Jason Rebello - Anything But Look


Jason Rebello - Anything But Look

Jason Rebello è stato uno dei più promettenti pianisti inglesi dei primi anni '90 ed il suo talento è ancora oggi un punto fermo nel jazz britannico. Jason ha iniziato a suonare il pianoforte classico quando aveva solo nove anni e all’inizio si interessò di pop e soul ma a 16 anni, dopo aver ascoltato Herbie Hancock decise di lanciarsi nel mondo del jazz. Nel momento di massima espansione del fenomeno acid jazz, conobbe una certa popolarità, e registrò anche alcuni dischi piuttosto interessanti. In seguito, con l’avvento del nuovo millennio, scomparve letteralmente dalla scena discografica per ritagliarsi un importante ruolo come tastierista nei tour al fianco di grandi artisti. Dopo sei anni di concerti e di collaborazioni con il popolare cantante e bassista Sting e altri sei con il chitarrista Jeff Beck, Jason Rebello uscì finalmente nel 2013 con Anything But Look, ovvero il primo album contenente materiale originale dai tempi di Next Time Around del 1999. Staccandosi dal jazz prettamente acustico di quell’album, Rebello ritornò ad un genere di jazz fusion vicino a quello di Herbie Hancock con contaminazioni soul-funk simili a quelle dei suoi album degli anni ’90. L’operazione è riuscita molto bene al pianista poiché questo lavoro è indubbiamente di alto livello. Gli echi Hancockiani conditi da un sentore di Stevie Wonder sono la sintesi di questa bella registrazione, arricchita non a caso dalla presenza di uno dei migliori cantanti soul britannici: Omar. E infatti proprio la voce tenorile di Omar evoca lo Stevie Wonder della metà degli anni '70 sulla notevole "Know What You Need", con il contorno funk del bassista Pino Palladino ed il tocco dello stesso Rebello al piano elettrico. Jason si distende al pianoforte alla fine del brano, ma qui è proprio la melodia ad essere il fulcro di tutto. Parlando di composizioni, la scrittura di Rebello è qui tra le sue migliori di sempre, in un contesto dal sentore commerciale ma non certo banale. "With Immediate Effect"  ricorda in qualche maniera il gruppo di Pat Metheny, poichè il vocalismo di Joy Rose intona una solare melodia accostabile al lavoro del cantante e percussionista Pedro Aznar proprio all’interno del PMG. Anche in “Anything But Look” si risente qualcosa di Pat Metheny, in particolare ascoltando il pianoforte e le tastiere delicatamente liriche di Rebello, che non possono non rimandare al dna del tastierista Lyle Mays. "In the Thick of It"  segue un percorso simile, con i vocalizzi di Jacob Collier che definiscono la melodia e Rebello che si mette in evidenza, attraverso il pianoforte e il synth, negli assoli forse più dinamici dell’intero album. Un altro strumentale, "Without a Paddle",  trova nuova linfa da un'inedita energia neo-latina, punteggiata dal groove del chitarrista Paul Stacey e dall’immancabile pianoforte del leader. "The Man on the Train" è caratterizzato dalla percussionista Miles Bould, ma è il cantante Sumudu Jayatilaka che porta un tocco di soul-jazz a questo brano tinto di samba sul quale Rebello ricama dal par suo al piano. E’ inusuale invece "Dark Night of the Soul", che Jason imposta su una ritmica nervosa, quasi ska, per valorizzare l’intervento vocale quasi classico di Alicia Carroll. Il formidabile cantante Will Downing è invece protagonista di una romantica ballata su "Is This How". "New Joy" vira su atmosfere decisamente neo-soul, attraverso il canto di Joy Rose, per un brano che ha anche avuto un seguito di successo nelle radio. Al cantante Xantoné Blacq è affidato il compito di tornare agli echi di Stevie Wonder su "Lighten up the Road", una ottima melodia ricca di sfumature salsa splendidamente cesellate da un Rebello in piena forma; da segnalare nell’arrangiamento il sapiente uso delle percussioni. Neo-soul, jazz, funk, groove latini ed un ricco contenuto di fusion compongono il cocktail di Anything But Look: il risultato è un album di sicuro fascino stilistico e grande raffinatezza con un moderato, ma non sgradevole, tocco commerciale. Jason Rebello dimostra che la musica può essere sia divertente che sofisticata e lo fa con la maestria compositiva e la tecnica pianistica che sono a lui proprie. Questa è la registrazione che ha segnato il positivo ritorno del pianista e compositore inglese nel panorama discografico internazionale: la sua assenza in verità era durata troppo a lungo.

Joe Lovano & Greg Osby – Friendly Fire


Joe Lovano & Greg Osby – Friendly Fire

Il sodalizio artistico tra i due sassofonisti Joe Lovano e Greg Osby, sull’album del 1999 Friendly Fire, è uno degli eventi di un certo peso scaturiti dal 60° compleanno della storica etichetta Blue Note. Da una registrazione come questa si evince la differenza tra l’epoca del patron Alfred Lion e l’attuale gestione di Bruce Lundvall. Quello che una volta era un accadimento regolare, quasi ordinario, cioè la collaborazione di due o più musicisti di jazz, al giorno d’oggi è possibile solo attraverso la creazione di progetti speciali, legati quasi sempre ad eventi straordinari. Di sicuro, non sono certo Lovano e Osby una coppia di musicisti destinata a collaborare in modo stabile, tanto più per via dei loro temperamenti diversi e delle loro differenze stilistiche. Joe Lovano possiede un feeling hard bop sufficientemente radicato per dare corpo a produzioni mainstream ricche di pathos, inoltre è dotato di un’abilità particolare nel dare cuore e bellezza anche a composizioni di piccolo cabotaggio. Greg Osby è un musicista diverso, che ama vivere borderline le sue esperienza musicali, contaminando la sua matrice jazzistica post-bop con forme musicali moderne come l’hip-hop: la nostalgia non è certo parte integrante del suo bagaglio artistico. Ciò nonostante Lovano e Osby hanno fatto, su questo album, delle ottime scelte sia per quanto riguarda la scelta dei brani sia in riferimento alle loro performance. La band vede la collaborazione del pianista Jason Moran e l'abituale bassista di Lovano, Cameron Brown più la partecipazione del formidabile batterista Idris Muhammad: una combinazione di talenti che produce una chimica ricca di contrasti e confluenze sonore di grande fascino. La sezione ritmica composta da Brown e Muhammad si dimostra sempre in perfetta sintonia con l’agile tecnica pianistica di Moran. Il combo dei tre si muove con disinvoltura dentro il cuore delle composizioni pur senza trascurare l’esplorazione e l’improvvisazione. Jason Moran in particolare sembra avere una particolare sensibilità su quando e come restare un po’ in disparte per consentire a Brown di imbastire le sue precise linee di basso e magnificare al contempo la meravigliosa propulsività della batteria di Muhammad: entrambe possono così emergere in primo piano. Lo stesso Moran mette in evidenza un pianismo fluido e variegato, sempre molto interessante La formula di Firendly Fire è chiara: i due leader contribuiscono pariteticamente nel firmare i brani e nell’esecuzione degli stessi: l’alchimia tra i due funziona a meraviglia e capita di rado di ascoltare risultati di questo livello. Le tre composizioni scritte da Osby sono: "Geo Jlo", un coinvolgente tema ricco di frasi che ricordano Eric Dolphy a formare un affresco musicale effervescente. "Silenos" è invece una bellissima ballad, quasi sorprendente se si pensa alla musica solitamente offerta da Greg Osby. “Truth Be Told” infine mostra ancora un Osby diverso e quasi intimista. I contributi di Joe Lovano comprendono due lunghi pezzi: "Idris" è una composizione complessa ed articolata in cui Joe si esibisce anche al flauto con reminiscenze alla Steve Lacy.  "Alexander The Great", è costruita con uno stile hard bop pungente ed altamente energetico. Infine “The Wild East” che percorre ancora i sentieri del be bop in modo brillante. Il quintetto si cimenta poi in alcune cover, tre le quali c’è una interessante ripresa di "Serene" di Eric Dolphy, una nervosa e affascinante versione del "Broadway Blues" di Ornette Coleman, e un'eccellente versione della famosa "Monk's Mood" di “Thelonius Monk. La rivisitazione di questi classici non fa altro che arricchire il set proponendo alcuni brani di grande spessore molto ben eseguiti dalla band nel suo complesso. Traccia dopo la traccia, Lovano e Osby riaffermano costantemente le loro diverse personalità, ma attraverso i loro scintillanti scambi musicali vanno anche oltre i loro soliti elevati standard artistici. Quella tra Joe e Greg è un’accoppiata di talenti che avrebbe anche potuto avuto un potenziale a lungo termine, ma è figlia di una ricorrenza molto speciale come il 60° compleanno di un’etichetta storica come la Blue Note e proprio per questo unica. Il tempo ha dimostrato che è stata una bellissima eccezione e, in questi vent’anni, di fatto non si è ripetuta; per ascoltare i due sassofonisti suonare ancora insieme ci sono rimasti solo i concerti dal vivo. A testimoniare un ottimo momento creativo per entrambe i musicisti ci resta questo Friendly Fire: da una parte un paladino del post-bop, molto legato alla tradizione, dall’altra un esponente di rilievo della contaminazione con le forme artistiche più recenti. E’ solo un altro tassello nell’incredibile storia del jazz, ma è pur sempre un disco di valore.

Phil Upchurch – Lovin’ Feeling


Phil Upchurch – Lovin’ Feeling

Phil Upchurch è stato un personaggio di primo piano nei circoli musicali di Chicago a partire dalla metà degli anni '50 ed è ancora attivo ai giorni nostri. Chitarrista talentuoso e prolifico egli è in grado di distinguersi con uguale efficacia e disinvoltura con il blues, il soul, l’R & B ed il jazz. Molti lo conoscono soprattutto per il suo lavoro come session man a fianco di un gran numero di artisti (tra questi George Benson, Donny Hathaway e Hubert Laws e anche Michael Jackson, ad esempio) in larga parte la sua fama deriva proprio per il ruolo di chitarrista ritmico tenuto nel corso di queste collaborazioni. Ma Phil è invece anche un grande solista e la sua carriera è corredata da un portafoglio di oltre venti album. Upchurch è un chitarrista dotato di grande sensibilità, dal tocco morbido e vellutato ma capace di slanci funky irresistibili, improvvisazioni molto creative e una innata adattabilità verso ogni genere musicale nel quale si cimenti. All’inizio della sua avventura artistica il suo riferimento fu il jazz classico, ma con la fine degli anni ’60 e i primi anni ’70 il suo stile si orientò sempre di più verso il funk ed il soul-jazz, come testimoniato dai suoi album registrati per l’etichetta Cadet. Lovin’ Feeling, del 1973, è un chiaro segnale di un allontanamento dalle atmosfere acide e nervose del precedente periodo in favore di una svolta verso il più morbido e sofisticato sound jazz della West Coast. Phil aveva lasciato Chicago un anno prima, e, dopo aver registrato Darkness, Darkness con Tommy Li Puma come produttore, decise di stabilirsi in California. Esperienza che evidentemente fu positiva visti i risultati artistici che si possono ascoltare  su quell'album. In questa ulteriore produzione Phil Upchurch brilla particolarmente ispirato, insistendo sul groove ma condendo tutto di un'atmosfera decisamente jazzy: c’è molto funk, si percepisce il soul  ma tutto è tutto miscelato con una vena di morbida scorrevolezza. E’ innegabile che Upchurch sia un maestro della chitarra e in questa circostanza i suoi compagni d’avventura sono stati scelti con grande cura. Phil ha anche inserito il bassista Lucky Scott della band di Curtis Mayfield. Inoltre Lovin’ Feeling segna anche la prima apparizione nel gruppo di Upchurch del suo futuro braccio destro, il pianista e cantautore, Tennyson Stephens. Questo album registrato nel pieno della rivoluzione musicale degli anni ’70  può essere considerato certamente uno dei momenti migliori nella carriera di Upchurch. Il chitarrista mette in mostra la sua profonda sensibilità melodica e il suo lirismo cromatico sia nel lavoro come solista che in quello ben noto di accompagnamento. La sonorità di Phil è talmente originale da rendere il suo stile in qualche modo unico. Sono diversi i brani interessanti e tra gli altri spiccano una rilettura di "You've Lost That Lovin 'Feelin" (che compete con qualsiasi versione vocale, inclusa quella  degli esecutori originali, The Righteous Brothers) e uno standard dello stesso Upchurch, "Another Funky Tune". Laddove gli accordi e gli arrangiamenti di fiati  creano il contesto, come in "I Still Love You" e "Sitar Soul", la sezione ritmica spinge ancor di più Phil Upchurch in stupefacenti evoluzioni chitarristiche ricchissime di groove della miglior specie. In alcuni numeri veloci gli arrangiamenti più complessi vengono relegati in un posto più di seconda linea in favore di un approccio più diretto e pilotato dalle tastiere, come ad esempio in "Washing Machine" o "You've Been Around Too Long" entrambe genuinamente funky. E’ qui che l’ispirato Upchurch si mette in luce con i suoi giochi  di chiatrra wah-wah, dispensando funk groove dentro un cuore soul. Una trasformazione ed un movimento continuo tra arpeggi e assoli  che suonano sempre magnificamente puliti pur nel loro furore ritmico. Atmosfere da club, sensuali e morbide, che avvolgono l’ascoltatore in un abbraccio coinvolgente ed affascinante sia che si tratti di brani veloci, sia che Phil proponga la sua visione delle ballads. Lovin' Feeling è un disco chiaramente orientato verso gli amanti della chitarra elettrica, che qui è sempre in primissimo piano ed assoluta protagonista, tuttavia non mancano spunti per attirare anche coloro i quali hanno un debole per il jazz ed il funk degli anni ’70. Lovin’ Feeling è un album davvero sorprendente dall'inizio alla fine: nell’ambito di una carriera importante e all’interno di una discografia corposa, si tratta di un lavoro tra i migliori in assoluto.

Benny Goodman – Benny in Brussels


Benny Goodman – Benny in Brussels

Ipotizzando un ideale trittico di strordinari musicisti legati al mondo dello swing e delle big band, dopo Duke Ellington e Count Basie non poteva mancare un altro gigante come Benny Goodman. Classe 1909, Goodman nacque a Chicago da poveri immigrati ebrei provenienti dalla Russia, è iniziò a studiare la musica ed il clarinetto in giovanissima età, incoraggiato proprio da suo padre. Nella sua città, nuova capitale del jazz degli anni Venti, il giovane Benny Goodman si distinse subito nelle sue esibizioni per l'eleganza formale e la notevole raffinatezza stilistica, oltre che per l'evidentissimo rispetto delle regole armoniche, di ovvia scuola europea. Cominciò presto a pubblicare dischi sotto il proprio nome ed anche se ancora acerbo non mancò di farsi notare ed apprezzare anche presso il grande pubblico. Negli anni '30 suonò con band di livello nazionale: quelle di Red Nichols, Isham Jones e soprattutto Ted Lewis. Nel 1934 Goodman fondò finalmente la sua propria Big Band che unì per la prima volta musicisti bianchi e di colore: anche questa fu una piccola rivoluzione. Con il suo perfetto fraseggio e la sua tecnica sopraffina raggiunse in pochi anni il riconoscimento non solo del mondo Jazz ma anche di molti appassionati di musica estranei al jazz stesso. Una curiosità: nel 1928 Goodman registrò l'unica testimonianza a noi nota nella quale si cimentò occasionalmente con il sassofono, sia alto che baritono. Il suo strumento elettivo fu per sempre il clarinetto, strumento del quale è probabilmente il solista più famoso della storia del jazz. L’album “Benny in Bruxelles” (Columbia, originariamente pubblicato su due LP separati) è stato registrato durante la Brussels World Fair del 1958, tra il 25 e il 31 Maggio ed in realtà ne esiste una versione ancora più completa con un ulteriore terzo disco. Benny Goodman è venuto in Europa molte volte nel corso della sua carriera, ricevendo sempre un’accoglienza entusiastica, a dimostrazione di una popolarità che anche nel dopoguerra non smise di restare viva. Questa registrazione dal vivo è una delle sue incursioni più note nel Vecchio Continente. In quell’occasione Goodman era accompagnato dalla sua big band (sebbene si sia esibito anche suonando alcune canzoni con formazioni più ristrette), alla quale si era unito come ospite speciale il celebre cantante Jimmy Rushing. Come indicato nelle note di copertina originali, anche in questa occasione la big band fu accolta molto bene dal pubblico europeo. Un successo così travolgente da convincere la Columbia ad acquisire le registrazioni effettuate nell’occasione dalla Westinghouse Broadcasting Company per poi pubblicarle nei due (poi diventati tre) diversi album intitolati per l’appunto “Benny in Bruxelles Vol.1, Vol. 2 e Vol. 3”. Sulla versione tripla sono presenti, come detto, non solo i due album originali, ma ogni altra registrazione conservata di quella incredibile settimana di concerti. Oltre a Benny Goodman, spiccano in queste registrazioni il bravo cantante Jimmy Rushing, lo straordinario sassofonista Zoot Sims, il trombettista Taft Jordan ed il pianista Roland Hanna (che era ancora sconosciuto all’epoca), in seguito protagonista di una bella carriera da solista. Il repertorio copre tutti i classici del clarinettista, catturato in splendida forma e supportato da un’orchestra composta dai suoi fidati elementi, ciascuno dei quali dotato di grande talento. L’amalgama della big band è perfetta, il sound è trascinante e festoso pur non mancando di sfumature ed accenti diversi e variegati che non fanno altro che mettere in luce l’indiscussa qualità del band leader, che sul palco appare come un vero e proprio istrionico mattatore. Sempre in perfetto controllo sul suo clarinetto, capace di voli virtuosistici entusiasmanti ma anche di morbide e sensuali interpretazioni sulle ballads, Benny Goodman è stato di fatto un vero e proprio guru del suo strumento ed al contempo un direttore d’orchestra tra i più competenti e talentuosi dell’intera storia del jazz. La sua stella brilla luminosa nel firmamento della musica del secolo scorso.

Count Basie – Montreux ‘77


Count Basie – Montreux ‘77

Il leggendario Count Basie è da considerare senza dubbio un’altra importante icona nel panorama mondiale del jazz classico. Pianista, compositore e arrangiatore classe 1904, rimase attivo dalla fine degli anni ’20 fino al 1984. Con la sua grande orchestra ha ottenuto grandi successi ed una diffusa popolarità grazie principalmente a due fattori determinanti: un sound dinamico e molto coinvolgente ed un repertorio leggero e fruibile, in grado di guadagnarsi le simpatie di una vasta platea di ascoltatori. A metà degli anni ’30 la trasmissione via radio della musica del gruppo ne decretò il definitivo successo e in breve tempo la Count Basie Orchestra diventò una delle principali big band dell'era dello swing. Con il passare degli anni, ed a seguito delle numerosissime registrazioni, in studio e dal vivo, il “Conte” divenne un punto di riferimento del jazz mondiale e la sua band una sorta di istituzione ma anche una vera scuola per giovani musicisti, tra i quali ad esempio Frank Foster, Frank Wess, Eric Dixon, Eddie "Lockjaw" Davis (sax), Thad Jones, Joe Newman, Sam Noto (tromba), Al Grey e Jimmy Cleveland (trombone), Sonny Payne (batteria). Da segnalare sul finire degli anni '50 e i primi anni '60, le collaborazioni con alcuni grandi cantanti come Frank Sinatra, Sammy Davis, Jr., Ella Fitzgerlad e Tony Bennett: un periodo che risultò sgradito agli appassionati di jazz più integralisti. Una situazione che portò Basie, nella seconda metà degli anni sessanta, al ritorno ad una musica più in linea con la sua storia. Di fatto Basie ha sempre dato la sensazione di avere una marcia in più durante i concerti dal vivo: non a caso questa registrazione relativamente recente effettuata nel 1977 al Montreux Jazz Festival ne è un esempio chiarissimo. Il suono tra l’altro è catturato con una qualità eccellente e consente di apprezzare pienamente anche quei dettagli che nei dischi più “anziani” non si riescono a cogliere. Il produttore Norman Granz ricorda a questo proposito che il pianoforte del Conte è accidentalmente più accentuato del solito a causa della scarsa familiarità dell'ingegnere del suono con i timbri acustici della band. In conseguenza di ciò, tutta la sezione ritmica, incluso l’oscuro lavoro del chitarrista Freddie Green, è esaltata. Risulta così evidente quanto combustibile provenisse proprio dal lavoro del quartetto piano-chitarra-basso-batteria per alimentare la potenza di questa big band. Si tratta peraltro di una formazione composta da musicisti di alto livello, con la presenza di Al Grey, Jimmy Forrest, Charles Fowlkes e, naturalmente, del già citato e bravissimo Freddie Green. Count Basie non era un musicista solito ripetere all’infinito i suoi cavalli di battglia, fossilizzandosi per decenni sugli stessi brani, per questa ragione troviamo anche numeri recenti, come il roboante pezzo d’apertura "The Heat's On" e "Freckle Face", che fu scritto da Sam Nestico. Il sassofonista Jimmy Forrest si mette in evidenza sulla sua ballata originale "Bag of Dreams", brano molto bello ricco di accenti e sfumature interessanti. Ma Basie era anche consapevole della necessità di compiacere il suo pubblico con i grandi successi, perciò mette in prima linea Al Grey in una bella interpretazione di "The More I See You" e il trombettista Waymon Reed in una  valida performance dell’immortale "A Night In Tunisia". Il concerto non dimentica nemmeno un trittico di melodie famosissime da sempre associate a Count Basie: l'elegante "Li'l Darlin" e le brillanti interpretazioni di "Jumpin at the Woodside" così come il gran finale riservato all’orecchiabile e trascinante "One O'Clock Jump". Montreux ’77, pubblicato dall’etichetta Pablo di Norman Granz è un bel disco, una testimonianza di grande vitalità ed energia per un band leader come Basie, all’epoca settantreenne. Attorniato da più giovani ma valenti musicisti il Conte si dimostra ancora gagliardo e perfettamente in grado di intrattenere una platea di appassionati come quelli del popolare jazz festival svizzero con la sua caratteristica e colorata firma sonora.

Duke Ellington – The English Concert


Duke Ellington – The English Concert

Duke Ellington è considerato, a ragione, uno dei massimi compositori del '900 e uno dei più grandi tra i tanti geni del jazz. La sua musica non può restare confinata nell’ambito del jazz stesso ma deve necessariamente essere valutata andando oltre qualsiasi etichetta di genere. Grande è stata e rimane la sua influenza su intere generazioni di musicisti: partendo dalle orchestre bianche di Woody Herman e Charlie Barnet fino a Thelonious Monk e Charles Mingus, per arrivare addirittura alle avanguardie di Sun Ra o Archie Shepp. Ma la verità è che non esiste alcun jazzista che in un modo o nell’altro non abbia un debito artistico nei confronti del “Duca”. La sua epoca d’oro fu quella che a partire dagli ’30 decretò il massimo splendore delle grandi orchestre, tuttavia Duke Ellington rimase attivo anche in epoche più recenti come ad esempio durante gli anni '60 e gli anni '70, nel corso dei quali, praticamente fino alla sua scomparsa, il pianista e compositore portò la sua orchestra in giro per il mondo, ampliando la portata dei suoi viaggi per veicolare il suo personale messaggio musicale praticamente ovunque si potesse organizzare un concerto. Colto, raffinato, intelligente e creativo Duke Ellington ha incarnato l’essenza stessa del jazz per oltre 50 anni, guadagnandosi il rispetto di tutta la comunità musicale, compresa quella classica e diventando un’icona imprescindibile di un genere. Probabilmente è il jazzista più famoso e popolare anche tra i non addetti ai lavori. Questa registrazione del 1999, intitolata “The English Concert” raccoglie la testimonianza di tre diversi concerti, tenuti dalla grande orchestra di Ellington nel corso di una fortunata tournée in Gran Bretagna. Il primo è relativo alla serata svoltasi al Teatro Odeon di Bristol il 22 ottobre 1971; le altre due performance, presumibilmente un matinee e uno spettacolo serale, si sono svolte presso il Birmingham Theatre di Birmingham il 24 ottobre 1971. Originariamente pubblicata dall'etichetta United Artists, che possiedo personalmente in vinile doppio, questa è una testimonianza importante dell’universo ellingtoniano, pur essendo relativamente sconosciuta. L’interesse scaturisce dalla presenza di due dei più smaglianti esempi delle capacità compositive del Duca. L’impressionante e composita "Togo Brava-Brava Togo Suite" (che il compositore spiega delicatamente nell’introduzione al brano descrivendola così"... un centinaio di chilometri di bella spiaggia di sabbia d'argento rivolta verso l'equatore sulla sporgenza occidentale dell'Africa"). E un’altra suite di stampo africano intitolata "La Plus Belle Africaine" estremamente evocativa e articolata. Ellington anche in questo caso spiega al pubblico come questo pezzo sia stato composto in previsione della "prima visita in Africa" dell’orchestra dopo che egli stesso aveva scritto musica ispirata all’ Africa nei precedenti trentacinque anni. I membri della big band sono tutti di altissimo livello, come d’abitudine negli ensemble orchestrati da Ellington: i  trombettisti Cootie Williams, Money Johnson e Johnny Coles; i trombonisti Chuck Connors e Booty Wood; i sassofonisti Harry Carney, Paul Gonsalves e Harold Ashby; gli atri sax e flauti di Harold "Geezil" Minerve e Norris Turney ed il bassista Joe Benjamin, che duetta con il Duca sulla stupenda "Lotus Blossom" di Billy Strayhorn. "Happy Reunion" è eseguito da un quartetto composto da Gonsalves più la sezione ritmica. "Checkered Hat " è il ritratto musicale che Norris Turney fa di Johnny Hodges: si tratta di un omaggio commovente al bravissimo alto sassofonista che era scomparso improvvisamente solo pochi mesi prima. Tutto in queste quattro facciate di grande musica dal vivo trasuda il vero jazz e grandissime vibrazioni positive. Questo è un eccellente album del tardo Duke Ellington, con il grande merito di aver catturato la sua grande orchestra in splendida forma e con il maestro ancora in grado di regalare emozioni con il suo pianoforte e le sue fantastiche composizioni. Un disco che merita senza dubbio un riconoscimento più ampio ed un ascolto appassionato e approfondito. Duke Ellington andò ben oltre gli schemi tecnico-interpretativi del jazz dell'epoca. Più spesso, nel suo caso, si deve parlare di musica espressionista del Novecento, e l'idea che le sue composizioni fossero dei "quadri musicali" o che egli riuscisse a "dipingere con i suoni", fu un concetto più volte espresso dallo stesso Ellington, che non a caso in gioventù aveva lungamente coltivato anche una certa passione per la pittura. La perfetta intesa con ogni singolo membro della varie incarnazioni delle sue orchestre portò il Duca a plasmare il suono secondo i dettami della sua inventiva, ricavandone un risultato musicale unico e inconfondibile, quasi che l'orchestra fosse un unico strumento nelle sue mani. Genio assoluto.