

Billy Higgins è uno dei batteristi più importanti e quotati della storia del jazz. In particolare per la sua militanza nel rivoluzionario quartetto di Ornette Coleman, una formazione che ha di fatto sancito la rinascita del movimento free. Di fatto Higgins può essere considerato senza ombra di dubbio un batterista versatile ed intuitivo, di non comune talento, le cui agili strutture ritmiche hanno raggiunto un perfetto equilibrio tra funzione e forma. Il grande trombettista Lee Morgan arrivò ad affermare che: "Billy Higgins non suona mai sopra le righe, ma puoi contare sul fatto che lui è sempre lì”. Silence è un album del 1987, registrato in Italia, con una band formata dal bassista Charlie Haden, dal grande Chet Baker alla tromba (morirà solo sei dopo) e dal pianista italiano Enrico Pieranunzi. Ed è proprio il triste lirismo di Baker ad essere una presenza rilevante in tutti i brani di questo interessante lavoro. E’ cosa nota che il Chet Baker degli ultimi anni non fosse certo quello smagliante degli anni del cool jazz e del sodalizio con Gerry Mulligan, ma la timbrica poetica e controllata della sua tromba è ancora in grado di regalare emozioni ed intense vibrazioni. Di tutto ciò e della classe degli altri musicisti coinvolti si giova “Silence”: Charlie Haden è un contrabbassista tecnico e versatile, sempre in perfetta sinergia con la batteria di Higgins, coadiuvato dalla tecnica sopraffina del nostro Enrico Pierannunzi. Il pianismo di quest’ultimo, ispirato da Bill Evans e tuttavia molto personale, si inserisce in maniera perfetta nel quartetto, risultando la spalla ideale della voce crepuscolare e sofisticata di Chet Baker. "Silence", composta da Haden è una sorta di intensa e malinconica preghiera in forma di ballata jazz, recitata dalla tromba di Baker, qui particolarmente drammatica. Molto interessante la composizione firmata da Pierannunzi intitolata “Echi”, dove trovano spazio sia l’impressionismo trombettistico di Baker che il classicismo formale del pianista italiano. Molto bella la versione proposta dal quartetto di “Visa” di Charlie Parker: un vero tuffo nel be bop degli anni d’oro di questo stile.  “Conception” di George Shearing è il brano più vivace ed allegro dell’intero disco, certamente un modo per sdrammatizzare un repertorio altrimenti più orientato alla malinconia. L’impegno di Chet Baker è costante anche sui brani che sono stati nel suo repertorio per oltre 35 anni, come l’immortale "My Funny Valentine" e la meravigliosa "Round ‘Bout Midnight": la dimostrazione che anche dopo una vita difficile e molte cadute rovinose, i suoi ultimi momenti da artista sono stati pieni di qualità ed emozione. Il sussulto finale di un grande e tormentato musicista. Il pianista Enrico Pierannunzi suona in uno stile che abbraccia completamente il jazz, ma richiama echi di musica classica, non diversamente da quanto fatto dal maestro Bill Evans. Billy Higgins, da parte sua, porta con se il bagaglio di una moderna e dinamica sensibilità nel drumming, con uno stile originale, tutto giocato su un tocco leggero e raffinato che si adatta perfettamente alla natura tranquilla di questo album e che tuttavia sa essere incisivo e pulsante quando serve. In ultima analisi Silence è un ottimo album: oltre a darci l’opportunità di ascoltare l’ultimo Chet Baker in uno stato di forma più che dignitoso, propone un gruppo di musicisti affiatati e propositivi nel contesto di un repertorio scelto con cura e suonato con grande professionalità.