Eric Marienthal – It’s Love


Eric Marienthal – It’s Love

Il più iconico e popolare tra gli strumenti del jazz è senza dubbio il sassofono. E innumerevoli sono i grandi musicisti che hanno illuminato la scena mondiale proprio grazie al loro talento nel suonare un sax: tenore contralto o soprano che fosse. Tra i tanti grandissimi artisti venuti alla ribalta a partire dai primi anni ’80 c’è anche Eric Marienthal. Eric è un sassofonista californiano classe 1957, di grande esperienza e di indubbio talento. Fin da bambino manifestò una grande passione per la musica, tanto che già  durante il periodo scolastico  ebbe il primo contatto con il suo futuro strumento. Parole dello stesso Eric: “pensavo che il sax fosse piuttosto bello", non aveva torto dato che per forma e timbrica si tratta di uno strumento davvero molto attraente. Inoltre il giovane Marienthal rimase colpito dalla musica che suo padre ascoltava in casa, in particolare quella degli anni '40 e '50, erano artisti come Boots Randolph, Nat King Cole e Frank Sinatra. In verità a Eric piaceva anche la tromba ma fu il suo insegnante ad insistere affinchè si impegnasse definitivamente con il sax e così alla fine suo padre gliene comprò uno di marca Selmer. I suoi studi musicali da brillante studente culminarono con il diploma al Berklee College of Music, dal quale uscì con il massimo dei voti. Da quel momento in poi la carriera artistica del bravo Marienthal non ha conosciuto soste ed è andata sempre in crescendo, al punto da renderlo uno dei più rinomati e talentuosi sassofonisti dei nostri tempi. Ma Eric Marienthal non va solamente annoverato tra i migliori talenti della sua generazione, è anche uno dei musicisti più impegnati e richiesti del jazz contemporaneo. Con 15 album solisti all’attivo ed innumerevoli collaborazioni e apparizioni nei lavori dei più grandi artisti odierni si può indubbiamente riconoscere al sassofonista californiano un grande successo personale, in gran parte dovuto ad una timbrica personale ed incisiva ma anche in virtù di una notevole personalità. It's Love è il penultimo lavoro solistico di Marienthal, uscito nel 2012 mentre il sassofonista era impegnato contemporaneamente con il gruppo Jeff Lorber Fusion (nello specifico per la registrazione dell’album Galaxy). Entrambe i dischi riflettono il talento multiforme di Marienthal, sia come improvvisatore creativo che come interprete del jazz contemporaneo, con un forte richiamo al funk groove. It's Love è stato prodotto dal chitarrista Chuck Loeb, che appare anche tra protagonisti dell’incisione. La band è composta da musicisti di grande spessore come il tastierista degli Yellowjackets Russell Ferrante, il batterista Gary Novak e il bassista Tim Lefebvre. Una delle passioni musicali di Marienthal è il soul e non a caso il brano di apertura dell'album è una bella cover dell'iconico pezzo "Get Here" di Brenda Russell. Introdotto dal pianoforte di Ferrante, il contralto di Marienthal entra direttamente nel cuore della melodia con un grande impatto emozionale: un flusso lirico impressionante che non era facile da interpretare nel contesto dello smooth jazz. Ma la disciplina di Eric lo rende onesto e lascia che il sentimento proprio della bella canzone arrivi fino all'ascoltatore, senza esibizionismi o eccessi di alcun genere. Ma ancora meglio Marienthal riesce a fare sulla rilettura in chiave  contemporanea del meraviglioso standard "In a Sentimental Mood" di Irving Mills: davvero il brano non assomiglia a nessuna versione che possiate aver ascoltato in tempi recenti.  Si parte con un intro di chitarra di Chuck Loeb che evoca Wes Montgomery e quindi la scena passa nelle mani di Russell Ferrante e soprattutto al sax di Marienthal: ne risulta una cover indimenticabile. It’s Love è una bella e romantica ballata scritta a quattro mani da Marienthal e Loeb, mentre "Two in One" è un pezzo midtempo ricco di groove in cui Eric si esibisce al sax soprano. "Babycakes" e "St. Moritz" sono altri due brani interessanti in questo caso composti dal sassofonista insieme con Jeff Lorber. Il primo ricorda i Crusaders dei primi anni ‘70, con Marienthal a prendere spunto da Wilton Felder e Loeb ispirato da echi di Larry Carlton. Su "St. Moritz", la tromba di Till Brönner aggiunge profondità e ulteriore lirismo tra le atmosfere caraibiche e i momenti più funky. It's Love è un album molto rilassato, orecchiabile ma solido: l’arrangiamento è di prim’ordine e l’esecuzione impeccabile. Al contrario di altri progetti di smooth jazz, pur risultando come da prassi, patinato e curatissimo, può vantare delle interessanti declinazioni emotive, e non manca mai in termini di passione e di groove. Marienthal è un sassofonista dalla timbrica calda ed avvolgente che vale certamente la pena di ascoltare con attenzione, gustandosi ogni sfumatura del suo fraseggio. Insieme ad altri due fenomeni del sax contralto come David Sanborn ed Everette Harp si distingue dalla massa come uno dei migliori specialisti in circolazione.

Pete Belasco – Lights On


Pete Belasco – Lights On

Per coloro che non hanno familiarità con la musica e lo stile di Pete Belasco, l'album "Lights On" del 2012 sarà sicuramente una rivelazione. Una rivelazione dai contenuti così intriganti che spingerà alla ricerca dei due precedenti lavori e sicuramente anche dell’ultimo Strong And Able del 2019. Il talentuoso cantautore e musicista di New York ha fatto il suo debutto nel lontano 1997 con "Get It Together" che, all'epoca, fu descritto come un "brillante esempio di R&B, blues e jazz fusion". Pete, ha uno stile vocale che rimanda immediatamente a Marvin Gaye e Curtis Mayfield, e fin da subito è stato inserito nella lista dei nuovi artisti responsabili del fenomeno comunemente indicato come neo soul. Più che il primo disco, forse ancora immaturo, è stato il secondo cd del 2004, intitolato "Deeper" a suscitare un notevole interesse sia negli Stati Uniti che nel Regno Unito, complici alcune composizioni molto accattivanti come "Hurry Hurry", "Keep On" e "Wonderful Woman". Sedimentato il successo per oltre sette anni, Belasco ritornò finalmente sul mercato discografico nel 2012 con "Lights On", ricreando  nuovamente la sua originale miscela di jazz, R&B e soul. Un album sontuoso questo "Lights On": magicamente seducente. Esattamente com’è nelle corde artistiche di Pete Belasco, anche qui si ritrovano quelle atmosfere ovattate, morbide, quasi vellutate che permettono alla voce pigra del cantante di esprimersi al meglio. A volte ricorda Smokey Robinson, a tratti, come detto, Marvin Gaye o ancora Curtis Mayfiled. La carriera musicale di Belasco è iniziata come pianista, anche se alla fine si è concentrato sul sassofono, suonando in varie band durante il liceo e studiandolo al college. Uno sfortunato incidente in cui Pete si ruppe entrambe le mani finì per essere la causa involontaria della svolta verso il canto. Con un stile di canoro sempre piacevole, anche se occasionalmente per così dire "assonnato", Belasco è un artista capace di coinvolgere nel segno del minimalismo e della delicatezza, grazie anche alla qualità intrinseca delle sue composizioni. Ecco perché il risultato è quasi sempre sbalorditivo e la magia del suo cocktail di voce e pochi ma ben collocati strumenti risulta così spesso vincente. I suoni sono deliziosi, e nel complesso questo vale anche per gli arrangiamenti, in cui spicca un uso massivo del piano elettrico. Si respira un aura di raffinatezza, ed è incredibile come pur insistendo su un’atmosfera rilassata al limite del pigro, non ci si annoi mai, ma al contrario si è quasi spinti a prolungare l’ascolto.  L'album prende il via con il fantastico "I Ain’t Doin It", che evidenzia la sensualità di Belasco. Il taglio del brano è relativamente semplice ma sono proprio quel candore e quella profondità che rendono “I Ain't Doin’ It ” un formidabile inizio, dando un’impronta inconfondibile a tutto il disco. "Lights On" è un pezzo altrettanto affascinante a cavallo tra smooth jazz e R&B contemporaneo, con un sound e una produzione incantevoli. "Rock It" cambia in modo intelligente il leit motiv del disco, alimentando un mood più jazz anche se pur sempre leggero. Il falsetto di Belasco è accattivante, così come sono belle le sue linee di piano acustico.  "Just Me" è una dimostrazione del virtuosismo di Pete al sax, al piano, oltre che alle percussioni. Dolcissima è ancora "My Eyes" che brilla particolarmente offrendo un buon groove ed una fine progressione armonica grazie anche al sapore latino della ritmica. Altrettanto evocativo è il brano "Later" che non sarebbe fuori posto in una registrazione dei Miracles. Tra l’altro è molto interessante e suggestivo l’uso che viene fatto dei fiati, un aggiunta “intelligente” negli arrangiamenti del cantante newyorkese che per buona misura non ne abusa mai. Sia "Stubborn" che "Repay You" giocano sugli stessi toni che dominano tutto l’album: delicatezza e sensualità. Lo stesso feeling che caratterizza due brani leggermente più mossi come "Down" e "Sweeter" dove è sempre il romanticismo a farla da padrone. "One" conferma che Marvin Gaye è una fonte d’ispirazione certa, per quanto declinata in modo personale, mentre la chiusura dell’album è affidata al brano più inusuale di tutto il disco intitolato "Who’s The Man". Lights On è un album che suona sempre raffinato e avvolgente, così come va riconosciuto a Pete Belasco di essere un musicista di classe, in grado di scrivere solide composizioni. Il suo inconfondibile falsetto, la scrittura così minimal eppure completa ed il suo talento nel suonare vari strumenti sono la sintesi della statura di un artista. Se si vuole proprio trovare il pelo nell’uovo gli si può forse imputare la mancanza di un po’ di brio in più, cosa che avrebbe contribuito a meglio sviluppare alcune intuizioni melodiche. Indipendentemente da ciò, il fascino di Belasco sta proprio nel suo approccio romantico e rilassato: nel suo caso questa è una precisa scelta stilistica. Un taglio al quale il cantante non vuole rinunciare ed al quale resta ancorato senza compromessi e con grande integrità da oltre 23 anni.

Malcolm Strachan – About Time


Malcolm Strachan – About Time

Sebbene abbia iniziato come musicista jazz, studiando al Leeds College of Music, il trombettista scozzese Malcolm Strachan ha trascorso praticamente tutta la sua carriera suonando come session man per una grande varietà di artisti non direttamente coinvolti nella musica afroamericana per eccellenza. Tra questi posso citare Mark Ronson, Amy Winehouse, Corinne Bailey Rae, Cinematic Orchestra e i famosissimi Jamiroquai. Parallelamente ha partecipato fin dall’inizio al progetto The Haggis Horns, un settetto orientato al funk di cui ho parlato poco tempo fa e che rappresenta uno dei migliori esempi attuali di questo genere. Tuttavia Strachan ha sempre desiderato scrivere e registrare un album di jazz in prima persona e finalmente oggi quel sogno è diventato realtà con About Time. Un titolo che in parte riflette il lungo viaggio che Malcolm ha compiuto professionalmente in questi ultimi 20 anni. Le atmosfere di “About Time” si distaccano nettamente dal funk-groove degli Haggis Horns, poiché qui il trombettista da libero sfogo alla passione per il jazz convenzionale, e nel farlo si fa carico di tutte le composizioni come pure di tutti gli arrangiamenti del disco. Uno dei punti forti di questo lavoro del trombettista scozzese è la sua “spudorata” eleganza commerciale. Si potrebbe dare a questo giudizio un’accezione negativa, e tuttavia sarebbe sbagliato: la godibilità di questo album è davvero adatta ad ogni palato, da quello più esigente a quello meno smaliziato. I brani mantengono una lunghezza più che accettabile, non sono mai debordanti e gli arrangiamenti sono equilibratamente studiati (anche quelli con l’orchestra, quando presente). C’è un tocco di modernità e in qualche momento Strachan non disdegna di citare il tanto amato funk, ma di fatto si tratta di un album di buon jazz. Non necessariamente questo genere deve rispondere a criteri di difficoltà musicale a tutti i costi e non è giusto essere sospettosi se da appassionati ci si imbatte in qualcosa che suona immediatamente fruibile. D’altra parte è noto quanto il jazz sia solitamente riservato ai suoi gelosi cultori ed anche come per l’ascoltatore occasionale sia opportuno maneggiarlo con cura. In questo caso si può ragionevolmente sostenere che Malcolm Strachan abbia raggiunto un favorevole compromesso tra l’anima più colta e complessa e quella più accessibile del jazz stesso. Il nucleo della band, in queste registrazioni, è composto dal leader accompagnato da George Cooper (pianoforte), Courtny Tomas (contrabbasso) ed Erroll Rollins (batteria). Il quartetto è poi arricchito in vari momenti del disco da altri musicisti: ad esempio, nella traccia di apertura Take Me to the Clouds possiamo ascoltare Atholl Ransome al sassofono tenore, Danny Barley al trombone e Karl Vanden Bossche alle percussioni. Ransome, Rollins e Cooper sono tutti membri degli Haggis Horns, quindi è chiaro da dove provenga lo straordinario interplay e la coesione di questo ensemble. L’iniziale e vivace Take Me To The Clouds, o la più sommessa Aline, evocano le colonne sonore italiane degli anni ‘60 e ‘70, mentre in altre occasioni il respiro degli arrangiamenti ci conduce oltre Oceano, al jazz dei grandi pionieri della storia di questo genere come accade in Mitchell’s Landing. L'influenza degli anni passati a suonare funk si fa sentire su un brano come Time for a Change, che gioca tutto sul groove, con un riff di fiati accattivante, morbido e senza eccessive ruvidità. Così succede anche in Uncle Bobby’s Last Orders. La delicatezza non manca, complice anche l'aiuto degli archi di Richard Curran che è responsabile di questi specifici arrangiamenti: ad esempio in I Know Where I’m Going, in cui qualcuno potrà rinvenire un tocco di Herb Alpert provenire dalla tromba del leader. Aline, la melodia che Stachan ha scritto in memoria di sua madre, morta a 38 anni, è un'altra composizione affascinante e distensiva. Si respira un’atmosfera di qualità in ogni aspetto di About Time: la produzione è limpida e ariosa, e Malcolm Strachan si rivela un musicista completo quando si cimenta al pianoforte nel brano Just The Thought of You o nella riflessiva ballata Where Did You Go? Questo è un bellissimo album, ricco di sfumature, in qualche misura anche inusuale considerando le esperienze passate di Malcolm Strachan. In tutto il lavoro sono piacevoli le variazioni dei temi e dei ritmi che spaziano con disinvoltura dalle vibrazioni latine alle bellissime ballate, dai groove funky-soul alle atmosfere cinematografiche, tutti pregevolmente condotti da un grande gruppo di esperti musicisti. Roba di classe, niente da dire. Il jazz è sempre stato la grande ed intima passione di Strachan, ma il funk, il soul, anche il pop sono stati per anni il suo lavoro quotidiano. Fino ad ora. Adesso l’attesa è finita, il jazz è tornato.

Urban Soul – Nothing Is Impossible



Urban Soul – Nothing Is Impossible

Allontanandosi dal rigore formale del jazz classico ed entrando di conseguenza in quel vasto mondo, più commercialmente appetibile, che oggi chiamiamo smooth jazz , ciò che troviamo è uno stile musicale estremamente variegato ed in alcuni casi non privo di interesse.  Se da un lato il richiamo al jazz è forte e ben presente dall’altro l’estrema eterogeneità dello smooth jazz è di certo fonte di contaminazione da parte di moltissime influenze per così dire “leggere” che vanno dal soul al funk, dal rock melodico all’r&b. Sono davvero innumerevoli i grandi artisti che hanno navigato con la loro arte su entrambe le sponde di questo vasto mare, da Larry Carlton a Kenny G o Al Jarreau, attraverso Bob James, Lee Ritenour, Bobby Lyle, David Sanborn, Ramsey Lewis, Spyro Gyra, Brian Culbertson, Kirk Whalum, Dave Grusin ed un lunghissimo elenco impossibile da stilare per intero. Sebbene non sia un fan accanito dello smooth jazz e abbia spesso preferito concentrarmi su stili più ricercati e storicamente maggiormente ricchi di valori, riconosco a questo sotto genere una sua eleganza formale nonché una apprezzabile propensione per un approccio gradevolmente melodico. E d’altra parte va riconosciuto che la gran parte della musica che viene attualmente prodotta non vira quasi più verso il jazz convenzionale in favore di una commistione continua tra generi affini: di sicuro alla ricerca di una maggiore fruibilità ma anche allo scopo di far emergere, se possibile, nuove forme espressive. Gli Urban Soul rientrano alla perfezione in questo contesto: loro sono una coppia di musicisti svedesi, il trombettista Jonas Lindeborg e il sassofonista Andreas Andersson, che per dare vita al loro progetto hanno voluto circondarsi di un buon numero di grandi nomi dello smooth jazz, modellando così un valido esempio di jazz contemporaneo. Va loro riconosciuta una grande competenza musicale e al contempo quell’onestà intellettuale che sta alla base di ogni buono sforzo artistico. Autoprodotto e concepito nella sua interezza dagli stessi Urban Soul, 'Nothing Is Impossible' è un album di spessore, composto da 10 brani, che includono pezzi strumentali ma anche qualche episodio cantato. Nello specifico le voci più importanti sono quelle di Bill Champlin e Michael Ruff, cioè non proprio gli ultimi arrivati e non a caso paladini di quel genere denominato West Coast che tanta buona musica ha regalato negli anni ’70 e ‘80. E poi è da sottolineare il contributo alle tastiere del concittadino svedese del duo, Jonathan Fritzen e quello alle chitarre del bravo Peter Friestedt anche lui scandinavo. Il duo svedese ha quindi riunito una band fortemente orientata verso lo smooth jazz con il preciso intento di suonare la musica che più di ogni altra ha influenzato il loro stile e che risulta essere più vicina alla loro reale ispirazione. Il progetto Urban Soul è un viaggio interessante e non privo di una sua originalità nelle atmosfere morbide e suadenti del jazz contemporaneo, declinato attraverso una visione più emozionale che tecnica ed anche per questo meno fredda di altri prodotti musicali paragonabili. L’ascolto è la migliore via per apprezzare appieno quale strada hanno intrapreso questi due musicisti europei, partendo da quella Svezia che si conferma essere il terzo polo più importante nella discografia mondiale. I brani sono tutti piuttosto intriganti, a partire da quella perfetta introduzione all’album che sono "M Avenue" e  “The Wall”: due pezzi che sono un vero e proprio manifesto di come dovrebbe suonare idealmente oggi lo smooth jazz.  E poi ci troviamo al cospetto della maestria vocale del grande Bill Champlin, che arricchisce di toni West Coast  la bella ballata "Hands Of Love". Gli Urban Soul seducono con i ritmi dal sapore latino accennati in "We Didn’t Know” completata dalla suadente voce di Sara Nordenberg. Michael Ruff presta il suo splendido talento alla ballata "Dearest Child", un brano delicatissimo che culla dolcemente l'ascoltatore con grande sensibilità. “1989” è uno splendido esempio di contemoprary jazz, ritmicamente e armonicamente perfetto, nel quale la chitarra di Peter Friestedt non può non essere ammirata ed apprezzata. “Finally” è nuovamente una ballata, lenta e discreta ma piena del fascino emanato sia dagli incisi strumentali ed anche e soprattutto dalla voce di Lovisa Lindkvist che quasi invita a sognare pomeriggi assolati e candide spiagge. Un sogno in musica che continua con "Open Arms", una cover basata su tromba e sax sul bellissimo tema dei mitici Journey. Sono certo che non mancherete di apprezzare la sonorità della tromba di Jonas Lindeborg e la voce del sax di Andreas Andersson che si distinguono lungo tutto il dipanarsi di Nothing Is Impossible con sobrietà e ottima tecnica. Se siete dei cultori dello smooth jazz e ancora non conoscete gli Urban Soul questo album è un’ottima occasione per concedere un ascolto attento al duo svedese e godersi 40 minuti di ottima musica. Tuttavia un disco come questo è perfettamente godibile anche da un pubblico più incline ai più difficili scenari del jazz convenzionale e risulterà gradevole ed accattivante anche per una platea più vasta di ascoltatori maturi.