Herbie Hancock – Gershwin’s World


Herbie Hancock – Gershwin’s World

Herbie Hancock è senza ombra di dubbio uno dei più grandi pianisti jazz della storia. Nella sua carriera si è cimentato con grande successo sia nel più tradizionale jazz classico che nelle sue incarnazioni più sperimentali, senza dimenticare le “divagazioni” più leggere influenzate dal pop e dal funk. Dopo alcune uscite non proprio all’altezza delle aspettative, come ad esempio la riedizione degli Headhunters con “Return of the Headhunters”, un album come Gershwin’s World rappresenta per Hancock un ritorno ai suoi elevatissimi standard di qualità. Questo disco è infatti di gran lunga la cosa migliore che il maestro abbia pubblicato dopo essere entrato nella scuderia della Verve nel 1995. Ovviamente molto soddisfatti del risultato di questo ambizioso ed impegnativo progetto, i discografici della Verve si sono lasciati un pò andare definendolo "una delle più significative registrazioni jazz del decennio. Una dichiarazione probabilmente eccessiva che tuttavia non toglie nulla al fatto che Gershwin’s World sia da considerare indubbiamente un album pienamente riuscito. Per certi versi la personalità dirompente di Hancock è talmente forte da mettere un sigillo di temperamento e carattere molto significativo sui classici del grande compositore americano. Al punto che paradossalmente questo album avrebbe potuto intitolarsi forse meglio Hancock's World:  non è certo semplicemente un altro tassello nella serie apparentemente infinita di omaggi al mondo di Gershwin. Herbie fa tesoro delle gemme senza tempo pescate nel songbook del genio di New York dell’inizio del ‘900, dando a questo progetto un respiro di vasta portata e mettendoci tutta la sua arte ed il suo talento. Sono brani che conosciamo molto bene, che sono stati suonati e reinterpretati migliaia di volte e ciononostante mantengono un fascino ed una melodicità che, anche a quasi cento anni di distanza, ha del prodigioso. Il tocco sapiente di Hancock, accompagnato da uno stuolo di vere e proprie star del jazz non fa altro che valorizzare una musica che fece toccare a Gershwin le vette del firmamento musicale, al pari di degli altri grandi musicisti del tempo, Cole Porter e Irving Berlin. La selezione comprende 14 brani, il primo dei quali è una rapida "Overture" di 55 secondi di sole percussioni africane e batteria. L’ascolto approfondito di "The Man I Love", rivela la presenza di Joni Mitchell, che a malapena avevo riconosciuto, ma che di fatto figura nei crediti del disco. L’interpretazione trasmette una sensualità dai toni rochi e affascinanti più di quanto non ricordassi capace la sua voce. La Mitchell ritorna per una seconda ed altrettanto avvincente versione di "Summertime", dove risalta anche l'armonica meravigliosa suonata da Stevie Wonder ed il formidabile sax soprano di un ispirato Wayne Shorter. La famosa "St. Louis Blues" non ha nulla a che fare con Gershwin, se non l'epoca in cui fu composta, ma ascoltando il risultato, impreziosito dal meraviglioso piano di Hancock e la maestosa voce di Stevie Wonder, condita dalla sua armonica cosa si può dire ? Nulla da eccepire: anche perchè Herbie aggiunge al suo pianoforte un’iniezione di organo Hammond B-3 che ci fa pensare a quanto sarebbe bello se il maestro lo utilizzasse di più. La canzone forse si dilunga un po’ nel divertimento soul e funk ma quando il grande Stevie dice "Posso giocare?", anche il grande Herbie non può dire di no. "Here Come de Honey Man" si avvale di un originale arrangiamento di Hancock che vede la presenza del trombettista Eddie Henderson, del sassofonista Kenny Garrett e del sax tenore di James Carter. Tutto parte da una profonda riorganizzazione del tema, che suona forse ancora più evocativo della stessa versione di Gil Evans per il Porgy & Bess del divino Miles Davis. Gli stessi tre grandi musicisti appaiono anche in una particolare versione di "It Is not Necessarily So" perfetta sia nell’arrangiamento che nell’esecuzione. Chick Corea  e Hancock si esibiscono in una divertentissima performance a due per soli pianoforti su "Blueberry Rhyme" composta dal celebre pianista James P. Johnson. Ascoltare questi due maestri ripristinare la loro alchemica unione come fu nel 1978 nell’immortale “An Evening With”  è una vera e piacevolissima sorpresa. Hancock lascia volare le sue dita su una versione in quartetto di "Cotton Tail" (per la quale va ricordato che Duke Ellington basò la composizione su "I Got Rhythm" di Gershwin). Qui si riaccende la magia del quintetto di Miles con Herbie e Wayne e la bravissima Terri Lyne Carrington che prende il ruolo che fu di Tony Williams e Ron Carter quello di Ira Coleman. L'incredibile assolo di sax tenore di Shorter sprona Hancock ad altezze pianistiche ineguagliabili. L’ approccio è più riflessivo ed armonioso su "Preludio in C # Minore", un paesaggio sonoro atmosferico, esaltato dall'avvincente voce da soprano della star dell'opera Kathleen Battle. E per completare il quadro estremamente ambizioso di questo progetto, Hancock esegue anche due suite molto intense con l'Orpheus Chamber Orchestra:  "Lullaby" ed il "Concerto per pianoforte e orchestra in Sol, Secondo Movimento" del compositore Maurice Ravel. L’album viene concluso con una nota intima e delicata attraverso una dolce interpretazione per piano solo della celebre "Embraceable You." La bravura tecnica incontestabile, l’ampiezza e la profondità della sensibilità artistica di Herbie Hancock vengono pienamente espresse da questa magnifica collezione: l’album è assolutamente bellissimo ed in parte anche sorprendente. Con Gershwin's World il maestro Hancock mette in atto una favolosa celebrazione del centenario del grande George Gershwin, esaltando al contempo il proprio talento e la propria classe.

Ed Motta - Criterion Of The Senses


Ed Motta . Criterion Of The Senses

Di Ed Motta ho già parlato in passato. Con la recente uscita di un suo nuovo album, colgo l’occasione per occuparmi nuovamente di lui. Ed Motta è sì cresciuto in Brasile, ma con la passione per il soul, il funk ed il rock. La sua carriera tuttavia è iniziata con un genere diverso da questi, agli esordi egli faceva infatti musica dance brasiliana, con una effimera band chiamata  Conexão Japeri. In realtà il percorso artistico e professionale di Motta ha vissuto, nel corso degli anni, molti cambiamenti di rotta, proprio perché il musicista di Rio era alla ricerca della sua vera identità musicale. Con il precedente album del 2013, Ed sembrava aver trovato la propria destinazione musicale elettiva. "AOR” era un omaggio a quel Adult Oriented Rock venato di soul e funk, sofisticato e piacevole, che ricordava in parte gli Steely Dan e in qualche misura anche il suo idolo Donny Hathaway. Ebbene Ed Motta ha ampliato e perfezionato l'estetica di "AOR" prima con "Perpetual Gateways 2015", un disco stupendo registrato in America con il produttore di Gregory Porter, Kamau Kenyatta. Ora Ed svela al pubblico la sua ultima offerta, intitolata "Criterion Of The Senses", un album che cristallizza perfettamente il suono jazz-soul-rock della fine degli anni '70 e che rappresenta senza dubbio la migliore espressione artistica del bravo musicista brasiliano. E’ facile parlare delle influenze di Ed Motta dimenticandosi di elogiare la sua indubbia originalità. Sebbene le sue ispirazioni musicali siano spesso trasparenti e immediatamente riconoscibili, e, per inciso, ammesse senza problemi dallo stesso Motta, la chiave della sua recente produzione è il modo in cui filtra queste influenze attraverso la sua sensibilità unica. E’ così che arriva a qualcosa che suona fresco, originale e contemporaneo, piuttosto che scontato e retrò. Criterion Of The Senses contiene otto canzoni e dura solo 34 minuti: potrebbe sembrare breve secondo gli standard odierni, ma è un lavoro di sostanza e, naturalmente, possiede la lunghezza ideale per il vinile, il mezzo preferito di Motta per veicolare la sua musica (ricordo che vanta una collezione di 30.000 dischi). Il nuovo LP inizia con un groove dolce chiamato "Lost Connection To Prague", una meditazione sull'alienazione dell’uomo moderno, dove la voce ricca e soul di Motta è incorniciata da accordi jazz di piano Rhodes. Da sottolineare l’intervento del chitarrista Tiago Arruda, sorprendente nel suo stile alla Larry Carlton. Gli appassionati di soul ameranno anche la notevole "The Sweetest Berry", una canzone mediamente ritmata, romantica, nella quale emerge l’eco del cantante preferito di Motta, il grande Donny Hathaway, una parte importante del suo DNA musicale. Un brano la cui virtù principale è la sua relativa semplicità. Un’atmosfera che contrasta con il successivo brano "Novice Never Required", che è invece teso, basato su una sofisticata architettura jazz-funk tale da movimentare in modo intelligente il tenore dell’album. "Required Dress Code" è più leggera e lascia trasparire una piacevole prossimità con certe canzoni di Christopher Cross o degli Steely Dan. "X1 In Test" vuole omaggiare la fantascienza mantenendosi dal punto sonoro nel territorio di Donald Fagen, mentre "The Tiki's Broken There" è innanzitutto un sinuoso duetto con la cantante femminile Cidalia Castro. Ricorda il mistero dei film noir e si muove su sentieri molto originali e particolari in quanto ad arrangiamento e melodia e si distingue anche per qualcosa che non si ascolta spesso nei dischi pop e cioè un delizioso assolo di clarinetto basso. Più diretto è il divertente pop-rock intitolato "Shoulder Pads", un evidente omaggio di Motta agli anni '80, ironico quanto basta e condito da synth ed un arrangiamento che richiama Rod Temperton e Micahel Jackson. "Criterion Of The Senses" è un disco che garantisce un ascolto coinvolgente e consente di entrare nel mondo intrigante di Ed Motta in cui tutte le canzoni risuonano come sogni che richiamano alla mente qualche emozione del passato pur guardando sempre dritto al futuro. In definitiva, è un'esperienza molto soddisfacente ed estremamente interessante per varietà e originalità di arrangiamenti ed esecuzioni. Lo spettro sonoro spazia dal Soul alla Fusion fino al Funk e al Soft Rock di stampo californiano con la stessa eccellente qualità. E tutto è arricchito dalla voce piena e profonda del formidabile Ed Motta. Se da un lato i nomi dei musicisti presenti sull’album potrebbero non significare molto per noi europei, dall’altro la loro abilità musicale spiega da sola perché sono il meglio del Brasile dagli anni Settanta ad oggi. C'è una linea sottile ma molto importante tra l'essere prevedibili e banali e riuscire a rimanere freschi, accattivanti e sempre stimolanti. Ed Motta si colloca proprio lì, sopra questo discrimine fondamentale, facendo musica che intreccia il groove con il soul, il jazz sofsticato, il vigore del funk e il rock  della west coast americana con disinvoltura e grande proprietà di linguaggio. Non asseconda mai le aspettative dando semplicemente all'ascoltatore ciò che si aspetta, piuttosto entra magicamente nell’anima consegnandoti ciò che forse nemmeno ci si rende conto di volere. Queste canzoni sono storie a sé stanti, piccole vignette e scenari fugaci disegnati sulla musica più bella. Il risultato è un album che si rivolge tanto agli appassionati di jazz quanto a quelli di soul e più in generale a coloro che apprezzano l'eleganza nella musica e l’intelligente eloquenza nei testi. Grande Ed Motta.

Roger Smith – Consider This




Roger Smith – Consider This

Ci sono musicisti che, pur se dotati di grande talento, non raggiungono mai una vera notorietà e restano confinati all’interno di quelle nicchie di ascolto privilegiato ad esclusivo uso di una ristretta cerchia di appassionati. Uno di questi artisti è il tastierista Roger Smith, che è più noto per la sua militanza nei Tower Of Power che per la sua pur non indifferente carriera da solista. Nato nel 1945 a Dallas, Texas, Roger Smith, fu incoraggiato fin dalla più tenera età dalla sua stessa famiglia a prendere lezioni di musica. Cresciuto in seguito nella zona rurale della California centrale, dove i suoi genitori erano a mezzadria, iniziò a studiare pianoforte sebbene fosse principalmente autodidatta. Negli anni '60, ha prestato servizio nell'esercito, continuando a suonare e formando una band di blues, i Blind Melon. Per un colpo di fortuna, l'artista blues Freddie King, il cui pianista regolare non era riuscito a presentarsi ad un appuntamento per un concerto, gli diede un lavoro, forzandolo così a congedarsi dall'esercito. Questo fu l’inizio della carriera di Smith, che andò in tour con King e poi suonò con vari altri artisti in ambito blues, ma anche jazz, country e pop. Le collaborazioni furono molteplici: Gerald Albright, Jeff Beck, Rick Braun, Gladys Knight, Willie Nelson, Phil Perry, ovviamente i Tower Of Power ed infine Dave Koz e Peter White. Bisogna aspettare il 1996 per il debutto di Smith come solista, con l’album My Colors. Durante il periodo in cui questo disco era in lavorazione, il figlio e il padre di Smith morirono entrambi in un tragico incidente ed il risultante tumulto emotivo aggiunse un tocco malinconico alla sua musica, una qualità che lo ha a lungo contraddistinto. Con il tempo il suo orientamento musicale virò tuttavia verso lo stile tipico dello smooth jazz, pur non perdendo di vista il jazz ed il blues. Roger è anche un validissimo specialista dell’organo Hammond B3 e questa sua passione è rappresentata al meglio dai due album della serie Jazz Rosco: è qui che l’anima più jazzistica e la sua profonda cultura blues emergono in tutta la loro forza espressiva. Roger è musicista dalla scrittura suggestiva e brillante, molto ricca di sfumature e con una evidente profondità espressiva, inoltre può vantare uno stile tastieristico accattivante e fluidissimo, sia che si cimenti con il piano acustico sia che si esibisca con il Rhodes o l’organo Hammond. E’ per queste ragioni che Roger Smith può piacere non solo al pubblico del jazz, ma anche a tutti coloro che apprezzano un più contemporaneo e spigoloso approccio: quale in effetti è quello che l’artista riesce a dare attraverso elementi di funk, soul e R & B. Tra i musicisti con cui Smith ha spesso lavorato e che sono via via apparsi nei suoi album, ci sono il sassofonista Dave Koz, e i chitarristi Ray Obiedo e Michael Gregory. Da oltre un ventennio questo oscuro pianista e organista ha prodotto dei solidi ed interessanti album che sono sia jazz che funky, ma è chiaro che non gli sono stati attribuiti i meriti che un artista del suo livello dovrebbe ricevere. Consider This è un album piacevole e simpaticamente ricco di groove, che, come prevedibile, ha contribuito ad aumentare la sua notorietà grazie anche al contributo dell'infallibile Dave Koz e di un’altra icona del contemporary jazz come Peter White, che ha scritto e ha suonato la chitarra sulla vivace "Workin It It". Il disco è dunque riccamente condito dalla presenza di musicisti di alto profilo ma Roger Smith, il cui approccio variegato e versatile ricorda in qualche misura quello di George Duke, si esprime al meglio anche in proprio. E’ dinamico e passionale sia che elabori il groove soul-jazz vintage di "Rough Cut" (con gli arrangiamenti di fiati della premiata ditta Norbert Statchel e Adolpho Acosta dei Tower of Power) sia che torni al vecchio amore blues in "Vega". Roger non disdegna di sconfinare in altri tipi di atmosfere come su "Hali Imaile (The Maui Song)" che è influenzato dalla cultura hawaiana. Su tutto spicca il pianismo sempre preciso eppure piacevole ed elegante di Smith che a mio parere è il suo vero punto di forza: un ascolto consigliato per tutti gli appassionati di tastiere jazz. Consider This è un solido tassello che si aggiunge al suo sottovalutato catalogo e si  presenta con una manciata di canzoni che dovrebbero rendere felici i fan del genere. Non a caso il successivo album Both Sides, ha avuto anche un certo riscontro a livello di ascolti ed è infatti entrato nella Top 10 della classifica Jazz di Billboard per ben 17 settimane. Questo può essere un punto di partenza per scoprire tutta la produzione di Roger Smith, che ha molte frecce al suo arco e, a dispetto della sua scarsa fama, può interessare ad una vasta platea di ascoltatori.