Kurt Elling – The Gate
Kurt Elling – The Gate
È davvero curioso ma anche perfettamente comprensibile come una piccola differenza di età possa aver influenzato la musica che ha risuonato nella giovinezza di ognuno di noi, determinando i nostri gusti e le nostre passioni. Ogni periodo storico ha i suoi generi di riferimento e di conseguenza ogni generazione vive la musica sulla base di un ampio e diversificato ventaglio di artisti e stili. Per il vocalist e pianista Kurt Elling, le influenze musicali che hanno condizionato i suoi gusti in gioventù, vanno ricercate in diverse fonti come ad esempio gli Earth, Wind & Fire o addirittura i King Crimson degli anni '80 o ancora in quella strana miscela post new wave rappresentata da Joe Jackson. Ma su tutto, e più di ogni altra cosa, c’è stato il jazz, naturalmente sempre il jazz. E’ da tutte queste suggestioni musicali che viene fuori un album come The Gate. Elling continua nella sua lunga e fruttuosa relazione professionale con il pianista e arrangiatore Laurence Hobgood: un’unione artistica vecchia di 16 anni che è stata ed è il motore di una costante ricerca nell’ambito del jazz vocale, cioè la formula che Kurt Elling ha abbracciato fin da suoi esordi. Viste le premesse, non sorprenderà trovare su The Gate una versione piuttosto fedele di "Matte Kudesai" dei King Crimson resa in modo speciale dalla intrinseca capacità di Elling di rispettare l’originale pur rivisitandolo. E’ il bassista John Patitucci che guida di fatto la melodia, mentre Hobgood offre un delicato accompagnamento di piano ed il chitarrista John McLean impone le sue linee di chitarra simili a quelle originali di Adrian Belew, ma riviste con un tono più etereo. Kurt Elling canta da par suo, con il suo stile personale. Uno dei momenti clou dell’album è senza dubbio la versione swing della popolare "Steppin 'Out" di Joe Jackson, una cover sulla quale il pianoforte di Hobgood si muove leggero dentro e attorno alla struttura della canzone. Il disco si muove nel campo delle reinterpretazioni di brani famosi, quindi è quasi inevitabile che Elling proponga quella di "Norvegian Wood" dei Beatles: qui il già interessante arrangiamento di Elling e Hobgood viene impreziosito dallo straordinario assolo di McLean. E’ un crescendo emotivo notevole, ritmicamente sostenuto dal batterista Terreon Gully. Ma a stupire davvero è la cover di “After The Love Has Gone” la famosa ballata degli Earth Wind and Fire: Elling la propone con un tocco di raffinata eleganza jazzistica, da crooner consumato, con il sassofonista Bob Mintzer che va a riempire gli spazi con le sue evocative linee di sax. Elling sfrutta tutta la sua ampia gamma vocale, ed è affascinante scoprire che una canzone che conosciamo benissimo possa cambiare così tanto. Kurt si prende cura anche di Stevie Wonder con una cover della sempre bella "Golden Lady", in questo caso con un arrangiamento meno divergente dall’originale rispetto ad After The Love Has Gone. C’è spazio anche per una ballata tra le meno conosciute di Herbie Hancock quale “Come Running To Me" tratta da Sunlight e pure per un riedizione di "Blue in Green” di Miles Davis già proposto in passato da Al Jarreau. "Samurai Cowboy" vede un imprevedibile Elling in versione Bobby McFerrin crearsi la sua orchestra vocale attraverso la sovra incisione delle linee di basso e di quelle delle percussioni. La lunghissima "Nighttown, Lady Bright", griffata Don Grolnick, termina l'album su toni più scuri e severi, con una inedita sezione recitata, per finire con una delicata ed atmosferica chiusura affidata al pianoforte di Hobgood magistralmente accompagnato dal Marc Johnson al basso e dalla batteria di Terreon Gully. Si assiste con sempre maggiore frequenza alla pubblicazione, da parte di molti musicisti, di album dedicati alle canzoni che hanno lasciato un segno nella formazione loro formazione artistica: Kurt Elling non fa eccezione e con The Gate ha attraversato i confini tra rock, pop, soul e R & B proprio per rendere omaggio ai suoi miti di gioventù. L’album è piacevolmente accessibile ma mostra al tempo stesso un’interessante e profondo caleidoscopio di interpretazioni e arrangiamenti che si apprezza sempre più mano a mano che lo si ascolta. Ancora una volta Kurt Elling dimostra che la buona musica sta lì, esattamente dove hai l’ardire di cercarla: si tratta solo di metterci sopra un timbro personale senza perdere di vista la propria identità.
Brian Jackson – Gotta Play
Brian Jackson – Gotta Play
Il tastierista Brian Jackson è noto soprattutto per il suo sodalizio artistico con Gil Scott-Heron, il cantante afroamericano più politicizzato del ventesimo secolo. Sono passati 29 anni tra il 1971 e l’uscita di questo album “Gotta Play” un evento apparentemente inatteso anche per lo stesso Brian Jackson. Brian ha composto ed arrangiato un disco di vero jazz contemporaneo, ricco di eleganza e verve ma anche di funk e di groove. La tentazione di mettere in relazione l'attuale lavoro di Jackson con quello dei suoi esordi è ovvia, ma l’ascolto di queste 14 tracce colloca Gotta Play su un piano che è ben al di là del solco lasciato dal suo materiale precedente: di quest’ultimo conserva i forti legami con l’R & B ed una non scontata gradevolezza. Ma l’abilità di pianista e la maestria nell’arrangiamento non sono mai stati migliori di quanto è ascoltabile in questo album del 2000. Jackson ha concentrato le sue energie creative più sull’intelligenza e la raffinatezza piuttosto che sull’appariscenza estetica ed i suoi musicisti, anche se giovani, sono stati messi nelle condizioni di dare il meglio di loro stessi. David Mullen ad esempio, con i suoi sax, è un emulo di David Sanborn e Gato Barbieri, e ha una spiccata sensibilità melodica, un pò sul genere di quella del giovane Stan Getz. Il batterista Trevor Holden è un caldo session man di New York in grado di fornire un supporto ritmico adeguato. Lo stesso può essere detto per il bassista Don Martin, abile nel dipingere un mix di accompagnamento carico di sfumature e colori. Al percussionista Num Her-ur Shutef Amun'tehu è delegato il ruolo di collante tra i vari strumenti e lui si adegua aggiungendo un alto livello di funky groove. Gotta Play apre con una breve intro di soli 39 secondi di tastiere e percussioni che conduce alla title track. E’ qui che si delineano i contenuti dell’album: dal cantato in stile scat all’intervento brillante dell’ospite Roy Ayers con il suo vibrafono, dal sax di Mullen alle tastiere stesse di Jackson il quadro che ne esce contempla molteplici sentori. Stevie Wonder, i tardi War, i primi Crusaders, gli Steely Dan, fino ad arrivare alla Midnight Band, tutti intrecciati in un mix che è tanto nuovo quanto familiare. "Kama Sutra" è un brano molto particolare: inizia con il pianoforte jazzato di Brian e subito dopo vira su atmosfere stranamente mediorientali, per poi tornare nel territorio di un urban jazz contemporaneo sul quale irrompono il piano e successivamente il doppio assolo di Mullen sia al tenore che al soprano. Le percussioni quasi parlanti di Ahmun'tehu fanno da sfondo ai solisti per tutto il pezzo in un susseguirsi di invenzioni armoniche in questa che si configura come una fusion bost bop molto innovativa. “Moody Too” è un numero di grande bellezza grazie al synth ed al piano elettrico divinamente padroneggiati da un ispiratissimo Brian Jackson. A completare l’atmosfera anche il sax tenore di David Mullen per una ballata molto emozionale e vibrante. “Feelin’ U” dà una interpretazione personale dell’r&b mixandola con un accenno di rap lasciato però in secondo piano. Ascoltando “Free 4 Fall” scopriamo un Brian Jackson che mette il suo pianoforte al servizio dello smooth jazz, precorrendo un po’ i tempi, ma la sostanza è comunque lontana dalle edulcorate atmosfere a cui siamo abituati da qualche anno a questa parte. Suggestiva "Parallel Lean" con la voce di Jackson, che si dimostra un valido cantante, e un parlato in forma di recitazione di Gil Scott-Heron in persona. Gil non pare in perfetta forma, nonostante la bellezza della canzone, probabilmente a causa dei suoi continui problemi fisici. L’arrivo del pianoforte è, al solito, una delizia: ma tutto suona emozionalmente sofisticato. Robert Glasper deve aver ascoltato a lungo anche Brian Jackson prima di sintetizzare il proprio stile. Un altro punto di forza dell’album è il latineggiante "Yada Yada" dove il pianoforte di Jackson prende il centro della scena mentre la sezione ritmica ritaglia una gagliarda e moderna scansione dei tempi. Al contempo i sassofoni di Mullen scivolano intorno e attraverso le linee di piano, creando una nuova melodia modale. Sulla scia del miglior acid jazz Jackson propone un brano come “Outstanding” che a tratti ricorda gli Incognito e al pari del popolare gruppo inglese vanta una melodia davvero gradevole. La chiusura di Gotta Play è affidata ad un medio tempo funkeggiante il cui ritornello è punteggiato da un cantato scat e dove trovano voce gli assoli straordinari sia di Brian al piano ed al synth che quelli di sax di David Mullen. Una conclusione bellissima che invita ad un nuovo ascolto. Questo album di Brian Jackson non può essere considerato un ritorno quanto piuttosto la rivelazione, finalmente in primissima persona, di un musicista di grande valore, apprezzabile come compositore, come tastierista ed anche come arrangiatore. Gotta Play è registrazione che merita ampiamente di essere ricercata ed ascoltata con grande attenzione da chiunque ami il jazz contemporaneo e non solo, dato che echi di r&b, di soul e di acid jazz sono parte integrante del progetto. È una cosa assolutamente positiva che anche un album per così dire "commerciale", all’interno del jazz, possa anche assurgere ad un eccellente livello artistico come nel caso di Brian Jackson e del suo Gotta Play.
Valeriy Stepanov – New Beginnings
Valeriy Stepanov – New Beginnings
Meno 'dalla Russia con amore' e più 'dalla Russia con groove', questo potrebbe essere lo slogan più adatto a sintetizzare lo straordinario talento del tastierista russo Valeriy Stepanov in occasione del suo debutto discografico intitolato 'New Beginnings'. Gli appassionati di smooth jazz e tutto il mondo della fusion erano pronti da tempo per celebrare l’arrivo di questa ventata di energia e creatività dall’est Europa. Nato sulla rete, attraverso oltre tre milioni di visualizzazioni su You Tube, questo fenomeno approda finalmente al mercato discografico con un album che sintetizza ed esalta le doti di pianista e le capacità compositive di Valeriy. Stepanov è senza dubbio un musicista sopraffino, uno di quelli in grado di coprire l'intero spettro stilistico del jazz, partendo dal mainstream tradizionale, che su "New Beginnings" è decisamente un mero sentore, fino a quello che è il suo vero marchio di fabbrica, ovvero una fusion energetica e vitale. Il pianista russo può essere descritto con precisione delineandolo come un sorta di punto di contatto tra un moderno Chick Corea ed il Jeff Lorber delle ultime uscite. Ciò che rende Valeriy un personaggio musicale unico, in grado di distinguersi dalla massa, è la sua superba padronanza del ritmo e il suo eccellente gusto per la melodia, la sua energia senza limiti e una tecnica eccezionale, solidamente fondata sullo studio e l’applicazione. La sua formazione inizialmente gestita dal padre, è stata in seguito portata a compimento con l’aiuto del violoncellista di fama mondiale Mstislav Rostropovich, il quale grazie alla sua influenza ha dato a Valeriy l’opportunità di usufruire di una borsa di studio alla prestigiosa Scuola Centrale di Musica del Conservatorio di Stato di Mosca. In aggiunta a questi studi musicali prestigiosi, ci sono poi i sei anni di esibizioni e registrazioni con la sua band VSAK. E’ così che Stepanov ha coltivato sempre di più il suo talento: adesso a 27 anni, è assolutamente pronto per unirsi al crescente gruppo di artisti dell'Europa dell'Est che hanno trovato fama e successo musicale sia in Europa che in America. Tuttavia, va detto che il suo viaggio artistico è stato per certi versi più impegnativo della maggior parte dei suoi colleghi. Stepanov è nato nella città di Irkutsk, vicino al confine mongolo e al lago Baikal, un luogo aspro e ostile, dove fare musica ed affermarsi non è proprio un’operazione facile. Lui ha superato i problemi con lo studio e la passione, ponendo così le basi per diventare l'artista che è oggi. Ma la storia di Valeriy Stepanov è davvero sintomatica dei tempi odierni, è una storia in cui internet, combinato con un talento strabordante. può spingere fino alle luci del palcoscenico globale anche un musicista relegato ad una posizione geografica per così dire decentrata. "New Beginnings" è il primo capitolo di questa storia e si apre con l’energetico smooth jazz di "Happy People", alla fine dell’album proposto anche in versione radio edit. Stepanov si presenta con una chiave accessibile e tuttavia illuminante rispetto al suo talento di pianista: pianoforte prima e piano elettrico a seguire. L’intervento del violoncello di Vsevolod Guzov suonato in stile jazz e uno spruzzata di fiati synth sono altri tocchi geniali che si rivelano la ciliegina su una torta già molto gustosa. Il primo brano da servire alle radio è 'Tonight', un'altra incursione nello smooth jazz perfettamente tagliato per i gusti degli appassionati di tutto il mondo. Un pezzo che è ulteriormente rafforzato dall’ inconfondibile contributo alla chitarra dell'unica e sola U-Nam. E’ il sax supremo di Marion Meadows invece che presta la sua voce a "Look At The Stars", una canzone romantica e delicatamente melliflua. 'Walk In The Park' è un altro ottimo modo per gustarsi la brillante destrezza di Valeriy sulla tastiera del pianoforte, in un brano che ha tutti gli stilemi del più classico degli smooth jazz. La festa continua con l'abbagliante groove contemporaneo di "Twilight Sky" che propone un ritmo vivace e una melodia accattivante: un viatico ideale per il favoloso assolo di piano elettrico di Stepanov. Il bel funk jazz di "No Doubt Now" mette in mostra la personalità musicale del tastierista russo, che davvero suona più come un nero di New York che come un siberiano. Ottimo anche l’intervento di sax alto di Andrey Chmut. C’è da aggiungere che Valeriy è anche un ottimo batterista e cita il grande Dave Weckl come una delle sue principali influenze. Non è quindi sorprendente che abbia incluso nel suo primo album una versione di 'In Common', brano proposto nel 1990 da Weckl e originariamente scritto ed eseguito dal Peter Mayer Group. L’inizio evoca le atmosfere dei The Rippingtons al loro meglio e Chmut viene ancora una volta coinvolto per quello che suona come uno dei pezzi più moderni e intriganti del disco. Il groove potente di "Half Moon" vede Valeriy creare magicamente un crescendo sorprendente che sfocia in un assolo di synth da brividi. 'Snowbreeze' è caratterizzato da una superba leggerezza di tocco e da un'atmosfera morbida che è bellezza smooth jazz allo stato puro. Se poi volete restare meravigliati e affascinati dal talento di Stepanov non dovete far altro che prestare la massima attenzione a come il pianista rende omaggio al leggendario Herbie Hancock: il risultato è una sontuosa rielaborazione del classico degli Headhunters 'Butterfly' che stupisce per originalità e gusto. Probabilmente uno dei migliori momenti dell’intero album. “Heartburn” è un ulteriore tassello che va ad aggiungersi a questo bellissimo mosaico fatto di funk, di jazz e di virtuosismo: l’intervento di pianoforte acustico è di quelli che lasciano il segno e così quello di sax. Chi ha conosciuto Stepanov attraverso i filmati su You Tube probabilmente si aspettava un album più coraggiosamente orientato verso il jazz ma è doveroso sottolineare che «New Beginnings» è solo il primo capitolo di quella che, ne sono certo, sarà una lunga e luminosa carriera da parte di un talento cristallino. Un musicista che rappresenta una magnifica vetrina per l'arte, riuscendo nell’impresa di sintetizzare abilità tecnica, scrittura e capacità di produzione in una unica poliedrica personalità. Ben vengano dall’Est Europa fenomeni di questo livello: di novità e di sferzate di creatività ce n’è sempre un grande bisogno.
Gene Harris – In A Special Way
Gene Harris – In A Special Way
Gene Harris può essere classificato, con una definizione un po’ scherzosa, come uno dei più seri musicisti jazz tra quelli “disimpegnati” degli ultimi 50 anni. Infatti è stato sicuramente tra i pianisti più accessibili e leggeri del panorama internazionale; un artista che ha canalizzato la sua superiore padronanza del blues e la sua abilità nel comporre amabili melodie per creare un jazz tra i più fruibili e al contempo più interessanti. E’ anche per questa sua vena, per così dire popolare, che il signor Harris è stato spesso sottovalutato dalla critica ed escluso dal novero dei personaggi importanti del jazz. Gene Harris in qualche misura è sempre stato funky dentro, fin dai suoi inizi con i Three Sounds e ancor di più nel periodo della sua carriera solista durante gli anni '70: ma mai come con In A Special Way egli ha cercato un vero punto di contatto tra il suo jazz ed il funk contemporaneo. E’ proprio da questo album, registrato insieme a numerose star, tra cui Philip Bailey degli Earth Wind & Fire e il chitarrista Lee Ritenour, che Gene Harris delinea uno stile che pesca con decisione tra le tendenze degli anni '70 come il soul contemporaneo, la disco , il Philly sound e ovviamente la fusion. La produzione è lucida e ricca, confezionata con ritmi pulsanti, fiati, coriste e spruzzate di synth vintage a completare il tutto. Al centro di questo contesto c’è lui, Gene Harris, con le sue tastiere: preferibilmente il pianoforte. E Gene suona esattamente come ha sempre fatto, con generosità e passione, con il suo stile blues e soul fatto di improvvise e velocissime fughe con la mano destra e la ricerca continua della musicalità, anche negli assolo. L’album vive di momenti anche bizzarri, ma sempre improntati sull’orecchiabilità ed la leggerezza. L'interpretazione di "Love for Sale" di Cole Porter, ad esempio, ha un arrangiamento molto particolare, piuttosto lontano dallo stile di Eumir Deodato (che parimenti ha spesso reinventato i classici). Nella rilettura in tipico stile Philadelphia Sound, diverte e mette in evidenza al meglio le doti pianistiche di Harris. C’è uno strano synth-bass ad iniziare "Five / Four", un brano piuttosto intrigante che strizza l’occhio allo space funk in auge negli anni ’70: l’assolo di pianoforte che si sovrappone ai cori è molto bello. Gene Harris affronta anche la stupenda "Naima" di Coltrane, coadiuvato dalla chitarra di Lee Ritenour a dalle solite coriste che si fanno carico di delineare la melodia. Ma la cover di Trane è soprattutto un’altra opportunità per il pianista di dimostrare quanto virtuosismo ci possa essere anche volendo essere sempre disimpegnati. Harris suona bene, come sulla funky "Rebop" che è probabilmente il brano più bello dell’album o districandosi al meglio nel medio tempo di "Theme For Relana". “Zulu” è un altro numero dal funky groove che sintetizza molte delle peculiarità artistiche di Harris e alcune delle sue apprezzabili doti di pianista. Certo si ha, a tratti, la sensazione che il suo piano venga in qualche misura sopraffatto dal carico degli arrangiamenti, ma se si pone l’attenzione ai suoi assoli ed al suo groove pianistico si riconosce il segno di un talento senza tempo. In perfetto equilibrio tra il Philly Sound, la disco, il funk e la fusion "In A Special Way" è un album a suo modo brillante, certamente uno dei migliori nella produzione degli anni ’70 e ‘80 di Gene Harris. Si tratta di un lavoro dove si trovano sufficienti scorci della sua unica personalità musicale tali da renderlo un’interessante opportunità per conoscere un musicista spesso trascurato e misconosciuto. Piuttosto resta inspiegabile il significato della curiosa copertina, sulla quale Gene Harris è fotografato attorniato da un schiera di ragazzini. Un particolare trascurabile a fronte di un disco godibile dall’inizio alla fine: una virtù non così comune da trovare non solo nella produzione di quel periodo, ma anche e forse soprattutto in quella odierna.
Hampton Hawes - Northern Windows
Hampton Hawes - Northern Windows
Hampton Hawes è stato uno dei più prestigiosi musicisti di colore fra quelli nati e formatisi artisticamente in California, e ha contribuito come solista e come accompagnatore all'affermazione della corrente denominata West Coast Jazz. Anche se è meno famoso di altri specialisti dello strumento, Hawes è da considerare come una delle figure più importanti nello sviluppo del suono e dello stile del pianoforte nella musica jazz moderna, soprattutto per la sua attività attorno alla metà del 1950. I suoi album di quel periodo sono caldamente consigliati a chiunque non abbia ancora avuto il piacere di ascoltarli. Northern Windows è però tutta un’altra storia: si tratta di una registrazione che segna la fine del periodo di Hampton Hawes con la Prestige Records, durato dal 1972 al 1974. Un breve intermezzo che ci permette di cogliere il pianista nel momento in cui si sentì più libero di esplorare le possibilità che le tastiere elettroniche potevano fornire al contesto del jazz. Venuto dopo gli album Universe, Blues For Walls e il live Playin' In The Yard, questo lavoro rappresenta un’eccellente appendice di un momento unico ed emozionante nella carriera di Hampton Hawes. L’arrangiatore di Northern Windows è David Axelrod, il che significa che, oltre dagli amanti del jazz tradizionale, questo disco potrà tranquillamente essere gradito anche da quelli del funk jazz. Si tratta comunque di un album molto interessante e di grande attrattiva a livello musicale. La produzione di Hawes con la Prestige ha presumibilmente sconvolto i suoi molti fan, che non erano preparati al suo passaggio al mondo dei piani elettrici e delle tastiere. Va detto comunque che Northern Windows è ancora un album in equilibrio perfetto tra le suggestioni “elettriche” e quelle più tradizionalmente acustiche: ci sono brani funk jazz tipici degli anni '70, con il Fender Rhodes in bella mostra, ma ci sono anche alcune fantastiche tracce con Hawes che riabbraccia felicemente il suo pianoforte classico. Ritengo che l'intero album sia di buon livello, con tutte le tracce che si distinguono sia per la qualità compositiva che per l’esecuzione, indipendentemente dal fatto che suonino acustiche o elettriche. Posso però certamente immaginare come i puristi del jazz, aggrappati al sound degli anni '50 e '60, potrebbero essere indifferenti al suo fascino. A fianco di Hawes figurano due musicisti che vanno a formare il trio di base di questa registrazione: Carol Kaye al basso elettrico e Spider Webb alla batteria. I due, che per un periodo furono anche marito e moglie, non appartengono all’elite del jazz, avendo più spesso suonato in altri contesti. Questo non vuole essere certo un giudizio negativo, anche perché si tratta di turnisti dalla grande esperienza che risultano perfettamente funzionali al progetto di Hampton Hawes. In realtà ci sono sei altri musicisti che meritano solo un "ringraziamento" sulle note di copertina, si tratta di una sezione fiati utilizzata per aggiungere spessore ai complessi arrangiamenti di Axelrod. In ogni caso aggiungono piacere d’ascolto e contribuiscono notevolmente alla creazione del giusto groove, specialmente sui pezzi più orientati al soul-jazz e al funk. L’album è piuttosto corto per gli standard odierni, meno di 35 minuti, ma questa non è sempre una cosa negativa per questo tipo di musica degli anni ’70: l’interesse rimane alto e non ci si annoia. Hampton Hawes è uno splendido pianista, la sua tecnica è perfetta ed è stato a lungo un riferimento stilistico per molti musicisti. Northern Windows evidenzia una miscela perfetta di tastiere acustiche ed elettriche e si avventura nell’esplorazione dei nuovi suoni del jazz: sono quelli emersi alla fine degli anni '60 e che nel decennio successivo presero decisamente il largo in varie forme e con risultati spesso contraddittori. Questo album del 1974 ci mostra il maestro al lavoro per colmare il solco tra il vecchio ed il nuovo mondo del jazz.
Quincy Jones – Walking In Space
Quincy Jones – Walking In Space
Siamo abituati a conoscere Quincy Jones per la sua produzione musicale più recente, fatta di collaborazioni di grande successo con i più grandi artisti pop e per un paio di suoi album che hanno raggiunto i vertici delle classifiche negli anni ’80. Ma Quincy Jones è molto più di questo, è una delle personalità artistiche più importanti del secolo e la sua carriera, che ha attraversato praticamente sessant’anni di storia della musica, sta lì a certificare tutto quello che questo straordinario uomo è riuscito a fare. Quincy Jones è una sorta di genio rinascimentale della cultura afro-americana, essendosi distinto come direttore d’orchestra, come musicista, come compositore (anche di colonne sonore), per non parlare della sua attività di produttore, di quella di arrangiatore ed infine di proprietario di un’etichetta discografica. Ma Jones ha anche scritto libri, ha prodotto film e creato serie televisive di successo. Questo quadro sintetico da un’idea dello spessore culturale e dell’importanza a livello musicale che l’ormai ottantaquattrenne Quincy ha avuto dal dopo guerra ad oggi. In una discografia comprensibilmente molto vasta (anche se relativamente contenuta rispetto ad altri) ci sono ovviamente diversi album di grande valore e anche alcuni meno riusciti. Il jazz più tradizionale, declinato spesso nella forma della big band, è stato per lungo tempo il filo conduttore della sua produzione, ma vorrei invece focalizzare l’attenzione su un periodo, quello della fine degli anni ’60, che anche per Jones rappresentò un punto di svolta. Dopo qualche anno nel quale Jones fu impegnato nella composizione di colonne sonore cinematografiche, nel 1969 il direttore d’orchestra di Chicago firmò un contratto con la CTI di Creed Taylor e si impegnò nella registrazione di Walking in Space, un disco stilisticamente molto eterogeneo che esplorava varie forme di jazz: elettrico, acustico, funk e da big band. Avvalendosi di alcuni bravissimi musicisti della scuderia Taylor, come Roland Kirk, Freddie Hubbard, Ray Brown, ma anche Bob James, Jay Jay Johnson e Hubert Laws, Jones conduce, organizza e arrangia una manciata di brani tra i quali non mancano alcuni standard. Quincy pesca dal musical di Broadway "Hair" due pezzi come “Dead End” e la title track “Walking In Space” ed è subito chiaro che l’album cammina in un territorio nuovo, dove il funk fa sentire la sua presenza pur mantenendosi saldamente nel campo del jazz. E tuttavia la presenza degli strumenti elettrici rappresenta un segnale di discontinuità rispetto al passato, così come gli arrangiamenti, davvero particolari e innovativi. Il disco inizia con Dead End in cui il basso di Ray Brown all’unisono con il pianoforte elettrico di Bob James si fa carico dell’introduzione, poi tromba e flauto creano l’accenno della melodia, fino all’ingresso potente della sezione fiati e a quello dell’intrigante chitarra elettrica di Eric Gale. Walking In Space inizia in modo simile, con Fredie Hubbard che soffia delicatamente nel suo flicorno, mentre il sax tenore di Roland Kirk lo circonda di note ed una eterea sezione vocale femminile contribuisce a creare una deliziosa ed intima atmosfera “da salotto”. Il ritmo decolla gradualmente e qui il flauto di Hubert Laws interviene dando un connotato spaziale al brano che, spostandosi verso il funk, consente alla chitarra soul di Eric Gale ed al sax energico e muscolare di Roland Kirk di esprimersi in assoli di rilievo. Il lungo pezzo di oltre 11 minuti vive di continui cambi di ritmo e di una irrequieta altalena di emozioni che lo rendono il top dell’album, soprattutto per l’arrangiamento. E’ molto cool jazz la lettura che Quincy Jones dà della popolare "Killer Joe" di Benny Golson, un brano nel quale è in grande evidenza il flauto di Hubert Laws, mentre il bravissimo Freddie Hubbard piazza il suo assolo di tromba con sordina innestandosi alla perfezione sulla roboante sezione fiati. Bello anche l’uso delle coriste nella parte cantata che riesce a dare un altro tocco particolare a questa indovinata cover. “Love And Peace” inizia con gli ottoni ed un sound subito palesemente orchestrale, funzionale ad una vera e propria sortita nel blues operata da quello specialista del genere che è il chitarrista Eric Gale. Molto bella è anche “I Never Told You”, una lenta e romantica ballata impreziosita da Toots Theilmans e dalla sua malinconica armonica a bocca: l’effetto è molto intenso e ricco di pathos. L'album si chiude con uno standard della tradizione gospel conosciuto in ogni parte del mondo come canto natalizio e cioè la celebre “Oh Happy Day”: il coro canta il ritornello mentre Hubert Laws risponde alle frasi vocali con il suo flauto. Qui si ha l’opportunità davvero rara di ascoltare Ray Brown suonare il basso elettrico in luogo dell’abituale contrabbasso e va detto che il groove non viene certo a mancare. Con Walking In Space, Quincy Jones si affaccia agli anni ’70 con un album che pur mantenendosi nel solco della tradizione anticipa alcuni temi che saranno in seguito approfonditi da un gran numero di artisti. Complessivamente si tratta di un lavoro leggero ed orecchiabile piuttosto lontano dalla complessità di Miles Davis o dei Weather Report di quel periodo, ma non mancano gli spunti interessanti. Il sound è quello tipico delle grandi orchestre, virato su toni quasi lounge: mantiene un’impronta jazzistica ed è corroborato da alcune discrete iniezioni di funky groove. Il maestro è validamente spalleggiato da un cast di musicisti di grande livello, e viene valorizzato dalla produzione perfetta di Creed Taylor. In un contesto creativo come questo, il genio di Quincy Jones ha confezionato sicuramente uno dei dischi più forti dell’intero catalogo della CTI. Non sarà una pietra miliare del jazz ma è pur sempre una valida testimonianza di come andava diversificandosi questo genere alle soglie di un decennio foriero di enormi cambiamenti.
Iscriviti a:
Post (Atom)