The Brand New Heavies - Brother Sister



The Brand New Heavies - Brother Sister

Gruppo della prima ondata dell'Acid Jazz, originario di un sobborgo di Londra, i Brand New Heavies nascono come band strumentale, ma al momento della firma del primo sospirato contratto discografico, aggiungono una cantante al loro line-up. In breve tempo nel giro dei club della scena funk londinese diventano dei musicisti di culto, molto ricercati e amati. Questo album vede i BNH esibirsi in un contesto di classico, potente funk, un ritorno allo stile di quello di debutto, con in più una maggior cura per la produzione ed un certo feeling elegante. Arrangiamenti pilotati da robusti fiati, sezione ritmica da battaglia e la brava N'Dea Davenport nel ruolo di cantante e front woman. Dopo un secondo album coraggioso, anche se forse non del tutto riuscito, nel quale cercarono di fondere il rap e l'hip hop con l'energia di un reale ensemble di musicisti, si torna quindi su questo Brother Sister al più rassicurante ed anche gradevole territorio dell'acid jazz, infarcito di funky, soul e R&B. N'Dea Davenport è indiscutibile protagonista, con la sua bella voce ed una carismatica presenza, della quale evidentemente i Brand New Heavies non possono fare a meno. Ascolti ripetuti dimostrano quanto questo lavoro sia effettivamente molto orecchiabile, ben congegnato e altrettanto ben suonato, confermando ogni volta di essere davanti ad un ottimo lavoro. Un album solare, molto "musicale", sicuramente figlio degli anni '90, legato a doppio filo a quella bellissima parentesi che fu denominata Acid Jazz. Le canzoni da hit parade non mancano: "Dream On Dreamer", "Spend Some Time" "Brother Sister" e la cover di "Midnight At The Oasis" su tutte. Energia, divertimento, ritmo e arrangiamenti sempre coinvolgenti: questa era la formula magica di quel periodo storico. Elementi che in Brother Sister ci sono davvero tutti.

Hendrik Meurkens - A View From Manhattan



Hendrik Meurkens - A View From Manhattan

Esiste davvero un erede degno dell'inarrivabile armonicista Toots Thielemans ? Una domanda alla quale è difficile dare una risposta definitiva. Per qualità tecnica, creativa e talento in realtà il cinquantanovenne tedesco di Amburgo Hendrik Meurkens detiene di diritto la "posizione" come secondo miglior armonicista del jazz di sempre (dietro lo stesso Toots Thielemans, ovviamente), Posizione di eccellenza che viene confermata con questa bella incisione. A differenza delle sue due precedenti registrazioni con la Concord Records, Meurkens in questo lavoro, sposa felicemente il jazz mainstream piuttosto che la musica brasiliana / bossa nova come aveva fatto in passato. Nel fare questo affronta con apparente facilità una varietà di materiale difficile e stimolante (e quattro degli 11 pezzi, per giunta, sono sue composizioni originali) . Il bravo armonicista (ma anche vibrafonista) esce dalla non facile prova con delle fresche interpretazioni di classici come "Whisper Not", "Naima", "Body and Soul", "Moment's Notice" o "Speak Low". La sua tecnica è sopraffina e il timbro della sua armonica è quanto mai variegato, gradevole e sempre adeguato anche quando il confronto è con i solisti che proprio quei pezzi hanno resi celebri: parlo di John Coltrane, Benny Golson o Thad Jones. Il rimando al maestro Toots è ovvio e inevitabile, ma il nostro tedesco se la cava egregiamente, riuscendo ad entusiasmare, risultando pienamente convincente. Il suo cast di supporto che comprende il sassofonista Dick Oatts, il trombonista Jay Ashby, il pianista Mark Soskin, la batteria di Portinho, ed il basso di Harvey Swartz è molto ben assortito. L'affiatamento tra solista e band appare ottimo in ogni frangente sia si tratti di brani veloci sia quando vengono affrontate delle ballads. Questo album del 1993 ci regala quindi un ottimo esempio del talento puro di Hendrik Meurkens e ci fa riscoprire il piacere di ascoltare uno strumento così particolare e forse dimenticato come l'armonica, qui suonata ed interpretata ai massimi livelli possibili.

Lou Rawls - Black And Blue + Tobacco Roads



Lou Rawls - Black And Blue + Tobacco Roads

Lou Rawls è stato a mio parere una delle più belle voci del panorama musicale dal dopo guerra ad oggi. Dotato di una formidabile profondità e di una naturalezza paragonabile solo al mitico Frank Sinatra, è tuttavia molto meno famoso al grande pubblico del popolare cantante italo-americano. Talento puro, musicalità senza compromessi, versatilità nell'attraversare stagioni e stili fanno di Lou Rawls un cantante unico che meriterebbe maggiori riconoscimenti, soprattutto al di fuori dei confini americani. Purtroppo si è spento nel 2006 a 73 anni lasciandoci un'eredità di oltre 50 incisioni.
Black and Blue e Tobacco Roads sono il secondo e terzo album, registrati rispettivamente nel 1962 e nel 1963 per la Capitol Records, dopo un esordio sempre nel 1962 con la Blue Note. La major prese la decisione di affiancare a Rawls una big band molto swing sotto la direzione di Onzy Matthews e con alcuni importanti musicisti come i sassofonisti Curtis Amy, Teddy Edwards, e Sonny Criss, l'organista Groove Holmes ed il bassista Curtis Counce. La scelta non ebbe grossi risultati in termini di vendite, ma artisticamente parlando fu un trionfo. La band è perfetta, le sonorità sono adeguate ed in grande sintonia con il solista e Rawls appare completamente a suo agio nell'eseguire standard jazz come "Summertime" e "Gloomy Sunday". La maggior parte dei brani sono dedicati a famosi standard del blues come "Trouble in Mind", "Stormy Weather", "St. James Infirmary" e "I'd Rather Drink Muddy Water". Sulla carta possono sembrare come le stesse vecchie canzoni che molti ripropongono, ma Rawls le riporta a nuova vita con le sua ricca, ruvida, potente voce. Il momento più bello è la sua versione scarna e ironica di "Tobacco Road", una canzone che sembra nata per essere cantata da lui. Un paio di anni più tardi la registrerà dal vivo su Lou Rawls Live! e questo pezzo diventerà per sempre uno dei suoi cavalli di battaglia. In realtà, entrambi i dischi sono una vera delizia per palati fini, ma godibili da tutti. Rawls è qui agli inizi della sua lunga carriera, ma canta già da consumato performer, compiuto nella sua vocalità, rilassato ed in perfetta armonia con la validissima big band dietro di lui. Più avanti negli anni e dopo numerosi altri dischi spesso nel solco della tradizione, negli anni 70 si avvicinerà al Philadelphia Sound e proprio per l'etichetta Philadelphia International registrerà una serie di bellissimi lavori tra il 1976 ed il 1981. Ad ogni modo in questa doppia pubblicazione sono contenute alcune delle migliori interpretazioni di Lou Rawls. Tutti gli appassionati del grande Lou e gli amanti delle indimenticabili e storiche voci jazz e blues dovrebbero rallegrarsi che la Capitol Records abbia finalmente reso le registrazioni disponibili su CD. E in verità nessuno dovrebbe al contempo rinunciare al piacere di ascoltare questo straordinario talento vocale.

Papa John DeFrancesco - Walking Uptown




Papa John DeFrancesco - Walking Uptown

Papa John DeFrancesco, è il padre del più noto organista jazz Joey Defrancesco, ed è egli stesso un organista di talento. Lo ascoltiamo qui con il suo quartetto (che comprende anche il sassofonista Tim Warfield, e in più l'altro figlio, il chitarrista Johnny De Francesco, e il batterista Glenn Ferracone), Papa John è famoso principalmente per il suo amore per il blues e tutta la musica ad esso correlata. Oltre a una versione up-beat della celeberrima "Sunny", ed una "People Get Ready" fortemente ispirata al gospel, ci propone un brano molto funky alla maniera del blaxploitation sound "160 Million Dollar Chinese Man" (dal remake di Ocean 11), e un pezzo d'atmosfera nel quale Papa John si esibisce al Fender Rhodes con ottimi risultati ("What Happened"). Ci sono poi quattro bei classici blues conditi con vari ritmi e livelli di funk ma eseguiti sempre nel solco della tradizione. Joey Defrancesco fa le sue apparizioni su due tracce (una alla tromba e una al pianoforte) mentre il bassista Paul Klinefelter compare su un pezzo. Per il resto lo show è condotto in lungo e in largo dal quartetto di base e pilotato magistralmente dall'organo grintoso e brillante del settantaseienne musicista, che si scatena e si diverte con il suo classico marchio di fabbrica di matrice soul blues. Tra virtuosismi e routine, qualche ingenuità e un gagliardo e contagioso entusiasmo, il disco scorre fluido, leggero e disincatato, genuinamente concepito per il divertimento di chi esegue e di chi ascolta. Senza grandi pretese certo, forse anche senza grandi ambizioni. Resta solo quel piacere di suonare bene insieme che proprio per questo alla fine ti lascia comunque soddisfatto.

Elvin Jones - Time Capsule



Elvin Jones - Time Capsule

Il batterista Elvin Jones è stato uno storico e inconfondibile membro del quartetto di John Coltrane nel periodo più creativo e importante del genio di Hamlet. La sua è una famiglia di artisti, famosi sono ugualmente i suoi fratelli Thad e Hank, entrambe musicisti jazz, con i quali ha registrato alcuni lavori nel corso della carriera. Dal 1995 è stato inserito, con pieno merito, nella Hall of Fame dei batteristi moderni. Questa particolare registrazione, l'ultima di questa fase, appartiene ad un periodo di contratto discografico con l'etichetta Vanguard che va dal 1975 al 1977, quindi molti anni dopo la morte del mitico Coltrane. E' un album che si allontana dal classico hard bop con il quale il buon Elvin aveva connotato le sua musica fino a quel momento, in favore di un avvicinamento sobrio e non commerciale ad uno stile più fusion, con un moderato uso di strumentazioni elettriche. Lontano dalle estremizzazioni di Miles Davis  o dei Weather Report degli stessi anni e tuttavia indubbiamente moderno e diverso. Abbiamo qui 5 brani (tre del sassofonista Bunky Green, il quale emerge anche come il solista principe di questa session). Una line-up completata dal sassofonista George Coleman, dall'ottimo piano elettrico di Kenny Barron, dal chitarrista giapponese Ryo Kawasaki e dal bassista Junie Booth, Un'ulteriore nota esotica è data dalla presenza del percussionista Angelo Allende. In altre due delle canzoni ("Frost Bite" e "Digital Display"), si aggiungono il bassista Milt Hinton e il flautista Frank Wess. Su Digital Display figura anche il sax soprano di Frank Foster. Nel complesso è un buon album anche se non proprio un capolavoro. Interessante più che altro per apprezzare le sempre grandi doti di batterista di Elvin Jones in un contesto stilistico leggermente diverso da quello al quale siamo abituati. Il jazz in stile hard bop è sempre ben delineato sullo sfondo e l'uso della moderna strumentazione elettrica non sposta più di tanto il tenore generale dell'opera che si mantiene saldamente legata alla tradizione. Quindi non aspettative aperture melodiche alla Crusaders o alla Grover Washington, Jr. poichè qui restiamo nel campo della musica affatto commerciale, con assoli molto complessi, ritmi spesso sincopati ed ancorati al binario di una integrità compositiva e creativa che a tratti si spinge quasi ai confini del free jazz. Da ascoltare ma nel complesso non fondamentale.

Simon Phillips - Protocol 3



Simon Phillips - Protocol 3

Musicista professionista dall'età di 12 anni, il batterista Simon Phillips ha uno stile che è immediatamente riconoscibile. Ha suonato in tour e registrato con quasi tutti i principali artisti rock e pop, da Mick Jagger a The Who e Toto fino ai Judas Priest, Mike Oldfield o Joe Satriani. Un mostruoso performer da super-session, che ha partecipato anche ad innumerevoli  album di jazz e fusion ed a sessioni di progressive rock con gente meno conosciuta ma non per questo meno dotata. Come Duncan Browne, Gary Boyle, Phil Manzanera e Ray Russell. Ultimamente, ha maggiormente curato una crescente attenzione per la produzione, per l'ingegneria del suono, ed infine per una propria fiorente carriera da solista. Al momento i suoi album da leader (o co-leader) ammontano a nove, di cui due precedenti capitoli del Protocol (l'uno ed il due). Nonostante le centinaia di registrazioni in cui è stato protagonista, e le decine di musicisti incredibili con cui ha lavorato, la collaborazione di Phillips con il chitarrista Jeff Beck continua ad essere un momento cruciale della sua carriera. Così, passando dalle atmosfere orchestrali delle tastiere di Steve Weingart, al grintoso stile chitarristico saturo di blues di Andy Timmons, per finire con il vero e proprio debole per i tempi dispari e i suoni di percussioni esotiche, l'influenza di El Becko incombe su Protocol 3. E questa è una buona cosa, perché questo album si rivela come una delle più emozionanti registrazioni jazz-rock dell'anno. Le vaghe atmosfere smooth jazz in passato qua e là presenti, sono scomparse dalla sua musica. Gli otto brani sono molto diversi tra loro e molto creativi, tutti scritti da Phillips e dai suoi compagni. Il risultato di questo eccellente interplay è, come ci si aspetterebbe, fantastico in tutto. Lucido, preciso e potente ma con appena quel poco di " ruvida cattiveria e sporcizia" che rende tutto più umano e naturale, meno asettico. "Narmada" cavalca un groove ballabile dall'inizio alla fine, e Timmons solista si apre completamente al chakra di George Benson. "Ways Imaginary" oscilla abilmente tra blues, un mood morbido e una curiosa pesantezza proto-metal. Qui la chitarra e lo stile freddo del lavoro al piano rhodes di Weingart evocano la felice collaborazione di Beck con Jan Hammer. Quella sorta di inno che è "Outlaw", suona più pesante ancora, e mi ricorda qualcosa che lo stesso Hammer disse tempo indietro: "Questo è il rock-jazz, non jazz-rock" ... Una precisazione che delinea una certa differenza e che sposta gli equilibri sul versante della musica più popolare del mondo, piuttosto che verso quella più sofisticata. La band dimostra la propria versatilità su "You can't, but you can," esibendosi in un vero funky, nella tradizione dei primi album solisti di Billy Cobham, o delle registrazioni di Herbie Hancock con i suoi Headhunters. L'assolo di apertura di batteria di "Undercover" è in puro stile Tony Williams, mentre il resto del brano è un vero ed aggressivo numero jazz-rock, con fantastici assoli di Timmons e Weingart. Il clou di Protocol 3, tuttavia è "Circle Seven", un brano davvero stupendo scritto a due mani da Weingart e Phillips, che ci riporta prepotentemente ai bei tempi del jazz-rock più genuino. Grandi assoli, grandi emozioni, una favolosa performance collettiva che ci racconta che alla fine anche dopo tanti anni la contaminazione tra il jazz ed il rock può ancora dare molto ed in fondo non esiste uno stile che sia realmente e completamente superato. E' la qualità degli interpreti e la creatività delle composizioni a fare tutta la differenza. Protocol 3 è dunque un concreto e reale progetto di jazz-rock. Nessuna velleità d'avanguardia, niente sontuose morbidezze stile smooth jazz o pretese prog (beh, forse un po 'di quest'ultimo in effetti c'è, magari metal-prog...). Solo un album bellissimo che mi ha lasciato con un sorriso sulle labbra ogni volta che l'ho ascoltato.