Jaco Pastorious – Jaco Pastorious


Jaco Pastorious – Jaco Pastorious

Jaco: fiume di parole, articoli, biografie, recensioni di ogni genere sono stati scritti sul personaggio Pastorious e sul suo incredibile talento. Ricorderò solamente che lui è stato un bassista, compositore e produttore discografico statunitense di jazz, fusion e funk, ma soprattutto un musicista da annoverare tra i più grandi bassisti di tutti i tempi e tra le figure più iconiche del secolo scorso. Suonava generalmente un basso elettrico fretless, ma sul palco usava anche un basso con i tasti. Nonostante la brevità della sua carriera, ha determinato una rivoluzione totale: col suo stile particolare è riuscito a caratterizzare lo strumento come nessun altro, ridefinendo il ruolo del basso elettrico come solista e suonando simultaneamente melodie, accordi, armonici ed effetti percussivi. Per numerosi bassisti anche non jazz (dal pop al rock) è stato e resta un importante punto di riferimento. Per qualsiasi serio appassionato di jazz fusion, dunque Jaco Pastorious rappresenta un mito di ineguagliata bravura. Per lo più autodidatta, a 22 anni insegnava però già il basso all'Università di Miami, dove strinse una forte amicizia con il chitarrista Pat Metheny, cosa che avrebbe portato i due a registrare insieme, pubblicando un LP poco conosciuto (semplicemente intitolato Jaco) nel 1974. Ma fu solo quando divenne membro dei Weather Report che il giovane virtuoso iniziò a lasciare il segno sulla scena mondiale. L’album di debutto da solista, pubblicato nel 1976, è una vetrina per gli incredibili talenti del bassista, per non parlare della sua maturità come compositore. A unirsi a lui in studio non c'erano altri che alcuni dei musicisti jazz più straordinari dell'epoca: Herbie Hancock, Wayne Shorter, Lenny White, David Sanborn, Hubert Laws e Michael Brecker. Anche le leggende del soul/R&B Sam & Dave fanno una sporadica apparizione. Iniziando l’album con una cover di "Donna Lee" di Miles Davis, Jaco mette subito tutte le carte in tavola, con un'interpretazione molto creativa di questo classico del be-bop. I già citati Sam & Dave contribuiscono con le loro voci al funky "Come On, Come Over", in cui Herbie Hancock e i fratelli Brecker aggiungono un certo colore e una consistenza tutta loro. "Continuum" indica quelli che saranno i suoi giorni futuri con i Weather Report, mentre nella collaborazione con Hancock  intitolata "Kuru/Speak Like A Child" i due si impegnano in una sorta di duello di talenti. Sei violinisti, tre violoncelli e tre viole vengono utilizzati per attirare l'attenzione dell'ascoltatore, ma incredibilmente, il tutto non suona mai troppo ridondante o pretenzioso. La ballata "Portrait of Tracy" è uno dei brani più noti dell'album, in cui Jaco riesce a dipingere un quadro impressionaista con il suo basso elettrico che è tanto tenero quanto intricato. Che si tratti del calypso che incontra la fusion di "Opus Pocus", di "Okonkolé Y Trompa" ispirato a Miles Davis (scritto insieme a Don Alias), con i suoi ritmi complessi di world music, o dell'esteso "(Used to Be a) Cha-Cha", con Hubert Laws al flauto e al flauto piccolo, Lenny White alla batteria e, naturalmente, lo stesso Herbie, Pastorius e i suoi amici non sbagliano mai un colpo, producendo musica che è sia rilassante che stimolante. Quella che era originariamente l'ultima traccia dell'LP, la quasi cinematografica "Forgotten Love", vede Jaco quasi soffocato da una pletora di violini, violoncelli e viole. Sebbene composta da lui stesso, è Hancock che in realtà si prende il centro della scena, offrendo un'esecuzione magistrale al pianoforte. L'edizione del 2000, pubblicata su CD, ha ricevuto la rimasterizzazione completa che l'album meritava, con le eccellenti note di copertina di Pat Metheny, e la sempre gradita inclusione di due tracce inedite. Una registrazione alternativa di "(Used to Be a) Cha Cha" e "6/4 Jam": brani che, a differenza di altri esempi di tracce bonus, in realtà migliorano l'esperienza di ascolto, arricchendola. Se non fosse già chiaro a tutti, Jaco Pastorius fu innegabilmente un grande maestro del basso elettrico fretless. Purtroppo anche a causa degli abusi di sostanze stupefacenti e alcol morì in circostanze tragiche nel 1987 all'età di soli 35 anni, lasciando un vuoto incolmabile. Ciò che questo album dimostra, senza ombra di dubbio, è che Jaco rimarrà per sempre uno dei bassisti più preminenti che il mondo abbia mai conosciuto (e ascoltato). Il solo fatto che avesse 24 anni quando lo registrò lo rende ancora più sorprendente. Da un certo punto di vista è impossibile ascoltare oggi l'album di debutto di Jaco Pastorius con lo stesso feeling di quando fu pubblicato nel 1976. Ma l'opera è comunque grandiosa ed ogni traccia prende una direzione diversa, ognuna è un piccolo capolavoro che rappresenterebbe qualcosa di cui andare fieri per qualsiasi musicista. Ciò che rende Jaco così eccezionale e in qualche modo immortale è il fatto di essere stato un precursore, un genio in grado di cambiare la storia di uno strumento come il basso, rompendo qualsiasi barriera e lasciando così un’eredità inestimabile. Oltre alla sua fenomenale tecnica e alle sue sorprendentemente mature capacità compositive, c'è da tenere conto dell'audacia dei suoi arrangiamenti. Per un uomo con questo tipo di precoce e caleidoscopica creatività, rimanere sano di mente forse era chiedere troppo; la sua graduale discesa nella follia e la sua tragica morte sono ormai una storia familiare, che rende la brillante promessa di questo glorioso album di debutto ancora più agrodolce.

John Patitucci – John Patitucci


John Patitucci – John Patitucci

Gli anni ’80 videro un fiorire di talenti del basso elettrico nel jazz. Complice la tendenza alle contaminazioni con il funk ed in parte anche con il rock ebbero modo di venire alla ribalta diversi musicisti di grande valore e di tecnica sopraffina. Erano un po’ come dei figli artistici, per così dire, di Jaco Pastorius, Stanley Clarke e altri capostipiti di un modo nuovo di interpretare il basso: più dinamico, più muscolare, financo più spettacolare. Da lì in avanti il basso elettrico si trasformò da semplice motore ritmico a qualcosa di diverso, per molti versi sovrapponendosi alla chitarra. Sulla scia dei primi ed insuperati geni, furono in molti ad affermarsi ed a caratterizzare la musica dei decenni a venire. Tra i tanti incredibili interpreti di questo affascinante strumento, del quale controllavano con perizia ogni sfumatura, va senza dubbio annoverato anche John Patitucci. Personaggio particolare con una vocazione quasi maniacale verso il basso fin dalla più tenera età, John aveva ben chiaro quale dovesse essere il suo destino già a dodici anni. Ad una età durante la quale la maggior parte di noi è di solito preoccupato per la scuola o magari fissato con uno sport, Patitucci si dimostrò determinato a diventare un musicista professionista. Non proprio una cosa usuale, in effetti. Ma Patitucci era più maturo della sua età, era consapevole di avere le capacità e la giusta attitudine per la musica. A questa caparbietà aggiunse il duro lavoro, la determinazione e lo studio costante ovvero quelle peculiarità che sarebbero poi diventate il suo vero biglietto da visita. Così John iniziò effettivamente a suonare il basso elettrico, ma a quindici anni unì a questo anche una viscerale passione e dedizione per il contrabbasso acustico. Il risultato è sotto gli occhi di tutti gli appassionati e ha portato il musicista newyorkese ad essere considerato da molti uno dei bassisti più talentuosi del pianeta. Con una nota di merito e di distinzione particolare, se si considera che è tra i pochi a padroneggiare sia l'elettrico che l'acustico con uno stupefacente livello di virtuosismo. D’altra parte ha forgiato la sua preparazione all’interno di un contesto tra i più stimolanti e creativi del secolo scorso: le Elektric e Akoustic band di Chick Corea. E’ proprio uscendo finalmente dall’ombra del gigante Corea e dei suoi formidabili compagni d’avventura che Patitucci ha dato alla luce nel 1987 il suo album d’esordio. Fu un brillante e piacevole debutto da solista, scandito con vigore e classe dal suo brillante modo di suonare il basso. Fuori dalle band di Corea, John espresse subito la sua tecnica sopraffina, caratterizzata da uno stile slap funk, del quale è un fantastico esponente, ma ricamando al contempo linee fluide e sofisticate sul suo basso a cinque corde. Patitucci, non è mai sopra le righe ed esibisce la compostezza ed il rigore di un grande bassista spingendo tuttavia spesso il suo strumento nella gamma della chitarra. Anche dal punto di vista compositivo i brani di John risultano interessanti, molto ben articolati e soprattutto non troppo legati ai cliché del jazz-rock o della fusion. Il jazz è ben presente ed anche se è virato con contemporaneità e sempre elettrico, non è un semplice sentore. Pezzi come Growing, Baja Bajo, Killeen, Searching, Finding o Wind Sprint descrivono in modo eloquente la bravura di Patitucci come solista e, sia pure con qualche influenza evidente derivata direttamente da Chick Corea, testimoniano l’originalità e la creatività del musicista. Di certo in questo suo album d’esordio Patitucci riceve un sostanziale aiuto da parte di un gruppetto di fantastici musicisti, tra i quali lo stesso sorprendente Chick Corea (che è anche il produttore del lavoro) ed un trio di batteristi che si alternano e che rappresentano il gotha mondiale dello strumento quali Dave Weckl, Peter Erskine e Vinnie Colaiuta. La ciliegina sulla torta è rappresentata dal sax tenore di Michael Brecker, che come sempre aggiunge qualcosa in più a qualsiasi progetto musicale. Non c’è alcun dubbio, che questa opera prima di John Patitucci accrebbe in modo esponenziale la reputazione di questo formidabile musicista, lanciandolo verso una luminosissima carriera. Non a caso John ha vinto in seguito molti sondaggi indetti dalle riviste specializzate proprio per le sue indiscusse capacità e lo stile originale che caratterizzano il suo approccio con lo strumento. È risultato tra l'altro "migliore bassista jazz" in un sondaggio dei lettori indetto dalla rivista Guitar Player Magazine nel 1992, 1994 e nel 1995 e "miglior bassista jazz" in quello della rivista Bass Player nel 1993, 1994, 1995 e 1996. Questo album omonimo, il primo da solista di un grande maestro del basso, è un lavoro storicamente importante, che era già avanti a fine anni '80 e tuttora si mantiene attuale ed interessante. E’ un disco per appassionati del basso come strumento, ovviamente è imperdibile per gli amanti della fusion ma risulta apprezzabile anche da coloro che amano il jazz: è sufficiente per consigliarlo caldamente, anche in virtù di una registrazione dalla qualità straordinaria.

Bob Baldwin – Songs My Father Would Dig


Bob Baldwin – Songs My Father Would Dig

Bob Baldwin è un pianista americano che fin dalla più tenera età è stato educato alla musica da suo padre, che era a sua volta pianista e insegnante. Come spesso accade, i suoi riferimenti sono stati le più iconiche tra le leggende del jazz: Miles Davis, Oscar Peterson, John Coltrane. Con un pianoforte verticale in casa, un impianto stereo sempre in funzione e gli insegnamenti paterni ebbe l’opportunità di studiare e suonare apprendendo la tecnica jazzistica, il fraseggio ed il groove della musica afroamericana, affinando così le sue doti ed il suo talento. Dal 1983 ha iniziato a produrre musica abbracciando lo stile fusion/smooth jazz e mantenendo questa connotazione artistica per circa 40 anni. Finalmente alla fine del 2023 ha deciso di registrare un album di rottura con la passata produzione, optando per un jazz moderno ma virato su una forma più tradizionale. Allo scopo ha riunito un trio con il batterista Tony Lewis, il bassista acustico Richie Goods e il percussionista Edson "Café" da Silva per dare alla luce un lavoro in onore di suo padre, nel frattempo scomparso. Il progetto risulta senza dubbio riuscito: da un lato per la scelta del materiale musicale, dall’altro perché consente finalmente di poter apprezzare Bob Baldwin come pianista acustico pieno di talento. L'intero album è stato registrato in un giorno. La scaletta è composta per metà da brani composti da John Coltrane, Miles Davis, Herbie Hancock e Stevie Wonder. L'altra parte è caratterizzata invece da una manciata di composizioni originali di Baldwin con un'eccezione: "To Wisdom, The Prize" che è stato scritta da suo cugino Larry Willis. Willis è stato anche lui un pianista di spessore e qualità, che ha suonato nella band dei Blood, Sweat & Tears e per lungo tempo con Roy Hargrove e Hugh Masekela. Il cool jazz degli anni ’60 fu il periodo preferito dal papà di Bob e ovviamente la parte più importante della sua formazione musicale. Il progetto che sta dietro Songs My Father Would Dig è di grande importanza per il pianista newyorkese perché rappresenta l’apice della sua carriera, ma anche il mezzo che gli ha consentito di rendere omaggio nel migliore dei modi alla sua importante figura paterna, attraverso la scelta dei brani che egli preferiva. Una parte del jazz degli anni '60, ad eccezione del free e dell’avanguardia, aveva anche un leggero tocco soul e pop ed era forse più facile per chi non masticava molto la musica. Era piacevole, a volte leggero e alla fine divenne il trampolino di lancio per il jazz contemporaneo negli anni '70. In una riflessione personale riguardo al suo nuovo album Baldwin ha detto: “Mio padre era un uomo del Rinascimento, un maestro della fotografia, della musica e del biliardo. Da bambino, ho assorbito la sua grandezza, trascorrendo innumerevoli serate nel nostro soggiorno, che era un santuario pieno dei suoni delle leggende del jazz: quello è stato il luogo in cui è sbocciato il mio amore per la musica. Immergendomi in brani classici e standard jazz come "In a Sentimental Mood", "Misty" e "A Night In Tunisia" ho cercato di imparare con naturalezza l’essenza di questo affascinante linguaggio musicale. Questo lungo viaggio artistico mi ha portato ai Samurai Studios, dove ho trovato un pianoforte Steinway di oltre 100 anni con un sound ricco e cristallino, che ha donato alla sessione di registrazione quasi una comunione spirituale con mio padre. Era come se fosse presente, guidandomi attraverso la musica che è diventata Songs My Father Would Dig.” Tutto ciò si riflette appieno in questo bellissimo lavoro di Baldwin, nel quale i 4 musicisti sembrano davvero raggiungere una dimensione trascendente, spinti dai ricordi e dalle esperienze personali. C’è una sorta di abbandono al fluire della musica, uno straordinario interplay tra i musicisti stimolati in ultima analisi anche dallo stupendo materiale scelto. Di fatto è un vero piacere ascoltare un pianista talentuoso come Bob Baldwin alle prese finalmente con il jazz acustico più classico, senza alcuna mediazione elettronica. Solo un pianoforte, un contrabbasso, una batteria ed una spruzzata di percussioni. Tra i brani sono degni di nota tutte le cover proposte, come Equinox di Coltrane, Nardis di Bill Evans, Dolphin Dance di Hancock, Star Eyes di Parker ed una meravigliosa interpretazione di Overjoyed di Stevie Wonder. Le composizioni originali di Bob sono parimenti interessanti e denotano da parte del pianista una notevole padronanza del linguaggio jazzistico. A ribadire lo spessore del personaggio, oltre alla sua prolifica carriera come tastierista smooth jazz, Bob dal 2008 è conduttore e produttore di NewUrbanJazz Radio, un programma radiofonico a diffusione nazionale di grande successo. Songs My Father Would Dig è un bellissimo album, uno dei migliori dell’ultimo periodo: è godibile, fluido e piacevolmente sofisticato. La speranza è che Bob Baldwin continui a proporre questo stesso tipo di musica anche in futuro. Consigliato a tutti.

Rickey Kelly – Limited Stops Only

Rickey Kelly – Limited Stops Only

Non sono poi molti i vibrafonisti che hanno animato il mondo del jazz nel corso della sua storia. Alcuni di loro hanno raggiunto una certa fama, scrivendo anche delle pagine memorabili: Lionel Hampton, Milt Jackson, Gary Burton, Bobby Hutcherson, Mike Mainieri o Cal Tjader, per citarne alcuni. Altri sono rimasti maggiormente nell’ombra, non arrivando mai ad un vero successo. Tra questi c’è senza dubbio il talentuoso vibrafonista di San Francisco Rickey Kelly. Nonostante tutto egli ha tenuto duro nel difficile mondo del jazz, riuscendo anche a registrare tre album a suo nome. Come molti prima di lui, Kelly necessitava di un lavoro giornaliero per sostenere finanziariamente se stesso e la sua famiglia, la musica da sola non bastava. Tuttavia, dopo aver suonato con il leggendario Bobby Hutcherson, Rickey si trasferì a Los Angeles per studiare e perfezionare la sua arte. Fondò il gruppo d'avanguardia Roots Of Jazz ed in seguito decise di oltrepassare l’oceano e approdare ad Amsterdam. La sua prima registrazione da solista “My Kind Of Music” fu pubblicata proprio al suo ritorno negli USA. Al contempo diventò un turnista molto richiesto, lavorando con Sun Ra, Kenny Burrell, The Jazz Crusaders, Billy Higgins, Hubert Laws, Ahmad Jamal e Marvin Gaye. Nel 1983,  pubblicò Limited Stops Only che è probabilmente il suo album più riuscito. Pubblicato per la Nimbus Records, presentava un quintetto con David E. Tillman (piano), Sherman Ferguson (batteria), James Leary III (basso) e Dadisi Komolafe (flauto). L’album è una raccolta tanto di composizioni originali quanto di cover: sei tracce che mettono in mostra il talento unico di Kelly. Il lavoro è incentrato su un classico ensemble jazz e presenta un evidente tocco hard bop. Il primo brano è una vivace composizione originale intitolata “Distant Vibes”, virata nel linguaggio dell’hard bop. Kelly si esibisce subito nel primo assolo mettendo in mostra velocità e tecnica, in perfetta sinergia con la sezione ritmica. Il flauto di Komolafe si libra con freschezza, spinto da un contrabbasso molto incalzante. Tillman, a sua volta si propone con il suo bell’assolo di piano. E’ un inizio molto promettente che dà all'intero album la giusta prospettiva. Si passa poi ad una interessante cover di “Flying Colors”, ricca di swing. Kelly segue il ritmo con un fraseggio sicuro e fluido, giocando con il pianista David Tillman ad un dinamico scambio di assoli. Kelly trasforma il popolare standard di Jerome Kern, “Yesterdays”, in un classico pezzo di jazz puro e semplice, come fatto da molti altri artisti prima di lui, (Charles Mingus, Art Tatum, Bud Powell, Billie Holiday e Sonny Rollins per citarne alcuni) la base melodica e armonica viene trasformata e plasmata con un tocco personale. Dadisi Komolafe offre un assolo di flauto flessuoso per poi dare spazio al bravo James Leary che si esibisce in un vivace assolo di contrabbasso. Alla ripresa Kelly continua la sua performance ribadendo il suo spettacolare talento. Viene naturale constatare che Kelly prenda anche un brano del suo idolo Bobby Hutcherson: "Same Shame" il vibrafonista ne dà una lettura particolare, virata con una risonanza più lenta e atmosferica. E’ un pezzo quasi ipnotico ma Kelly ne cattura le sfumature melodiche proponendo qualcosa di maggiormente etereo. Il contrappunto armonico e i dettagli sonori, come l'eco del vibrafono o il vibrato del flauto, sono accattivanti. Il punto culminante dell’album probabilmente è la lunga versione di “Dolphin Dance” di Herbie Hancock. Ritorna il gioco tra vibrafono  e flauto, il tempo accelerato propone una versione opportunamente libera, sganciata dall’originale ma ugualmente affascinante. Sono due gli assoli offerti da Kelly, entrambi molto interessanti ed il delicato fraseggio del pianoforte di Tillman gioca un ruolo sinergico estremamente efficace. Il gran finale è riservato ad una lenta rilettura della celebre “Lush Life” di Billy Strayhorn: un netto cambio di ritmo che inserisce un tocco di romanticismo e delicatezza al programma. Kelly evidenzia le sue evidenti abilità strumentali nelle ballate, con Leary al basso suonato in maniera tradizionale ed anche con l’archetto. Il batterista Sherman Ferguson lavora con le spazzole per completare l'atmosfera di questo brano che è l’unico registrato in trio. Limited Stops Only è un gran bell’album, invero una gemma nascosta che vale la pena di ascoltare. Sarà apprezzato non solo dagli appassionati di quell’affascinante strumento che è il vibrafono, ma anche dai cultori dell’hard bop, a dispetto della data di pubblicazione, il 1983, ovvero un momento storico nel quale questo stile non trovava più grande spazio. Rickey Kelly è un musicista molto valido e tecnicamente ineccepibile, al quale semmai si può solo rimproverare di non aver registrato molto di più. Tra l’altro dal punto di vista sonoro il lavoro della Nimbus è encomiabile, con un mix uniformemente bilanciato e con una buona separazione stereo e la tonalità e gli effetti del vibrafono che sono resi con chiarezza e profondità. 

Gary Bias – East 101


Gary Bias – East 101

Gary Bias, è noto principalmente per la sua militanza nel mitico gruppo degli Earth, Wind And Fire, con i quali ha scritto pagine importanti della storia della band. Lui è però un musicista con una grande esperienza, che ha avuto una carriera rilevante anche prima di entrare nel famoso complesso dei fratelli White. Ha iniziato a suonare il sassofono all'età di undici anni e con il tempo ha sviluppato un timbro passionale ed evocativo che fluttua in modo intrigante in un mix tra jazz, funk e soul. Nonostante la sua considerevole esperienza ha però all’attivo solamente due album come solista: il primo del 1981 ed il secondo del 1999. Gary infatti ha messo per molti anni il suo sax al servizio di grandi artisti come Stevie Wonder, Quincy Jones e Whitney Houston. Curiosamente Bias è stato compagno di scuola di Gerald Albright, Patrice Rushen e Ndugu Chancler ed in seguito, mentre perseguiva la sua laurea in musica presso la California State University di Los Angeles, fu assunto per un tour con la Quincy Jones Orchestra. Dopo il college si unì al famoso artista di jazz latino, Willie Bobo, e poi andò in tournée addirittura con la Duke Ellington Orchestra. All'epoca aveva solo 23 anni. Un momento culminante nella carriera di Bias fu quando compose la celebre canzone "Sweet Love" portata al successo planetario da Anita Baker nel 1985. La melodia in oggetto gli è valsa un Grammy Award per la canzone R&B dell'anno. Il 1987, fu infine l’anno della vera svolta perché entrò a far parte della leggendaria band degli Earth, Wind and Fire. Il suo passo verso la prima linea, questo veterano del sax, lo fece con East 101, un album dai contenuti piuttosto impegnati e quasi sperimentali, fortemente orientati verso un linguaggio jazzistico moderno e decisamente lontano dalle atmosfere morbide ed orecchiabili delle sue usuali collaborazioni artistiche. La prima traccia dell'album è la straordinaria "Asiki", un brano di atmosfera ma di gran classe con Bias impegnato al sax soprano accompagnato dal vibrafonista Rickey Kelly e con uno straordinario assolo di David Tillman al pianoforte. "Dear Violet" è un brano che Gary Bias dedica a sua nonna: un momento molto spirituale nel suo approccio con il solo sassofono ed il basso nello stile di Pharoah Sanders. Una canzone che sembra quasi non voler mai iniziare veramente. "Arthur's Vamp" inizia con un bel basso: qui Bias mostra un feeling simile alle sonorità di Arthur Blythe (a cui ovviamente è dedicata la traccia). Ogni assolo è di ottima fattura ed è quasi in contrasto con il rilassato antipasto iniziale dell'album. La title track East 101 è invece più leggera e vivace e la band trova spazio per gli interventi dei singoli strumenti. Infine troviamo la jazzistica “As Children Play” dove si può ascoltare il sassofonista suonare il flauto. È un tema impostato su una ritmica di valzer jazz che mette in risalto ancora una volta l’abilità di David Tillman al pianoforte, dello stesso Bias anche al sassofono soprano e del bassista Roberto Miranda. L’album esprime una bellissima e onirica forma di jazz spirituale, registrata in un'epoca in cui questo linguaggio era ormai completamente fuori moda. East 101 di Gary Bias rimane un lavoro poco conosciuto anche per gli standard dei cultori più informati del jazz, forse anche perchè il suo approccio non proprio facile richiede molta attenzione da parte degli ascoltatori. In effetti questo genere di musica cessò di fatto di esistere intorno alla fine degli anni '70, lasciando spazio per altre contaminazioni e suggestioni molto più funk ed elettriche. Registrato con un cast di supporto di tutto rispetto con il vibrafonista Rickey Kelly, il bassista Roberto Miranda, Fritz Wise alla batteria ed il pianista David Tillman, Gary Bias svela qui per la prima volta tutto il suo talento, rimasto nascosto dietro alle collaborazioni con altri artisti. Una manciata di composizioni originali intrise di sentimento e dai grandi orizzonti, molto evocative e profonde in grado di colpire l’ascoltatore. Il suo flauto e il suo sassofono creano un jazz complesso, spesso virato nello stile modale, che rappresenta tanto una sfida quanto un momento confortante e meditativo. Gary è una voce forte del panorama jazzistico che avrebbe meritato senza dubbio una maggiore notorietà.

Kirk Fischer - Friends


Kirk Fischer - Friends

Kirk Fischer è un pianista ed un compositore texano ed è davvero poco noto, soprattutto fuori dagli USA. La sua particolarità sta in primis nel fatto che non è un professionista della musica perchè di fatto per lui la carriera musicale è una sorta di hobby. Kirk è un professore universitario, e solo grazie ad un caso ha potuto registrare un album a suo nome. Fin dagli anni ’90 Fischer ha coltivato la sua passione suonando e registrando nel suo studio di casa ed esibendosi dal vivo praticamente solo a livello locale, nell’area di Austin. La possibilità di produrre un disco è venuta solo dopo essere entrato in contatto con l’affermato trombettista Greg Adams. Fischer mai avrebbe potuto immaginare che il risultato di questa conoscenza sarebbe stato la pubblicazione del suo primo cd: dieci brani che mettono insieme alcune interessanti cover con le sue stesse composizioni. Ma il lavoro è arricchito anche da bellissimi arrangiamenti d’archi, e dalla potenza dei fiati dell’East Bay Soul guidati in prima persona da Greg Adams, la cui sopraffina produzione ha reso “Friends” una delle uscite di jazz contemporaneo più interessanti del 2017. Kirk Fischer ovviamente suona le tastiere, ed è accompagnato da diversi musicisti: Herman Matthews (batteria), Kay-Ta Matsuno (chitarra), Dwayne "Smitty" Smith (basso), Johnny Sandoval (percussioni), Greg Adams (tromba, flicorno) , Lee Thornburg (tromba, flicorno, trombone), Greg Vail (sax) e il ROQ Goddess String Quartet. Tutti dimostrano grande dedizione ed un apprezzabile vigore nel creare un'atmosfera armoniosa, orecchiabile, estremamente godibile. Qualcosa che sta tra i momenti più strumentali di Burt Bacharach, David Foster ed a tratti certa musica da commedia all’italiana degli anni ’70. Spruzzate di jazz, arrangiamenti sontuosi e molto buon gusto. L’esempio lampante è il brano che da il titolo all’album, che viene letteralmente portato ad un altro livello da una un'orchestra magnificamente arrangiata dove gli archi suadenti e i fiati vellutati creano un mood veramente piacevole. Con Dis 'Sup Kirk sceglie un approccio più contemporaneo: la band viaggia gagliardamente groovy con l’orchestra che dà più sapore a tutto il contesto. Se poi parliamo di cover, Fischer fa un ottimo lavoro con una versione innovativa del classico di Hall & Oates "Kiss On My List": morbida e vellutata. Un’altra interpretazione decisamente particolare è quella della celebre "The Way It Is" di Bruce Hornsby, stravolta quanto basta per essere quasi difficile da riconoscere. E poi c’è la vivace e potente "Thunder and Lightning" di Chi Coltrane, che Fischer esegue all’organo Hammond B3 con Greg Vail al sax. Ma in ultima analisi è proprio con i suoi pezzi originali che Kirk centra davvero il bersaglio. Il groove torna sovrano con le atmosfere smooth di "Bast Majority" grazie anche ad un uso impeccabile del sound potente dei fiati dell’East Bay Soul. "Open The Eyes Of My Heart" è costruita attorno ad un'altra performance di classe del sax di Greg Vail, mentre in "Blame It On Your Own Self"  Kirk Fischer mette in piena luce la sua abilità di pianista armonizzando al meglio per la sezione fiati che qui esplode in tutta la sua potenza espressiva. “Shades Of Grey” ha una melodia romantica ed accattivante, suona quasi come una colonna sonora di un film: malinconica ed intrigante. Infine “Reach Into Your Heart” è un po’ la summa di tutto il contenuto di Friends, raccogliendo al suo interno ogni suggestione ascoltata in questo bellissimo album. Anch’essa cinematica ed orecchiabile, non fa che confermare come Kirk Fischer sia riuscito a produrre un lavoro tanto eccellente quanto inatteso. Una rara sinergia traspare attraverso l’intero progetto, cosa che sprigiona entusiasmo e serenità, regalando momenti di musica estremamente godibile. Anche se Kirk Fischer (o forse proprio per questo) è un artista praticamente sconosciuto, mi sento di raccomandare a tutti l’ascolto di Friends.