The 14 Jazz Orchestra - The Future Ain't What It Used to Be


The 14 Jazz Orchestra - The Future Ain't What It Used to Be

Guidata dal produttore ed arrangiatore Dan Bonsanti, questa grande band contemporanea, con base a Miami, si presenta al pubblico con una collezione accattivante e moderna nella quale la cartteristica predominante sembra essere la varietà. Dunque troviamo classici e standard del jazz ma anche brani più oscuri che ben si prestano ad un'ambientazione ricca, strutturata e curata in ogni dettaglio. Gli arrangiamenti sono bellissimi, non c’è dubbio, e gli assoli faranno drizzare le orecchie a tutti gli appassionati della buona musica. Quello che ne esce sono alcuni grandi pezzi firmati da giganti come Chick Corea, Eliane Elias e Wayne Shorter reinventati con uno spirito innovativo, ed accanto a questi dei classici pescati in altri generi ("16 Tons (Give or Take) o" I'll Be Seeing You "). Da sottolineare che uno degli aspetti più interessanti del gruppo è che prende il nome dai 14 musicisti abituali, ma al contempo qui ci sono pure un manipolo di ospiti incredibili. Fenomeni del jazz come Randy Brecker, Mark Colby, Mark Egan, Danny Gottlieb e Rick Margitza si alternano insieme al sassofonista Ed Calle ed altri artisti del sud della Florida. Sotto la direzione del già citato Dan Bonsanti, l'ensemble comprende illustri maestri di Jazz impegnati nelle facoltà di musica del Miami Dade College, della Barry University, della Florida Atlantic University e dell'Università di Miami. Individualmente, i membri della “14" hanno registrato e suonato con molti dei più grandi artisti Jazz e Pop del nostro tempo, dalle grandi band di Stan Kenton, Maynard Ferguson, Mercer, Ellington e Woody Herman fino a personaggi come Billy Eckstine, Sarah Vaughan, Jon Hendricks, Mel Torme, Jaco Pastorius e Stanley Turrentine. Ed inoltre possono vantare collaborazioni anche con i fratelli Brecker, Eliane Elias, Bob Mintzer, Bob James e Arturo Sandoval, Frank Sinatra, Tony Bennett, Peggy Lee, Nancy Wilson, Ray Charles e artisti pop / rock diversi come Barbara Streisand, Marvin Gaye e The BeeGees, solo per citarne alcuni. La grande band adotta un approccio Jazz contemporaneo sfoggiando un vasto assortimento di stili, che si estrinsecano nel repertorio di straordinari compositori jazz come Billy Strayhorn, Joe Henderson, Chick Corea, John Scofield e Wayne Shorter e artisti pop come Paul McCartney e John Lennon. Tanto sconosciuta quanto superbamente piacevole, la 14 Jazz Orchestra è una scoperta inattesa e particolarmente gradita nell’ambito del panorama jazz attuale. Con una operazione che ricorda la Big Fat Orchestra di Gordon Goodwin, gli arrangiamenti di Dan Bonsanti sono davvero il massimo in termini di ricchezza e varietà. Il solista del gruppo è il sassofonista Ed Calle, che non delude le aspettative e si dimostra un eccellente strumentista dal timbro caldo e avvolgente. The Future Ain't What It Used to Be regala alcuni dei momenti più swing che potrete ascoltare l'anno prossimo (l’album infatti esce ufficialmente il 1 ° gennaio 2019). Basta ascoltare con attenzione uno dei miei brani preferiti, "Blue Miles", per avere un assaggio di quello che questi musicisti possono offrire agli appassionati di jazz. Ho controllato personalmente, ma non sono riuscito a trovare nessun canale YouTube per la 14 Orchestra, un vero peccato perchè al giorno d’oggi sarebbe un’opportunità davvero interessante per promuovere la musica della band. Ma se metterete le mani su questo album,  troverete brani convincenti e piacevoli come "Dance Cadaverous" e "Firewater" di Buster Williams. Il funk ad alta energia di "Rice Pudding", che è un vero e proprio pezzo killer, con il suo assolo di chitarra che regala momenti di grande divertimento con l'anima del jazz dentro. Gli arrangiamenti sono sempre eccellenti e il disco vanta una registrazione perfetta che rende questi brani indimenticabili ed estremamente piacevoli: ne avrete conferma quando, terminato l’ascolto vi verrà la voglia di riascoltare tutto da capo. Il gruppo è certamente da annoverarsi nella categoria delle "big band", ma all’interno di questo formidabile contenitore troverete diversi mood e stili: prima di tutto un assolutamente delizioso jazz ma anche altri colori e declinazioni. Non è facile scegliere un brano preferito tra gli undici proposti, in quanto qui non ci sono davvero punti deboli. Questo The Future Ain't What It Used to Be mi è piaciuto moltissimo e non dubito che piacerà anche alla maggior parte di chi lo ascolterà. Come recita il titolo dell’opera, forse il futuro non è quello che dovrebbe essere, ma grazie a questa grintosa, eccentrica, stravagante orchestra di musica jazz, il domani sembra davvero dannatamente brillante, funky e pazzamente swing. Credetemi: è un eccellente modo per cominciare il nuovo anno all'insegna della musica di qualità.

Rob Franken – Fender Rhodes


Rob Franken – Fender Rhodes

Rob Franken è stato una delle figure chiave in Europa per quanto concerne l’uso del piano elettrico negli anni '60 e '70. Nome non molto conosciuto, fu tuttavia trai primi a buttarsi con convinzione e di conseguenza a padroneggiare il piano elettrico Fender Rhodes, senza dimenticarsi della sua passione anche per l'organo Hammond B3. Nato in Olanda nel 1941, questo oscuro jazzista rimase decisamente affascinato dalle possibilità espressive del piano elettrico, uno strumento che verso la fine degli anni '60 stava guadagnando sempre più credito in ambito jazz. Franken in realtà nasce come uno specialista dell'Hammond, ma la sua vera e propria ossessione per il Rhodes lo portò di fatto all’utilizzo quasi esclusivo della nuova ed emergente tastiera. Rob Franken ha iniziato la sua carriera con il duo folk Esther e Abi Ofarim, per poi iniziare a suonare con il Klaus Weiss Trio a metà degli anni '60. In seguito ha formato la sua leggendaria piccola combo, The Rob Franken Organization. La Rob Franken Organization  pubblicò due album: "Pon my soul” nel 1967 e Ob-la-di-ob-la-da nel 1969. In realtà egli suonò anche con Toots Thielemans in qualità di pianista e organista e fu il tastierista fisso per la Peter Herbolzheimer Rhythm Combination e Brass. Durante la sua relativamente breve carriera, Franken ha avuto modo di suonare in oltre 400 album ed è stato un artista molto apprezzato da tantissimi musicisti. La sua improvvisa ed inaspettata scomparsa a causa di un'emorragia interna all'età di 42 anni, nel 1983, ha concluso la sua oscura ma notevole carriera: il tragico evento capitò solo tre giorni dopo la sua ultima sessione di registrazione con la Rhythm Combination e Brass. Fender Rhodes è in verità un album bellissimo. Una registrazione che rappresenta una delle gemme del piano elettrico di tutti i tempi e peoprio per questo motivo dispiace che non abbia avuto il successo che meritava. Gli appassionati del Rhodes non possono assolutamente trascurare un disco come questo, dove la favolosa tastiera è in piena luce, suonata con maestria e groove e valorizzata come raramente capita di ascoltare. Le registrazioni qui sono tutte degli anni '70 e sono state riprese in piccoli jazz club in Olanda come il famoso Jazz Cafe di Laren. E’ anche un album profondamente jazz, dove le contaminazioni funk o rhythm and blues sono solo una suggestione lontana. Tra l’altro il buon Rob riesce anche a fare un buon uso del synth, senza abusarne, ma colorando di modernità alcuni brani. Sono 11 le canzoni che compongono Fender Rhodes di cui solo quattro sono originali di Franken. Nella track list spiccano due classici come Blue Bossa di Kenny Dorham e This Masquerade di Leon Russell. Le formazioni che si alternano nei vari pezzi coadiuvano alla perfezione il tastierista nella sua cavalcata quasi sempre da solista: da notare che tra gli ospiti figurano i nomi di Jimmy Owens e Clark Terry alla tromba e quello, inevitabile, di Toots Thielemans all’armonica. Su This Masquerade troviamo anche uno dei più grandi bassisti del jazz di tutti i tempi: Niels-Henning Ørsted Pedersen. E’ un vero piacere ascoltare il piano elettrico così massicciamente e sapientemente utilizzato. In questo album assurge al ruolo di protagonista assoluto e si può apprezzarne in modo totalmente immersivo tutte le sfaccettature espressive ed i caldi colori di cui è capace. Merito anche di un mastering stupendo e certamente anche della scelta del repertorio, all’interno del quale le canzoni rivelano come Rob Franken sia stato un genio del Rhodes, tanto formidabile quanto misconosciuto. Imperdibile.