Gerry Weil – The Message


 Gerry Weil – The Message

Torno a parlare di rare grooves e vintage sounds con un tastierista che saranno davvero in pochi a conoscere. Gerry Weil è di origine austriaca (ora ha 81 anni ed è ancora pieno di vitalità) ma si trasferì in Venezuela nel 1957 quando aveva solo 17 anni. Qui è diventato uno dei compositori più importanti della sua terra adottiva, dove molti dei suoi brani sono apprezzati in ambito jazzistico. Musicista curioso e aperto all’innovazione fu influenzato in primis dalla storica e controversa svolta elettrica di Miles Davis "(Bitches Brew e In A Silent Way)", ma anche dalla cultura hippy d'avanguardia della fine degli anni '60 / primi anni '70. In particolare da tutte quelle band che esploravano la commistione tra rock e jazz, tipo Chicago, Blood Sweat And Tears o Nucleus. Era un periodo di innovazione e sperimentazione musicale in ogni angolo del globo e i giovani musicisti venezuelani cercavano di cavalcare la stessa onda. A quel tempo il fermento creativo era senza confini: da Hendrix a Santana, dai Funkadelic a Sun Ra fino alle band seminali come i Soft Machine, la Mahavishnu Orchestra e i Weather Report, tutti stavano impegnandosi nella scoperta di una miscela esplosiva di improvvisazione jazz ed energia rock. In questo contesto, nel 1971, il pianista naturalizzato venezuelano Gerry Weil pubblicò The Message, un album ambizioso e intenso che, pur partendo da un paese fuori dai circuiti musicali abituali, si inserì a buon titolo nel neonato filone jazz fusion. Il lavoro fu costruito attorno alla presenza dei migliori musicisti del paese. Tutti volevano partecipare a questa particolare registrazione e così, in uno studio troppo piccolo per ospitare contemporaneamente tutti e quindici i musicisti coinvolti, fu concepito "The Message". Ne uscì fuori una piccola gemma, un diamante grezzo, ruvido come i suoni che sgorgano dal suo ascolto. La miscela proponeva dei fiati esplosivi sul genere di quelli dei Tower Of Power, le chitarre elettriche distorte, la ritmica potente, il piano elettrico del leader ed in più l'appassionata voce roca dello stesso Gerry che inneggiava all'amore, alla pace e tutti quegli ideali utopici che gli hippy sognavano. Sebbene The Message non abbia raggiunto le vette commerciali toccate da alcuni degli esponenti più famosi della fusion, l'album risulta essere molto stimolante e dinamico. Perciò l'etichetta londinese Olindo Records ha deciso di ristamparlo, consentendo agli ascoltatori contemporanei di scoprire questa opera fin troppo dimenticata. L'apertura dell'album, è il paradigma perfetto del sound che si può trovare dentro a queste tracce vintage. "The Joy Within Yourself", è una jam dalle radici blues, con un arrangiamento roboante di fiati. Weil è al centro della scena con una voce d’altri tempi, quasi alla Tom Waits. Vinicio Ludovic si rende protagonista di un assolo di chitarra selvaggio e distorto. L’impatto è a dir poco sorprendente, almeno per gli standard odierni. "The Bull's Problem" è un brano energico e trascinante, arricchito da un arrangiamento di ottoni e dagli assoli di piano elettrico di Weil. L’album si immerge anche in un jazz modale fortemente influenzato da Coltrane in un numero come "Johnny's Bag" e quindi non dimentica la psichedelia funky jazz nella particolare title track. "What Is A Man" rimanda al sound dei Chicago, con più ruvidezza, ma un feeling simile. Il lavoro ci propone una visione della mentalità musicale in qualche modo unica di Weil. E’ un ascolto coinvolgente adatto per gli appassionati e curiosi dei giorni nostri, ma decisamente calato nella realtà degli anni ’70. The Message è un disco che richiama  direttamente un'era di grande tensione creativa, in cui la combinazione di jazz e rock stava aprendo possibilità musicali sconosciute fino a quel momento. La perfetta esemplificazione del concetto di rare groove e vintage sound. Tanto sconosciuto quanto interessante.

Steve Raybine - Bad Kat Karma


 Steve Raybine - Bad Kat Karma

Steve Raybine, conosciuto anche con il soprannome di "Master of the Mallets" (Maestro delle mazzuole, cioè gli arnesi con cui si percuotono i vibrafoni), è un musicista unico nel panorama odierno del jazz contemporaneo. Questo vibrafonista, percussionista, compositore, arrangiatore, autore e insegnante di grande talento, si discosta sensibilmente da qualsiasi altro specialista in attività. La filosofia musicale di Steve è solo parte del percorso artistico che lo distingue dagli altri musicisti, un’idea di musica dove, come dice lui stesso, "la libertà di espressione e l’esperienza sonora di tutti sono un processo in divenire assolutamente personale". Uno straordinario vibrafonista dunque, il bravo Steve Raybine. Molti appassionati di jazz potrebbero ricordasi di lui come il co-fondatore del gruppo jazz Auracle (insieme all'amico di scuola e collega trombettista c-jazz Rick Braun). Con gli Auracle, Steve ha registrato 2 album e ha fatto tournè negli Stati Uniti e in Europa. Steve ha anche suonato al famoso Montreux Jazz Festival in Svizzera e partecipa regolarmente al Genuine Jazz Festival in Colorado. Bad Kat Karma, registrato con la sua etichetta discografica BAD KAT Records, è il secondo CD da solista del vibrafonista. Si tratta di un valido album di jazz contemporaneo nel quale 8 dei 10 brani sono stati scritti dallo stesso Raybine. In più ci sono due cover che differiscono molto dagli originali, al punto da sembrare quasi dei pezzi nuovi. Bad Kat Karma si articola su svariati elementi musicali che spaziano dal jazz, all’R&B, dal latino al pop e al funk. L'album possiede, nel complesso, un bel groove con melodie inebrianti, ipnotiche e accattivanti. La sensazione che si ha all’ascolto di Bad Kat Karma è  di sicuro molto piacevole. E’ uno di quei dischi che si possono ascoltare con uguale soddisfazione mentre si viaggia in auto, oppure in compagnia di amici, o ancora come sottofondo di una serata romantica. Insomma il nostro vibrafonista è buono un po’ per tutte le occasioni. Il cd, senza essere un capolavoro, ha il pregio di non stancare, evitando di scadere nella banalità di certe produzioni di smooth jazz, ma mantenendo anzi una sua dignitosa freschezza. L’album vede la partecipazione prestigiosa di alcuni nomi di una certa rilevanza nel contesto del contemporary jazz odierno: ovviamente l’amico Rick Braun è impegnato alle tastiere, alla tromba e alla programmazione, Randy Jacobs alla chitarra, Steve Kujala al flauto, Rashad McPherson alla voce e Nelson Rangell al sassofono contralto. Chad Stoner è una presenza costante in tutto l'album al sax alto e al sax tenore, inoltre anche il figlio di Steve Raybine, David, appare come sassofonista in Bad Kat Karma. Il vibrafono è uno strumento affascinante, dal quale un musicista come Raybine fa scaturire delle sonorità sempre interessanti. Gli arrangiamenti risultano piacevoli ed anche abbastanza vari, riuscendo così nella non facile impresa di non annoiare l’ascoltatore, accompagnandolo gradevolmente per tutta la durata del lavoro. Tutti coloro che nutrono una passione particolare per gli strumenti a percussione troveranno in Bad Kat Karma più di un motivo d’interesse nel prestare attenzione a questa proposta di contemporary jazz. Più in generale si tratta di un album che potrebbe essere di gradimento anche ad una più vasta platea di musicofili.

New York Electric Piano - Citizen Zen


 New York Electric Piano -  Citizen Zen

Il piano elettrico Fender Rhodes occupa un posto unico nell’ideale pantheon delle tastiere: non è così storicamente importante come il suo fratello maggiore, il pianoforte acustico, magari è stato meno utilizzato dell'organo Hammond B3. Ma è sicuramente più rilevante di quella moltitudine artificiale di sintetizzatori o moog che è venuta dopo. E’ un pianoforte, ma in fondo suona anche un po’ come tutte le altre incarnazioni della tastiera e in qualche misura abbraccia anche i vibrafoni. Si riconosce fin dalla prima nota, creando un sound unico e particolare che può essere allo stesso modo dolce o energico, aggressivo o patinato. E’ insomma uno strumento bellissimo, che nel corso degli anni ha impreziosito in egual misura il jazz, il funk, il pop ed il progressive rock. Posso aggiungere come nota personale che questa tastiera a me piace moltissimo ed ogni lavoro, album, concerto dove il Fender Rhodes è presente mi ha sempre attratto in modo particolare. Il trio New York Electric Piano, guidato dal bravo Pat Daugherty, ha nel suo stesso nome una dichiarazione programmatica inequivocabile. Illustrare ogni sfaccettatura, tutti i riflessi, qualsiasi sfumatura del Rhodes. Autori di ben 8 album a partire dal 2004, il trio formato da Daugherty con il supporto del batterista Aaron Comess e del bassista Tim Givens nasce proprio con il preciso intento di valorizzare al massimo il sound del piano elettrico. Il gruppo può affrontare ogni declinazione del jazz con uguale scioltezza: dal funk gagliardo di "Miles Glorioso", al blues di "Blues for Curley", al bebop di "Hot Springs". Tutto eseguito con tecnica mirabile e passione. Qualcuno potrebbe obiettare che il problema di un album come Citizen Zen sia che una volta che il trio riesce ad entrare in un mood, a cogliere l’essenza del groove, sembra poi incerto su dove andare veramente oppure che abbia timore nel liberare completamente la propria creatività. Certo, alcuni dei riff sono piuttosto orecchiabili, come "Blaze a Trail" ed anche altri brani, come detto, sono molto coinvolgenti. Tuttavia si ha effettivamente la sensazione che la maggior parte dello spazio venga speso ripetendo troppo le melodie o suonando leggere variazioni delle stesse fino a quando non si passa al pezzo successivo. Gli estimatori del piano elettrico di sicuro troveranno comunque Citizen Zen un lavoro molto apprezzabile, quanto meno perché l’utilizzo del Rhodes è più che massiccio: è esclusivo. Daugherty elargisce cascate di note, accordi e contrappunti che non possono non entusiasmare tutti coloro che del piano elettrico hanno il culto. Lontano dall’essere un capolavoro, Citizen Zen è quindi un album particolarmente indirizzato a quella specifica categoria di appassionati (Fender Rhodes dipendenti), restando confinato in una nicchia estremamente circoscritta a livello di proposta musicale. Si tratta senza dubbio di jazz contemporaneo, invero piuttosto ripetitivo, come abbiamo visto, ma al contempo talmente specializzato e particolare da diventare alla fine un qualcosa di unico nel panorama discografico mondiale. In sintesi si potrebbe chiudere dicendo: tutto Rhodes, sempre Rhodes, nient’altro che Rhodes.

The 3 Keys – We 3 Keys


 The 3 Keys – We 3 Keys

Il fatto che tre musicisti formino un gruppo non è affatto insolito. Molto più raro, tuttavia, è che questi tre musicisti siano tutti tastieristi. I tre maestri delle tastiere in questione sono Bob Baldwin, Gail Jhonson e Phil Davis. Come spesso accade, si sono conosciuti e hanno familiarizzato tra loro durante gli svariati festival di matrice Smooth Jazz che vengono organizzati continuamente negli Stati Uniti. E’ qui che è maturata l'idea di unire le loro forze in un inusuale trio di tastieristi. Un ulteriore supporto per il trio è venuto daTamina Khyrah e Joi Johnson (voce), Andrew Ford (basso), Justin Young (tastiere, programmazione batteria, bass synth), Jacori "Tay" Robinson (batteria) e Dennis Johnson (NY Record Scratches). Tutte le composizioni sono state scritte dal trio, con l’aggiunta di una cover che è stata inserita nell'album. Album che si apre con That Beat la quale immediatamente rivela gli stili musicali che hanno influito su Bob Baldwin, Gail Jhonson e Phil Davis: ecco dunque che non sarà difficile accostare al trio il sound di alcuni noti pianisti come Jeff Lorber, George Duke o Herbie Hancock. Tuttavia, si possono anche riconoscere le singole peculiarità di Bob e Gail se si ha una qualche familiarità con la loro musica. Nell’interessante brano Piano Bar, Gail duetta con il bassista Andrew Ford creando una combinazione gradevole e stimolante. Into The New è invece uno dei contributi di Phil Davis al contenuto dell’album. Questo bel pezzo è seguito dalla sua creazione intitolata Dreaming Of A Better Place, un numero costruito su diversi colori e sfumature. Work It Out è un omaggio di Baldwin e Jhonson a Bernard Wright, un tastierista e cantante funk/jazz americano, scomparso all'inizio del 2022. Il bravo Bob dimostra con Gimme the Keys che una valida programmazione della batteria come base per la più raffinata partitura tastieristica non sempre sono in contrasto. Rhythm Speak è un brano dove emerge quanto l’affinità tra questa composizione di Gail e lo stile musicale di Bob sia in qualche misura perfino sorprendente. Camaleão è l’unica cover dell’album ed è un omaggio  allo stimatissimo compositore brasiliano Ivan Lins. Lins ha firmato molte canzoni bellissime che sono spesso state scelte dai musicisti jazz nel corso degli ultimi 20 anni. La versione con Grover Washington è una delle più famose, ed è stata anche inserita in Love Affair: The Music Of Ivan Lins. Ebbene, il trio onora questa grande personalità musicale interpretando a modo suo Camaleão, facendolo in maniera davvero splendida. Summerdance è invece frutto di una collaborazione tra Justin Young (noto come sassofonista) e Gail Jhonson, ma in questo caso viene coinvolto in veste drum programming e per la partitura di bass synth. Con Something Nice, Bob e Gail si fanno infine carico di un accorato tributo a George Duke, uno dei grandi maestri delle tastiere degli ultimi 50 anni ed indubbiamente una fonte d’ispirazione per entrambe gli artisti. We 3 Keys in ultima analisi suona molto omogeneo, complice il fatto che i tre protagonisti di questo album non risultano stilisticamente così distanti tra loro. Ne esce un lavoro godibile, di facile fruizione senza scadere nella banalità. Forse un po’ troppo dominato dagli arrangiamenti elettronici, che tendono sempre ad appiattire in parte il risultato finale, ma nel complesso si tratta di un disco dignitoso. I fan appassionati di ciascuno di questi tre artisti troveranno certamente in questo album una proposta se non propriamente imperdibile, almeno sufficientemente accattivante da attirare il loro interesse. Più in generale We 3 Keys risulta piacevole ma palesemente lontano dall’essere un capolavoro.

James Taylor Quartet - Soundtrack From Electric Black

James Taylor Quartet - Soundtrack From Electric Black

Il James Taylor Quartet è una delle band più iconiche del movimento denominato acid jazz e si colloca all’interno di esso come uno dei gruppi guida dell'originale esplosione di questa corrente musicale sin dalla fine degli anni '80.  JTQ è ad oggi giustamente considerato una vera e propria istituzione britannica. Sono stati e sono tuttora senza dubbio una delle band più attive del Regno Unito negli ultimi trent'anni, esibendosi senza risparmio in centinaia di concerti e pubblicando ben 27 album (e questo calcolo esclude le numerose compilation, oltre ai tre LP sotto il nome New Jersey Kings). Non c'è dubbio, tuttavia, che un album come questo "Soundtrack From Electric Black" sia una perla preziosa nella loro pur vasta discografia ed un momento importante nella loro storia leggendaria. Il motivo principale è che questa è la prima volta che il gruppo registra con il supporto di un'intera orchestra, inoltre il lavoro è stato elaborato nell'iconico studio di Abbey Road. Il risultato finale è una sorta di espansione, per così dire quasi hollywoodiana della caratteristica formula del gruppo, sempre carica di sapori funk, soul e jazz ma questa volta arricchita dal ricchissimo apporto di una grande orchestra. Va detto che fin dal loro debutto, nel lontano 1987, i JTQ hanno mostrato di apprezzare la musica dei film e delle colonne sonore televisive vintage. In effetti, il fulcro del loro album di debutto, "Mission Impossible", erano proprio i temi cinematografici e televisivi che includevano delle originali cover acid jazz di classici come la famosa colonna sonora di Lalo Schifrin (Mission Impossibile), ma anche "Goldfinger" di John Barry e "Blow Up" di Herbie Hancock. Tuttavia, 31 anni dopo, il paladino dell’organo Hammond per eccellenza, James Taylor e le sue coorti hanno creato qui la loro propria visione delle colonne sonore. L’album si rivela un'emozionante raccolta di groove e di esplosive atmosfere cinematiche. Un lavoro pieno di echi stilistici di quel Lalo Schifrin della fase 'Dirty Harry' espressa al meglio nei primi anni '70. Tuttavia va sottolineato come sia un album originale che non suona in alcun modo come un clone, aggiungendo piuttosto (e questo vale per l'album nel suo insieme) un tocco personale nel quale è presente un devoto omaggio alla musica dei film degli anni '60 e '70. Le tracce più ricche di dinamismo e potenza si presentano sotto una forma propulsiva e groovy come in "Black Belting" guidata dalle chitarre wah-wah. O ancora nella più esotica "Heidi's Revenge", caratterizzata dal flauto e dagli archi, ma anche dai sapori latini di "The Frug", con la sua squisita interazione di fiati, corni e archi su un energico tappeto ritmico controtempo che il quartetto gestisce al meglio. Non mancano i ritmi brasiliani che definiscono un brano disinvolto e frizzante come "Sunshine In Her Smile" o "Making Tracks", caratterizzata dal bellissimo assolo di un immancabile flauto. Nel disco non mancano anche alcuni momenti down-tempo, esemplificati da "Sweet Revival", che inizia con delicati tocchi di arpa che precedono un groove meravigliosamente dolce. Su tutto spicca come da tradizione il meraviglioso organo Hammond del leader, sempre fluido, magnetico, tecnicamente ineccepibile. Soundtrack From Electric Black' porta sicuramente la musica del James Taylor Quartet ad un altro livello. La presenza di un'intera orchestra a supporto della band conferisce all'album un sound grandioso che tuttavia non è mai invadente o pomposo. Gli arrangiamenti più ricchi non sminuiscono la concreta immediatezza del caratteristico marchio di fabbrica del James Taylor Quartet, dove il jazz funk è pur sempre il fattore dominante, e dove il groove immancabilmente gagliardo è ancora il nucleo sonoro principale del gruppo. Dire che questo sia il loro miglior album fino ad ora è forse azzardato, ma senza alcun dubbio ci troviamo di fronte ad un lavoro di spessore e qualità, in grado di perpetuare nel segno della coerenza e della vitalità un sound unico e distintivo come raramente capita dopo molti anni di carriera. Lunga vita al James Taylor Quartet.