Lyle Mays – Lyle Mays


Lyle Mays – Lyle Mays

Lyle Mays, ovvero l’alter ego di Pat Metheny, colui che è stato il compagno d’avventura del grande chitarrista per moltissimi anni, ma anche un pianista ed un tastierista di grande livello,  un artista dotato di una personalità straordinaria e distintiva. La riscoperta di oggi vuole rendere omaggio al musicista che ha dato un corpo e un’anima alla singolare miscela del Pat Metheny Group, contribuendo a scrivere pagine di musica davvero memorabile. Lyle ha raggiunto una certa popolarità grazie anche, e soprattutto, alla sua straordinaria capacità di combinare armonie, suoni e melodie uniche nel loro genere, dando così un'impronta subito riconoscibile ai brani del gruppo. Oggi di Lyle Mays si sono praticamente perse le tracce, dato che a livello discografico ha all’attivo solo 4 album, l’ultimo dei quali risale al 2000. Mays è stato considerato una grandissima promessa del jazz, un pianista così dotato che lo stesso Pat Metheny lo definì, forse esagerando un pochino, "il prossimo Keith Jarrett". Beh, quattro decenni dopo, va detto che Mays non è arrivato esattamente allo stesso status di “mostro sacro” di Jarrett, sebbene abbia certamente una grande comunità di appassionati seguaci. Tuttavia, da troppo tempo, i suoi fan si chiedono perché sia sostanzialmente sparito dalla mappa dei musicisti jazz attivi. Una cosa è certa: la collaborazione con il Pat Metheny Group ha garantito a Lyle Mays un posto significativo nella storia del jazz dalla fine degli anni ’70  fino all'inizio del nuovo millennio. Mays è stato dunque co-autore, accanto a Metheny, di molte delle composizioni più belle del PMG e questo sodalizio di due brillanti musicisti può essere definito alla stregua della coppia Lennon & McCartney nel campo del pop. L'importanza rivestita dal tastierista in quella storia è un dato di fatto incontrovertibile. Non a caso sono in molti ad augurarsi che Metheny riporti in azione il PMG, sia in tour che in studio di registrazione ed in quel contesto torni nuovamente ad essere presente l’ineffabile Lyle Mays. Il miglior album della minuscola discografia di Mays come leader è il suo primo, intitolato molto semplicemente “Lyle Mays”. Il disco risale al 1986 e se da una parte fu un esordio positivo e di successo, dall'altro è un vero peccato  che il tastierista, negli anni successivi, non sia stato in grado di dare continuità alla sua produzione musicale. Street Dreams del 1988 è stato sicuramente, per il tastierista, un degno secondo lavoro come solista, ma la sua atmosfera più urbana e fusion è in qualche modo meno affascinante rispetto alla musica cinematica e suggestiva di questo interessante disco di debutto. Fictionary del 1992 è ugualmente un disco di tutto rispetto, dove è forse più evidente la sua vena jazz, ma al contempo suona decisamente più freddo nella sua perfezione formale. Qui, alla sua prima registrazione, Lyle Mays  trova una chimica profonda tra il suo modo di comporre ed il suo stile pianistico, mixando tutto in modo sapiente con le eterogenee personalità artistiche di alcuni grandi musicisti. La band è composta  dal batterista Alex Acuna,  dal chitarrista Bill Frisell, dal sassofonista Billy Drewes, dall bassista Marc Johnson ed dal percussionista Nana Vasconcelos. Pur privo della inconfondibile chitarra di Pat Metheny, il disco offre una sonorità per larghi tratti molto affine a quella del PMG, dando corpo in modo analogo a quella stessa proposta alternativa al linguaggio tradizionale del jazz che riesce a  coniugare la maestria tecnica con una notevole dose di pathos ed emozione. Delicato ed etereo, l’album colpisce immediatamente la sensibilità dell’ascoltatore, risultando gradevole ed accattivante, evocativo e a tratti quasi onirico. C'è molto jazz, ma vi si ritrovano anche echi di new age e qualche sentore di rock progressivo, passando anche attraverso qualche pennellata di musica da camera. Mays mette in mostra il suo talento di pianista ogni volta che colloca il pianoforte acustico in primo piano, ma è altrettanto convincente nel suo ruolo di tastierista quando si destreggia con i suoi synth, che fanno spesso da collante nei raffinati arrangiamenti di cui egli stesso è oviamente responsabile. Lyle Mays è un bellissimo lavoro che consiglio a tutti di ascoltare con attenzione per coglierne ogni più sottile sfumatura. Di certo gli amanti di Pat Metheny non possono farselo sfuggire, ma questa è musica intelligente, suggestiva e di grande spessore artistico. Valica i confini di un genere predefinito: è musica totale che vi entrerà nella testa e nel cuore.

Courtney Pine - Devotion


Courtney Pine - Devotion

Courtney Pine è forse il più enigmatico dei jazzisti britannici degli ultimi vent’anni. Con la sua visione musicale sempre inquieta e avventurosa, anche se a volte discutibile, ha affascinato e al contempo frustrato i critici e gli ascoltatori. Musicista dotato di una curiosità creativa davvero a 360°, ha nel tempo abbracciato la world music, il pop, il reggae, l’elettronica, il funk ed il soul per soffermarsi infine sulla tradizione del jazz. Nato nel marzo del 1964, Pine ha trascorso la sua giovinezza a Londra, imparando a suonare diversi strumenti, tra cui il sassofono (è un esperto di tenore, soprano e baritono), il clarinetto, il flauto ed anche le tastiere. Devotion, del 2004, è il nono album di Courtney Pine ed è anche il suo primo album pubblicato negli USA dal 1999. Coloro che hanno familiarità con l’originale proposta musicale di Pine, in bilico tra le esplorazioni di John Coltrane e Sonny Rollins e la sua relazione d'amore con il reggae, il soul, il  funk, ed il pop, saranno interessati ed appagati da questa registrazione. Con Devotion Courtney ha messo un po’ di ordine nel suo spesso confuso bagaglio artistico, equilibrando tutte le sue passioni e le sue esplorazioni su un album che rimane sempre ai margini del jazz, ma tuttavia compone i pezzi del puzzle in una forma razionale e concreta. D’altra parte va sottolineato come la familiarità al sound delle discoteche ed anche a quello della musica di strada è da sempre nel suo DNA. E’ il feeling che lo contraddistingue fin dal suo disco di debutto del 1986, Journey to the Urge Within. Su Devotion lo studio diventa una sorta di laboratorio dove l’artista affina la sua ricerca, raggiungendo risultati molto convincenti. E’ un lavoro sul quale Pine evidentemente non è più interessato a snaturare le sue fonti d’ispirazione per adattarle alla sua musica. Sta cercando di mettere tutto in un unico meltin’ pot  di stili ed ottenere così una combinazione di diversi generi  sovrapposti l'uno all'altro in un unico progetto d’insieme. Pine qui suona il pianoforte elettrico, l’organo Hammond, ovviamente i sassofoni, l’EWI, il clarinetto ed il flauto, oltre ad occuparsi della programmazione dei bassi e dei loop. Con il sassofonista londinese sono protagonisti anche il chitarrista Cameron Pierre, il bassista Peter Martin, il batterista Robert Fordjour e diversi percussionisti, tra cui Thomas Dyani. L’album inizia con una strana intro fatta di effetti sonori ma subito proietta l’ascoltatore in pieno soul-jazz funky con il successivo "Sister Soul", brano vivace che tocca le corde giuste per risultare accattivante e mettere in evidenza la bravura tecnica di Courtney Pine. “Devotion” è un reggae con forti connotazioni ska e Pine si esibisce qui con il sassofono baritono e il clarinetto basso. Un bel groove, ricco di sfumature e variazioni armoniche interessanti con in evidenza l’assolo di Courtney che ricorda l’Archie Shepp della fine degli anni ‘60. Molto stimolante anche il tributo afro-funk intitolato "Osibisa", un omaggio alla pionieristica band africana degli anni '70. E’ un affresco colorato dai suoni dell’India e dell’Oriente quello di "Translusance", ospiti il sitarista Sheema Mukherjee e le tablas di Yousuf Ali Khan. Molto bello il dialogo in contrappunto tra sax e sitar tra Pine e Mukherjee per un effetto che è originale ed suggestivo. Notevoli I brani "U.K", dal sapore acid jazz,  ed anche "Everything Is Everything", che ammicca al soul jazz degli anni ’60. Ci sono anche un paio di pezzi cantati piuttosto belli. In primo luogo c'è una bellissima cover di "Bless The Weather" di John Martyn con David McAlmont come voce solista. Will Jennings e Joe Sample sono gli autori di "When World Turns Blue", con la splendida voce di Carleen Anderson per una reinterpretazione in chiave drum’n’bass che aggiunge un ulteriore tassello al mosaico di un album molto riuscito. In definitiva Devotion è l’opera di un maturo, ma sempre inquieto, maestro del jazz che sa esattamente ciò che vuole e dimostra di non essere interessato al jazz inteso come un’entità separata dal resto del contesto musicale o una tradizione rarefatta ed elitaria. Piuttosto per Courtney Pine il jazz è una materia vivente, una forma artistica in continua evoluzione e movimento, che abbraccia le differenze come parte integrante della sua missione. Pine guarda ogni forma musicale attraverso la propria caleidoscopica lente e la reinterpreta plasmando tutto attraverso il jazz, per ottenere ogni volta qualcosa di nuovo e interessante.

Prince - Loring Park Sessions 77



Prince - Loring Park Sessions 77

E’ un diciannovenne di belle speranze, di enorme talento e pieno di grande determinazione quello che si può ascoltare (o sarebbe meglio dire gustare) in questa registrazione semi artigianale del 1977: prima del successo planetario, prima della fama, prima della irrefrenabile ascesa nell’olimpo delle star mondiali della musica. Quello di cui sto parlando è un giovanissimo Prince (nome d’arte di Roger Nelson) che anticipa di qualche mese il suo primo album ufficiale (For You) con una sessione tutta strumentale intitolata Loring Park Sessions 77. Si tratta di un contesto inedito nel quale il Principe si mise alla testa di un trio composto da lui stesso alle tastiere (ma anche alla chitarra) e da due dei suoi futuri fedeli collaboratori, vale a dire il batterista Robert B. Rivkin AKA Bobby Z ed il bassista Andre Cymone. Il contenuto di questa registrazione è un piccolo gioiello di funk jazz strumentale composto da otto brani che da un lato evidenziano già molti dei canoni stilistici della musica futura del genio di Minneapolis e dall’altro testimoniano come il Prince ancora ragazzino fosse già un musicista completo e straordinariamente dotato. Grezzo ed essenziale come solo le registrazioni per così dire improvvisate sanno essere, il disco offre una visuale inedita ed estremamente interessante di quello che negli anni a venire sarà senza ombra di dubbio uno degli artisti più influenti del panorama musicale internazionale. Secondo YouTube e successiva verifica tramite il sito Prince.org, questo progetto, è stato registrato nella sala prove del primo direttore artistico di Prince, Owen Husney, a Minneapolis. E’ interessante notare che quella location è a pochi isolati dallo storico nightclub “First Avenue” dove furono girate tutte le sequenze dal vivo del film Purple Rain. L'album cattura un sound molto frizzante ed in parte inatteso, caratterizzato da un brillante funk con chiari sentori di jazz: esattamente quelle sonorità che al tempo erano piuttosto in voga grazie anche al successo di musicisti del calibro di Herbie Hancock,  Bob James o Grover Washington, jr. (e tanti altri). Prince, come detto, si esibisce alle tastiere, in particolare al piano elettrico ed al clavinet, cioè i due strumenti pilastro del jazz funk degli anni ’70 e bisogna sottolineare la sua bravura nel doppio ruolo di accompagnamento e di solista, nonché una certa perizia anche nell’uso degli effetti. Sulla sua maestria alla chitarra c’è ben poco da dire anche perché di lì a poco il mondo imparerà a suon di assoli quanto il piccolo Roger fosse straordinario in tutto quello che faceva. Tutto il materiale è strumentale e valutandolo oggi possiamo ritenerlo come una visionaria anticipazione di alcuni suoi progetti futuri come i Madhouse o il largamente sottovalutato album Rainbow Children e perfino di quell’opera così particolare intitolata North, West, South and East, arrivata nel nuovo millennio. Loring Park Sessions 77  riassume in poco meno di un'ora di musica un periodo incredibilmente prolifico per un ragazzo emergente di soli 19 anni. Nello stesso arco temporale Prince era coinvolto anche in altri progetti meritevoli di essere scoperti come i Sound 80 (dicembre 1976 - estate 1977) o i 94 East. Insomma era già un vulcano di creatività e talento che sarebbero esplosi nel breve volgere di qualche anno, ma Loring Park Sessions 77 ci mostra già chiaramente il genio di uno dei più grandi musicisti di tutti i tempi.

Al Di Meola – Elegant Gipsy


Al Di Meola – Elegant Gipsy

Lo studioso di chitarra Robert Lynch a proposito di Al Di Meola ha dichiarato: "Nella storia della chitarra elettrica, per quanto riguarda lo sviluppo dello strumento dal punto di vista puramente tecnico nessuno ha fatto di più di Di Meola. La sua conoscenza completa dei vari stili e scale è semplicemente incredibile. Mi sento privilegiato nell'aver potuto studiare il suo lavoro in tutti questi anni." Un’affermazione che è certamente il frutto di una particolare ammirazione a livello personale ma che ha, tuttavia, un suo concreto fondamento poiché stiamo parlando di uno dei mostri sacri della chitarra (elettrica ed acustica) di tutti i tempi. Di Meola ha esplorato diversi stili nella sua carriera, in particolare è noto per i suoi lavori jazz fusion con influenze di musica latina e mediterranea. E’ sempre molto stimolante mettersi all’ascolto di un disco di Al Di Meola. Il chitarrista di origini italiane nel corso di oltre 30 anni di carriera ha scritto alcuni tra i migliori esempi di jazz fusion, opere che sia pure di non facilissima lettura, mantengono una invidiabile naturalezza ed una carica emotiva molto significativa. Fino dal suo esordio Al Di Meola mise in evidenza un grande gusto musicale, ma è con il secondo disco "Elegant Gipsy" del 1977 che il chitarrista raggiunse davvero l’eccellenza. Nonostante lo sconfinamento dai canoni del jazz rock, si può tranquillamente ritenere questo album un capolavoro di eclettismo e varietà. Si tratta di una registrazione ricchissima di spunti musicali, dove si sentono anche le influenze del progressive rock inglese, come si può notare in "Race With The Devil On Spanish Highways", un brano dove le strutture armoniche e ritmiche del rock più evoluto degli anni '70 sono ben presenti. La base fusion non viene certo meno, soprattutto nelle partiture delle tastiere, ma il valore aggiunto risiede proprio nella vivace alternanza di atmosfere che svariano tra latino, rock e jazz. Da un album suonato da una formazione d'estrazione prettamente jazz fusion ci si aspetta che il sound rispecchi quello stile: Elegant Gipsy non delude nemmeno sotto questo aspetto. Però colpisce la presenza di un pezzo come "Mediterranean Sundance" che appare contaminata da una forte influenza del flamenco, con i suoi arditi fraseggi chitarristici di derivazione spagnola. Ma per chi predilige il puro jazz rock c’è l’imponente traccia conclusiva, cioè "Elegant Gypsy Suite": 9 minuti e 16 secondi di evoluzioni strumentali assolutamente straordinarie in cui il maestro Di Meola si diverte a mettere insieme stili e tendenze musicali attraverso il filo conduttore della sua magistrale tecnica chitarristica. "Lady Of Rome, Sister Of Brazil" è una breve canzone di un minuto e 46 secondi dalla quale traspare la parte più delicata ed intima del chitarrista italo-americano, che ancora una volta risulta eccezionale anche quando si esprime con la chitarra acustica. Elegant Gipsy è un album che affascina garantendo un’esperienza sonora diversa ed entusiasmante. Dal cuore dei mitici anni ’70 ci arriva un’opera unica fatta di bellissimi brani, costruiti e suonati con grande cura in un contesto molto sofisticato dal punto di vista tecnico. Al Di Meola è un chitarrista, ma forse sarebbe più corretto definirlo un musicista a tutto tondo, che ha dimostrato nel corso della sua trentennale carriera una classe superiore ed una continua ricerca sulle sonorità del suo strumento. Un artista eclettico dotato di uno straordinario talento capace di sprigionare un fascino assolutamente fuori dal comune.