Down To The Bone - Supercharged


Down To The Bone - Supercharged

Down To The Bone significa più o meno “fino all’osso”, nel caso di questo mitico gruppo ciò deve intendersi come “dritti alla sostanza del funk”, all’essenza del groove, senza troppi orpelli, badando al sodo. E’ questa la descrizione sintetica che meglio si addice a questi musicisti: professionisti che restano genuinamente fedeli al loro credo musicale. Ma quale domanda bisogna porsi per capire meglio ciò che i Down To The Bone offrono dal punto di vista musicale? E’ piuttosto semplice: si può riassumere tutto in un quesito elementare: “ti piace il groove?” Bene, per coloro che adorano ritmo, fiati ed energia, la musica generata da questa band è la migliore delle risposte. Non sfugge a questa regola nemmeno questo disco dei DTTB: Supercharged (il settimo album del gruppo). Un lavoro che invita al movimento, a tenere il tempo, adatto a risvegliare dal classico e sonnolento ascolto di sottofondo. E’ subito chiaro che qui non ci sono ammiccamenti all'hip-hop o al rap e nemmeno spruzzate di lounge o chill out:  i Down To The Bone vi regaleranno solo della buona musica funky soul, con veri musicisti che suonano strumenti reali. Supercharged dà un calcio alla  noiosa, fredda e ripetitiva musica alla quale siamo ormai assuefatti al giorno d’oggi per animare il gioco con del sano e genuino funk:  una cosa che in verità giustificherebbe già di per se un ascolto. Brani come "Funkin' Around" e "Cosmic Fuzz" non hanno la pretesa di essere capolavori, tuttavia suonano come se fossero usciti da una distorsione temporale, catapultando l’ascoltatore verso i primi anni ’70. In tutto l’album sono apprezzabili gli assoli di sassofono di Pete Grogan così come la sezione ritmica formata dal bassista Julian Crampton (Incognito) e dal batterista Adam Riley che alimentano a dovere il motore del groove. C’è spazio per gli interessanti assoli di piano di Neil Angilley, come in "Parkside Shuffle" o per impazzire con il vibrafono di  Roy Ayers, ospite del gruppo nel brano "Electric Vibes". La bella voce, forse troppo sottovalutata, ma sempre notevole, di Hilary Mwelwa di Hil St. Soul infonde un fascino particolare a "Smile to Shine" dove le linee di basso di Crampton non passano certo inosservate. Un discorso analogo vale per "Shake It Up" dove è la vocalist Corrina Greyson a prendere la scena su un irresistibile funk. Supercharged è un po’ un ritorno ai giorni lontani in cui le persone fruivano della musica in modo diverso, più dinamico. I tempi in cui la gente passava più tempo a divertirsi che ad accanirsi sugli smartphone: il funk, il soul, il ritmo erano già una risposta sufficiente al bisogno di socializzare e svagarsi. Down to the Bone è un progetto che fa della sua integrità e omogeneità un punto di forza, forse fin troppo per trovare davvero un posto nelle radio di tutto il mondo. E d’altra parte questi musicisti sono di fatto un po’ troppo leggeri per rientrare nella sfera del jazz, ma certamente anche troppo sofisticati per i gusti appiattiti degli ascoltatori odierni, bombardati da un eccesso di musica commerciale priva di contenuti. I DTTB sono innamorati del groove e del soul delle vecchie etichette Stax e Atlantic, sono paladini moderni di un sound che è sempre più raro da reperire. Dal mio punto di vista tutto ciò è un valore estremamente positivo. Se si tratta di rimanere fedeli alla vecchia scuola i Down to the Bone lo fanno con uno stile perfetto e un disco come Supercharged ne è sicuramente un esempio molto interessante. A tratti si può percepire un po' di Sly & Family Stone, un tocco di Tower of Power, echi dei War e una qualche familiarità con gli altri grandi esponenti del groove moderno: gli Incognito. Down To The Bone è una band bianca molto sopra la media che fa musica sorprendentemente autentica. Nulla da dire, Supercharged è una piacevole sorpresa, nel solco di una tradizione iniziata molti anni indietro e consolidata con una mezza dozzina di album tutti piuttosto validi. Acid Jazz, funk, soul, chiamatelo pure come preferite ma la sostanza resta la stessa: una musica piena di energia e vibrazioni positive…fino all’osso.

Jazz Soul Seven - Impressions Of Curtis Mayfield


Jazz Soul Seven - Impressions Of Curtis Mayfield

Curtis Mayfield: di sicuro è meno famoso di uno Stevie Wonder o di un James Brown, ma questo non significa che anche lui non abbia a sua volta lasciato un segno indelebile nella musica popolare americana. Che lo si valuti come strumentista oppure nelle vesti di cantante, di cantautore ed infine perfino di produttore R&B, Mayfield è senza dubbio un personaggio di grande spessore. Le sue composizioni, inclusa la colonna sonora dell'iconico film del filone blaxploitation “Super Fly” (1972), sono avvincenti, interessanti ed incorporano al loro interno tutta l'eredità del soul e del gospel, oltre che un’anima jazz. Inoltre diffondono messaggi socialmente condivisibili sulla guerra del Vietnam, sulla povertà diffusa nelle città, circa l'abuso di droghe e non ultimo un appoggio alle tumultuose lotte del movimento per i diritti civili degli anni '60 e ‘70. Il suo genio e la sua creatività sono celebrate su Impressions of Curtis Mayfield dei Jazz Soul Seven, una sorta di “one spot” super band di veri assi del jazz tra i quali alcuni tra i più grandi maestri del groove, come il chitarrista Phil Upchurch e la batterista Terri Lyne Carrington. La profondità e la raffinatezza di questo ensemble di star conferiscono alla musica di Mayfield un equilibrato ed esplosivo mix di soul e swing, sottolineato da una lettura jazzistica inedita per l’artista di Chicago. Ciò avviene soprattutto nelle magistrali rivisitazioni delle melodie più popolari come la celebre "Move On Up" ma anche nel recupero di gioielli dimenticati quale "Beautiful Brother of Mine". Le varie composizioni di Mayfiled appaiono bellissime nella loro purezza, consentendo un ampia gamma di libertà creative, come dimostra ad esempio il magnifico lavoro di chitarra di Upchurch su "Keep On Pushing". Allo stesso modo i brani vengono letti e perfettamente interpretati del grande pianista degli  Yellowjackets Russell Ferrante, ad esempio su "Get Get Ready". Le fondamenta ritmiche della band sono sostenute dalla possanza del bassista Robert Hurst e dal meraviglioso drumming della bravissima Carrington: "Freddie's Dead" ne è la dimostrazione più lampante . Tuttavia la super band vede la presenza anche dei maestri Wallace Roney ed Ernie Watts, i quali inondano il progetto del loro suono discreto ma ben delineato nel quale di distinguono le belle linee di sax e tromba, tanto calde quanto tecnicamente ineccepibili che tutti gli appassionati si aspettano. " We're a Winner " è un’occasione per gustarsi le percussioni del grande Henry Gibson, in grado di accendere le emozioni, valorizzando al contempo la dinamica tromba di Roney. Lo splendido interplay della band è tangibile lungo tutto l’album e raggiunge davvero punte memorabili come nel finale di "Superfly", dove i fiati fanno eco al motivo principale del brano, mentre Upchurch piazza un assolo di chitarra eccellente. Gli highlights della registrazione sono numerosi e tutti interessantissimi.  Non si può non ricordare  "Check Out Your Mind" e la ballata "I'm So Proud ", che fu inciso per la prima volta negli anni '60 dal gruppo pop The Impressions, ovviamente guidato da Mayfield. Lo ascoltiamo qui in una versione ritmicamente diversa, con un sapore Afro, nel quale sono i fiati a farsi carico della melodia. In conclusione si può tranquillamente affermare che dall'inizio alla fine, il progetto architettato dai Jazz Soul Seven attorno al genio di Curtis Mayfield non conosce punti deboli e conquista l’ascoltatore, convincendo per tecnica e cuore. La musica che possiamo gustarci in questo favoloso omaggio ad un’epoca d’oro ci suggerisce in ultima analisi una considerazione importante.  Se la Blaxploitation degli anni ‘70, con le sue chiome afro, le scarpe con la zeppa e i pantaloni a zampa d’elefante era e resta fantastica, il messaggio della musica di Curtis Mayfield era certamente molto più profondo ed ha ancora una grande rilevanza al giorno d’oggi.

L'Image - 2.0


L'Image - 2.0

E’ certamente inusuale che un album esca molto tempo dopo la nascita del gruppo che lo ha concepito. Non è una cosa che capita spesso infatti che passino oltre 40 anni perché un debutto discografico veda la luce, ma nel caso di questo collettivo di formidabili musicisti jazz chiamato L'Image va sottolineato che mai come in questa circostanza vale il detto “non è mai troppo tardi”. Il gruppo L’Image fu fondato dal vibrafonista Mike Mainieri nei primi anni '70 e all’epoca suscitò un notevole interesse nel mondo del jazz, in particolare per i suoi coinvolgenti concerti dal vivo. Un’attenzione così concreta che, ad un certo punto, la registrazione del loro primo album sembrava cosa fatta. Purtroppo le cose andarono diversamente e le circostanze contingenti costrinsero di fatto la band a sciogliersi. I singoli componenti ebbero in verità tutti una luminosa carriera, ma purtroppo de L’Image non si seppe più nulla. Quarant’anni di oblio a cui pose fine nel 2008 lo stesso Mike Mainieri, che decise di riunire il gruppo. Inizialmente per un tour in Giappone e quindi per registrare finalmente 2.0: il primo, tanto atteso album de L’Image.  Non c’è dubbio che per gli appassionati di quel sofisticato jazz profumato di atmosfere fusion, sentori new age e qualche spruzzata di musica latina in stile Steps Ahead o Yellow Jackets, questo album rappresenta una eccellente opportunità. Qui troveranno di sicuro materiale con cui gustarsi una musica di alto livello tecnico e ottimi contenuti artistici. D’altronde basta leggere i nomi dei membri di quello che può definirsi a tutti gli effetti un super-gruppo per capire che ci troviamo al cospetto della crema del jazz mondiale contemporaneo: Mike Mainieri (Vibrafono); Warren Bernhardt (Tastiere); David Spinozza (Chitarre); Tony Levin (Basso); Steve Gadd (Batteria). E tuttavia non si può considerare nemmeno 2.0 alla stregua di un progetto  completamente vintage o retrò. Il gruppo è infatti perfettamente a fuoco anche nel presente e, pur rivisitando un paio di composizioni di Mainieri degli anni '70, il sound è moderno e piacevole per tutta la durata del disco. Mainieri è il deus ex machina de L’Image ed infatti firma in prima persona la metà degli otto brani dell’album, che fluttuano liquidi e scorrevoli a cavallo tra una gradita accessibilità ed una notevole e complessa profondità. 2.0 offre inoltre una rara occasione di ascoltare il poliedrico bassista Tony Levin tornare al jazz dopo le lunghe collaborazioni con Peter Gabriel e i King Crimson. Il suo basso profondo e suggestivo crea una solida base sulla quale si innestano da un lato il drumming sempre eccezionale e misurato di Steve Gadd, dall’altro trovano spazio il vibrafono, il piano e la chitarra a ricamare magnifiche trame impressioniste. Tutto molto bello e coinvolgente.  Ascoltare "Reunion" ad esempio, ci fa immergere in una traccia suggestiva dove la chitarra acustica di David Spinozza e il vibrafono di Mainieri si combinano in modo davvero elegante. Levin dimostra il suo talento, ribadendo che anni di progressive non hanno scalfito le sue matrici jazzistiche, ma semmai le hanno arrichhite. Lo stesso si può dire per il batterista Steve Gadd, la cui credenziali jazz sono ampiamente conosciute e apprezzate da almeno tre decenni, come evidente negli album di Chick Corea, di Larry Carlton o di Joe Farrell. Nonostante una carriera trascorsa in gran parte come session man per numerosi artisti pop e rock come Eric Clapton, Paul Simon e James Taylor Quartet, Steve resta impermeato del migliore spirito jazzistico. Il suo gruppo Stuff fu un'alternativa leggera ed accessibile alla fusion cerebrale e complessa del passato, eppure quello stesso groove rilassato ma preciso lo ritroviamo tutto su 2.0. Il tastierista Warren Bernhardt inietta la sua anima colta ed eterea in ogni tocco di tastiera come evidenziato dal brano "Praise", dove le delicate ma sofisticate atmosfere pianistiche sono poi animate dagli assoli di Mainieri e Spinozza. Per gli amanti di qualcosa di più muscolare c’è un pezzo funk come "Gadd-Ddagit!" che ci presenta l'assolo di pianoforte di Bernhardt più interessante del set, ed un inusuale David Spinozza in modalità Wes Montgomery. Brillano di luce propria sia Spinozza che Bernhardt su questo album 2,0, anche se è noto a tutti che le carriere di Tony Levin, Steve Gadd e Mike Mainieri hanno forse avuto una maggiore visibilità. Spinozza, in particolare, è una continua sorpresa ed è apprezzabilissimo anche il suo acume compositivo, almeno quanto il suo poliedrico stile chitarristico. "Does not She Know By Now?" e "Hidden Drive" ne sono la dimostrazione tangibile. Mike Mainieri rappresenta l’eccellenza del vibrafono contemporaneo ed in più ha dalla sua una notevole vena creativa. Oltre ad essere l’anima di questo gruppo, da lui fortemente voluto, è il collante armonico e melodico de L’Image. Quando i migliori musicisti si incontrano e mettono intelligentemente il loro ego in un angolo, lasciando all’interplay e all’affiatamento il compito di estrapolare il meglio di loro stessi i risultati non possono deludere L'Image è esattamente questo: un collettivo di cinque stelle del firmamento musicale che si sono (re)incontrati per dare vita ad un progetto interessante ed originale: di fatto nessuno di loro ha niente da dimostrare ma per contro ha certamente moltissimo da dire. Il risultato è eccellente, godibile e per di più tecnicamente ineccepibile anche dal punto di vista della registrazione.

Nypan – Big City


Nypan – Big City

Come moltissimi altri artisti  di ogni forma espressiva contemporanea, Oyvind Nypan ha da sempre subito l’indefinibile fascino di New York City, che rappresenta senza dubbio un polo d’attrazione per menti creative di qualsiasi genere. Il chitarrista norvegese jazz Oyvind Nypan ha così deciso di volare a New York con il preciso intento di registrare la sua musica con alcuni dei suoi session man preferiti ma, a causa di ovvi problemi di logistica, il suo sogno di una registrazione nella Grande Mela doveva necessariamente essere un affare da risolvere in un solo giorno  Ma il sogno alla fine è divenuto realtà con la felice uscita di questo splendido album, suggestivamente intitolato proprio Big City. I protagonisti sono di rilievo: la formazione è composta dal sassofonista Ben Wendel, dal pianista Taylor Eigsti, completata dal bassista Joe Martin e dal batterista Justin Faulkner, oltre che, naturalmente dal leader che ovviamente suona le chitarre. Considerando che questo è un quintetto che non aveva mai suonato insieme prima di questa unica data e che tutto è stato organizzato e registrato nell’arco di 24 ore, si percepisce una fantastica coesione nella narrativa musicale ed un'energia eccezionale, probabilmente dettata dall’influenza, per così dire elettrica, della città stessa. Tutto questo è particolarmente evidente non solo sul brano d’apertura, "The Greeting", che combina al meglio un bel groove di basso, uno squisito backbeat e ottimi assoli di Wendel e Nypan, ma anche su "Come What May", una sorta di post-bob con spirali di suoni labirintici e scatti veloci. Per non parlare di "Grasstopper", un blues giocoso e contorto con frammenti di be bop e scoppiettanti assoli. Entrambi questi brani sposano tradizione e innovazione con un’infallibile senso di freschezza. Nypan è in grado di emettere un sound urbano volando sicuro sulle corde della sua chitarra. Nonostante la semplicità della sua struttura, è decisamente fuori dal contesto del cosiddetto jazz scandinavo, che è solitamente orientato verso un approccio più contemplativo. Ciononostante, Nypan è perfettamente in grado di esguire meravigliosamente una ballata affascinante come "Starfall" e trasmettere una grande carica emotiva. "You Old Tasmanian Devil You", promette irriverenza e rapidità, ma invece dal brano traspare un'aura spirituale e rilassata, che che va collocarsi nel territorio del jazz modale. "Close To The Sun" mantiene l'atmosfera su binari ariosi giocando con uno scattante ritmo in 6/8 dove gli assoli rapidi e nervosi da parte del leader della band e del pianista Eigsti tramutano le sequenze di note in splendide emozioni. Un altro motivo che mi ha immediatamente catturato l'orecchio è stato "Kung Kong". Oltre al lirismo classico portato dal pianismo colto di Eigsti, è assai apprezzabile l'eloquente interazione tra sassofono e chitarra. L'inteplay su Big City è a dir poco impressionante, per non dire altro. Eigsti e Nypan sono impegnati in uno scambio costante di frasi e suggestioni, alternando perfettamente frasi melodiche e cornici armoniche. Il sassofonista Ben Wendel assume con sobrietà il suo ruolo e lo fa con eleganza e raffinatezza. Il bassista Joe Martin ed il batterista Justin Faulkner costruiscono una solida base poggiata sulla dinamica ed attenta al contesto melodico creato tutto intorno. Øyvind Nypan offre qui la sua uscita più completa e matura come compositore, chitarrista e leader della band. il suo stile chitarristico è chiaro e articolato, eppure nel contempo è attento al contesto generale, pieno di sentimento e groove. Big City offre un jazz moderno, fresco e di buon gusto. Questo album segna un importante passo avanti nella continua evoluzione di Nypan, un chitarrista di talento che merita certamente molte più possibilità di potersi esprimere. New York ed i suoi musicisti hanno fornito quella spinta creativa di cui Nypan aveva realmente bisogno, lo aspettiamo con le prossime uscite per capire dove potrà arrivare veramente, per ora godiamoci il suo buon jazz.

Sade – Diamond Life


Sade – Diamond Life

Ex modella, cantautrice, icona di eleganza e classe, innovatrice. Sade è tutte queste cose insieme ed anche qualcosa di più. Sade ebbe un impatto notevolissimo sul contesto musicale fin dal suo album di debutto del 1984, Diamond Life. Il suo suono e il suo approccio erano volutamente cool, freddi, la sua voce era distaccata, impassibile, algida. Eppure lei divenne immediatamente popolare con quelle meravigliose canzoni che si intitolano "Smooth Operator" e "Your Love Is King", nelle quali la produzione asciutta ma sofisticata ed il suo quasi-jazz sembravano letteralmente sintonizzarsi con i gusti e le esigenze del pubblico della metà degli anni ’80. Il sentore era quello di ascoltare una cantante jazz ma nella sostanza in quella miscela vincente c’era una combinazione di stili in quel momento inedita e rivoluzionaria. Prendendo ispirazione dai grandi del soul, Sade ha fuso il tutto con il jazz ed il pop per creare un suono rilassante, tutto nuovo e completamente suo. Il personaggio Sade, con la sua particolarissima vocalità, era il centro d’attrazione principale del progetto musicale e con l’ausilio di tutto il suo gruppo è stata senza dubbio uno dei più grandi successi planetari del periodo. Helen Folasade Adu, nata in Nigeria, era arrivata in Inghilterra all'età di quattro anni dopo la rottura del matrimonio dei suoi genitori. Nata da madre britannica e padre nigeriano, Sade il "maschiaccio" crebbe nella campagna inglese con un'educazione dettata dalla sua condizione di immigrata, ma nel suo futuro la piccola Helen vedeva una forte passione per l'arte, ed infatti appena possibile, si trasferì a Londra per studiare alla Saint Martin's School of Art, dove si specializzò in fashion design. Sentiva che quella sarebbe stata l'area in cui avrebbe avuto più probabilità di guadagnarsi da vivere e di affermarsi. Nonostante fosse una studentessa in uno dei college più prestigiosi del paese, la vita di Sade era tutt'altro che privilegiata. Viveva infatti in una caserma dei pompieri in disuso con altri pochi creativi che condividevano gli stessi ideali e la sua stessa ambizione. La cantante amava trascorrere le sue serate nel cuore pulsante della vivace scena dei club londinesi, frequentando locali notturni come il Blitz e  il The Wag Club. Un paese delle meraviglie creativo frequentato da alcune future superstar: nomi in seguito illustri che includevano tra gli altri Boy George, Steve Strange, Jean Paul Gaultier, John Galliano, gli Spandau Ballet. Personaggi che sarebbero diventati le principali forze nuove nel mondo della musica, della moda e dell'arte. In una scena in cui l'esagerazione era esaltata ed il vistoso fascino del New Romanticism era al suo apice, la sobria bellezza esotica di Sade la pose presto al centro dell’attenzione. E il suo talento di cantante nonché la sua sensibilità artistica contribuirono al lancio della sua carriera musicale. Tuttavia una considerazione che mi viene da fare è che Sade sia probabilmente una delle artiste più sottovalutate degli anni '80 e '90 da parte di un certo tipo di critica, scettica forse sulla collocazione stilistica della cantautrice: non proprio jazz, non completamente pop. Questa idea è stata smentita nei fatti dai risultati ottenuti da tutti i suoi album in studio fino a Lovers Rock, i quali hanno raggiunto numeri di vendita assolutamente ragguardevoli, assurgendo al livello di multi-platino e decretando un consenso di una vasta parte del pubblico. Sade ha avuto successo sia artisticamente che commercialmente, ed è riuscita allo stesso tempo ad evitare le controversie tipiche dei fenomeni pop come Michael Jackson, Madonna o Prince. Una tale combinazione di successo commerciale e bassa esposizione mediatica è davvero un lusso di pochi. Per quanto riguarda le sue influenze, nel sito ufficiale della band si legge che: "Ascoltò la musica soul americana, in particolare l'onda guidata negli anni '70 da artisti come Curtis Mayfield, Donny Hathaway e Bill Withers. Da adolescente vide i Jackson 5 al teatro Rainbow di Finsbury Park, dove lavorava presso il bar nei fine settimana". Questo spiega perché il suono della sua band si orientasse principalmente verso un sound R&B. Come detto è stato nel 1984 che Sade ha pubblicato il suo debutto, con Your Love is King e Smooth Operator come singoli protagonisti. Ma l’album di fatto non ha punti deboli e contiene una raccolta di canzoni indimenticabili ed indistintamente interessanti. Frankie's First Affair e Hang On to Your Love giusto per citarne un paio. Come i titoli dei brani suggeriscono, le relazioni personali (sia positive che negative) sono il soggetto dominante dei testi. Ma questo non vuol dire, in nessun senso, che l'album sia banale. Tutt’altro: la musica, così come le liriche, sono oneste e profonde. Se proprio si vuole fare una critica (non so quanto fondata) dell'album è che può sembrare un po’ melanconico.  Ma se siete degli appassionati di jazz, di soul o di blues qui troverete davvero un connubio molto stimolante ed innovativo. Diamond Life è il classico disco nel quale non ci sono canzoni scadenti, non c’è un singolo momento di defaillance: oltre ai pezzi memorabili già citati anche When Am I Going to Make a Living, Cherry Pie, I Will Be Your Friend, e la (questa sì) malinconica Sally scorrono fluide e melodicamente ineccepibili. Un’esperienza d’ascolto fantastica che lascia completamente soddisfatti. In tutto l'album predominano le trame jazzistiche e queste gravitano intorno alla voce di Sade. Gli strumenti si combinano benissimo con la vocalità inconfondibile della cantante generando un sound unico e piacevolissimo. Le linee di basso sono molto udibili, le percussioni e la batteria vanno dritti all’essenza della musica e la chitarra fluttua su tutto in modo davvero efficace. Allo stesso modo anche i fiati e le tastiere contribuiscono molto bene all’architettura musicale complessiva. Diamond Life è un capolavoro degli anni ’80, un album mitico e molto importante anche e soprattutto per l’impatto che ebbe su tutta una generazione di artisti che vennero dopo. Imperdibile.

Crossfire - Hysterical Rochords


Crossfire - Hysterical Rochords

Crossfire è un nome che non dirà molto agli ascoltatori meno esperti, infatti sono stati un band australiana tanto valida quanto sconosciuta. Autori di una fusion dallo stile secco, preciso e sofisticato meritano certamente una riscoperta e tutti i cultori del genere dovrebbero possedere almeno un paio dei loro album. I Crossfire si formarono a Sydney nel 1974 e i componenti originali furono Ian Bloxsom alle percussioni, Tony Buchanan al sassofono, Steve Hopes alla batteria, Jim Kelly alla chitarra, Michael Kenny al piano e Greg Lyon al basso. Bloxsom, Kelly e Kenny erano amici da tempo ed avevano già suonato insieme in un altro gruppo. L'ensemble per la verità, pubblicò un album di debutto (omonimo) alla fine del 1975, ma con una line-up leggermente diversa che vedeva Bloxsom, Kelly e Kenny con Lyon al basso John Proud alla batteria e Don Reid ai sassofoni. Lyon ha descritto il loro stile in questo modo: "quello che suoniamo è musica contemporanea, siamo influenzati da tutti… davvero ... facciamo musica che permette a tutti di essere creativi". I Crossfire sono stati anche i primi artisti australiani ad utilizzare la registrazione diretta su disco per il loro secondo album, intitolato non a caso "Direct to Disc": l’album uscì alla fine del 1978. La loro produzione mette in evidenza molti stati d'animo: al contempo brillanti e gioiosi ma anche inquietanti e cupi, tutto condito da una grande sensibilità. E’ un gruppo che riflette davvero le influenze e le esperienze di ciascun musicista. Gli strumenti solisti fluttuano sullo sfondo della sezione ritmica, con un metodo che, pur con una sostanza diversa, li avvicina ad una interpretazione molto be bop del genere fusion. Anche se a momenti il sound può risultare un po’ pesante, in generale la musica è lieve ma incisiva, ed è spesso molto divertente da ascoltare. Il momento di maggior popolarità dei Crossfire è stato quando la band ha agito da supporto per il cantante jazz americano Michael Franks, in un tour australiano: questa esperienza è stata catturata in un meraviglioso album dal vivo del 1980, Michael Franks live with Crossfire. Uno dei momenti migliori nell’intera discografia del cantautore americano; aggiungerei proprio grazie alla dinamica presenza dei Crossfire. Siamo alla fine del 1982 quando esce il disco di cui parlo, il loro quarto album in studio, Hysterical Rochords. La line-up al momento era Bloxsom, Buchanan, Hope, Kelly, Kenny e Scorgie. Ci sono sei brani, tutti interessanti ed in purissimo jazz fusion style. La title track ad esempio è un brano molto strutturato, molto blues, con il sassofono di Tom Buchanan che scorre attraverso la melodia, mentre la ritmica ed in generale il sound filano lisci e sospesi, esaltando la musica come è caratteristica peculiare dei Crossfire. Una bellissima performance del gruppo al Montreux Jazz Festival il 16 luglio 1982 fu registrata ed è diventata il loro secondo album dal vivo: Live at Montreux. Dopo una prematura separazione, il gruppo si riunì nel 1991 e pubblicò un altro album, Tension Release, per poi sciogliersi definitivamente. Ma tornando a 'Hysterical Rochords' va detto che non ha nulla da spartire con il suo titolo. In effetti tutti i titoli attribuiti ai brani sono ironicamente molto diversi da quanto ci si può aspettare. Ma il disco è davvero molto bello ed appagante, vario ed interessante in ogni dettaglio. Ci sono alcuni passaggi che suggeriscono sottigliezze asiatiche, altri più eterei ed ancora alcuni molto jazzati e funky. E la sezione ritmica riveste sempre un’importanza pari a quella dei solisti: infatti le percussioni di Ian Bloxsom, il basso di Phil Scorgie e la batteria di Steve Hopes si prendono un ruolo distintivo nel suono dei Crossfire. Uno stile accattivante e ricco di groove e swing che riesce ad ammaliare fin dalle prime battute.  Hysterical Rochords è un album che rappresenta al meglio l’essenza migliore della jazz fusion, come ed in certi casi molto meglio di altri lavori più blasonati. Ad essere onesti, non riesco davvero a trovare un difetto in queste composizioni. Gli arrangiamenti sono di livello, e c’è una distribuzione molto piacevole dei diversi strumenti lungo tutta la lunghezza del disco. Perfino i riff dei brani sono ottimi, e tutto suona molto pulito. Ecco forse il problema è in realtà proprio questo: Hysterical Rochords è forse un pò troppo lucido (o, a scelta, “freddo”). Ciò che potrebbe risultare carente è l'emozione: qualcuno potrebbe ritenerlo solo un jazz rock molto ben eseguito. Una considerazione degna di essere presa in considerazione e con un suo fondamento, senza dubbio. Ma che è anche il marchio distintivo di tutto questo genere musicale. In ultima analisi quello che conta è che questo è un altro grande album di una delle migliori band di jazz rock d'Australia ed una delle più valide in assoluto anche a livello internazionale. Peccato solo che non abbiano avuto il riconoscimento internazionale che avrebbero meritato. Questo album è molto difficile da trovare, quindi potreste avere problemi nel reperirlo, nel qual caso verrà in vostro aiuto il materiale presente su YouTube. Più in generale, se siete dei fan  degli anni '70, se avete amato i Brand X, i Weather Report o i Return To Forever o magari Frank Zappa, ma non vi piaceva il suo lato buffonesco, allora questo è un album che fa per voi

John Blackwell Project – 4ever Jia



John Blackwell Project – 4ever Jia

Il destino musicale del batterista John Blackwell Jr. era già delineato fin dalla più tenera età. John infatti è figlio d’arte, dato che suo padre è stato il batterista degli Spinners e di molti altri gruppi. Era quindi del tutto naturale che il piccolo John osservasse per ore e ore la tecnica di drumming di suo papà, anche durante le tournè. Il funk è stato dunque la linea guida di John Blackwell, che su quel background, per così dire genetico, ha costruito poi una sua carriera e sviluppato un proprio stile batteristico. Una abilità tecnica ed una sensibilità artistica che in seguito lo avrebbe portato ad essere una colonna portante del gruppo di quel genio di Prince. Oltre a suonare in varie band nel periodo della scuola superiore, ha avuto l'onore di lavorare con Billy Eckstein, e quindi, dopo essersi laureato al prestigioso Berklee College of Music, Blackwell ha collaborato con vari musicisti nell’area di Boston. A quel punto riuscì nell’intento di entrare in contatto con alcune delle più grandi icone della musica tra cui i Cameo e il già citato Prince. Proprio il principe, Roger Nelson, che chiedeva sempre uno standard di alta qualità ai suoi musicisti, attribuì a Blackwell il massimo elogio per il suo lavoro di batteria. Nonostante tutti questi riconoscimenti per il suo lavoro come batterista, un particolare evento ha quasi posto fine alle ambizioni di Blackwell. Nel 2004 la tragica perdita della figlia di due anni ha infatti fortemente minato la prosecuzione della sua carriera musicale. Tuttavia, in seguito, si è ripreso e ha finalmente coronato il suo sogno di guidare un proprio gruppo: con gli amici Will Lee, Paul Pesco e Corey Bernhard è nato il John Blackwell Project. Il loro album di debutto 4ever Jia è uno speciale omaggio alla figlia di Blackwell, e mette in evidenza le sue diverse fonti d’ispirazione, che includono il grande jazz fusion di Billy Cobham ed i funk dei Cameo. Blackwell è uno di quei batteristi dotati di quella invidiabile dote che consente loro di mantenere un groove profondo e costante, ma contemporaneamente di gestire una spiccata qualità melodica nei suoi assoli. Il suo virtuosismo brilla al meglio su un brano come "Jaiven", ma va sottolineato come tutto questo splendido album sia magistralmente condotto dalla batteria di Blackwell. E certo non sono da meno i compagni d’avventura di John a partire dal gigante Will Lee, che ha suonato con quasi tutti i musicisti del pianeta proprio perché le sue abilità di bassista forniscono a chiunque una solida base su cui lavorare in tranquillità. Will è sempre eccezionale nell’accendere i suoi assoli di creatività e al contempo accompagnare la melodia con trame rilassanti ed una musicalità incomparabile. Allo stesso modo i meravigliosi ricami di chitarra di Paul Pesco hanno attraversato molti generi musicali passando da Madonna a Bob James o a Mary J. Blige e molto altri. Senza dimenticare infine il talento emergente di Corey Bernhard, che fa del sound della musica urbana e di un background multietnico il suo punto di forza. 4ever Jia è un lavoro permeato di solidissimo fusion jazz, a tratti dalle tinte jazz rock, altre volte più morbidamente funky. Trasuda qualità ed energia in ogni singolo pezzo ed il drumming di John Blackwell è una delizia per qualsiasi appassionato. "Hyper-Formants" parte subito con un'impressionante linea di batteria. Questa traccia insieme a "Sexual Harassment" è davvero un gradito ritorno al periodo di splendore del jazz rock (immaginate i Return to Forever, Billy Cobham, ecc.). Quella musica era sperimentale ed innovativa ed è un piacere riascoltarla in una più moderna rivisitazione. "Black House" e "Mind of J" sono splendidi esempi di jazz funk dal groove irresistibile, nei quali non manca uno spazio anche per qualche accenno acustico. "Amazing" e “You’re The One” sono i due momenti più leggeri, che pizzicano le corde del soul funk: un po’ Cameo, un po’ Prince, evitando intelligentemente di ripercorrere il passato e dando invece una lettura moderna e contemporanea del tema canzone. Blackwell e i suoi compagni sanno anche come scegliere i musicisti ospiti, come nel caso di Esperanza Spaulding e Sue Quin. In "No Ordinary Day"  la voce carezzevole della Spaulding (senza il suo basso acustico) si distingue come uno dei momenti migliori di 4Jia. Sue Quin non è da meno nella sua esibizione sul brano Jada. La sua meravigliosa voce  mi spinge a domandarmi perché questa cantante britannica non abbia una carriera da solista. Ascoltare per credere. 4ever Jia doveva servire da trampolino di lancio per John Blackwell in un ruolo di leadership: purtroppo dal 2010 non c’è stato un seguito ed il progetto sembra essere sfumato. Peccato davvero, perché questo è un cd eccellente, di quelli rari, che ti spingono a riascoltarli più e più volte. Dagli energici brani funk passando per il jazz rock, per arrivare alle amabili canzoni soul e r&b, su 4ever Jia trovi tutto. Se quello che vi interessa è la vera musica fatta da veri musicisti, questo è ciò che fa per voi. Ogni traccia di questo album merita attenzione. John Blackwell è un batterista straordinario così come lo sono tutti gli altri musicisti di questo progetto che, ahimè, pare non avere più un futuro.