Simon Phillips – Protocol 4


Simon Phillips – Protocol 4

Uomo poliedrico Simon Phillips: non solo straordinario batterista, ma anche produttore, scrittore, ingegnere e compositore. Una personalità davvero eclettica che nella musica e soprattutto nella batteria ha trovato la sua forma di espressione più alta. Protocol è il nome della sua creatura artistica più sofisticata ed interessante, giunta al 4° capitolo della sua evoluzione. La precedente incarnazione della band Protocol aveva registrato “3” nel 2015 ma nel frattempo Phillips ha lavorato con l’Hiromi Trio Project e numerosi altri progetti. Questo Protocol 4 si presenta con un paio di novità importanti, la prima delle quali è una formazione leggermente cambiata. Il bassista Ernest Tibbs è ora affiancato da due nuovi membri, il giovane, pluripremiato e talentuoso Greg Howe alla chitarra ed il maestro jazz-funk Dennis Hamm alle tastiere. Simon Phillips è un musicista alla costante ricerca di stimoli e suggestioni e i cambiamenti nella band ne sottolineano il preciso intendimento. Tutte le nove tracce sono state scritte da Phillips stesso durante un recente tour internazionale. Lo stesso Simon ci tiene a far sapere che la scrittura musicale “on the road” è stata per lui una piacevole scoperta, foriera di nuove idee e stimoli. creativi. L’album inizia alla grande con “Nimbus": a Greg Howe viene dato subito spazio sopra un complesso tessuto ritmico sostenuto sia dalla magica batteria di Phillips che dal potente basso di Tibbs. Tocchi di Fender Rhodes e synth si aggiungono a questo già ricco quadro musicale. E’ inevitabile andare con la memoria al jazz rock degli anni '70, in tutto il suo splendore. I cambi di tempo del brano e le sezioni solistiche restano mirabilmente legati senza mai apparire eccessivi. "Passage to Agra" è esotico e affascinante come suggerisce il suo nome. Il sintetizzatore di Hamm dà il via allo spettacolo, seguito subito da Simon Phillip: un tappeto che fornisce la base per la chitarra elettrica di Howe, presto seguito dal suono di un synth vintage con il quale Hamm arricchisce la tavolozza con dei colori aggiuntivi. "Phantom Voyage" è anche meglio: l'intro del pezzo è dominato dai sintetizzatori, ma poi la scena viene riempita dalla batteria del leader e dal potente gioco del basso di Tibbs. La chitarra di Howe questa volta è blueseggiante per adattarsi al meglio a questo scenario musicale. Curiosamente il suono risultante appare come un mix di atmosfere tra gli Steely Dan e i Toto che l'assolo di piano acustico di Dennis Hamm non fa che impreziosire: grazia e perfezione formale. La chiusura dell'album "Azorez" fa vibrare l'atmosfera e offre un eccellente contrasto con la citata "Phantom Voyage." Tibbs, Howe e Phillips condividono l’introduzione ritmica del brano giusto per dare il via alle danze, prima che Howe si scateni alla chitarra e Phillips segua in rapida successione. La batteria di Phillips e la chitarra di Howe non si calpestano mai, ma invece eseguono uno schema sofisticato costruito attorno ad un ritmo davvero serrato. È tutto così abbagliante da essere facile dimenticarsi del groove che Earnest Tibbs imbastisce con il suo basso o della bella combinazione tra il Fender Rhodes e il sintetizzatore proposta dal tastierista Dennis Hamm. Ma fortunatamente, la registrazione di Simon Phillips è così nitida e chiara che ogni parte viene catturata con estrema perizia e dovizia di particolari. Ovviamente se si è già dei fan di Simon Phillips, il Protocol 4 non sarà una sorpresa. Le nove tracce sono tutte interessanti e dinamiche. Poliritmie, complicati intrecci sonori, arrangiamenti arditi sono il marchio di fabbrica del Protocol, che tuttavia non perde completamente di vista la fruibilità di melodie difficili ma non impossibili. Il grande batterista dimostra qui ancora una volta la sua bravura nel sapersi dividere tra composizione, produzione e arrangiamento, senza dimenticarsi del suo talento di batterista. Se è lecito porsi una domanda su quanto e come il Protocol 4 differisca dal predecessore Protocol 3, la risposta è duplice: da un lato Simon Phillips continua ad evolversi come musicista a tutto tondo. Da un altro punto di vista sia Greg Howe che Dennis Hamm apportano, rispetto ai loro stimati predecessori, una ventata di novità con un orientamento leggermente più funky rispetto ai contenuti musicali dell’album precedente. Risulta chiaro anche per queste ragioni che Protocol 4 è un altro lavoro di Simon Phillips che è consigliabile ascoltare. E' il jazz rock del terzo millennio, merita attenzione.

Donald Fagen - Kamakiriad


Donald Fagen - Kamakiriad

La premessa di questo post è che io adoro Donald Fagen, come compositore, come pianista e come arrangiatore, lui è davvero uno dei miei idoli musicali fin dai tempi dei primi Steely Dan. Parlando del secondo lavoro da solista di Donald Fagen non bisogna lasciarsi influenzare da alcune recensioni di alcuni critici con il “paraorecchi”, posso dire che sono ingannevoli. Vorrebbero far credere che "Kamakiriad" sia un lavoro minore di Fagen ed in qualche misura non allo stesso livello qualitativo del materiale che il musicista del New Jersey ha pubblicato con Walter Becker sotto il rinomato brand chiamato Steely Dan e poi con il capolavoro da solista “The Nightfly”. Nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Tutto su Kamakiriad è altrettanto solido, se non addirittura migliore di qualsiasi album degli Steely Dan ad eccezione forse del solo "Can Not Buy A Thrill". L'unica vera differenza è che i brani presenti su Kamakiriad sono mediamente più funky, più leggeri e probabilmente più giocosi della maggior parte della musica degli Steely Dan. Anche Kamikiriad è un concept album, ma questa volta guarda al futuro piuttosto che al passato prossimo. Le canzoni ruotano attorno ad un viaggio su una nuova immaginaria auto di Donald Fagen e, sebbene non abbia ottenuto la stessa accoglienza di The Nightfly, il tempo ha dimostrato che anche questo è un album di valore e che ha un suo preciso fascino. Walter Becker è qui impegnato nelle vesti del produttore, oltre a suonare il basso e la chitarra solista: un cambiamento significativo rispetto a The Nightfly è la presenza di un gruppo principale che, ad eccezione della batteria condivisa da Leroy Clouden, Christopher Parker e Dennis McDermott, rimane lo stesso in tutte le otto tracce dell'album. Un altro tratto distintivo se confrontato con il capolavoro di undici anni prima è che le tracce sono, in media, più lunghe: durano infatti non meno di cinque minuti e una in particolare, la dolce ballata "On the Dunes" arriva addirittura oltre gli otto. Le sezioni solistiche sono anch’esse dilatate così come le dissolvenze e per questo qualcuno potrebbe giudicarle eccessive, ma i groove sono sempre così convincenti che francamente nessuna delle canzoni da la sensazione di superare il limite del buon gusto. Armonicamente, Kamakiriad è di fatto anche più complesso dello stesso The Nightfly, in particolare per l’uso dei fiati più massivo ed anche per i più ricchi arrangiamenti vocali. Ovviamente è superfluo sottolineare che nessun album di Fagen (o degli Steely Dan) potrà mai essere considerato grezzo o approssimativo: la realtà è che sono lavori di grande eleganza formale e sofisticata struttura, al punto da rasentare quasi sempre la perfezione. È un esercizio inutile provare a contare il numero di singole tracce usate in ogni canzone: la capacità di Fagen di creare arrangiamenti magicamente ricchi di texture e tuttavia mai ridondanti è assolutamente unica ed irripetibile. Così come quel modo singolare ma affascinante di usare gli accordi di tastiera. Un talento fantastico quello di Donald, che è in netto contrasto con quello di altri musicisti, per i quali le infinite possibilità dello studio di registrazione finiscono spesso per dar luogo a meri tentativi di buttare tutte le idee dentro alle tracce, sperando che alcune di esse funzionino. Il credo di Donald è pensare “jazz” dentro alle composizioni pop. Come dicevo Kamakiriad non ha un impronta altrettanto jazzistica di quella di "Nightfly", questo è un altro dei motivi per cui la critica lo ha sottovalutato. In effetti, l'album che più assomiglia a "Kamakiriad" è probabilmente "Two Against Nature", che è stato registrato però dagli Steely Dan, con la differenza che il solo di Fagen è più coerente e mostra un maggior fascino nelle melodie vocali. Chi ha apprezzato il successivo album "Morph the Cat" ma non conosce Kamakiriad, troverà comunque lo stesso tipo di approccio musicale. Il materiale è tutto eccezionale, arricchito come sempre dalle tastiere di Fagen e dal supporto di una band di musicisti straordinari. Dal trascinante funk di Trans Island Sky,  all’intrigante e melodiosa Snowbound fino alla piacevolmente ballabile Florida Room si viaggia in un universo di composizioni bellissime e piacevolmente melodiche ma mai banali. Si continua con un brano iconico dello stile di Donald come Tomorrow’s Girls che ritmicamente e armonicamente racchiude tutte le tipiche caratteristiche degli Steely Dan. La stessa cosa si può dire anche di Teahouse On The Tracks, perfettamente condita di arrangiamenti fiatistici e suoni che spuntano qua e là, sempre al posto giusto nel momento giusto. Se proprio si vuol trovare qualche pecca nel secondo disco del geniale Fagen, si potrebbe osservare l’eccessiva lunghezza del brano 'On the Dunes' che finisce per ripetersi e forse la mancanza di un pezzo assolutamente memorabile (sul genere di I.G.Y, per intenderci). Resta il fatto che Kamakiriad può vantare una qualità complessiva di livello elevatissimo: come quasi tutto quello che esce dal magico tocco di Donald Fagen. Non sarà svavillante (ed epocale) come The Nightfly, ma è comunque un piccolo gioiello a cavallo tra il funky pop più sofisticato ed il miglior smooth jazz. Kamakiriad è anni luce sopra la musica commerciale degli anni novanta ed ancora attuale dopo quattordici anni: la musica di Donald Fagen è senza tempo ed è un ascolto consigliato a tutti.

Django Bates & Beloved - The Study Of Touch


Django Bates & Beloved - The Study Of Touch

Il pianista inglese Django Bates torna a registrare per la ECM con una delle sue più raffinate formazioni, il trio Belovèd, formato dal bassista svedese Petter Eldh e dal batterista danese Peter Bruun, in un album intitolato The Study of Touch. Tutti e tre questi musicisti sono strumentisti di grande personalità, che insieme sfidano in modo sottile ed intelligente le convenzioni del classico trio di jazz con al centro il pianoforte. Il gruppo è nato un decennio fa, quando Bates insegnava al Conservatorio di Copenaghen. Il lavoro scaturito dalla collaborazione tra i musicisti si ispirava alla musica ed allo stile di Charlie Parker ,che è stato senza dubbio un'influenza altamente formativa sia per Bates che per il bassista Eldh. Non a caso, in questo nuovo album, il brano di Parker "Passport" è inserito tra i pezzi originali di Django e suonato con rispetto, una intelligente sensibilità contemporanea e molto entusiasmo. Alcuni dei brani di Bates inseriti in questo lavoro sono diventati dei numeri essenziali nel repertorio del trio Belovèd, e dal vivo vengono continuamente rimodellati da questi formidabili improvvisatori. Le capacità di composizione e di arrangiamento di Bates sono evidenti, insieme al suo senso melodico intriso di virtuosismo e da una fluida e prorompente libertà espressiva. Il basso di Petter Eldh è percussivo e preciso e assicura il miglior groove per il tocco quasi pittorico del batterista Peter Bruun. Quello che scaturisce dal felice interplay di questi tre artisti è un approccio al suono jazz del tutto personale e molto stimolante. Nel contesto piuttosto variegato e ricco di offerte del trio jazz di pianoforte, i Belovèd sono indubbiamente una proposta alternativa di grande spessore. La registrazione è stata effettuata presso lo studio Rainbow di Oslo nel giugno del 2016 ed è stata prodotta dal patron della ECM, Manfred Eicher. Il pianista Django Bates ci offre una lettura del suo strumento carica di ironia eppure piena di una sua grazia e di uno stile ineccepibile pur nella sua irriverente vitalità. Questo è un trio per coloro che amano questo genere di combo jazzistiche ma anche per quegli appassionati che invece proprio non apprezzano l’essenzialità dell’abbinamento piano, basso e batteria. Ma l’eclettismo musicale di Django Bates non è certo cosa di oggi, infatti è dal 1979 che il musicista inglese è attivo. Un’esperienza lunga, maturata suonando con artisti di estrazione diversa tra i quali Bill Bruford, ex batterista di Yes e King Crimson, o il pianista George Russell e ancora il sassofonista free Tim Berne. Bates ha indubbiamente avuto un ruolo importante nel movimento jazzistico britannico. In ogni caso, ascoltando questo inusuale album si viene colti da una sottile sensazione di stupore che prende forma, ad esempio, su un brano come "Giorgiantics", che rompe gli schemi del jazz classico. In altre circostanze il bizzarro Django si muove alla perfezione nello stile canonico, come su "Little Petherick", un pezzo dove appare evidente da parte del bassista Eldh e del batterista Bruun la condivisione dell’ispirazione e del pensiero musicale del leader. Il disco si snoda attraverso numeri interessanti e sempre originali come "Senza Bitterness", la lunghissima "The Study Of Touch", e "Slippage Street" dai toni quasi stravaganti. Non mancano incursioni nel romanticismo rivisto alla sua maniera in "Peonies As Promised. Il trio rende un tributo importante a Charlie Parker, come fatto in passato con Beloved Bird, e non a caso  il momento migliore è proprio quando i tre si cimentano con un classico di Bird come "Passport": due minuti e quaranta secondi di puro divertimento jazzistico. The Study Of Touch è l’espressione di un modo nuovo e alternativo di proporre la formula del trio jazz. Django Bates è un innovatore dalla tecnica sopraffina, pieno di talento e originalità ed  in grado di offrire una visione del jazz contemporaneo davvero molto interessante.

Cory Weeds & The Jeff Hamilton Trio: Dreamsville


Cory Weeds & The Jeff Hamilton Trio: Dreamsville

E' naturale vedere come la sostanza ed il contesto del jazz cambino e si evolvano continuamente, ma è anche innegabile come la base di questa straordinaria musica rimanga da sempre saldamente inalterata: nel tempo si è consolidata nella sua grande creatività e nella costante ricerca della massima libertà nell’improvvisazione. E quando si parla di improvvisazione, è impossibile non pensare a quale immenso impulso abbia regalato al genere, nel corso dei decenni, uno strumento come il sassofono. Il legame indissolubile e fortissimo del sax con il jazz e lo swing sono cristallizzati nelle registrazioni di geni immortali come Lester Young, Charlie Parker, Dexter Gordon, Wardell Gray, Stan Getz, Zoot Sims, Gene Ammons, Johnny Griffin, Hank Mobley, Sonny Rollins, John Coltrane e moltissimi altri, fin troppo numerosi per essere menzionati. Nell’era moderna, fino a giorni nostri, il sax ha potuto continuare a risplendere grazie alle doti ed al talento di tanti altri musicisti, e tra questi bisogna certamente aggiungere il nome di Cory Weeds: un brillante sassofonista canadese di Vancouver. Dreamsville è la sua seconda registrazione con il superbo trio di Jeff Hamilton, una formazione classica che è esattamente quello che ci vuole per permettere al bravo Cory di raccogliere l’eredità della grande tradizione jazzistica del sax. Weeds va dritto alla meta, con un approccio rigoroso ed un suono puro, fedele ai canoni dell’hard bop. Fraseggi e lirismo sono ai massimi livelli, nel massimo rispetto della retaggio immortale dei grandi maestri del passato. Il trio che accompagna Cory Weeds in questa avventura è di una qualità straordinaria a partire dal drumming di Hamilton, continuando con il pianista Tamir Hendelman e finendo con il contrabbassista Christoph Luty. Uno straordinario team che suona insieme da più di due decenni, per il quale ogni passaggio è un paradigma di quello che si definisce  gusto, equilibrio e coesione. Jeff Hamilton è un maestro sia con le spazzole che con le bacchette: un abile,espertissimo metronomo consapevole di non aver bisogno di essere invadente e rumoroso per dimostrare il suo talento. Hendelman e Luty sono semplicemente perfetti nell’accompagnamento al leader Cory Weeds ma sanno essere stimolanti quando sono loro stessi ad assumere il ruolo di solisti. Dietro a tutto questo c’è comunque la musica, che è meravigliosa sotto tutti i punti di vista, con una gamma completa di brani che va dalle ballate romantiche agli impetuosi pezzi tipici dell’hard bop. Weeds ed il trio eccellono in tutte le canzoni contenute in questo splendido album. Cory Weeds è autore della veloce e swingante "How Do You Like Them Apples" Hendelman della scattante "Bennissimo". Ed è molto bello anche ascoltare classici come "Who Can I Turn To",  "Robbins Nest" e la dolce e delicata "Dreamsville" di Henry Mancini o ancora "Blue Daniel" di Frank Rosolino che sono temi non molto noti, eppure nobiliati da un’interpretazione di alto livello. Personalmente mi piace moltissimo la cover della bellissima canzone "The Lady Wants To Know" di Micahel Franks, qui interpretata con sentimento e passione dall'espressivo sax di Cory. C’è spazio anche per un brano  come "Hammer's Tones" che è stato scritto dal sassofonista svizzero George Robert, uno dei mentori di Cory  Weeds. In sintesi Dreamsville è un album superlativo regalatoci nel 2017 da Weeds con il valido supporto del trio di Jeff Hamilton: un degno successore del loro precedente e già molto interessante lavoro intitolato This Happy Madness. Questa è una registrazione da cinque stelle, perfetta per gli appassionati di jazz ma raccomndabile anche per chi volesse avvicinarsi al genere senza incappare nelle insidie di contenuti troppo complessi e qualche volta noiosi.