Hatfield And The North – The Rotters’ Club


Hatfield And The North – The Rotters’ Club

La corrente di Canterbury è stata un filone importante e molto creativo del più vasto panorama del progressive rock. Se da un lato c’era una affinità elettiva con la musica rock degli anni ’70, dall’altro è stata una corrente che ha guardato ed attinto a piene mani dal serbatoio del jazz, riuscendo a miscelare due anime diverse in un meraviglioso connubio artistico. Gli Hatfield And The North sono stati probabilmente il gruppo che più di ogni altro ha saputo cavalcare questa onda di spunti originali, sfornando in sequenza due album uno più bello dell’altro. Essi sono stati un’ispirazione per il progressive rock, per la fusion ma anche per certo pop sofisticato. The Rotters’ Club rappresenta la testimonianza di gruppo maturo, in grado di portare tutte le diverse qualità distintive degli Hatfield ad un livello superiore. Qui si ritrova ognuna delle prerogative note agli appassionati della scuola di Canterbury, sublimate dai migliori musicisti attivi sulla piazza inglese di quegli anni, per un risultato di una bellezza e di una perfezione ancora oggi abbagliante. Basta ascoltare l'esuberante "Share It" di Richard Sinclair, che apre il disco, che è poi anche la canzone pop più sintetica che gli Hatfield abbiano mai registrato: una melodia accattivante, suonata con velocità ed immediatezza. Il brano offre uno dei migliori assoli di minimoog di David Stewart, perfetto nella sua costruzione, è la prova della forza di un solista ispiratissimo, sia che fosse impegnato sui brani più lunghi, oppure come qui in un singolo chorus. Così come era stato per l’album precedente, The Rotters’ Club è una sorta di continuum musicale che si snoda avvolgente sulle sette tracce della prima parte. Ed allora ecco un fantastico strumentale di Phil Miller, "Lounging There Trying", poi un brano di Pip Pyle intitolato "The Yes / No Interlude" dove è l'organo di Stewart a spadroneggiare, ma dove non manca un potente assolo di sassofono, grazie a Jimmy Hastings. Ancora Pip Pyle firma "Fitter Stoke Has a Bath", brano lirico ma in qualche misura futuristico, e poi la bella "Did not Matter Anyway" di Sinclair, una delle canzoni più toccanti del bassista, che presenta anche un bell'intervento al flauto di Hastings. E’ evidente in ogni frammento del disco come tutto qui si sia evoluto in modo sensibile rispetto alla prima uscita discografica: sia la chimica collettiva del gruppo che i punti di forza individuali a livello tecnico. David Stewart, in particolare suona molto più spesso il piano elettrico in confronto all’album d’esordio ed il suo talento è assolutamente degno di nota. Il suo assolo in "The Yes / No Interlude" è certamente una delle improvvisazioni più complesse ed impnoticamnte intricate della sua militanza con gli Hatfield. Il suo sound è inconfondibile e, senza alcun dubbio, è prevalentemente di natura jazzistica. Gli Hatfield potrebbero certamente essere definiti non jazz dai puristi, ma nonostante il prog rock  sia una parte innegabile della loro natura, è ugualmente chiaro che essi siano un gruppo la cui essenza pare ispirata dal jazz. Un’architettura sonora strutturata e intelligente in cui l'improvvisazione e la complessità venivano ammorbidite e mascherate attraverso una musica tutto sommato fruibile. La seconda parte di Rotters’ Club si dipana attraverso due lunghi brani strumentali che sono altresì tra i migliori esempi delle sonorità canterburiane degli Hatfield. "Underdub" di Phil Miller è un numero davvero eccellente, caratterizzato da una melodia sinuosa, resa ancor più bella dal piano elettrico ed il flauto che si sovrappongono. L’eterea ed atmosferica "Mumps", è una suite di oltre 20 minuti, forse il punto più alto nella scrittura musicale di Stewart. Il tastierista fa qui un uso sapiente delle voci del coro femminile delle Northettes, in quello che è uno dei colori più distintivi degli Hatfield. Ciò gli consente di sovrapporre temi su temi senza mai diventare pesante o cervellotico. All’interno della suite c’è un frammento intitolato "Lumps", in cui Dave Stewart ci delizia con il suo assolo di organo più vibrante, sostenuto dal ritmo perfetto di Pip Pyle e dalle notevoli capacità di David Sinclair di plasmare il suono del suo basso. E’ così che le Northettes, Sinclair, Miller e Stewart entrano in un passaggio di pura magia contrappuntistica, mentre il batterista Pip Pyle appare granitico nel mantenere un battito costante. Va menzionato in particolare anche il chitarrista Phil Miller, la cui tecnica è sempre raffinata ed elegante e la cui essenza appare come la più affine al jazz. L'uso quasi classico dell'iterazione tematica, in un contesto a volte pieno di grande energia ma in altri momenti sfumato e impalpabile, fa di The Rotters’ Club un capolavoro unico nel suo genere. Un dinamico e complesso gioco sempre in equilibrio fra il progressive rock canterburiano e l’avanguardia di un jazz elettrico del quale anche i più scettici possono qui trovare valida testimonianza. Una sorta di congiuntura artistica e ispirazionale ha reso gli Hatfield And The North di Rotters’ Club un unicum irripetibile e straordinario. Siamo di fronte ad una grandissima band, scioltasi troppo presto e al cospetto di un disco che entra di diritto tra le pietre miliari della musica dello scorso secolo. Imperdibile.